Stefano Sanfilippo, Fuochi a Gibuti

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FUOCHI A DJIBOUTI Un anno dopo sono tornato in quella tinozza umida e bollente che è Gibuti. Sono passate circa 18 ore, tra attese, cambi di aereo e scali tecnici. Ma sabato scorso, 17 marzo 2012, alle afose 22.30 locali, sono sbarcato e mi sono messo in fila per uscire. Pagato il visto per un mese, devo passare anche il controllo valigie. Ho due file: in quella di sinistra c’è una poliziotta irrancidita che fa aprire tutti i bagagli. Nella fila di destra c’è un ometto stanco, con la futah, che, a sbadigli alternati, fa aprire una valigia sì e una no. Al soffitto, cigolanti ventilatori girano lenti l’aria con l’aria di sfotterti. Decido per l’ometto, ma prima delle valigie si deve passare un altro controllo dei passaporti. Vado verso una giovane agente vestita e truccata all’occidentale, praticamente uscita da un telefilm, che mi ferma. Le mostro un vecchio tesserino dell’Ospedale Balbala, che mi gioco in questi casi, mentre le recito la mia filastrocca su chi sono, dove andrò e così via. Più rilassata, perché conosce il Balbala, mi chiede la mia mansione in ospedale; è solo curiosa perché sua mamma è stata operata dal mio amico chirurgo che vive e lavora qui. Considerato il numero dei componenti della famiglia media gibutina e cioè dalle otto alle dieci persone, a forza di gradi di parentela, praticamente tutti hanno almeno un familiare operato da Carlo, che d'altra parte è più di trent'anni che opera in tutto il Corno d'Africa, e non solo. E così la ragazza fa un cenno a quell'ometto che, finalmente, mi fa uscire senza apertura delle valigie, piene di farmaci e altre cose preziose da queste parti.

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Carlo mi aspetta fuori; è già buio e col pick-up andiamo in chiacchiere verso casa, dove ci aspetta Miriam, sua moglie. Anche lei lavora da anni nel Corno d'Africa; si occupa di programmi di lotta alla malnutrizione e alle mutilazioni genitali femminili. Lavora a contatto diretto con le persone coinvolte da quei programmi. Ma le lotte più pesanti le fa quando si scontra con chi gestisce malamente questi problemi, da posti di potere o da lontani uffici ben climatizzati. La memoria degli odori ritrovati entra dal finestrino aperto e mi riporta subito alle missioni passate: è il solito aerosol di gas di scarico, carburante, spazzatura in decomposizione o che brucia. A volte però, passando in strade più strette, vicino alle abitazioni capita anche il profumo d'incenso o di mirra che ardono nel braciere. Mi basta, per riconciliarmi col posto. A letto nella mia stanza, fatico a prendere sonno per la stanchezza del viaggio e il caldo. È strano ma ricordo cosa pensavo l'anno prima, nella stessa camera, mentre ronzava la ventola al soffitto: pensavo a quanto sapevo di Mohamed. Pensavo a Mohamed perché riflettevo su latitudine, longitudine e solitudine, un altro parametro che uso nella mia personale geografia. Penso che latitudine e longitudine possano determinare anche quanta solitudine, e non solo, ci potrà essere nel destino di un bambino, di una donna o di un uomo. Il luogo in cui si nasce può essere giusto o sbagliato, e non da un punto di vista etico, ma di possibilità di sopravvivenza, per esempio.

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Eppure ho visto incrociare latitudini e longitudini assolutamente diverse con solitudini molto simili e con destini coincidenti ma non egualmente conosciuti.

Mohamed era nato su una stuoia, quella dove era stato concepito. Mentre succhiava il primo latte, lo avevano salutato, scalze su quella stuoia, le tre sorelline, nate pochi anni addietro nella stessa capanna. C'era odore acre di legno affumicato e di burro rancido per ungere i capelli. Ombra di pietre a secco e raggi polverosi di sole e mosche che entravano da fuori. Intorno alla sua, poche altre capanne, ai bordi remoti di un villaggio dell'interno. Chi non aveva mezzi, neanche per una pur sconnessa casetta in mattoni, da costruire lungo la strada principale, una pista di sabbia e ghiaia, doveva andare ad abitare lontano; soprattutto lontano dal posto di polizia e dal municipio, fatiscenti, uno di fronte all'altro con in mezzo il pennone arrugginito e la bandiera sdrucita, schiaffeggiata dal vento. Ciò che circondava tutto questo poco, erano colline e poi montagne, ricche di sassi, scarse di uomini e piante. Mohamed, crescendo, aveva percorso in silenzio i sentieri e gli ued, i fiumi in secca, badando da solo le poche capre che avevano. Suo padre, che altri mestieri non aveva potuto insegnargli perché altri non ne conosceva, un giorno decise di andarsene. Ma prima divorziò. Non riusciva a mantenere la famiglia e per orgoglio, rabbia e vergogna verso la moglie esasperata, che chiedeva più cibo per i figli, rese legale il divorzio informandone il villaggio e se ne andò. Mohamed lo seppe dalle sorelle quando tornò dal pascolo, mentre il sole tramontava.

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Pianse a lungo, perché poteva farlo, essendo ancora un bambino. Il giorno dopo, in silenzio e come sempre solo, tornò sui sentieri con le capre, sentendosi ancora più solo. Fatuma, la sorella primogenita di Mohamed, andò a cercare lavoro in città. Riusciva solo a vendere spremuta di arance da un banchetto sulla strada. Però riuscì anche a sposarsi con un disoccupato che intanto le diede due figli e una baracca. Questo marito, che mai trovava lavoro, cominciò a esigere il guadagno delle arance per comprarsi le foglie di khat, prima per sé e a volte anche per gli amici. Fatuma sopportava in silenzio, ma come sempre diceva, con i tagli nel cuore. Dopo un anno ospitò Hawa sua sorella, la seconda, dal carattere più forte di tutte, anche lei in città per sudarsi un destino migliore. E piangendo e tenendo Hawa per mano, finalmente Fatuma urlò il suo divorzio al marito che, gridando e sputando, se ne andò, con la guancia gonfia di khat. Hawa cominciò a sudarsi il destino migliore pulendo le case dei bianchi e lei, dal carattere più forte di tutte, giurò a se stessa, e mantenne, che mai si sarebbe sposata. Fatuma viveva con Hawa e insieme poi accolsero Aisha, la terza sorella, che cercava il futuro in città; Fatuma e Aisha spremevano insieme le arance, poi Aisha si sposò e fece in breve tre figli, con un uomo che andava, a richiesta, a sgozzare e squartare le capre. Ma se non fosse stato per Hawa, che guadagnando dieci volte di più, aiutava sorelle, nipoti, la madre e Mohamed al villaggio, la vita sarebbe stata molto più dura. Mohamed cresceva ancora sui pascoli e di ritorno al villaggio, con i fischi del vento alle tempie, a volte udiva i sussurri malvagi dei jinn, gli spiriti maligni nascosti tra i sassi. Credeva di udire anche la voce del padre che li scacciava per lui e allora, tranquillo, arrivava alla vecchia capanna. Persino Mohamed

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riuscì a vent'anni a sposarsi, con l'aiuto di Hawa e delle sorelle, e fecero insieme la cerimonia al villaggio. Voleva anche trovare un lavoro per offrire una vita migliore alla sposa, la giovane Hamza. Però dopo il primo arrivarono altri due figli ma non il lavoro. Chi poteva o voleva offrire o insegnare un lavoro, in un piccolo villaggio, dove tutti erano uguali nell'essere nati nel posto sbagliato? Una sera, mentre il sole calava, Mohamed udì i sussurri dei jinn che però quella volta non se andarono. Quando arrivò alla capanna la madre lo accolse con la notizia della morte del padre, solo, in un altro paese lontano. Da allora Mohamed cominciò a parlare di continuo a suo padre, gli faceva domande con rabbia, lo pregava e gli ordinava di trovargli un lavoro, lo invocava contro gli spiriti. Ma per tutti, in realtà, parlava da solo. Hamza, via via più angosciata, sperava col tempo guarisse; ma invece era sempre più insidiato dai jinn, senza più la voce del padre. E una sera finalmente riudì quella voce. Gli disse di liberare Hamza dagli artigli dei jinn che erano dentro di lei, e così fece Mohamed dal cuore ingabbiato. Venti o più pugnalate ed era tutto finito: i sussurri, la voce, la rabbia e la vita di Hamza. Un anno da solo rimase in prigione, mentre la gabbia del cuore piano piano si apriva. Un anno di pena per Hawa, dal carattere più forte di tutte, mentre raccoglieva in moneta il valore della vita di Hamza. Perché così dicono le Leggi dello Stato e del Clan: raggiunto l'accordo tra le

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famiglie si possono calare gli anni di pena, soprattutto quando la colpa è dei jinn. Mohamed era tornato al villaggio, dalla madre che cresceva i nipoti senza la mamma. Per tre anni non sentì più sussurri maligni né la voce del padre, ma solo il vento alle tempie e la voce del cuore. Per tre anni tornò a pascolare le capre, Mohamed, uomo dal futuro di un giorno per volta. Cinquanta centesimi, un euro o un euro e mezzo al massimo. Così puoi guadagnare in un giorno intero di lavoro occasionale, da trasformare in razione di sopravvivenza e da dividere anche con altri, fino al futuro del giorno dopo. Così puoi guadagnare se, trovato un lavoro di un giorno, sei uno dei 300.000 nati in un posto assolutamente sbagliato come la baraccopoli, senza fogne, né luce, né acqua. O in un villaggio dell'interno, posto altrettanto sbagliato per nascere, ma sicuramente più bello e paradossalmente più sano di una baraccopoli. L'anno scorso a marzo, giorno più giorno meno, c'era molta tensione qui per il clima politico interno, sull'onda della cosiddetta primavera araba che stava nascendo in altri Paesi. La protesta era cresciuta in seno a una debolissima opposizione, non rappresentata in Parlamento, che però, un mese prima, era riuscita ad organizzare una manifestazione. Si manifestava contro il presidente che tentava la rielezione, ma anche contro il governo e la sua incapacità di fermare la crisi e l'aumento incessante del costo della vita; questo nonostante il grande flusso di denaro che comunque entrava, ed entra, nelle casse dello Stato. Purtroppo si arrivò a uno scontro con molti feriti e almeno tre morti; le proteste furono poi tutte fermate. Il presidente venne comunque

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rieletto con maggioranza assoluta e il costo della vita continuò a crescere. «Non ho lavoro, sono un essere inutile e un assassino». Questo, tre anni dopo, Mohamed, uomo che aveva finito il futuro, diceva in un pomeriggio di metà dicembre. Poi si rovesciò sulla testa una tanica di benzina e si diede fuoco nella piazza, mentre il sole tramontava. Purtroppo non morì subito, almeno non il suo corpo. L'ambulanza percorse più di un'ora atroce di strada per arrivare all'ospedale in città, dove non poterono fare nulla. Là, in rianimazione, permettevano ad Hawa di visitarlo tutti i pomeriggi, come quando era in prigione. Usciva dal lavoro portando costose pomate, da spalmare dolcemente sulla pelle che non c'era più. Piangendo, lei dal carattere più forte di tutte, fissava i brandelli di vita cadere nel letto. Per venti giorni acquistò pomate e le spalmò sul corpo di quello che era stato il suo fratellino, che mai più avrebbe avuto un futuro ma che aveva ormai solo il presente dei giorni che finivano. Hawa si occupò di Mohamed fino alla fine, quando il sole nel suo cuore tramontò, poco più di un anno fa, nel gennaio 2011. Questo era quanto sapevo di Mohamed A., abitante di un piccolo villaggio dell'interno desertico di Gibuti, una baraccopoli nel vuoto pieno del nulla. Conosco la latitudine e la longitudine della capanna del suo villaggio, ho provato a immaginare la solitudine che so che ha provato, ho raccontato quanto ho appreso della sua vita. Invece non sapevo molto di Mohamed Bouazizi, se non quello che avevo letto sui giornali. Mohamed Bouazizi era l'ambulante

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tunisino che, il 17 dicembre 2010, si era dato fuoco per disperata protesta contro i soprusi subiti dalla sua povertà senza diritti. Morì il 4 gennaio 2011 per le conseguenze delle ustioni. Con il suo gesto tragico aveva innescato la rivolta tunisina e, simbolicamente, anche le rivolte contro le dittature e i costi sempre più alti del cibo in altri Paesi vicini. Di lui si possono sapere latitudine e longitudine del suo villaggio, si può provare a immaginare la sua solitudine, credo senza riuscirc i , e si può leggere quanto si è saputo della sua breve vita e delle conseguenze del suo gesto per migliaia di persone. Incredibilmente nello stesso periodo di metà dicembre 2010, anche Mohamed A. aveva compiuto lo stesso gesto suicida con la stessa disperata ineluttabilità, con la stessa follia di chi non vede il presente perché sa bene che presente non c'è più. Ai funerali di Mohamed A. parteciparono i pochi abitanti del villaggio, i parenti e l'anziana madre, con ancora gli avambracci fasciati per le ustioni. Lei era presente e aveva cercato, a mani nude, di spegnere le fiamme. Ai funerali di Mohamed Bouazizi parteciparono migliaia di persone e il resto è storia, non ancora finita. A Gibuti la morte di Mohamed A. non ha innescato nulla perché qui la Storia sta seguendo e seguirà, forse, altre strade. Nel mondo e a Gibuti, che pure ha un telegiornale trasmesso quattro volte in somalo, afar, francese e arabo e anche nel linguaggio dei segni, del suicidio di Mohamed A., un uomo nato e morto nel posto sbagliato, non si è saputo nulla. Forse fino a ora. Stefano Sanfilippo

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