DKMO - DON'T KICK ME OUT

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ATTENZIONE

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Prima edizione: Marzo 2016 Il Girovago è un progetto di Edizioni Nuova S1 Edizioni Nuova S1 Via Adolfo Albertazzi, 6/5 - 40137, Bologna info@nuovas1.it - www.nuovas1.it Il sito del Girovago: www.ilgirovago.com Bando DKMO a cura di Lorenzo Cimmino e Lorenzo Mari I commenti delle opere sono a cura di Lorenzo Barberis e Lorenzo Mari Progetto grafico: Riccardo Ferrara - riccardoferraradesign@gmail.com


DON’T KICK ME OUT nasce da un’idea di Lorenzo Mari come bando aperto, lanciato all’inizio del 2015 all’interno della collana Il Girovago (Ed. Nuova S1). Inizialmente doveva sfociare solo in questa pubblicazione digitale e l’intento era di creare dibatto e riflessione. L’intento è rimasto tale, ma la risposta e la qualità dei contenuti sono state così alte che ci è preso il coraggio (o l’incoscienza) di rilanciare il bando, aggiungendo una pubblicazione cartacea a prezzo politico. Ci preme quindi cominciare dai ringraziamenti e, prima di tutto, esprimiamo la nostra immensa gratitudine a Lorenzo Barberis, che tanto ci ha aiutato nella redazione dei commenti durante questo anno di lavoro e a Riccardo Ferrara che si è occupato del restyling del logo e del progetto grafico sia dell’edizione cartacea che digitale. Poi, ovviamente, ringraziamo tutti gli autori che ci hanno ci mandato dei contributi, i 34 partecipanti selezionati e gli 11 special guest () che hanno messo a disposizione la propria creatività, per tenere idealmente a battesimo il progetto. «O Italy, O great boot / Don’t kick me out again» (O Italia, grande stivale, non cacciarmi di nuovo a calci) Questi i versi che hanno fatto da motore a tutto il progetto, contenuti in una poesia scritta negli anni Venti del secolo scorso da Emanuel Carnevali, un poeta italiano che, nel 1922, tornò a Bologna dopo otto anni da emigrante negli Stati Uniti. Freschissimo nonostante i novant’anni che ci separano dalla sua stesura, questo distico di Carnevali è stato interpretato in modo molto diverso e complesso dai 45 artisti che hanno voluto mandare il loro contributo. Per continuare a ragionare seguendo percorsi sempre diversi, tenendosi alla larga dai cliché e dai luoghi comuni, cercando di schivare le certezze “preconfezionate” e inseguendo il dubbio e la messa in discussione, più che lo scontro a muso duro tra posizioni aprioristicamente date, che sembra essere la nota dominante dei tempi in cui viviamo. Lorenzo Cimmino e Lorenzo Mari Bologna, 21 marzo 2016


Elena Auricchio – Francesco Visicchio

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La linea tonda


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In un paese incantato, sospeso su uno specchio d’acqua, c’è un bambino che è capace di raccontare

delle storie magiche attraverso i suoi disegni. Quando un principe invidioso gli ruba la linea, tutto sembra perduto. L’incontro con una donna rompe il maleficio: nel fondo dei suoi occhi il disegnatore ritroverà il suo segno. Da quel momento, tutti i mondi da lui disegnati riprenderanno vita, animando nuove storie e nuovi sogni. Ne La linea tonda, ovvero il rapporto tra arte e potere spiegato a un bambino, gli autori Elena Auricchio e Francesco Lopez Visicchio riescono a trasmettere, tanto ai lettori più piccoli quanto ai più “cresciuti”, il valore che ha il fatto di poter raccontare una storia.

Elena Auricchio

Francesco Visicchio

Napoletana, insegnante di francese. Usa in classe il fumetto come materiale didattico. Scrive libri scolastici, testi di francese per medie e superiori, oltre a racconti per bambini e per ragazzi.

Grafico, illustratore, fumettista. Nasce sul Gargano e vive a Bologna. Usa il disegno per indagare l’animo umano, creando personaggi tra le nuvole, facendo vivere loro dimensioni spazio-temporali differenti e alterate.

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Antar Mohamed Marincola

Vidigal

Ciò che è leggero, il vento lo porta via. Proverbio somalo Ho sempre saputo molto poco su Giorgio Marincola, ma non perché mia madre non ne parlasse: ne parlava tanto, e a tutti. Voleva sempre raccontare del suo amatissimo fratello Giorgio, mi diceva che per gli antichi Greci l’amore più grande lo si prova nei confronti del fratello, e Isabella questo amore lo praticava con tenacia e dedizione cominciando dalle parole piene d’affetto con cui avvolgeva la breve vita di Mercurio, il dio con le ali ai piedi, il dio del vento. A Mogadiscio, la mia ultima casa, da dove venni via a settembre del 1983, era situata in via Gibuti, il quartiere si chiamava Shingani. Zona di dubbia moralità, piena di bar clandestini dove si vendeva alcol e dove con cinque scellini potevi accompagnare le tue bevute assieme a ragazze che allietavano i tuoi caldi pomeriggi con carezze, baci, ammiccamenti e, se non eri completamente sbronzo, con qualcosa di più sostanzioso. In questo appartamento, al secondo piano di una palazzina di architettura fascista, i muri, tutti i muri della casa, erano tappezzati con le foto di Giorgio Marincola. Era un volto molto presente in quella casa, visivamente molto esistente, ma sia Isabella1 che mio padre Mohamed e io della sua vita sapevamo pochissimo. Perché? Mia nonna Aschiro parlava poco con mia madre, parlava un po’ di più con me, ma parlava tantissimo a mio padre: di cammelli, di clan, di soldi, della siccità – una calamità che portava sofferenza agli uomini e alle bestie e martoriava la terra aspra e arida di buona parte dell’intera Somalia. La sola cosa scritta che avevamo in questa casa che raccontasse un po’ di Giorgio era la motivazione della medaglia d’oro2... “Giovane studente universitario”, etc. etc. Null’altro. Sapere le cose è sempre molto tortuoso e bisogna darsi del tempo per riuscire a ricomporre le trame e il senso degli eventi. Io sono nato in un periodo post-coloniale, ma fino alla quarta elementare alla scuola Guglielmo Marconi di Mogadiscio studiavamo i re di Roma e le quattro stagioni – inverno, primavera, estate e autunno – ma a malapena sapevamo che il vento tropicale che a gennaio e febbraio ci spellava il viso si chiama tangabili. Proprio in una giornata di febbraio dei primi anni ‘70 venni rapito soprattutto da una fotografia che mamma custodiva gelosamente, dove ci sono nonno, Elvira, Giorgio, Isabella, Rita e Ivan. Seppi così che mamma aveva due fratelli bianchi che non vedeva da tanto e che sentiva raramente, sembrava che non esistessero. Perché, mi domandai. Un caro amico di mamma che lavorava all’Alitalia, Bruno Perris, e che in gioventù suonava la tromba e amava il jazz, ci regalò due biglietti per l’Italia, mentre mio padre, dopo quattro anni di carcere, si era trasferito per lavoro in Arabia Saudita. Nel giugno del 1977 eravamo a Roma, la prima volta per me in Italia. Quante luci la sera rispetto a Mogadiscio, quanti odori e colori di tanti tipi diversi di detersivo. Mamma aveva bisogno di cure, passava diverso tempo ricoverata: una volta al Sant’Eugenio, un’altra nella clinica di Spallone, il medico di Togliatti. 1. Isabella Marincola / Timira Hassan è il nome della madre di Antar Marincola. 2. Giorgio Marincola, partigiano italo-somalo che combatté nella Resistenza italiana, fu insignito della Medaglia d’oro al valore militare del Governo italiano, in quanto vittima dell’eccidio di Stramentizzo (TN), ultima strage per mano nazista in Italia (4 maggio 1945).

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Abitavamo presso il padre del dottor Cappelli, medico e docente all’Università di Mogadiscio, in via Vacuna 6 al Tiburtino. Un giorno, da solo, vado per conoscere mio zio Ivan a Casalbertone, aveva un bar nella piazza di fronte a via Efisio Cugia. Erano le 10 di mattina: entrai nel bar, le vetrinette trasudavano di belle cose da mangiare e bere, quanti gelati di mille fatture. In Somalia non era così, i bar erano spogli e poco invitanti e per andare in quelli belli non avevamo tutti quei soldi. Mi avvicinai a un signore e chiesi di Ivan Marincola, lui alzò lo sguardo e mi disse: «Sei il figlio di Isabella?». Dopo poco mi portò a casa in via Efisio Cugia, conobbi i suoi figli e, vedendo Elvira3, pensai subito dove potesse aver nascosto il curbash4. Mangiai con loro e mi ricordo che Elvira disse che Giuseppe era stato un signore perché aveva portato i due figli neri in Italia5, ma io pensai a mia nonna, che era rimasta sola, senza i suoi piccoli figlioli. Nel congedarmi lo zio Ivan mi diede 500 lire, con sopra l’immagine di Mercurio, il dio con le ali ai piedi. Un mese più tardi a Roma venne zia Rita con Monica, Maura, Cristina, le mie cugine milanesi, la prima volta sia per loro che per me. Mamma e zia parlarono, qualcosa da dirsi avevano, noi molto meno: fummo avvolti da un certo silenzio. La vacanza romana finì nell’ottobre del ‘77. La Somalia era in guerra con l’Etiopia, noi tornavamo a Mogadiscio e alla sera le luci erano sempre più fievoli. Piano piano, col tempo i contorni di questa famiglia emergeranno con sempre maggiore chiarezza. È assodato che la razza umana è una e una sola, il colore della pelle delle persone, qualsiasi sia, non fa razza. Ma la razza come concetto culturale esiste da tempo immemore, dalla maledizione di Cam e la sua pelle nera fino al saggio sulla diseguaglianza tra le razze di Gobineau; se a ciò si somma il colonialismo, una certa difficoltà nella famiglia Marincola/Balboni/Floris è più che comprensibile. Dopo il colpo di Stato del ‘69 di Siad Barre, la lingua somala per la prima volta era diventata una lingua “scritta”, le scuole erano state nazionalizzate e non si studiavano più le quattro stagioni, ma qualcuno aveva ancora voglia di mandare i propri figli a studiare i re di Roma. Nel 1974, in un terreno adiacente il consolato d’Italia, venne inaugurata la scuola statale italiana: elementari, medie e superiori. Mamma, per diversi anni, farà la supplente: senza laurea non poteva fare altro. Dopo tutte le materie letterarie, dalle medie al liceo, finirà a insegnare il somalo, lingua che lei non aveva mai imparato a parlare. Ho una decina di foto dove si vedono tante bambine e bambini, dai mille colori, presenze di una Mogadiscio cosmopolita, fatta di arabi, meticci, indiani, somali e italiani, con le treccine, i capelli lisci, alcuni crespi, figli di una Mogadiscio che, dovunque siano oggi, portano nel cuore, una Mogadiscio che con la guerra e le diverse pulizie etniche oggi è solo una foto ingiallita. Tante persone, tutte importanti: il console, Costa San Severino, l’Addetto Culturale il Preside Fabbri, Meli, il grande segretario della Casa d’Italia, Bruna Galvani, l’amica di mamma che aveva un nome somalo che non riusciva a pronunciare, Baxsan, gelsomino. Brava Isabella, l’aula di Scienze della scuola italiana, grazie alla tua tenacia, porta il nome di Giorgio, aule di scienze, potremmo dire, con anche quella all’Albertelli6! 3. Elvira Floris si sposò con Giuseppe Marincola nel 1926, trovandosi a crescere anche Isabella e Giorgio Marincola. 4. Il curbash è un frustino formato da diverse code di animali intrecciate tra loro, usato in Somalia in epoca coloniale italiana. 5. I “figli neri” cui si fa riferimento sono proprio Isabella e Giorgio Marincola, figli di Giuseppe Marincola e Aschiro Hassan. 6. Il Liceo Classico Pilo Albertelli di Roma è intitolato al partigiano azionista che fu professore di Giorgio Marincola presso la stessa scuola,

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Brava Isabella, porta il nome del dio con le ali ai piedi a parlare di un partigiano, in una ex colonia per di più strettamente fascista, un bel colpo senza santi in paradiso e funzionari al dicastero. Era il 1982, un anno dopo andrò via dalla Somalia, e otto anni dopo questo paese sarebbe sprofondato in una guerra tuttora in corso. Tornata in Italia nel 1991, Isabella mi dice ora: «Antar, è giunto il tempo di tirare fuori ben bene questa storia di Giorgio, tutto più chiaro ora, le reticenze, le parole dette a metà, ma no, no, noi non siamo razzisti, siamo brava gente, non siamo come gli inglesi e i francesi siamo brava gente, no, non lo siamo e siete voi che siete neri». Dai, raccontiamo la storia di Giorgio a questa Italia, sola in Europa che ancora si tiene stretta la legge del sangue, che non riconosce a nessuno che non sia bianco il diritto alla cittadinanza italiana. Raccontiamo di Mercurio il dio del vento, e così è stato, prima cercare un riparo, un reddito, poi con convinzione, cercare pertugi, radio libere, giornali sotterranei, cantastorie dai nomi improbabili, matti da slegare, tutti e tutto è stato buono per raccontare di questo zio che non ho mai conosciuto. Poi metti il caso, un po’ di fortuna che lega i fili di una narrazione e accende le fantasie, arriva Razza partigiana7, Basta uno sparo8, ma Timira un po’ stanca si fa da parte e se ne va. Ora la storia di Giorgio possiamo dire che è anche storia di questo Paese. Alla presentazione di Milano nel 2012, con Giovanni in una bella libreria dalle parti di porta Genova, rincontro mia zia e mia cugina Cristina: sala piena, ci promettiamo di vederci e sentirci, perché no, in fondo siamo anche parenti. Una settimana fa ricevo una telefonata di Cristina, penso subito che la zia sia morta, mi capita di pensare il peggio quando non ho la frequenza di ascolto con qualcuno di vicino o lontano, io ho il suo numero di telefono memorizzato sul mio cellulare dalla presentazione del 2012, l’ultima volta che ci eravamo promessi di chiamarci. «Ciao Cristina, tutto bene, la zia sta bene?». «No tranquillo Antar, è che sono a Bologna e volevo vederti, e poi volevo raccontarti un po’ di me». Ci diamo appuntamento per il lunedì successivo, le porto Razza partigiana e Basta uno sparo. Parliamo tanto, di tutto, mi confessa che in realtà sarebbero voluti venire a Mogadiscio, ma poi capisci, tre sorelle papà mamma l’aereo otto ore il fuso le zanzare. «Sai inoltre volevo dirti, Antar, che mamma e Monica da prima, ma noi due da quasi due anni ci siamo trasferiti a Rio de Janeiro, Rita è molto contenta, ora abitiamo in un quartiere che si chiama Leblon, e nella favela sopra di noi, Vidigal (“l’uomo aperto agli altri”), mamma e noi tutti abbiamo adottato un bambino di strada, somiglia molto a Giorgio, e noi gli vogliamo molto bene, e lui con la zia va quando può alla spiaggia di Ipanema, e Rita gli racconta di Giorgio e Isabella, i suoi cari fratelli che ora volano come angeli e ci difendono dal dolore della vita».

allora chiamata Liceo Classico Regio “Umberto I”. Pilo Albertelli fu ucciso nell’eccidio delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944). 7. Carlo Costa e Lorenzo Teodonio, Razza partigiana. Storia di Giorgio Marincola (1923-1945), Iacobelli, 2008. Vidigal sarà incluso nella prossima edizione di Razza partigiana, sempre per Iacobelli, che ringraziamo per la gentile concessione dei diritti di pubblicazione del testo in questo volume. 8. Wu Ming 2, Basta uno sparo. Storia di un partigiano italo-somalo nella Resistenza italiana, Transeuropa, 2010.

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Questo testo nasce come prologo della nuova edizione di Razza partigiana di Carlo Costa e Lorenzo

Teodonio (Iacobelli 2015). Sia Vidigal che Razza partigiana ricostruiscono la storia di Giorgio Marincola, zio di Antar, partigiano italo-somalo caduto nella lotta per la liberazione d’Italia il 4 maggio 1945.

Una vicenda ancora oggi da non dimenticare, da non “cacciare a pedate”, perché mostra come la storia coloniale italiana non sia stata quella di un «imperialismo straccione», dalla portata insignificante, né

quella di un’avventura tutto sommato positiva, condotta dagli «italiani brava gente». Si è trattato, invece, di un periodo centrale nella storia dell’Italia e di altri Paesi, con una serie di conseguenze – non di rado dolorose – che continuano a esercitare la loro influenza nel presente.

 Antar Mohamed Marincola Nasce in Somalia, a Mogadiscio, nel 1963. Arriva in Italia nel 1984 e si trasferisce a Bologna nel 1985, dove studia all’Università. Lavora come libero professionista, pedagogista e mediatore culturale. Collabora con il gruppo teatrale Cantieri Meticci di Bologna. Nel 2012 pubblica con Einaudi un romanzo co-scritto con Wu Ming 2, Timira. Romanzo meticcio, e, nel 2015, Vidigal, inserito in Razza Partigiana, Storia di Giorgio Marincola per Iacobelli Editore. 15


Intervista a cura di Lorenzo Mari Le storie di Giorgio Marincola, raccontata in Razza partigiana (Iacobelli, 2015) e Basta uno sparo (Transeuropa, 2010), e di Isabella Marincola, presente in Timira (Einaudi, 2012), sono state per lungo tempo “nascoste” e marginalizzate nella storia italiana. Pensi che il loro recupero possa contribuire a far luce su un periodo “rimosso”, o comunque dimenticato, come quello del colonialismo italiano in Somalia e anche sulle relazioni più recenti tra i due Paesi? Sì, penso che la storia di Giorgio Marincola e anche quella di sua sorella, nonché mia madre, Ysabella Marincola (perché mi piace ricordarla con la Y, così come si firmava lei), nei libri Razza Partigiana e Timira, racconti molto non solo del periodo coloniale italiano, ma anche dell’Italia degli anni pre- e post- seconda guerra mondiale. La storia di Giorgio si conclude nel 1945, mentre quella di Ysabella parla anche dell’Italia, che è così cambiata, oggi, rispetto a quella della sua giovinezza. Lei, infatti, sarebbe tornata in Somalia nel 1961 e ci avrebbe vissuto fino al 1991, per poi rientrare in Italia a causa della guerra civile somala, vivendo a Bologna fino al 2010. Inoltre, anche se cronologicamente Timira si conclude nel 1992, nel libro ci sono 4 lettere che Giovanni scrive a Ysabella, già deceduta, raccontandole l’Italia della fine del 2000. Penso che rispetto al tema del coloniale ci sia in questo libro anche una riflessione, da parte di Ysabella, sull’essere italiana e al contempo profuga, o ancora la domanda: si può essere italiani non avendo la pelle bianca? In merito ai rapporti attuali Italia e Somalia, in questi ultimi tempi la relazione è molto sfilacciata anche a causa del perdurare di questa guerra somala iniziata nel dicembre 1990 e non ancora conclusa. Vidigal presenta una famiglia disseminata ai quattro angoli del globo, una condizione che accomuna mol16

tissimi individui, in questa epoca di globalizzazione e di massicci flussi migratori. È possibile vivere questa situazione senza che qualche elemento sia estromesso, o kicked out, a causa della distanza o anche di altri motivi? In che modo? Quando Gino Iacobelli mi chiese di scrivere qualcosa per la nuova edizione di Razza Partigiana, da poco uscita, vi confesso che per me è stato molto complicato. Per diverse ragioni: una su tutte, il fatto che la vita di Giorgio sia stata una vita breve, nato nel 1923 e morto il 4 maggio 1945… Dopo Razza, cos’altro dire? Non avendolo conosciuto, posso contare solo su pochi scritti di suo pugno… Ma è tutto il periodo resistenziale che, per alcuni aspetti, è avvolto da tanto mistero. Infine, c’è il fatto che Giorgio sia quasi un’icona, una sorta di mito: come noi poveri, mortali e peccatori pensiamo di avvicinarci a una persona che sotto tortura a Radio Baita, a Biella, prigioniero dei fascisti, dice queste parole: «Non vedo la patria come un colore qualsiasi sulla carta geografica: per me, patria è libertà e giustizia per tutti i popoli del mondo». Tornando a Vidigal, quando mia cugina mi disse che lei, mia zia e l’altra mia cugina si erano trasferite a Rio, mi sono detto: caspita, che ironia la vita, una famiglia che ha vissuto così violentemente il concetto culturale di razza, si trasferisce in uno dei paesi più meticci che esista al mondo. Più che la distanza fisica è forse una distanza di abitudine nel sentirsi parenti, cresciuti lontano (io a Mogadiscio, loro a Milano), visti sì e no tre volte in quasi trent’anni. Più che altro questo, l’imbarazzo di aver poco da dirsi. Com’è stata la tua esperienza di “scrittura a quattro mani” (o forse anche “a sei mani”, ricordando anche il ruolo di Isabella) con Wu Ming 2 all’interno del pro-


getto che ha portato a Timira? Scrivendo a più mani, hai avvertito il rischio che qualcosa di personale fosse tralasciato, espunto o direttamente kicked out? Timira era un progetto tra Ysabella e Giovanni: quando lei morì, nel marzo 2010, mi dissi che era un peccato che la morte interrompesse un progetto tanto sentito, quindi chiamai Giovanni e mi offrii di portarlo a termine. Che poi per me egoisticamente è stato un modo di elaborare il lutto: quando muore qualcuno a cui si vuole molto bene, così, di infarto, lascia tanti pensieri confusi tra la mente, ma cominciare con un «C’era una volta una donna, nonché madre mia, che ha fatto questo e quello» è stato utile, per me, a fare un po’ di ordine. La scrittura collettiva è stata molto facile, perché Giovanni è come un fratello e anche caro amico, l’affetto e la stima reciproca ha reso la scrittura di Timira palpitante ed entusiasmante nonché fortemente emozionale. C’è sempre qualcosa che resta fuori, ma va bene anche che sia così: l’importante è rendere, a chi o a cosa resta fuori, un ambiente gradevole e accogliente. Anche perché tutto non si riesce a dire, per la semplice ragione che non lo si sa.

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Madeira Giacci

Your words are to me the deepest night and you look like a crocodile

Your words are to me the deepest night and you look like a crocodile Uniposca su carta, 21 Ă— 29,7 cm

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Il titolo dell’opera di Madeira Giacci è piuttosto ampio – alla Wertmüller, quasi, ma in inglese: Your words

are to me the deepest night and you look like a crocodile (“Le tue parole sono per me la notte più profonda e tu mi sembri un coccodrillo”). L’illustrazione, infatti, contrappone (secondo Yin e Yang, ma disposti quasi a

formare l’otto autogenerantesi del nastro infinito di Moebius) il coccodrillo bianco dal muso nero in alto, e il suo balloon nero, stellato di bianche parole – incomprensibili – in basso. L’immagine è molto efficace nel rendere l’idea di una comunicazione impossibile: le parole del coccodrillo sono stelle e quindi sembrano anche, come simboli grafici, tanti asterischi (l’asteriscum è appunto un piccolo astrum, una stellina) che

convenzionalmente rimandano a una nota esplicativa a piè di pagina. Ma qui non c’è testo da spiegare, solo asterischi, e la footnote, se esiste, è perduta.

Questo momento d’incomunicabilità avviene all’interno di una relazione personale, quando la stessa lingua si fa aliena e misteriosa, deformando il volto della persona amata in qualcosa di animalesco, primitivo. Un DON’T KICK ME OUT privato, insomma. L’immagine, tuttavia, ha una certa elasticità allegorica, e la

lingua rettiliana che respinge potrebbe anche divenire, ad esempio, quella dell’astrusità burocratica che, in Italia, oppone spesso un muro indecifrabile alla creatività.

Madeira Giacci Nata nel 1979 a Napoli, al momento vive a Bogotà, dove insegna yoga e fa la traduttrice. Ha scritto un libro sulla storia del surf dal titolo L’elogio del surf (2006) edito da Castelvecchi. 19


Damiana Guerra

Una madre con frigo

Personaggi: Una donna. Ha circa 55 anni, visibilmente in sovrappeso: veste con una gonna dai colori vistosi, larga e lunga; ciabatte ai piedi con calzettoni; una maglia nera a mezze maniche. Ha un’artrosi all’anca destra: ogni movimento le provoca un dolore atroce. Quando si sposta, lo fa cercando di tenere la gamba destra il più immobile possibile, trascinandola. Non è molto colta. Descrizione scena: Luci molto basse. Un frigorifero con sopra una foto di Padre Pio, la donna è seduta alla sua destra. Ha in mano una candela accesa. MADRE – (Stringe nervosamente le labbra. Guarda dritto davanti a sé, fissando un punto nel vuoto). Padre nostro. Padre. Padre nostro. (Pausa). Sì. Che sei nel cielo. (Pausa. Espressione contrariata). No. Ho sbagliato. Che sei nei cieli. Padre nostro. (Pausa). Sia santificato il nome. Tuo. Sì. (Pausa). Padre nostro. Padre. Padre. Padre. (Pausa). Boh... (Breve pausa. Si alza: appoggia la candela sul frigo. Guarda la foto di Padre Pio: la accarezza delicatamente, si bacia la mano. Apre il frigo senza far vedere il contenuto al pubblico. Sospira. Lo richiude. Torna a sedersi). E mo’? (Pausa). Mado’. (Pausa). E mo’? Chi glielo dice mo’ adesso a Gino quando se ne viene a casa? E come si fa dico io? Non c’ho neppure mica ancora preparato qualche cosa da mangiare. Come faccio che è pure tutto buio. Che io non glielo avevo mica detto pure io a quella? Io c’ho pure l’anca. Che tu già pure lo sai. E che, posso lavorare? Pure quello delle ossa... il professore... l’ostepopata. Sì. Quello là mi ha detto: «Signora e che vogliamo fare? Che messa com’è messa mica può lavorare». (Pausa). Che io già non lo sapevo secondo lui? Già pure mo’ adesso io vedo che faccio fatica anche solo a camminare che mi cade pure tutto di mano a me che anche solo per fare le scale vedo dei dolori atroci. (Pausa). Mo’ però quando torna a casa chi glielo dice a quello, dico io. Che a quello ci prende pure la gastrite del mal di stomaco. A quella dell’Hera che io non ce l’ho detto? M’hai sentito tu a me. Che io non ce l’ho detto? Che qua mica io posso lavorare. C’abbiamo uno stipendio solo che solo Gino lui lavora e che siamo indietro con tutto, mica solo con la luce. (Si guarda intorno). E che facciamo mo’? Speriamo che a Gino mo’ c’abbiano dato l’anticipo. (Breve pausa). Gliel’hanno dato, eh? (Breve pausa). Mica li posso chiedere di nuovo a Marco mio. Che quello pure con la laurea mica riesce a trovare da lavorare. Sempre con contratti che non si capisce niente sta. (Pausa). Che poi lui è stato bravo veramente. La laurea tutto lui da solo se l’è preso. Mica gli abbiamo dato i soldi noi. E come potevamo fare? Che qua i soldi se ne scappano di mano come se niente fossero. Ci sarebbe piaciuto ma tutti i mesi non si sa mai come arrivare a fine mese e che la laurea costa troppo pure tanto. E Marco mio allora si è messo a lavorare pure di notte ma la laurea c’ha preso! Uguale spiaccicato al padre che pure lui è bello intelligente! (Breve pausa. Ride). Beh. Insomma, mo’. Bello poi è una parola grossa... che mio marito è piccolino. È bello a me ma è in miniatura! (Ride, guardando in alto. Vede la candela, torna seria). Speriamo che quelli a lui c’hanno dato l’anticipo sennò di nuovo i soldi a Marco mio devo chiedere. E sennò a chi posso chiederli io? Mica c’ho a qualcuno altro. Che io c’avevo pure un piano. Mannaggia alla misera, mannaggia! C’avevo il piano che mi mettevo a posto veramente! Che gliel’ho pure detto prima a quella dell’Hera! La signorina della televisione a me m’aveva detto che poi mi richiamava che mi doveva fissare il provino! Mado’... Mi vengono le caldaie a pensare di andare in televisione! Che poi speriamo di vincere... Macchè! Per davvero io vinco veramente! Mi devo mettere un po’ a posto. C’ho un sacco di cose messe male. E tu le sai pure tutte. Padre Pio però a me mi guarda sempre, a me. Che sono sicura che quello a me mi butta l’occhio. Io 20


sono una fan devota di lui. Tutti i giorni la preghiera gli faccio. La sera e la mattina. Pure prima di Affari tuoi. E quello lo sa pure lui che sono messa male. Mica voglio stare sempre a chiedere i soldi a mio figlio. Che pure lui non sa mica come deve fare. Per questo io vado là e vinco un po’ di soldi che sono sicura che scelgo il pacco giusto! Che io qui a casa facevo le prove con la televisione e vedevo che sceglievo sempre il pacco giusto per davvero! Io c’ho pure Padre Pio che quello mi veglia sopra a me! Mi sono allenata tutti i giorni veramente! E che gliel’ho pure detto a quella dell’Hera! Non poteva dire a qualcuno di aspettare un attimo? Che io mo’ dovevo andare in televisione e mi mettevo a posto! (Breve pausa). Devo solo fare il provino. (Breve pausa). Niente. E mo’ quelli pure la luce ci hanno staccato. E che io mo’ non mi posso neppure allenare più. (Pausa. Sospira). Io mo’ come devo fare? La cosa brutta è che mo’ pure il telefono c’hanno staccato ieri sera. Che se quelli della televisione mi chiamano proprio mo’ adesso? Mica mi trovano a me. E così non ci posso mica andare alla televisione. Che mica so quando c’ho il provino se non mi chiamano e li sento! Io c’ho il piano, però! Che vado là e vinco. Ma quella del telefono mica c’ha voluto chiedere a qualcuno di darci un altro poco di giorni che io vado là e vincevo un sacco di soldi e mi mettevo a posto. Che riuscivo pure a fare due mazzetti: uno per Marco mio che se li mette da parte, uno per i giri a me, dai dottori per me, e un altro mazzetto per la vecchiaia. (Pausa). Che mia madre a me mi diceva sempre di mettere da parte. Di tenere da parte le cose. Soprattutto però di conservare i soldi. Ma come si fa che le spese sono sempre troppe, dico io? (Si alza, apre il frigo: si vede l’interno ed è vuoto. C’è solo una tavoletta di cioccolata. La donna la prende. Torna a sedersi). Solo questa mi è rimasta a me. Mica sono riuscita a conservarla che mo’ c’ho davvero bisogno veramente di tirarmi un po’ su che mi sento un po’ così. (La scarta, la mangia tutta. Si lecca le labbra, si passa una mano davanti alla bocca. Le viene su l’aria nello stomaco, in una sorta di rutto e singhiozzo. Si alza per prendere la candela). Padre nostro. Io ti continuo a pregare a te. (Pausa). Che magari pure a me mi ascolti un poco. (Pausa). Mica tanto voglio io. Un poco. (Pausa). Padre nostro. Che te sei nei cieli. (Torna a sedersi). Padre. Sia santificato il tuo nome. Padre. Padre nostro. E rimetti a noi i nostri debiti. Padre. (Soffia sulla candela spegnendola. Buio).

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Damiana Guerra sceglie la forma del monologo teatrale per parlare della crisi economica globale,

che dura ormai da anni, e delle persone che la subiscono, sia nella carne che nella mente, fino a perdere lucidità (o forse a trovarne una loro, tutta particolare). Nel monologo, l’autrice trova la possibilità di rappresentare al meglio il disagio e la solitudine di chi ha fatto esperienza della crisi economica:

raramente, infatti, chi vive queste difficoltà ha l’opportunità di raccontare in pieno tutto il proprio

malessere. In questo sproloquio rivolto a Padre Pio, il personaggio, che può essere una madre qualunque, finisce per rendere partecipe anche lo spettatore o il lettore delle umiliazioni che ha subito, ossia di quelle difficoltà quotidiane che molti ormai non vogliono ascoltare, perché spesso “si gira la testa

dall’altra parte” pur di non vedere gli effetti della crisi su chi ci sta attorno. In questo senso, il teatro può dare un contributo molto rilevante e specifico perché, portando le storie su un palco, costringe inevitabilmente a vedere.

Damiana Guerra Nasce nel 1981 a Modena. Si avvicina precocemente al mondo della scrittura: a sedici anni vince il suo primo concorso letterario. Studia teatro e nel 2012 mette in scena Germinga, omaggio a Hervé Guibert, scrittore morto a soli 36 anni di Aids e nel 2014 Nella cattiva sorte, liberamente tratto dalla storia della modenese Giulia Galiotto, vittima di femminicidio. Il suo Elefantiasi è stato premiato come miglior corto teatrale al Premio Passione Drammaturgia 2013. 22


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Idoutore

Grove

Grove Matita grassa su carta, 20 Ă— 32 cm

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Il lavoro di Idoutore per DON’T KICK ME OUT, intitolato Grove (“Boschetto”) raffigura una sorta di animale fantastico contraddistinto, però, da parti anatomiche che sono sia zoomorfe che vegetali.

Un monstrum, nel senso etimologico del termine: qualcosa di eccezionale, “da mostrare”, e affine, in questo senso, al miracolum; imperfetto, forse, ma di un’imperfezione che necessita di uno sguardo particolare,

per poterne afferrare la bellezza. Così, ritrovando la bellezza segreta che è racchiusa nei suoi ircocervi fantastici, Idoutore ragiona sulle “dinamiche dell’esclusione” e in qualche modo le sana, nello spazio immaginario della produzione artistica.

Idoutore Nome d’arte di Vania Cozzolino. Idoutore è un pesonaggio che nasce nel 2012 nella stanza da letto di una casa a Rathfarnam, Dublino. Ad oggi ha partecipato a varie collettive e concorsi, ha pubblicato su riviste di settore e ha tenuto una personale a Bologna nel 2011. Solo fogli e pastelli neri. idoutore.wordpress.com 25


Pseudonimo

Diventare grandi è brutto

Nei pressi del mio appartamento c’è il ristorante messicano con il più alto tasso di autostima dell’intera città. La sua insegna luminosa promette cose con una tale prepotenza che, voltate le spalle ad essa, la sensazione residua non è tanto quella di essere stato invitato ad entrare, quanto piuttosto quella di essere un coglione. Fesso, c’è lo sconto del 50% su tutto il menù e tu decidi anche stasera di cenare a casa. Proprio al fine di evitare il corollario di emozioni negative determinate da tale bullismo pubblicitario, ho evitato per parecchio tempo di gironzolare nei paraggi di questa attività commerciale: ecco perché ci ho messo due anni a scovare il campetto comunale ad essa attiguo. Due lunghi anni sprecati a palleggiare privatamente in corridoio e in salotto, a schivare arredamenti e a distruggere lampade a piantana, mentre avrei potuto mostrare ad un numero imprecisato di passanti questa mia singolare forma di autismo: mi piace giocare a pallone da solo. È un venerdì pomeriggio di maggio, anche qui in Germania c’è nell’aria quella speranza propria della stagione primaverile: la sentimentale quanto fallace sensazione di non dover mai più fare cose spiacevoli, tipo separare il vetro dalla plastica o organizzare una festa a sorpresa di compleanno. Indosso dei pantaloncini verde militare e un addome in sovrappeso, ho appena varcato la soglia del campetto comunale per la prima volta e comincio a sgambettare con entusiasmo giovanile. Parto con il metodico riscaldamento: un po’ di stretching preliminare, cinque giri di campo palla al piede, di nuovo un accenno di stretching, poi le cose serie. Primo tiro in porta: violenta sassata di collo sinistro che sfiora l’incrocio dei pali. Secondo tiro in porta: pallone perso per sempre. Adidas, 19,90 euro. Inghiottito dalle conifere oltre la rete di recinzione. Dice che la felicità dura poco, ma a questo punto forse è arrivato il momento di fare dei calcoli più precisi: quantificare matematicamente la prontezza con cui le leggi fisiche si oppongono alla nostra personalità, potrebbe esserci utile tutte quelle volte in cui pensiamo a torto che la settimana prossima sarà fantastica. Sulla via del ritorno a casa, manco a dirlo, grande malinconia; mi metto perciò alla ricerca di un antidoto che possa consentirmi di superare questo lutto istantaneo, ma per un bel po’ non riesco a trovarne alcuno. In effetti nel corso di questi millenni, gli scienziati hanno lavorato sodo per darci la possibilità di beccarci un virus mentre guardiamo un film in streaming, come del resto gli ingegneri hanno passato ore e ore a rimuginare coefficienti aerodinamici errati per farci oggi cappottare in curva con una Smart, ma ci fosse stato un solo luminare della tecnica in grado di elaborare un progetto definitivo per far fronte alle scomparse premature. Niente, nessun rimedio cazzuto contro la morte. La soluzione al problema filosofico essenziale pare essere ancor oggi, infatti, un palliativo: il rimpiazzo istantaneo dell’oggetto amato. Che tutto sommato poi non è manco una cattiva idea. Mi dirigo subito perciò verso il centro commerciale sullo stradone, cerco il primo negozio di articoli sportivi e compro un altro pallone. Stavolta della Nike però, tutto colorato. Ecco a cosa servono le multinazionali: a rifarsi un’esistenza variopinta in meno di ventiquattr’ore. Infatti al campetto ci torno il mattino successivo che manco sono le nove. Non è che non ho una vita: ce l’ho, ma è noiosa, talmente noiosa che talvolta mi viene voglia di mettere sotto una vecchietta al solo scopo di generare un evento di cronaca in qualche modo memorabile. A parte tutto però, giocare a pallone da solo mi piace molto; e questo l’ho già detto. 26


Varco dunque la soglia del campetto per la seconda volta e comincio a sgambettare con entusiasmo giovanile. Parto con il metodico riscaldamento: un po’ di stretching preliminare, cinque giri di campo palla al piede, di nuovo un accenno di stretching, poi le cose serie. Stavolta sono in formissima: tra palleggi, tiri al volo, dribbling ai danni di nemici invisibili e ricercatezze tecniche, azzecco pure tre insufficienze respiratorie acrobatiche. Una in particolare suscita l’ammirazione di una scolaresca che nel frattempo ha invaso silenziosamente il campo. Bambini tedeschi: materiale organico difficile da maneggiare, per quanto mi riguarda almeno. Non sono in grado di relazionarmi con maggiorenni connazionali, figuriamoci cosa può significare per me comunicare con delle creature che, oltre ad avere un sistema di pensiero totalmente differente dal mio, lo traducono pure in un’altra lingua. Scappare subito, non c’è dubbio. Solo che bisogna farlo nel modo più discreto possibile. Non posso mica prendere il pallone, mettermelo sottobraccio e andarmene così, di punto in bianco, come se il terreno di gioco fosse stato appena invaso da una calamità biblica. Che poi in effetti, avessi potuto scegliere, avrei preferito una piaga d’Egitto qualsiasi a questa mandria di personalità immature. Decido perciò di ridurre l’enfasi calcistica in modo graduale. Due palleggi mosci qui, una piroetta flemmatica lì, un paio di tiri in porta demotivati là e soprattutto: frequenti sguardi all’orologio per lasciar intendere che a breve dovrò presenziare la riunione sul nuovo piano marketing della mia azienda multiservizi. I bambini mica so’ scemi; non se la bevono e mi circondano. Finisce che la mia fragilità di spirito ha la meglio e dunque faccio la prima cazzata che mi viene in mente: passare la palla ad un fanciullo a caso. Mi ritrovo così in una di quelle situazioni dalla durata temporale indefinita dalle quali non c’è modo di scappare e ove tocca solo attendere che le cose peggiorino da sé. Io e i bambini ci scambiamo in modo uniforme e illimitato dei fraseggi: io passo la palla ad uno e lui la ripassa a me, poi io la ripasso ad un altro e l’altro la ripassa a me. Queste dinamiche. Se ci fosse Dante Alighieri con un Moleskine a portata di mano, di sicuro prenderebbe appunti per correggere alcune parti del Purgatorio. La verità è che mi sono già rotto il cazzo al dodicesimo secondo del primo tempo, ma figuriamoci se, in seno a una cultura occidentale così accorta nel tutelare le esigenze emotive dell’infanzia, posso permettermi di manifestare il mio giustificabile dissenso. Rendiamoci conto: in questa società esistono cortei fascisti autorizzati, mentre io non posso esprimere pubblicamente il mio scazzo nel giocare a calcio con dei marmocchi. Fortuna che ad un certo punto arriva l’insegnante a indiziarmi di infondata pedofilia e a mostrarmi un cartello sulla recinzione che non avevo mica visto. C’è scritto: VIETATO L’ACCESSO AI MAGGIORI DI ANNI 18 Ragazzi, già di per sé essere maggiorenni fa schifo, ma a quanto pare essere maggiorenni in un mondo in cui esistono anche minorenni, è pure peggio. Ora, capivo negli anni ottanta il divieto di essere un bambino dentro un cinema porno, ma a distanza di trent’anni non 27


riesco proprio a comprendere, invece, questo proibirmi di essere un adulto dentro una superficie comunale. Non solo millenni e millenni fa sono stato espulso dall’Eden per via di un frutto inappetibile, ma oggi mi tocca anche essere definitivamente espulso dalla giovinezza per via di una delibera municipale. Per carità, non vedevo l’ora di andarmene; ma non è bello sapere che le istituzioni complottano affinché io dedichi il mio tempo a cose più attinenti alla mia età anagrafica, tipo l’infiammazione al nervo sciatico. Mentre prendo il pallone per abbandonare il terreno di gioco, quasi a sigillo di questa vicenda occidentale, la maestra mi farfuglia ancora dell’indistinto biasimo verbale: io però non riesco a risponderle altro che dei gravi errori grammaticali e si sa quanto questa categoria di sbagli venga poco apprezzata da questa categoria di individui. Alza perciò ancora di più la voce e la accompagna ad un gesto che tutt’oggi la mimica internazionale stenta a riconoscere come mossa di galateo e ascrive invece alle movenze tipiche della stronzaggine. Ovvio, lo so pure io: un alieno proveniente da un’altra galassia, o forse anche un calamaro gigante proveniente da questa, sarebbe stato di certo più in grado di gestire questa situazione, rispetto al sottoscritto. Ma palleggi alla mano, adesso almeno so con certezza che la nostalgia della fanciullezza non è stata inventata a caso.

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Si può raccontare la nostalgia dell’infanzia, o l’emigrazione in Germania, ricorrendo alla leggerezza e all’umorismo? Nel testo di Pseudonimo, tutto ciò sembra possibile. In un’alternanza esilarante tra

il proprio sguardo e quello altrui, tra un’acrobazia e un’insufficienza respiratoria, Pseudonimo ci regala

un bozzetto di vita quotidiana che è anche un prisma attraverso cui l’autore riesce a illuminare alcuni temi importanti della nostra contemporaneità. Sono molte, infatti, le osservazioni argute che si infilano nelle

Foto: Paolo Lafratta

pieghe di questo testo, invitando – con un sorriso – alla riflessione.

Pseudonimo Nome d’arte di Pietro Romeo, nato a Catania nel 1979, ha vissuto a Trapani, Bologna, Roma, Brno. Da tre anni di stanza a Berlino, è attualmente redattore del quotidiano online Il Mitte e insegnante di scrittura umoristica presso l’associazione culturale italo-berlinese Le balene possono volare. Già collaboratore di riviste su abbonamento (Progress, Progress Viaggi, All about Italy), webzine (Bazarweb, Fuoribusta), riviste settoriali indipendenti (Fermento Birra Magazine, Cinemabendato, Wundergammer), cartacei satirici (Mamma) e testate nazionali (Il Fatto Quotidiano), nel 2009 è stato finalista del Premio Solinas per la sezione Storie per il cinema. Da sempre appassionato di costume, fenomeni sociali e letteratura umoristica, dice di non apprezzare particolarmente gli pseudonimi. 29


Adriana Napolitano

Inadequacy

Inadequacy Autoritratto, realizzato con scenografia in carta in scala reale

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Nella ricerca artistica di Adriana Napolitano, la fotografia ritrattistica dialoga con il disegno,

creando immagini dal grande impatto visuale. L’indagine è spesso volta a esplorare la connessione delle immagini coi moderni miti della attuale cultura pop (suoi i ritratti di Selvaggia Lucarelli e Chef Rubio, per fare un esempio).

Coerentemente con il tema dell’esclusione messo a fuoco dal nostro progetto, Adriana Napolitano

ha creato in esclusiva per DON’T KICK ME OUT una delle sue opere in paperwork, intitolata Inadequacy. Nell’immagine, l’artista si raffigura ironicamente esclusa dai ricchi premi raffigurati sulla destra;

anzi, è proprio in punizione, con tanto di cappello a orecchie d’asino, come si usava nelle scuole d’altri tempi. L’immagine dell’esclusione (ma anche quella della premialità, con le sue corone d’alloro, il tocco, le coppe polverose) non si limita a essere l’occasione per una polemica che è relativamente superata, o comunque

ormai “di retroguardia”, perché talvolta rischia di diventare una scusante, come pure le annose discussioni sull’inclusione o meno del design nel novero delle arti. Centrale è invece, come in altre figurazioni

dell’artista, la riflessione – pur sempre ironica – sulle emozioni e sensazioni personali, colte con un sorriso ma anche con una grande finezza, creando un testo visivo in cui lo spettatore si può, con umorismo, riconoscere e immedesimare.

 Adriana Napolitano Nasce a Matera nel 1984. Ora vive e lavora a Berlino, dove si occupa di fotografia e set design. Ultimamente il suo lavoro è incentrato sull’uso della carta, con cui realizza scenografie e costumi in scala reale. Ha collaborato, tra gli altri, con Vanity Fair, Diesel e History Channel. www.adriananapolitano.com 31


Intervista a cura di Lorenzo Barberis Il progetto DKMO nasce per riflettere sulla difficile situazione dei creativi in Italia. Qual è la tua opinione al proposito?

La tua arte è molto bella anche perché è molto ironica, molto pop, molto fumettistica… questo ha mai creato dei problemi di riconoscimento e accettazione?

Non credo di essere la persona più adatta a parlarne in quanto non vivo più in Italia da circa tre anni. Tuttavia, credo che la situazione dei creativi in Italia sia complicata tanto quanto lo è la situazione in generale. Sicuramente ci sono grandi difficoltà (a volte maggiori che in altri posti) nel veder riconosciuto il proprio lavoro, nel far sì che sia considerato tale. Una delle cose che più mi spaventano di tutto ciò, però, è che a lungo andare questa possa diventare una scusa, una condizione in cui è più facile arrendersi o lasciarsi andare.

Forse, può essere. A molti potrebbe sembrare un gioco, in effetti. Penso anche però che non sia una cosa necessariamente negativa, vista da questa prospettiva. In fondo io faccio queste cose perché mi rendono felice (il più delle volte) e spero sempre che riescano a strappare un sorriso a qualcuno. Se poi dovrò spiegargli che si tratta di lavoro lo farò, ma intanto un sorrisetto è già una reazione che, per me, significa che sono riuscita a comunicare come volevo.

DMKO ragiona sulle “logiche dell’esclusione” a vari livelli. Tu lavori anche col design, alcune tue opere sono state usate come pubblicità: sono ormai accettate come “forma d’arte” oppure no?

In diverse tue opere, c’è una riflessione – pur giocosa e ironica – sulle emozioni negative, sul pianto, sulla rabbia… C’entra anche questo col tema dell’”esclusione” (in senso lato) o ha altre origini e motivazioni?

Penso di sì. O meglio, accettate come forma d’arte da chi? Se devo essere sincera non mi sono mai posta la domanda, anche perché comunque non credo che la risposta, positiva o negativa che fosse, avrebbe influenzato il mio modo di lavorare. Oltretutto, come vedi, in quello che faccio non giro attorno a grandi interrogativi, e non fingo di farlo. Cerco sempre di prendere spunto da quelle che sono per me cose semplici e volendo anche banali, come un mal di testa o la tristezza del rimanere in casa da soli. Con questo non intendo dire che l’arte (o il design, la grafica, etc.) debba avere questo tipo di approccio alle cose, ma solo che si tratta del mio. Forse, in realtà, sono così impegnata a gestire le mie nevrosi quotidiane da non avere tempo di pormi ulteriori domande di questo tipo!

La verità è che sono un po’ nevrotica e ho bisogno in qualche modo di esorcizzare e deridere le mie emozioni (negative o positive che siano… tanto, equilibrate non lo sono mai!). Ritrovo sicuramente il tema dell’esclusione nella sensazione di inadeguatezza perenne che mi accompagna da sempre e che ho cercato di riprodurre nella foto che ho fatto per voi.

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Per concludere, molte tue opere d’arte sono autoritratti, come quello che hai pensato anche per DKMO. Come nasce questa scelta di essere spesso protagonista dei tuoi lavori? Per due motivi. Il primo, quello più valido e più vero, è che, spesso,


trattandosi di raffigurazioni di emozioni, sensazioni, caratteristiche o addirittura a volte “battute” che fanno parte della mia persona, penso che nessuno meglio di me potrebbe dargli un volto. Forse sarei anche un po’ gelosa se dovessi metterci qualcuno che non sono io. Certo, se dovessi ritrarre il concetto di bellezza eterea, non farei un autoritratto. Scelgo me nella misura in cui il mio modo di essere è funzionale al messaggio di quello che sto fotografando, creando o immaginando. In realtà, poi, cerco di ragionare così anche per i ritratti degli altri. Il secondo motivo, quello più stupido, è che a volte ho delle idee improvvise e voglio realizzarle immediatamente, prima che mi passi l’entusiasmo e la pigrizia mi assalga.

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Michele Ortore

L’orgoglio dell’insegnante

Ho deciso di restare qui, quando il primo verso poteva averne undici, ma non sarebbe bastato. Ho deciso di restare qui quando dietro i vetri della finestra ho visto Paolo VI in un poster camminare su per una parete, bianco su bianco la papalina appesa in cucina; col martello a curare la distanza del chiodo dal punto in cui fissa meglio: è un signore di cinquant’anni e decisamente un déjà vu. Ma affacciarmi e vedere un Paolo VI gigante è così swatch senza lancette che ho deciso di restare qui. Pigmalione, Pigmalione, il tuo complesso mi fa fesso, debole, e maschio. Ma se avessi ali per contar le stelle resterei qui, ad insegnare debolezze a cristianare con matite al sole la scrittura dei ragazzi, che ancora si cancella e sbava e come in un lago chiuso montano quando l’argine si ammolla l’acqua casca e raddoppia i raggi e non prevede neanche Dio su quale fianco la montagna si legherà quella cinta di cielo, così mi basta ascoltare il pregiudizio radiazione a fondo cosmico dell’io stringerlo fra indice e pollice esercitando l’arte classica della schicchera: la vostra scrittura è pietra viva dei giorni che s’infuoca o spezza o disprezza e costruisce senza matite né penne né punte d’ingegno il vuoto quotidiano della vita in cui esiste la gioia. La gioia che esiste. La scrittura è questo credere, questo decidere di stare qui.

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Il titolo della poesia di Michele Ortore ci mette di fronte all’«orgoglio dell’insegnante», una delle ultime armi psicologiche rimaste al professore per affrontare il «vuoto quotidiano» – amplificato da una scuola che sempre più raramente sa essere palestra per la mente e per la vita – e scoprire che anche lì «esiste

la gioia». Il titolo, infatti, non esaurisce le potenzialità del testo: la poesia non si limita a snocciolare

un’aneddotica scolastica spicciola, invitando piuttosto a riflettere sull’insegnamento come trasmissione di una capacità di scrittura che non è funzionale soltanto all’apprendimento, ma anche a una possibile

rielaborazione dell’esperienza di ognuno. In fondo, in piena sintonia con il progetto DON’T KICK ME OUT, la scrittura stessa «è questo credere, / questo decidere di stare qui».

Michele Ortore Nasce a San Benedetto del Tronto nel 1987. Frequenta un dottorato in Storia della lingua italiana all’Università per Stranieri di Siena. Le sue poesie sono apparse nelle antologie di premi nazionali, tra cui Poesia di strada e Il lago verde, e su diverse riviste e blog letterari. Con la plaquette Corde nel vuoto è stato finalista del concorso Opera Prima di Poesia 2.0. Nel duo Eccessivamente lirici, insieme al pianista Gianluca Angelici, legge i suoi testi. Ha pubblicato la monografia La lingua della divulgazione astronomica oggi (Fabrizio Serra, 2014) e la raccolta di poesie Buonanotte occhi di Elsa (Vydia, 2014). 35


Fred Cavermed

La valigia di cartone

Questa è la cartolina che la zia di mio padre, Giovannina, inviò da Genova alla sua famiglia il giorno precedente il suo imbarco per l’Argentina. Era il 1951 e Giovannina avrebbe viaggiato sul piroscafo con due dei suoi tre figli (la terza sarebbe nata nel Nuovo Continente) prima di ritrovare suo marito, Francesco, con il quale si era sposata qualche anno prima. Penso che avessero trascorso, fino a quel momento, la maggior parte del loro matrimonio separati dall’Oceano. Uno dei loro figli si chiama Giovanni, proprio come mio padre e tanti altri dei loro cugini. Poi, senza che ci fosse nessun nome da tramandare, Giovanni e Giovanni hanno dato ai loro figli lo stesso nome, puramente per caso. Così, oggi ho un cugino di secondo grado dall’altra parte dell’Oceano che si chiama come me e che tifa Boca Juniors. È stata mia nonna a mostrarmi questa cartolina, un giorno in cui avevamo aperto insieme una vecchia scatola di scarpe sotterrata sotto dei bei vestiti ormai inutilizzati: foto della sua famiglia, del suo defunto marito, altre inviate per posta dall’Argentina, un vecchio ritaglio di giornale con una notizia dell’immediato dopoguerra di un padre e una figlia colti alla sprovvista da un temporale durante una giornata di mietitura e morti per folgorazione. Non è un album di famiglia, sono frammenti di ricordi e di vita sparsi su un letto, di fronte a occhi che si sforzano di ricucire ogni toppa. «Noi inparchiamo domani alle ore 13.30». Ho solo questa frase per poterla immaginare, zia Giovannina, in quel momento preciso, mentre scriveva sul dorso della cartolina dopo essersi accertata della partenza della nave. A partire da queste poche parole devo immaginare tutto il resto: la sua gonna, probabilmente verde, di un verde scuro, e un soprabito di panno grezzo e umile ma sufficientemente caldo per i tepori di aprile. Un abbigliamento comunque curato, perché un viaggio del genere imponeva una certa tenuta. E devo immaginare anche i figli, dei bambini, che dovevano guardarsi intorno completamente esterrefatti girandosi verso i camalli, verso il porto, verso le navi, sotto l’occhio vigile della madre che continuava a scrivere e a fare errori d’ortografia. «Un francobollo per piacere», disse al tabaccaio, sforzandosi di parlare italiano correttamente e con un tono insieme timido e diffidente, mentre la sua mano impugnava già la penna smettendo di tremare: un tratto sicuro, netto, fermo, per tranquillizzare i familiari e dire di salutare tutti, con un pensiero particolare per la sorella sposata da 36


poco. Ma quella frase, noi inparchiamo domani, laconica, riduceva tutti i commenti all’indicazione dell’ora. Oltre i numeri, niente, solo la vastità inquietante di quell’Oceano d’olio. I familiari avrebbero ricevuto quella cartolina giorni e giorni più tardi, quando il piroscafo si sarebbe trovato già oltre Gibilterra e sarebbe stato ormai troppo tardi per condividere la paura della giovane viaggiatrice. Una volta imbucata la cartolina, non restava a Giovannina che prendere per mano i bambini e dirigerli verso la stanza affittata per procura a degli speculatori immobiliari che facevano fortuna sulle spalle degli emigranti. Si allontanavano così da quel mondo portuale agitato e rumoroso, verso il quale il piccolo Giovanni continuava a girarsi costantemente, aprendo gli occhi grandi e tondi, profondi come l’Oceano e pieni di curiosità. Arrivati nella stanza, la madre si mise ad aprire le valigie, a sistemare qualche vestito, a mantenere pulite quelle poche cose della sua vecchia vita che le restavano. La valigia, erano stati a comprarla al paese grande e l’avevano pagata abbastanza cara: ci voleva un buon materiale per affrontare quel lungo viaggio e Francesco, dall’Argentina, aveva detto che ci voleva qualcosa di resistente. Ma poi si resero conto che una valigia non bastava e comprarono nella fretta altre due valigette, piccole, di cartone, così leggere che anche i bambini potevano portarle, rendendosi utili. Con tre valigie e dei cuori appesantiti, il giorno dopo s’imbarcarono e, dal ponte, salutavano, salutavano a terra anche se non c’era nessuno a sventolare un fazzoletto per loro, salutavano la terra perché non sapevano se l’avrebbero più vista, e come sarebbe diventata, e cosa sarebbero diventati loro... Arrivederci, gridavano, arrivederci, ma i suoni si ricomponevano nell’aria e articolavano un addio lungo e malinconico. Provo ad immaginarla così, zia Giovannina. E mi ritrovo a mobilitare un immaginario che gravita intorno all’emigrazione italiana, con un suo lessico. È un immaginario che si è costituito nella storia attraverso molte narrazioni artistiche e storiografiche e che si è trasmesso dal Novecento a oggi, che sorge immediatamente nella nostra mente al solo pronunciare la parola emigrazione. È un vocabolario fatto prima di tutto di nomi di oggetti. La valigia, a volte di cartone. Uno spazio chiuso adibito a trasportare cose, il cui senso non è dato solo dal loro valore d’uso ma soprattutto dal loro valore affettivo, dalla loro carica di vita: la valigia è il simbolo della vita trascorsa, della quale si sceglie cosa portare; è il simbolo del viaggio, della sua lunghezza e della sua difficoltà; è un elemento comune per tutto un popolo che ha viaggiato per miglia e miglia e il cui solo attaccamento a delle radici è questa valigia: siamo tutti in viaggio, senza più la stessa terra sotto i piedi a ricordarci chi siamo, siamo tutti in viaggio senza nient’altro che questa valigia a darci un’idea della comunità che incarniamo. Come si prepara una valigia per un viaggio senza ritorno? Il piroscafo. Molto più di un mezzo di trasporto, è un altro simbolo del viaggio. Solo in mezzo all’Oceano, simbolo della solitudine dell’emigrante; e al tempo stesso affollato, ambiente collettivo e confuso, carico dei lavoratori che lasciano le loro terre per diventare parte della massa di operai dell’America. Un carico di manodopera ammassata senza alcuna nozione dello spazio. Il piroscafo permette di raggiungere il Nuovo Mondo nel giro di qualche settimana, un tempo breve tenendo conto della distanza e dei mezzi dell’epoca; un tempo comunque lungo, quando non si è mai stati sul mare né confinati in un ambiente così piccolo. Il piroscafo, il solco che scava nelle onde è il simbolo della lunghezza dell’esilio. La lettera. Il mezzo attraverso il quale l’emigrato prende la parola. Stavolta è lui stesso che si mette in scena e si rappresenta. Con un italiano scritto grammaticalmente difettoso. Ma questo non significa che la sua scrittura sia priva di strategie: l’emigrante sceglie il tono e seleziona gli argomenti immaginando il viso del suo lettore, studiando le sue reazioni, speculando sulle sue emozioni. Rassicurare o addirittura entusiasmare, e poi lasciar trasparire – ma in che misura? – la nostalgia. La valigia, il piroscafo e la lettera (ma la lista è aperta) costituiscono un inventario di base per chiunque voglia cimentarsi a dipingere un quadro sull’emigrazione italiana dall’Ottocento al Dopoguerra. E i colori dominanti sarebbero, oltre al 37


blu dell’Oceano e al nero del piroscafo, diverse tonalità di marrone: da quello della valigia di cuoio o di cartone a quello più giallognolo della carta sbiadita. Spesso versioni tristi e spente di colori vivaci, queste tre parole condividono la connotazione sentimentale che conferisce loro del senso: la nostalgia. Questa è la parola centrale del vocabolario italiano dell’emigrazione. Mia nonna non ha la mia stessa concezione dello spazio. Qualche anno fa si era lamentata perché la sua famiglia era divisa e sparsa nel mondo: io in Francia, mia sorella ad Arezzo, i cugini in Argentina e mia cugina a Vasto. Quasi non fa la differenza tra chi vive dall’altra parte dell’oceano e chi nella regione a fianco: è già troppo lontano. Difficilmente, però, qualcun altro potrebbe assimilare persone come me, giovane espatriato, agli emigrati di una volta. Io stesso sento di colpo un certo senso del pudore che mi impedisce di definirmi emigrato. E questo non solo perché le condizioni del mio espatrio sono profondamente differenti da quelle di zia Giovannina, ma anche perché l’inventario dell’emigrazione italiana non mi appartiene. D’altra parte il nome che si dà comunemente a quella mia e dei numerosi giovani italiani non è emigrazione, ma fuga dei cervelli. Qual è il vocabolario della fuga dei cervelli, dell’emigrazione italiana contemporanea? A questa domanda non so rispondere, prima di tutto perché ci sono dentro. E ovviamente anche perché il fenomeno non è ancora stato digerito dalla Storia, non è stato filtrato e fissato. Di certo, però, gli oggetti di oggi sono profondamente diversi, anche se il loro ruolo può essere simile. Il mondo si è rimpicciolito ancor di più, le comunicazioni più veloci, la globalizzazione... Il piroscafo è stato rimpiazzato da voli low cost molto meno romantici, la parola fissa delle lettere da quella liquida di Skype, le valigie (il cui peso e dimensioni sono imposti dalle compagnie aeree) non sono più i contenitori della vecchia vita, se non nella loro versione più avventurosa di zaino da trekking. L’emigrazione contemporanea appare meno fissa, meno definitiva, una fuga in avanti piuttosto che un abbandono. Mobile, instabile, liquida, fatta di andate e ritorni. E la possibilità di mantenere un contatto costante, soprattutto grazie ai mezzi di comunicazione, con la propria famiglia e con il proprio paese riduce sensibilmente la connotazione sentimentale dell’emigrazione. Cioè a farne le spese è soprattutto la connotazione sentimentale che era legata all’emigrazione, quella della nostalgia. Non è più questo il sentimento che si associa all’espatrio. Ma quale? Last call for passenger Hutchingson. Passenger Hutchingson, please proceed urgently to gate B34. Gli altoparlanti risuonavano attraverso il duty free fino al ritiro bagagli chiamando un passeggero anglofono smarrito probabilmente tra i liquori e le cartucce di Marlboro, mentre una hostess e un pilota sfilavano veloci in senso contrario. «Et alors le concours de ton fils, ça a été?». Il ritiro bagagli si nascondeva dietro una porta di vetro e un tornello. Quando Fabio entrò fu accecato dal riflesso bianco dei neon sui tappeti lucidi che giravano come un carillon. Aspettò il suo zaino, lo prese, se lo mise in spalla e se ne andò, senza guardarsi indietro. Quando arrivò a casa prese un caffè con la sua coinquilina e inviò un’email ai suoi genitori per dirgli che il viaggio è andato bene, sono arrivato. buona notte. La sua posta elettronica era piena e segnò gli impegni per i giorni seguenti, il che gli ricordò che aveva un lavoro e che era stressato. «Hai fatto bene Fabio, hai fatto bene. Te ne sei andato al momento giusto, io anche sto pensando, sto seriamente pensando di andare via dall’Italia. Mi considero già con un piede sull’aereo». Non ce la fa più Massimo, senza lavoro sta per impazzire. Durante le vacanze appena finite, varie novità: la ragazza di Giacomo è andata in depressione e ha cominciato a prendere degli psicofarmaci, Paoletto continua a farsi le canne sul balcone di casa quando i genitori sono andati a letto, Sabrina ha trovato lavoro come interinale fino al mese prossimo ed è contenta perché ha finalmente i soldi per stampare le sue foto. E provi rancore, Fabio, per questo paese che non ha saputo dare un futuro alla tua generazione, provi rabbia per i giovani in de38


pressione, per i crolli psicologici, per le coppie che si frantumano, per queste vite sconclusionate che i tuoi amici vivono. Ti lavi la faccia con l’acqua fredda cercando di strofinare bene gli occhi e le labbra e sussurrando con la gola che la odi, l’Italia. La odi e ti confronti ogni giorno con lei, con l’assenza delle persone che hai lasciato, come ha fatto anche Giovanni Garofalo detto Nino, il protagonista del film Pane e cioccolata di Franco Brusati (1974). Nino è un emigrato laziale in Svizzera, dove è cameriere in prova in un ristorante. È in competizione con un altro immigrato, turco, per lo stesso posto. Se lo prendono, è a cavallo. Se no perde, oltre al lavoro, il permesso di soggiorno e se ne torna in Italia. Giovanni sembra essere l’immigrato tipico: fa un lavoro pagato male, il padrone lo tiene sotto pressione, ha difficoltà a trovare un alloggio dignitoso, le sue abitudini sono inappropriate al vivere comune del paese che lo riceve e tiene sempre con sé la foto di sua moglie e dei figli, che aspettano le sue rimesse. Portare a buon fine il suo progetto di emigrazione in Svizzera è una questione di sopravvivenza economica, ma anche di orgoglio personale, soprattutto nei confronti di suo cognato, che non ha mai scommesso una lira su di lui. Tuttavia, Giovanni non è solo un emigrato, ma è anche l’emigrazione. Brusati mette in scena un personaggio che non è tanto un individuo incaricato di illustrare allo spettatore com’era dura la vita degli emigrati italiani dell’epoca, bensì che incarna tutta l’esperienza migratoria, con le sue dinamiche sociali, psicologiche, affettive, politiche. Il percorso di Giovanni è accidentato. Anzi, fallimentare: perde il lavoro, quindi i documenti, perde anche il contatto con una donna greca in esilio che gli preferisce un poliziotto svizzero. Peggio andrà per lui, più tenterà di passare dall’altra parte, dalla parte dei non immigrati, insomma di «integrarsi» (parola, integrazione, di cui non si mette mai in evidenza la violenza). Giovanni è in cerca di riconoscimento da parte della popolazione che lo accoglie e questa ricerca assume tratti grotteschi: parla solo in tedesco (maccheronico), si tinge i capelli di giallo, tenta di somigliare il più possibile agli svizzeri. Ma qualcosa lo riporta costantemente alla realtà. Non si tratta di interculturalità, di identità, di multiculturalismi. Giovanni sta semplicemente mettendo in pratica delle strategie per restare a galla. Senza riuscirci. Abbattuto, abbandona le sue speranze di cambiamento e di miglioramento, tornando in qualche modo alle origini: cerca aiuto presso un amico italiano muratore che vive nei prefabbricati forniti dall’impresa edile con altre decine di immigrati italiani. Con loro, Giovanni vive finalmente un momento festivo e carnevalesco: si travestono da donne e cantano, una chitarra sotto le dita, la loro astinenza sessuale, le dure condizioni di vita e di lavoro, le discriminazioni subite. Ma la festa non dura a lungo. Il più giovane comincia a piangere, si ribella contro l’atteggiamento dei compatrioti che accettano le difficoltà in modo fatalista e le alleggeriscono con una cantata. Poi emana un grido: bisogna cambiarle le cose, non cantarci sopra! Tutti lo criticano per aver rovinato la festa, tranne Giovanni che, con le guance truccate, gli dà ragione. L’immigrato triste che ritorna all’ovile e si conforta in un sentimento di comune nostalgia ora cambia atteggiamento e adotta uno sguardo critico e duro sulla realtà e sull’Italia: Giovanni non è nostalgico, è incazzato. Per la condizione di povertà a cui è ridotto, contro una cultura fatalista che ringrazia la madonna per il pane quotidiano e tira a campare subendo continue umiliazioni e accettando sempre il peggio (chiamandolo meno peggio). «Mbè, te che dici, che domenica je la famo o non je la famo?». «Io dico che non succede, ma se succede...». Due uomini, tutti e due partiti per i cinquanta. Sui loro colli s’accovacciano avviliti i colletti bianchi a righe verdognole delle rispettive camicie. Accento romano, ceto medio, impiegati probabilmente. Dirigenti no, ma abbastanza a loro agio nei corridoi degli uffici per prendere in giro il superiore laziale davanti alla macchinetta del caffè. Il resto delle loro camicie era coperto da dei pullover monocromi e sgar39


gianti sui quali si agitava un golfista professionista. Nasi, uno appuntito l’altro squadrato, uno troppo fino l’altro troppo grosso per permettere agli occhiali di appoggiarsi come si deve. Parlavano più o meno di politica, impassibili all’eccitazione delle proli in modalità aereo, concentrate soprattutto sul tablet e abituate ad andare in vacanza in una capitale europea durante i ponti. Tanto che in quel preciso istante non sapevano dove stessero andando di preciso. Berlino? Parigi? Londra? «Profumi, gioielli, sigarette elettroniche, gadgets...» Il vucumprà gialloblù passò nel corridoietto nel fastidio generale, mentre Fabio provava a leggere Topolino lottando contro la voglia di origliare i discorsi di quei due uomini postfantozziani o quelli delle loro mogli, lontane un paio di fila e con un occhio sempre sui figli. Poi si girò a guardarli, osservò attentamente il bordo rosso dei loro occhiali, uno stringeva con orgoglio la Repubblica tra le mani credendolo un giornale di sinistra. «Sì, ma vedrai che stavolta je la famo, co’ questo qua je la famo. E se non jela famo, non lo so che succede...». Durante il viaggio li hai ascoltati parlare di tutto e di più e le parole che usavano ti hanno urtato: il problema dell’immigrazione, i terroristi No-Tav, gli islamisti dello Stato islamico, gli impiegati pubblici che non fanno nulla, la corruzione della politica e i parlamentari che che ce li abbiamo a fare?, i treni in ritardo, le quattro stagioni che non esistono più, e poi che le donne sono sempre le stesse, non sono mai cambiate, sono il sangue della nostra vita, il vento dei nostri mulini, e a proposito, le hai viste che bombe nell’ultimo cinepanettone? E intanto li odi, Fabio. Per la loro mediocrità senz’altro. Perché hanno assorbito il pensiero dominante di tutta un’epoca. Senza resistere. Però ti chiedi anche se nell’odiare questi due uomini non stai in realtà esprimendo il sentimento che provi nei confronti di tutto un paese, del paese che hai lasciato. Odiarne due per odiarli tutti. E poi ti chiedo io, Fabio, se quest’odio è giustificato interamente dalle difficoltà sociali dell’Italia che lasci e dalla volgarità della sua classe dirigente oppure se non ti serve anche a giustificare il tuo percorso agli occhi prima di tutto di te stesso, della tua coscienza. Ti chiedo se non è una maniera per dire a te stesso: Guarda come sono diventati brutti, guarda a cosa sono sfuggito, oggi sono un uomo davvero migliore. Ma mi rispondi che tutto ciò non ha importanza e mi dici che in ogni caso tu lo odi, questo paese. L’idea del rancore come sentimento del nuovo immaginario dell’emigrazione italiana è un’ipotesi contestabile: non è detto che sia condiviso e non è detto che non esistesse prima (anzi, il film di Brusati fa pensare appunto il contrario). Tuttavia questa ipotesi apre una prospettiva nuova: quella della voce critica di questi emigrati. Ammetterla, significa ammettere che noi giovani italiani all’estero abbiamo costruito, attraverso il nostro percorso, uno sguardo sull’Italia di oggi, uno sguardo critico. Dar vita a questa voce significa permettere loro di apportare una critica alla società italiana contemporanea, mettendo a frutto le esperienze e il sapere di chi oggi vive esperienze molteplici. Ed è anche un modo per non sparire del tutto, per dire che siamo qui, a provare a lottare al fianco delle energie positive del nostro paese (e non solo del nostro paese...), per liberarlo e migliorarlo.

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La parola emigrazione evoca molte storie e molti significati, spesso impliciti. Si tratta, infatti, di un

fenomeno che mette a tu per tu con i discorsi dominanti della nostra epoca e con le loro connotazioni

ideologiche. Dato che siamo posti di fronte a questa molteplicità e a queste tensioni, è opportuno operare delle distinzioni tra le varie migrazioni, non tanto per classificarle, quanto per evidenziare con maggior precisione le condizioni di ogni persona e gruppo sociale che si trova a emigrare. Come scrive Fred

Cavermed in un altro suo testo, Storia pubblica di un’ascesa sociale (disponibile, come questo testo, sul sito 404: File Not Found), ricordare le condizioni di emigrazione di ognuno vuol dire andare al di là delle espressioni di uso corrente, come «fuga dei cervelli», per tornare a carpirne, in qualche modo,

i significati profondi. In quest’ottica, i recenti flussi migratori di italiani verso l’estero sembrano orientati, in primo luogo, a cercare di sfuggire a una qualche forma di declassamento – un’osservazione che tuttavia non vale per chi, ad esempio, viene da una traiettoria familiare diversa, come l’autore, o per chi prendeva la via dell’emigrazione già un secolo fa, strappato alle terre dai grandi centri industriali.

Fred Cavermed Dalla provincia molisana, attraversa Roma e approda a Marsiglia, in Francia. Si esprime a intervalli irregolari nel suo blog Kitzsch Kebab (kitzschkebab.wordpress.com) e, dalla primavera 2015, nella rubrica Solo Andata sul sito 404 File Not Found, dove partecipa al racconto collettivo della nuova emigrazione italiana, riflettendo sulla sua esperienza di giovane italiano all’estero, contaminando le pratiche della scrittura e provando a dirigere quest’ultima verso l’azione. www.quattrocentoquattro.com 41


Enrica Bovetti

La rassegnazione della valigia pronta

Più di dieci giorni fa, in pieno giugno, mi è venuto il raffreddore. Poi ha iniziato a bruciare la gola. In negozio, avvolta nel mio tailleur nero e camicia bianca (troppo grande, stirata male, già un po’ ingiallita) tossisco senza sosta parlando di cinture abiti taglie e misure con i clienti cinesi. Fuori il caldo è insopportabile, e l’aria condizionata all’interno mi ha stretto la gola con una tenaglia e non la lascia più andare. Da un anno o poco più lavoro nelle boutique del quadrilatero della moda di Milano. Non so fare molto, però parlo cinese. E tanto basta, dato che in Via Montenapoleone oramai è tutto un via vai di turisti e nuovi ricchi cinesi impazziti per il made in Italy e il fashion di cui andiamo tanto orgogliosi. Mi allontano un attimo e mi siedo, le gambe doloranti, su uno sgabello del magazzino buttando giù un po’ di sciroppo per la tosse. Ho un groppo in gola fastidioso, che lo sciroppo non riesce a sciogliere davvero. Allento un po’ il foulard di seta nero e blu che indosso in negozio e che fa parte integrante della divisa, e sbuffo. Penso. Perché a diciotto anni ho deciso di fare armi e bagagli e trasferirmi a Venezia, iscrivermi all’università, trovare un buco in affitto e iniziare la mia nuova vita? Perché mi sono appassionata tanto a una cultura e a una lingua così diverse dalla mia? Perché ho sfogliato migliaia di libri, perché ho consumato centinaia di pagine riempiendole di caratteri cinesi che non riuscivo a fissare nella memoria? Perché me ne sono andata dal mio paese e ho voluto vivere in Cina, in Francia, poi ancora in Cina? Soprattutto, perché, poi, sono tornata qui, in Italia? Tossisco ancora. Lo sciroppo continua a non fare effetto. Un anno e qualche mese fa sentivo, in gola, lo stesso groppo difficile da sciogliere. Seduta sul letto guardavo la valigia fatta di fretta, in cui precipitosamente avevo buttato alla rinfusa un anno di Cina. Dopo aver deciso da un momento all’altro che, basta, devo andarmene, la settimana prossima parto. Dopo averti detto ciao, mi spiace, non voglio più stare con te qui, in Cina, voglio tornare in Italia. Dopo aver prenotato con noncuranza un volo intercontinentale e aver ricevuto un’email di conferma. Dopo aver svuotato l’armadio e averlo buttato nella già citata valigia. Allora sì, mi sono seduta e mi è salito quel groppo in gola. Alla Cina e soprattutto a Kunming, la città che sentivo più mia dopo appena un anno anche più di Venezia, io dovevo tutto. Kunming mi aveva insegnato a cavarmela completamente con le mie forze. Mi aveva dato un lavoro, pagato male, per cui avevo imparato a prendere un autobus affollatissimo di cinesi ogni mattino alle sette. Mi aveva insegnato che un bagno, per essere un bagno, non deve essere necessariamente dotato di un water. Sono sufficienti un buco a terra e un secchione carico d’acqua. Ma soprattutto, mi aveva insegnato che le cose belle della vita, a volte, possono davvero nascere dalle piccole cose. Andare al mercato sotto casa, affondare le mani nei sacchi di riso, comprarlo a manciate e tornare indietro azzannando un 包子 (panino ripieno di carne, solitamente di maiale) fumante. Insegnare qualche parola in inglese a un bambino che ti guarda sognante, immaginando di poter visitare, un giorno, un paese pieno di persone con gli occhi grandi e rotondi. Che alla sera, lungo il fiume, è bellissimo guardare gli anziani che ballano spensierati al suono di una radio vecchia trent’anni, ma che fa ancora il suo dovere. In quel momento, a quarantotto ore dal mio volo di ritorno, stavo lasciando tutto quello che Kunming mi aveva dato. Che forse avrebbe potuto continuare a darmi. Il groppo in gola mi diceva che Kunming, che la Cina, non avevano ancora smesso di insegnarmi a vivere. Forse avevano appena cominciato. 42


Se quel giorno non avessi deciso di comprare quel biglietto aereo per l’Italia, forse sarei ancora là. Forse, ora, sarei sempre pagata male, forse godrei ancora delle piccole gioie della vita, forse non avrei ricominciato a farmi problemi sul mio aspetto estetico e sulla mia linea. Forse parlerei meglio il cinese e capirei ancora meglio la loro cultura e il loro modo di vivere. O, forse, mi sarei trasferita a Shanghai e avrei trovato un lavoro in cui essere italiana e parlare cinese conta qualcosa. Mi sarei trasferita in una città in cui nessuno mi avrebbe giudicato al primo sguardo, dove mi avrebbero fatto un mazzo così, ma mi avrebbero dato la possibilità di poter dimostrare quello che valevo. Il primo giorno in cui entrai nell’agenzia di viaggi di Kunming in cui ho lavorato per qualche mese, ero al settimo cielo. Non stavo iniziando il lavoro della mia vita, ma era il mio primo vero lavoro. L’ufficio era sporco, vecchio, malandato e situato in un palazzone con i muri tutti scrostati e in cui gli impiegati fumavano nei corridoi e per le scale. Il pavimento in cemento grigiastro era sempre tappezzato di mozziconi di sigarette e si sentiva in continuazione un odore pesante di cibo unto portato da casa, che le persone riscaldavano in piccoli forni a microonde, piazzati proprio accanto alle loro scrivanie. Al venerdì la madre del mio capo arrivava puntualmente a mezzogiorno e portava cibo per tutti noi. Piatti succulenti tipici della cucina della provincia dello Yunnan, che spazzolavamo con voracità, facendo sempre i complimenti alla cuoca. Era un bel momento, di convivialità, di amicizia, di scambi. Tante volte mi è capitato di chiedere alla signora delucidazioni sulle ricette, di spiegarle come in Italia cuciniamo la carne e le verdure, di aiutarla a servire. Alla fine del pasto lavavamo le ciotole e le bacchette in un piccolo lavandino sul ballatoio del nostro piano e mettevamo tutto a scolare al tepore del sole. Ora, quando sono le 13,30, timbro il mio cartellino ed esco. Vado in un bar e mi siedo, ordino un panino o una insalata anonima. Spesso mangio da sola e guardo la gente sfrecciare di fianco a me. Non mi guardano. Io non guardo loro. Mastico il mio cibo e butto giù il caffè. Spendo almeno dieci euro. Torno e timbro di nuovo. Sono le 14,30. Buttando tutto il mio anno in Cina in una valigia blu mi ero convinta che stessi facendo la scelta giusta. Perché io sono nata in Italia e non in Cina. Perché tutto quello che ho imparato e che ho amato degli altri paesi in cui ho vissuto, io l’ho immagazzinato nella mia memoria e nella mia esperienza per portare qualcosa al mio paese. Per dare il mio contributo e per far capire a chi non conosce davvero cosa vuol dire sedersi su un cumulo di terra all’alba a guardare le risaie allagate, che tutto, anche il business di borsette firmate, parte dalla conoscenza profonda di un paese e delle sue tradizioni. Che vanno amate, a volte magari odiate, ma sempre rispettate e comprese. E mentre lo sciroppo scivola lentamente nella mia gola, sistemo meglio il foulard attorno al collo e vado a controllare sul dizionario inglese-italiano del mio iPhone come si pronuncia una parola in cinese perché spesso quando la dico ai clienti non la capiscono al primo tentativo. Forse non pronuncio ancora molto bene i toni. Credo che stasera controllerò i costi dei voli per la Cina.

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Enrica Bovetti presenta, con ironia e leggerezza, quello che il sociologo algerino Abdelmalek Sayad definiva come «doppia assenza», individuando nell’esperienza di migrazione uno sradicamento e una

dis-appartenenza che riguarda sia la terra d’origine che quella d’approdo. Senza indulgere nel discorso

narcisistico che a volte circola tra i “cervelli in fuga” o anche, semplicemente, tra gli “italiani all’estero”, l’autrice evidenzia i tratti salienti di questa esperienza, cogliendone l’importanza

anche nei dettagli minimi, nelle risposte fisiche o psico-somatiche e, più in generale, in quello che è il terreno meno frequentato da chi discetta sulle migrazioni contemporanee.

Enrica Bovetti Nasce a Mondovì nel 1988, frequenta la facoltà di Lingue e Culture dell’Asia Orientale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove ha approfondito la conoscenza della lingua, della storia, della letteratura cinese. Ha vissuto prima in Cina, poi a Parigi, dove ha completato i suoi studi e ha raccolto il materiale per la sua tesi specialistica in storia moderna della Cina. Dopo aver passato un altro anno in Cina, si è trasferita per lavoro a Milano. 44


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Stefania Fersini

Untitled / Numero 137 Octobre 2012, pp. 268-269

Untitled / Numero 137 Octobre 2012, pp. 268-269 Olio su tela, 113 × 165 cm

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Le opere di Stefania Fersini sono incentrate sulla riproduzione iperrealistica d’immagini di donne tratte da

riviste di moda, stropicciate e accartocciate; una metafora perfetta anche per ragionare sul kicking out che

si verifica, più in generale, all’interno delle attuali meccaniche sociali. Il progetto, iniziato «a seguito di una brutale crisi identitaria», ha accompagnato il passaggio dell’autrice dal design per lo studio Nucleo con cui

è associata, alla produzione pittorica: «Più conoscevo, e più era difficile creare Nuovo. Anzi no, impossibile». L’uscita dalla crisi creativa nacque tramite la pagina stropicciata come objet trouvé: «Mi ritrovai in mano

una pagina di giornale accartocciata: apparteneva a una rivista che avevo sfogliato in treno qualche ora prima…». Si crea così questa produzione artisica legata al tema del corpo femminile nella moda, con un

contrasto tra la bellezza della modella e la distruzione della sua immagine effimera su carta da giornale. «Sono sempre stata attratta dalla raffigurazione del corpo», afferma l’artista. Dove prevalgono «belle

e giovani donne, vestite di lusso e profumate di sensualità e status», tuttavia, siamo davanti a un «mondo

patinato dell’apparire, raffigurante involucri. Moda come involucro del corpo. Corpo, involucro di vuoto. Come direbbe Valéry, “L’Io è vuoto. Si fa orrore”». Un tema che ritorna anche nelle raffinate immagini che

Foto: URFAUT

l’autrice ci ha proposto per il progetto DON’T KICK ME OUT.

 Stefania Fersini Nata nel 1982, dopo aver studiato Disegno Industriale, diventa parte di Nucleo, un collettivo di designer che ha base a Torino. Le sue opere di design sono state esposte in tutto il mondo: Italia (Fondazione Sandretto Re Rebaudengo), Francia (Istituto italiano di Cultura, Parigi), Belgio (Pierre Bergé & associés, Bruxelles), Germania (Gabrielle Ammann Gallery, Colonia), e nelle più importanti fiere di arte e design: Artissima, Design Miami Basel,

Design Miami, PAD Paris, PAD London. Nel 2012 inizia il suo personale progetto artistico focalizzato sulla pittura. La sua nuova carriera è stata immediatamente notata da importanti figure dell’arte contemporanea come Rebecca Wilson (direttore Saatchi Gallery) per One to Watch, Gavin Delahunty (Head of Exhibitions, TATE Liverpool) e Godfrey Worsdale (direttore BALTIC Centre For Contemporary Art) 47


Intervista a cura di Lorenzo Barberis per il Salon Art Prize (Londra), Luca Beatrice (curatore e critico d’arte) per Fondazione Querini Stampalia. Le sue opere sono state esposte, sia in collettive che personali, a Torino, Verona, Biella, Lucca, Pietrasanta e, all’estero, a New York, San Francisco, Londra, Parigi e Los Angeles. Pubblicata su riviste come Artecritica, PoetsArtists (Chicago) e Avenue Illustrated (Madrid) e in blog di tendenza come Trendland, FFFFOUND!, Trend Hunter e Ignant. www.stefaniafersini.com

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Come abbiamo accennato già in altre interviste, il progetto DKMO nasce come riflessione sull’attuale situazione italiana, caratterizzata – specie nell’ambito delle professioni creative – da una forzata dinamicità verso l’estero anche per via della crisi sistemica incombente. Qual è la tua percezione del fenomeno, riguardo all’ambito dell’arte, rispetto al quale godi di un osservatorio privilegiato? Il fenomeno è in effetti sempre più urgente. Nell’arte come negli altri ambiti culturali, quali cinema, teatro, musica e danza, la situazione è imbarazzante. Non ci sono investimenti da parte delle istituzioni pubbliche, che hanno seri problemi anche solo a continuare a esistere; il discorso vale anche per le realtà più rilevanti come ad esempio Castello di Rivoli e Gam di Torino, che risultano ancora senza un direttore. La programmazione di molti musei non è più dettata da un curatore ma da esigenze economiche (vedi il Macro di Roma). Le situazioni indipendenti dal pubblico, come le fondazioni, investono, ma spesso lo fanno con artisti che hanno avuto la possibilità di percorsi “sicuri” (come studi alla Royal Academy di Londra, ad esempio, o prestigiose residenze a New York). Spesso, quindi, si tratta di privilégiés italiani, che non stanno in Italia, e di artisti stranieri. Le poche situazioni indipendenti – parlo di quelle che hanno resistito – sarebbero le uniche con le quali poter condividere energia, speranza e coraggio, ma che molto spesso non hanno però molti soldi da condividere... Di conseguenza, negli ultimi due anni molti giovani artisti sono partiti per Berlino, Londra, Parigi: alcuni si sono integrati e stabiliti con fortuna, ma la maggior parte sono ritornati indietro con i sogni in tasca al posto dei soldi, e un’esperienza come lavapiatti in più sul CV. Personalmente sono rimasta qui, e ho viaggiato


molto nei posti giusti al momento giusto (Basel, Miami, New York, Berlino, Londra, Parigi, San Francisco e Los Angeles), con la fortuna di essermi guadagnata così un solo show in una fantastica galleria in West Hollywood, Los Angeles, che è stata inaugurata il 12 settembre.

Passando alle tue opere, il collegamento col tema del kicking out è immediato, dato che la tua ricerca principale nasce dalla reinterpretazione di immagini di giornali “scartate”, gettate via, appallottolate. Perché una tale scelta?

Il tuo percorso creativo si è sviluppato partendo dal design, ambito in cui hai operato come membro del collettivo di design Nucleo. Il design stesso continua forse ancora a essere marginalizzato, se non escluso, dall’ambito delle arti tradizionali (come succede ad altri media: fumetto, fotografia, videogame…). Qual è la tua impressione sul tema, data la tua particolare conoscenza sia dell’ambito della pittura che di quello del design?

Ho iniziato questo progetto a seguito di una brutale crisi identitaria. Fino a quattro anni fa, mi sono sempre riconosciuta nella mia creatività, e così ero dagli altri. Ero sempre alla ricerca dell’originalità: per me, creare era disegnare qualcosa che non c’era. Necessario quindi era essere sempre informata su ciò che era “nuovo”: blog, riviste, fiere, gallerie, studi di artisti. Più conoscevo, e più era difficile creare Nuovo. Anzi no, impossibile. Troppo, troppi oggetti, troppe immagini, perché creare ancora? È nato tutto da qui, non sapevo più chi ero, non sapevo più perché “facevo”, e neanche cosa… Non credevo più nel Nuovo. Nella possibilità di farlo, e non trovavo più neanche il motivo di cercarlo. Ma sentivo l’urgenza di Fare. Se non creare, allora copiare. Dovevo cambiare, ridisegnarmi, e così passai dallo schermo alla tela bianca, dal mouse al pennello. Dal progettare all’eseguire… Ma cosa? Il caso mi aiutò. Mi ritrovai in mano una pagina di giornale accartocciata: apparteneva a una rivista che avevo sfogliato in treno qualche ora prima… Lì l’ho visto, lo specchio. «Davanti allo specchio […] mi identifico con me stesso identificandomi a un altro, e mi scopro altro osservando il mio io» (Paul Valéry).

È verissimo: quattro anni fa, quando mi sono avvicinata alla pittura, il mondo del design era ancora totalmente separato da quello dell’Arte. E con Design intendiamo l’Art Design, venduto in un sistema parallelo di gallerie che espongono in circuiti come Design Miami e PAD. C’era l’interesse del Design ad avvicinarsi al mondo dell’Arte, ma assolutamente non il contrario. Le cose stanno cambiando, per non dire che lo sono già. Si vede design a Art Basel, Frieze e lo vedrete anche alla prossima Artissima. Il Design è diventato cool, lo percepisco nella reazione delle persone con cui parlo delle mie scelte, design e pittura. Anche la Pittura, che negli ultimi cinquant’anni sembrava avesse esaurito il suo fascino, è tornata con una forza che non aveva da almeno un secolo. Il mio parere, però, è che ciò che è cool, perseguendo una definizione moderna, non può fare molte stagioni… Saranno l’artigianato, il talento umano e l’esecuzione a lasciare il segno nel prossimo futuro della storia dell’arte.

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Cercavo uno specchio dove trovarmi, e l’ho trovato nel mondo dell’immagine e del consumismo, ovvero là dove nasceva il problema. E queste pieghe distruggevano quella perfezione patinata nella quale non mi riconoscevo, svelavano la superficie, o meglio la sua superficialità, il consumo troppo veloce, lo scarto continuo e necessario. In quello sì, mi rispecchiavo. Questo aspetto kicked out della tua arte appare collimare anche con la scelta tematica di riprendere il tema del corpo femminile nella moda, creando un contrasto tra la bellezza della modella e la distruzione della sua immagine effimera su carta da giornale. Vi è per te una valenza simbolica in questo parallelo? Sono sempre stata attratta dalla raffigurazione del corpo. In fondo, chi non è attratto dallo Specchio? Perché di questo si tratta. Belle e giovani donne, vestite di lusso e profumate di sensualità e status. Tutto quello che vorremmo essere è lì davanti a noi e ci guarda come noi facciamo davanti allo specchio. O almeno questo è quello che il mercato vorrebbe, per farci comprare creme per ringiovanire, pillole per dimagrire, borse e scarpe per apparire. Lavoriamo senza sosta, per poterlo acquisire. Il mondo patinato dell’apparire, raffigurante di involucri. Moda come involucro del corpo. Corpo, involucro di vuoto. Come direbbe Valéry, «L’Io è vuoto. Si fa orrore». Questa è la società nella quale sono cresciuta, la bulimia visiva di Instagram, il tweet tutto in 140 caratteri, il like di Facebook. Non c’è spazio e non c’è tempo per approfondire, lasciandoci solo la superficie. 50

«Je me suis bâti sur une colonne absente»: come scrive Henri Michaux, mi sono costruita su una colonna assente… Me ne accorgo solo ora. Per certi versi, poi, il modo in cui si combinano il tema del “pezzo di carta preso dalla spazzatura” con quello della figura femminile della moda produce giochi visuali che sembrano quasi suggerire una visione (magari critica, ovviamente) legata a un erotismo a tratti violento, se non volutamente pornografico. È una lettura possibile, o è un rischio di sovrainterpretazione? Sicuramente la donna-oggetto, insieme al resto della visione, è un parallelo che spesso enfatizzo con la scelta delle immagini, e con i riflessi delle pieghe che spesso, come hai sensibilmente notato, creano giochi che ridondano il messaggio. Credo comunque che qualunque critica sull’arte sia in realtà una sovrainterpretazione, la mia opera è visiva, e dev’essere vista dal vivo per essere fruita, interpretata. La fruizione è interpretazione, ogni parola di questa intervista è quindi sovrainterpretazione.


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Giusi Palomba

Dall’alto in basso

We were the people who were not in the papers. We lived in the blank white spaces at the edges of print. It gave us more freedom. We lived in the gaps between the stories. Margaret Atwood Katia ha fatto strada. Lo sapevamo tutti, era una questione di selezione naturale. Il racconto dei suoi incastri milanesi termina solo quando si ricorda del mio aereo alle 7 del mattino. Apre il divano letto e mi dice: «Siamo tutti lontani, è come se fossimo tutti sfilacciati, e io sono incapace di tenere il filo». Non l’ho interrotta per tutta la sera, mi faceva comodo. Avessi voglia di parlare, le direi che non esiste nessun filo, che non esiste nessun noi, che esistono dei segmenti ogni tanto cuciti tra le distanze, e quei segmenti sono lembi casuali delle nostre esistenze, e poi basta. Ero preparato a reggere il moccolo tra Katia e le sue nostalgie: lei non sa più cos’è il deserto della provincia, è fuori da troppi anni, lascio che continui col revival fino a che non crollo. Vrrrrrr – vrrrrrrr Claudio ti ha invitato alla serata ZZZ. Fai sapere a Claudio che parteciperai! Vrrrrrr – vrrrrrrr «Ci siete stasera al Dirty Boots?!». Abbandona la conversazione. Abbandona il gruppo. Sono già partito. Invio un messaggio all’unica persona con cui voglio parlare. [ore 7.40] Per non aver paura, ricordati di guardare fuori dal finestrino. Anche Anna sta partendo. Lei è diretta a Londra e ha paura di volare. Questo messaggio continuerebbe così... Quando riapri gli occhi dopo il decollo, osservale bene le città dall’alto. Da quell’altezza, le storie diventano asettiche, una semplice sequenza di atti, di traiettorie, di spostamenti o di immobilità. Le persone praticamente non esistono. Sono puntini mobili, appena percettibili. Puoi anche perderli di vista, un attimo di distrazione: non ci sono più. Gli arrangiamenti delle giornate, le nostre faticose estati, i dolori che abbiamo avuto e quelli che avremo. A 10 mila metri d’altezza, pensa, tutto questo non ha nessuna importanza. Ora sorridi! Il mio capo è un amico di famiglia di lunga data. Devo maledire lui se ogni estate posso spaccarmi il culo in un retrobottega teutonico, rollando sigarette aromatiche nelle pause, facendomi strada in ciò che posso considerare l’unica idea di carriera possibile per me, fisiologicamente intollerante all’autorità. Così anche io posso contare su qualche soldino non dico per svernare, ma per superare l’autunno senza drogarmi troppo male. Questa estate mi tocca uscire allo scoperto. Devo imparare le buone maniere e dimostrare di meritarmi la promozione da lavapiatti a cameriere in uno dei ristoranti italiani più rinomati di Monaco. 52


Ci provo. Ci provo ininterrottamente. Anche se è l’estate del debito greco, l’estate in cui dal sud partiamo tutti in difetto. Ci provo. Ogni giorno da giugno a luglio, da luglio ad agosto, da agosto ai primi di settembre. Arrivo alla penultima settimana quasi automa. I crampi della mattina sono un appuntamento certo, mangio banane, ingurgito compresse di magnesio, ma basterebbe ricominciare a bere acqua. Solo Anna mi sa calmare, mi capisce, mi parla dalla stessa trincea. Messaggio: [ore 2.30] Ci dimeniamo nelle nebbie dei nord dimenticando i «che vuoi fare da grande». Ma oggi è grave: mi hanno insultato, guardandomi dall’alto in basso. Io non sono un cervello in fuga. Vorrei poter dire di avere due lauree in tasca e che il mio paese non è stato in grado di valorizzarmi, sfoggiando un leggero ghigno esterofilo. Potrei comparire compiaciuto in una rubrica de Il Fatto Quotidiano, ma non è così. Appartengo a un castello di piatti sporchi e vado a ritmo del ciclo della lavabicchieri. Devo difendermi da solo. Sradicati, perdenti, disertori? «Se affogano li chiamiamo rifugiati, se galleggiano migranti economici», recitava una vignetta necrosatirica. È questa l’etichetta che hanno pensato per noi. Eppure me l’avevano detto. Che se bestemmi in italiano pare se ne accorgano lo stesso, che se ti insultano e ti venisse una gran voglia di sputare nel loro piatto, potrebbe essere un problema. Ho retto due mesi e mezzo, possiamo considerarla una conquista. Questa era l’estate in cui avevate l’occasione di sanare il debito con tutti noi. Ma non l’avete fatto. Allora diventa l’estate in cui non tolleriamo più i vostri insulti, non portiamo a tavola i vostri piatti ingordi, quel cibo che guardate indifferenti, che date per scontato. Quale vino si abbina meglio alle conversazioni sul default di una nazione? E un dolce che sia adatto agli andamenti delle borse? Agli sviluppi della vostra impresa senza scrupoli? All’organizzazione scrupolosa delle vostre vacanze in agosto? Voglio tornare da Katia, da Claudio, da tutti gli altri. Voglio far leggere ad Anna tutte le cose che cancello. Sono io che non so tenere il filo. Campo di rendita da chi ci prova. Forse c’è bisogno di nominare un “noi” per farlo esistere. Datemi un computer, una carta ricaricabile e tabacco, prenoto il mio ritorno. Non voglio sopportare questo freddo esilio un minuto di più.

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Alex Lupei Down in the air (Giù nell’aria)

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«Senza sconti»: questa è l’espressione che affiora alle labbra, quasi inconsapevolmente, leggendo Dall’alto in basso di Giusi Palomba, racconto arricchito dall’evocativa illustrazione di Alex Lupei, Down in the Air.

È una storia senza sconti, infatti, quella narrata dall’autrice: pur se rifratta in un caleidoscopio di pensieri,

sensazioni, frammenti di esperienze, connessioni e disconnessioni, la vicenda di migrazione del protagonista in Germania si attesta in modo inequivocabile su campiture forti e tonalità cupe. Segnando una traiettoria spesso non coronata dal successo, tale vicenda ha poco a che spartire con le opinioni, spesso fumose,

che si hanno dei cosiddetti «cervelli in fuga», come se questi rappresentassero oggi l’unica categoria delle

migrazioni italiane nel mondo. Giusi Palomba ci riporta e ci costringe a guardare verso una realtà in costante crescita, che non riguarda soltanto gli italiani in Germania, ma molti altri gruppi sociali, in molti luoghi

diversi. In fondo, l’umiliazione di essere guardati «dall’alto in basso» può rendere freddo qualsiasi esilio.

Giusi Palomba

Alexandru Lupei

Nasce nel 1981 nella provincia partenopea. Inizia a spostarsi dopo il liceo, lavorando come cameriera in Toscana, per poi fermarsi a Roma alcuni anni, dove lavora per lo più come redattrice e nel sociale. Continua con altri tentativi fino a Barcellona, dove si trova attualmente. Nel 2011 fonda con un’amica la rivista online Archivio Caltari n ­ arrazioni e ricerche in controtempo, da cinque anni fa parte del collettivo letterario Laspro e da quattro del gruppo che organizza Logos, festival che si tiene in ottobre presso il c.s.o.a. eXSnia a Roma. www.archiviocaltari.it

Nato a Piatra Neamt (Romania) nel 1985, arriva in Italia nel 2002, seguendo i genitori. Diplomatosi con voti massimi presso il Liceo artistico Alessandro Caravillani di Roma, si iscrive presso le Accademie di Belle Arti di Perugia e Roma, ma rinuncia nel primo semestre in entrambi i casi. Al momento lavora come receptionist d’albergo ed è al secondo tentativo di tornare nel suo paese.

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Olivier Favier

La ricchezza del mondo

Foto tratte dal reportage La ricchezza del mondo Occupazione di un’ex caserma dei pompieri (X arrondissement) in seguito allo sgombero de La Chapelle, Parigi, Giugno 2015

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Di prossima pubblicazione nel suo libro Chroniques d’exils et d’hospitalité 2013-2016 (Le Passager Clandestin, 2016), queste foto di Oliver Favier testimoniano i giorni immediatamente successivi allo sgombero dei circa 450 migranti che si erano accampati sotto i binari della metropolitana sopraelevata che unisce le stazioni

di La Chapelle e Barbès-Rochechouart, nel nord della città di Parigi. L’operazione di polizia è avvenuta il 2

giugno 2015 alle sei e mezza del mattino, costringendo centinaia di persone a occupare alloggi di fortuna, aiutati da una serie di associazioni e organizzazioni di attivisti. La Francia si trova ormai da anni al centro di flussi migratori che hanno fatto della tratta Calais-Dover, tra la Francia e il Regno Unito, un’altra

Lampedusa nel cuore dell’Europa. Lo sgombero produce altri transiti forzati all’interno della città per una popolazione migrante che non è composta solo dai nuovi arrivati, ma anche da persone stabilitesi già da anni sul suolo francese e colpite, negli ultimi tempi, dalla crisi economica, dall’aumento della disoccupazione e dal generale impoverimento delle classi meno abbienti.

Olivier Favier Nasce nel 1972, dopo una formazione universitaria in Storia, è traduttore letterario e interprete dall’italiano, docente all’Université Paris I e a l’ENSATT (Parigi), nonché giornalista militante. Gestisce il sito Dormira Jamais e collabora con regolarità con Bastamag. www.dormirajamais.org 57


Lorenzo Declich

Un futuro

Schengen contro Dublino. La Francia ha chiuso la porta di casa. Migranti disperati sugli scogli, Ventimiglia. Inviati speciali, elicotteri, forse anche droni. Serve un piano europeo, dice Renzi. Ma intanto l’Italia “ha perso le tracce” di 50.000 persone. Sono sbarcate in Italia e non si sa dove sono, dove sono andate. Un certo numero di esse le ritroviamo a Ventimiglia, appunto. Si sono materializzate lì, prima non c’erano. In questa contemporaneità fatta di “percorsi” non rintracciamo “strategie”. Non realizziamo che il tragitto dal sud del nostro paese fino alla frontiera francese non è “un percorso” fatto una volta sola – come in un talent show – da un numero ristretto di migranti. Non realizziamo che quello è un flusso, che quella strada i migranti la prendono da mesi, anni. Ci accorgiamo del fatto solo perché il flusso è stato interrotto. Non ci domandiamo cosa è successo e cosa non è successo nel tragitto. Ecco cosa è successo: queste persone, sbarcate nel sud Italia, non sono state accolte in Italia. Hanno pagato una montagna di euro per avere una scheda telefonica, e un’altra montagna per raggiungere la frontiera settentrionale in incognito. Le autorità italiane hanno lasciato fare. Non hanno applicato il regolamento di Dublino, che prevede l’identificazione e l’eventuale ricezione della domanda di asilo politico. Le autorità italiane hanno chiuso gli occhi, e alimentato un traffico: andiamo ad affondare le barche in Libia – facendo accordi con alcuni fra i peggiori manigoldi del Mar Mediterraneo – ma non blocchiamo gli scafisti di terra “a casa nostra”. E questo, secondo la vulgata, sarebbe «gestire» i «nostri interessi». Le autorità italiane non hanno fatto tutto questo perché armate di buone intenzioni, perché portano avanti i diritti di quei migranti ad andare dove vogliono, perché hanno a cuore gli “interessi nazionali”. Lo hanno fatto per scaricare il peso altrove, senza assumersi alcuna responsabilità, e magari portando a casa qualche accordo sotto banco. Mentre il mondo della politica (da Renzi a Salvini a Berlusconi), parassitando, utilizzava la cronaca delle tragedie per tematizzare un scontro elettorale altrimenti privo di una qualsivoglia tensione. Perdendo credibilità di fronte a coloro contro cui, in Europa, ora abbaia. Il regolamento di Dublino è un’infamia, va abolito. I migranti hanno il diritto di usufruire di Schengen, è necessario dirlo. Ma l’Italia non dice questo, l’Italia sta facendo un gioco sporco, perché nel regolamento di Dublino ci sguazza fino a quando trova la cosa utile. Poi quel regolamento lo trasgredisce deliberatamente. La Francia sta reagendo con strumenti altrettanto irrituali – d’accordo – ma codificabili e leggibili: «Se tu non applichi Dublino io non applico Schengen». Intanto “il popolo” dice, pilatescamente, «lasciateli andare, accoglieteli in Francia». E questo fa gioco, fa gioco a tutti almeno sul brevissimo periodo. 58


Stupidi egoismi su stupidi egoismi. All’italiana o alla francese, ma il problema non si risolve in questo modo, né si risolverà da solo. Ci vogliono soldi, strutture, piani. Ci vogliono numeri, statistiche, informazioni. Bisogna togliere la cosa dalle mani di mafiosi, faccendieri, fascisti. Qui in Italia, non altrove, o anche altrove ma soprattutto in Italia, perché se i migranti sbarcano qui c’è un motivo: la silenziosa e ipocrita “deroga” al regolamento di Dublino, prima della prossimità geografica. Una prossimità che viviamo come una specie di sventura, negando chi siamo, dove siamo, qual è la nostra storia, la nostra vocazione, percependoci come pigs e agendo come tali. Il problema è italiano. Questo è un grossissimo problema italiano. Non ci vogliono schizofreniche dichiarazioni renziane. Lacrime di coccodrillo e muti ruggiti sullo sfondo di una furbata da italietta con le scarpe di cartone. In cui torme di razzisti nuotano felici, preparandosi a prendersi questo paese (e culturalmente sono già molto avanti). I migranti arrivano in Italia, dobbiamo sapere chi sono, cosa hanno in mente. Dobbiamo sapere se possiamo aiutarli e, nel caso, dobbiamo aiutarli. Ad andarsene o a rimanere. Sì, va bene, dobbiamo «aiutarli a casa loro» ma non basta, non basterebbe. Le guerre, i tiranni, la fame hanno le nostre facce, non prendiamoci in giro. E poi gli esseri umani sono nati liberi di muoversi, e basta. Dobbiamo desiderare che arrivino e anche che si fermino, perché ciò significherebbe che l’Italia è un bel paese in cui stare, in cui immaginare un futuro. Un futuro cui i migranti pensano ogni giorno, al contrario di noi. Non ci sono scorciatoie, dobbiamo tenerli qui, i migranti. Io li voglio qui. Sono la Storia che bussa, sono l’unica vera luminosa possibilità di futuro capitataci in sorte. Dovremmo ritenerci fortunati, sempre che un futuro ci interessi. E invece, senza forse nemmeno credere alle nostre stesse parole, ci riscopriamo francofobici – e via con la storia del bidet o altre facezie – sperando che davvero la Francia sia il problema.

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Di fronte all’emersione di discorsi, retoriche e posizioni politiche che convergono verso la parola d’ordine «prima gli italiani» (nonché verso il rifiuto xenofobo o razzista di una realtà che è comunque difficilmente controllabile, come quella dell’arrivo congiunto di “migranti economici” e “rifugiati”), Lorenzo Declich

propone una posizione altrettanto semplice, ma diametralmente opposta: «i migranti li voglio qui». Senza

ricorrere ai topoi più banali e abusati delle retoriche umanitarie dell’accoglienza, ormai invise a una parte dell’opinione pubblica italiana, l’autore ricorda come sia possibile una posizione nettamente contraria al

pensiero che si sta facendo dominante. Non si tratta soltanto di uno slogan; l’autore, anzi, suggerisce di approfondire il dibattito evitando la creazione di ulteriori opposizioni frontali, come quelle che ad esempio sono sorte nel dibattito pubblico italiano e francese nel caso delle molte persone bloccate sulla frontiera tra i due Paesi, a Ventimiglia, nell’estate del 2015.

Lorenzo Declich Nasce nel 1967. Dottore di ricerca di Islam: storia e filologia, ha insegnato Storia dell’Islam nell’Oceano Indiano all’Università L’Orientale di Napoli. Co-traduttore dall’arabo di saggi per Fandango e romanzi per Neri Pozza, Sellerio, Mondadori, ha collaborato con diverse testate giornalistiche. Del 2015 pubblica con Jouvence L’islam nudo: le spoglie di una civiltà nel mercato globale. 60


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Elena Guidolin

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Per voce muta


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Per voce muta è una storia sul potere e sul suo esercizio, ispirata a Lunga notte di Medea (1949) di Corrado Alvaro, che a sua volta è una riscrittura del mito di Medea codificato da Euripide e divenuto archetipo occidentale per eccellenza della Diversa, dell’Esclusa, dell’Espulsa.

A dominare la rappresentazione sono corpi di donne messi a tacere o in esilio, che interrogano il lettore sulle forme di resistenza ancora possibili. Le due protagoniste, Melita e Layalè, sono inoltre espressione di un’alterità assoluta: in primo luogo, in quanto donne in un contesto fondamentalmente maschile;

in secondo luogo, in quanto l’una è “scandalosamente” innamorata dell’altra, che è esule, straniera.

L’autrice propone infine una consapevole rilettura del canone fumettistico italiano: il segno ricorda

quello di Guido Crepax e della sua Valentina (caposaldo piuttosto trascurato, oggi, della reinvenzione del femminile fumettistico italiano, già nel 1965), o quello sudamericano di Breccia: equilibrio nervoso di masse di bianchi e neri, delle texture, dei tratteggi e dei tratti scavati, scabri, seducenti dei corpi.

Forme e masse sono elementari, ma non astratte: partono da inquadrature, scorci e ingrandimenti concreti, colti tramite la “lente” della vignetta. La combinazione non risulta mai manierista, proponendo, invece, una sintesi estremamente personale.

Elena Guidolin Nasce a Vicenza nel 1985, vive e lavora a Bologna. Vincitrice del concorso Reality Draws 2012 per la sezione Residenza d’Artista, ha pubblicato per G.I.U.D.A. Edizioni il libro-catalogo Acque Rie in occasione della mostra omonima ospitata dalla Galleria MioMao di Perugia. Ha collaborato a Isola, collana di libriccini di poesia e disegni a cura di Mariagiorgia Ulbar. Finalista e vincitrice del 68

premio speciale alla XII edizione del concorso Coop for Words, una sua storia breve compare sul primo numero di B Comics, progetto a cura di Maurizio Ceccato e IFIX Studio. Nel 2015 ha pubblicato il reportage Ville tristi per Graphic News. elenaguidolin.wordpress.com


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Emiliano Ereddia

Calci in culo al fiero stato nazione del Banglistan

Fu proprio mentre gli puntava addosso l’occhio buio della canna mozzata del tozzo fucile rimediato da quei cazzo di negri nigeriani che spacciano erba ai centri sociali e s’inculano le vecchie bianche dei quartieri misti –– quelle baldracche zozzone che puzzano di sigarette e spiccioli e rossetto da quattro soldi e alitano sambuca e fiato di dolciume caldo e appiccicoso e che se ne vanno in giro con quei cazzo di carrellini della spesa da anziano [cazzocazzocazzocazzocazzo che non puoi–––!, Non puoi! Cazzochennonpuoi, cazzo! Dico, nooon-puoooi, dico ––– Non puoi! No-way! No – Che – Non – Puoi – Cazzo–––!] e poi prendono sette/otto cappuccini al giorno per rotolare con quei culi flaccidi tra le pasticcerie incrostate e i bar dei pensionati scaracchiosi con le facce gialle di nicotina e quelle camicie da vecchio anziano in quei quartieri misti di morti di fame e negri e assassini rumeni e ladri albanesi e ricchi sporchi luridi cinesi straccioni infami coreani e qualche troia sudaka col culo a tribunale e fighettume artistoide da mezza pinta di Guinness e quegli altri studenti dell’università della vita e i soliti studenti di merda dell’università statale che non imparano mai un cazzo di niente e che se vedono una camionetta degli sbirri a un passo da dove loro si fanno gli shottini di rhum si credono dei veri gaggi [ehi, ragazzi, cristo, cazzo, ragazzi, cristo, vi dico, cazzo, cristo, ragazzi, fatevelo dire, cazzomadonna & cazzocristo in società, ascoltatemi bene: gli sbirri sono lì per proteggere voi dai negri, non gli abitanti del quartiere da voi –– voi fighettume di merda, voi fighettume del cazzo–––!, e se certo è anche vero che i negri in questo caso sono sempre i nigeriani –– perché i nigeriani è scontato che sono più negri degli altri negri –– non bisogna comunque scordarsi di quei cazzo di froci di algerini che hanno lasciato il senso dell’onore a casa tra le capanne di fango e i mercati con le colature di fogna dietro le bancarelle e che se ne vanno in giro con quello stronzo atteggiamento di truffa e di pezzi di merda ladroni barbuti depilati froci del cazzo rottinculo e hanno sempre la fissa del collo di bottiglia e piangono e fottono e piangono e fottono e sono peggio, sicuro–––!, cazzo–––!, sono-peggio-ti-dico–––!, sono peggio di certi napolesi che piangono e fottono e fottono e piangono e fottono per una vita cazzo intera senza mai alzare un dito o farsi un giorno di carcere di galera di gattabuia e di la madonna smadonnata] e se dobbiamo dirla tutta –– la madonna infranta, la madonna donna infranta in malora –– ’sti quattro negri di merda gli avevano rifilato un cocco che a dir poco gli stava radendo al suolo le pareti interne del naso arrampicandosi fin dentro al cervello e sicuramente certamente totalmente probabilmente passando per la come cazzo si chiama, la cazzo di cosa cerebrale [complicatizzimo, digiamolo, dillo, digiamolo –– complicatizzimo dire cerebrale e non celebrale –– complicatizzimo!, cazzo!, merda!, l’iddio madonna!] –– che corteccia che lui che diceva la corteggia anzi no la corteccia proprio quella corteccia, lui, sì, che quelle poche volte che l’aveva sentita nominare e detta per davvero in una frase dove ’sta parola corteccia prendeva un significato si direbbe pregnante, lui che ’sta cazzo di corteccia se l’era davvero immaginata come un vera corteccia di un vero albero in una vera vegetazione di un vero bosco o di una vera foresta a protezione –– la corteggia –– di chissà quale polpa di cervello di cui –– lo dicevano in molti, ai tempi: di cui –– di cui ci sarebbe poi da dire che lui quando pensava al cervello s’immaginava quello dell’animale scannato sul banco del macellaro che vendeva le frattaglie al mercato di Testaccio ed era certo che non gli poteva mai venire minimamente in mente –– Ah-ah! In mente! Ah-ah-ah! Immente! Laménte! –– non gli poteva mai venire in mente di collegare il fatto che quella specie di merda aliena tutta piena di insenature attorcigliate ce l’aveva anche lui dentro la scatola del cranio –– dentro quella cazzo di scatola di quel cazzo di cranio che gli era cresciuto dentro la testa –– il craniooo–––!, dentrolatesta–––!, della pressioooneee–––!, delcraniooo–––!, –– il cranio con dentro il cervello, il cervello che gli si era gonfiato dentro la testa a via di piatti di pasta col sugo e piatti di pasta col pomodoro e piatti di pasta col sugo di pomodoro che sua madre gli cucinava ogni giorno della vita –– e proprio dentro, ce l’aveva, proprio lui, quel cazzo di cervello dentro quel cazzo di cranio –– L A P R E S S I O O O O O O N E E E––– dentro ficcato posato seduto adagiato in testa, era, quel cazzo di cervello –– era lì, era proprio che era lì –– quel cazzo di cervello dentro quel cazzo di cranio dentro quella cazzo di testa 70


[Puttana–––!, Ragazzi–––!, Quante botte aveva preso quella testa di cazzo! Puttana–––!, Ahi, ragazzi–––!, Ahi–––!, Quante botte–––!] –– e fu proprio mentre gli puntava il fucile che si domandò Ma dove cazzo è ’sto Pakistan del cazzo –– che aperta e chiusa parentesi la cappa era più un ci-acca che una cappa, e anche se sulle scarpe della Nike [la naich], anche se sulle scarpe della Nike la cappa c’era, anche con questa cosa della cappa stampata in testa nel cervello della mente fin da bamboccio, questa cappa insomma era sempre più un ci-acca che una vera cappa [e la Nike era la naich] ––, e dove cazzo sarà mai ’sto pachistan del cazzo, appunto?, –– e comunque e per di più ci sarebbe da dire che proprio in quel frangente il ragazzo di certo senza sorridere e senza mostrare seri segni di particolare allegria, diciamo diremmo serio –– lo si sarebbe detto serio, dedicato, silenzioso, concentrato –– senza nemmeno grossa paura e forse vagamente veloce e meccanico ma manco senza scomporre appunto più di tanto quella pettinatura scura sintetica tutta tagliata fitta e posata sulla testa, il ragazzo appunto –– appunto il ragazzo ––, con quella sua faccia strana a metà tra un Playmobil dalla forma plastica e una maschera di grugno da pesce lesso, con quella faccia stampata dritta e chiara e tonda che un po’ il totale era una faccia con un paio di occhi di vitello morto [di quei vitelli che stanno scannati su quello stesso banco della macelleria del mercato di Testaccio dove stanno scannati in frattaglie gli animali scannati morti], il ragazzo pulito ma sporco e di quella tonalità di scuro che non sai mai se pulito o sporco o scuro perché sono di questo pachistan del cazzo che chissà dove cazzo è, il ragazzo alla fin fine sì teso e strumentale e forse un po’ meccanico, diciamo, che senza manco tanto cacarsi addosso stava eseguendo con relativa cautela il non molto gradito né gradevole ordine di svuotare la cassa e darsi da fare in mezzo a quella specie di intrico di buste di plastica tossiche azzurre che sono le preferite le designate le predilette invece delle classiche buste bianche [e loro in quelle blu ci ficcano dentro qualsiasi cosa –– qualsiasi cosa che va dalla carta-culo a quei due/tre pomodori marci che ti rifilano nel cuore della notte perché evidentemente nel cuore della notte ti mancano due/tre pomodori marci per farti una merda di insalata nel cuore della notte (e ma chi porco il clero se la fa un’insalata nel porco il clero cuore della notte?)] –– il ragazzo si spostava con una relativa armonia, ché ’sta gente di ’sto cazzo di pachistan so’ sempre armoniosi, e non gli rode mai il culo mai, e non gli rode che non gli rode che non gli rode mai il culo mai –– Ché so’ tipo rassegnati, gli aveva detto un giorno suo zio parlando dei bangladini bengalesi, ma gliel’aveva detto con rabbia e strozzatura, lo zio, e lui lo zio quel giorno era abbastanza incazzato per i fatti suoi, perché dice [e in realtà non è che dice, quale cazzo di dice –– la roba, lì, l’avevano vista tutti quelli del quartiere e gran parte dello Stato nazionale] dice insomma e non dice –– insomma –– che sua figlia che manco aveva tredici anni la settimana passata si era svegliata non proprio violentata [perché dice che era consenziente e dal video si vedeva che era, almeno all’inizio, relativamente lucida e consenziente], ma un po’ sbattutella, e insomma ’sta ragazzina s’era svegliata con un pigiama di sperma e un video su internet che la metà del video nei suoi interi quarantacinque secondi bastava a rovinare generazioni millenarie di trasteverini, e s’era svegliata con una specie di doccia a secco tutta incollata sulla testa e sui capelli e sullo shatush [che poi lui lo zio il video non aveva voluto vederlo e comunque tanto di voci gli bastava per stare incazzato l’eternità totale intera e indistinta] e non aveva voluto vedere lui zio manco la figlia incollata che era tornata a casa e che rientrava e si lavava e piangeva di là con sua madre ché la donna un minimo l’aveva dovuta cazziare per evitare la tragedia e assecondare assorbire suggere succhiare l’ansia omicida del padre [picchia-me, marito mio, picchia-me] –– e ’sto zio gli aveva detto insomma col pugno chiuso stretto e i due anelli che gli schizzavano dalle dita a wurstel, mentre sputacchiava pezzi di carne d’agnello dai lati della bocca e gli si strozzavano le parole in gola per la rabbia cieca e il vino e l’agnello [e ’sto cazzo d’agnello è sempre secco, stocazzo–––], lo zio gli aveva detto una roba tipo Glielo farebbe vedere io come glieli farei impazzire io li nervi a ’sti negri bangladini mangia couscous dei miei coglioni –– e intanto che il ragazzo viaggiava, comunque, adesso, e si muoveva, ora qui davanti a lui, intanto che il ragazzo ondeggiava tra le buste 71


di plastica e i soldi della cassa con quella sua tipica armonia che per forza di cose doveva essere legata a un intero popolo –– un intero popolo di gente aggraziata, forse ––, intanto che il ragazzo veleggiava con relativa abbiamo detto calma per assecondare le richieste del suo suscettibile avventore, niente, a lui gli era partito un colpo di canne mozze perché quei cazzo di nigeriani ti danno pezzi di ferro già sparati, ilcristodellamadonna, e tu basta che gli appoggi leggero leggero il polpastrello sul grilletto, di un cazzodiddio di un cristodellamadonna, basta che appoggi una piuma e un cazzo, un cazzo e mille lire, niente, basta questa specie di niente, basta che praticamente gli appoggi la lingua sul grilletto che manco quella troia di mia cugina, niente, basta questo niente che vengono come cagne in calore –– e BLEHAM!, aveva fatto il fucile –– BLEHAM! –– Appena una volta –– un rumore che era bello di gola e tutto aperto spaparanzato, e che non era per nulla compresso e chiuso e preciso e chirurgico e tecnico come quei bum bum bum delle fiction in cui si sparano da cento metri e i ferri fanno bum bum bum in mezzo alle piazze vuote, e il ragazzo aveva dopo il rumore una faccia incredula [e questo prima, molto prima di fare l’altra faccia, la faccia dello sto-morendo], e praticamente la camicia azzurra di cotone gli era entrata in una parte di spalla maciullata e adesso tutte e due insieme, camicia azzurra e spalla maciullata, sembravano una confezione da tre di Simmenthal tutta spiattellata e sbudellata e tempestata di zuccherini celesti tipo quelli che usa mia nonna per le torte, e poi la roba brutta il ragazzo ce l’aveva lungo la faccia, che prima c’era la guancia e adesso c’era la linea di denti bianchi laterali che affacciavano dalla faccia, e poi era anche su per la testa la roba spaventosa, che ce l’aveva praticamente sopra a dove c’era un momento prima l’orecchio [orecchio che era andato a finire mi sa in mezzo alle pile stilo quelle con le scritte cinesi che costano un euro l’una], e appunto poco sopra dove prima c’era l’orecchio adesso c’era un taglio punk un po’ violento e un po’ estremo vagamente simile nello stile anche se in maniera ridicola a quello di certi calciatori che vengono in Italia a giocare il primo anno e hanno vinto la lotteria della vita, ’sti froci –– altri negri arricchiti del cazzo ––, e questo taglio laterale estremo era tutto un bruciore e una strisciata di sangue come se avessero volontariamente coltivato a plasma un campo di grano e poi gli avessero dato fuoco per divertimento, e a lui pareva di aver visto anche una parte lucida –– e forse pure bianca ––, di quella che poteva essere una scatola cranica, ed era tutta tempestata di pezzetti, robetta piccola, micro-straccetti di sangue e carne e qualche spillo di capello bruciato pettinato e traumatizzato dall’esplosione e che sembravano, ’sti capellini, piccolissimi alberi colpiti da una tempesta di fulmini, e ma comunque poi lui s’era detto che cazzo ne sapeva lui di come cazzo è fatta una scatola cranica?, e se ne rendeva conto, davvero ora se ne rendeva conto, e abbastanza chiaramente, e ora e adesso, se ne rendeva conto benissimo che non ne aveva saputo e non ne sapeva niente ma proprio niente di scatole craniche, perché lui sapeva solo che il ragazzo aveva cominciato a mettere su quella faccia di sto-morendo con tutto un occhio iniettato di sangue e scivolando per terra si era da subito lasciato andare e sciolto in una serie di rumori osceni e s’era fatto sotto di solidi e di liquidi e di tutto quello che il suo corpo poteva buttare fuori rinunciando completamente e definitivamente alla famosa e rinomata grazia del suo popolo e a quell’armonia che tanto faceva strozzare suo zio, e lui a un certo punto pensando allo zio e al fatto che improvvisamente per il suono in cui aveva suonato quell’istante particolare si era rovinato persino più della cugina spermata, a un certo punto, carico di tutto questo e con una certa dose di incazzatura orba, aveva cominciato a prendere il ragazzo morente a calci in culo perché che cazzo, cristomadonna, pezzo di merda, crepatore estraneo che crepando nella mia terra me lo ficchi al culo, adesso siamo nella merda in due, tu crepi ma io continuo a crepare per i prossimi vent’anni, cazzo, e quindi perciò calci in culo al fiero Stato nazione del Banglistan per una, due, tre, quattro, cinque, sei e sette volte finché però pure lui non era scivolato su una pozza di quel qualcosa di fetido prodotto dal corpo del ragazzo ed era rimasto come uno scarafaggio di schiena perché proprio tutta la sua situazione mentale compressa e cranica era precipitata in un pieno di disperazione nera e da lì in poi non era proprio più riuscito a rimettersi in piedi. 72


Emiliano Ereddia, autore televisivo, è sceneggiatore del cult movie W Zappatore (2011), vincitore del

Brooklyn Film Festival, e del romanzo Per me è scomparso il mondo (2014), finalista al Premio Carver 2014. La sua opera è una potente riflessione sul degrado della società e della letteratura italiana di oggi, un elemento centrale anche nella riflessione di DON’T KICK ME OUT, come appare anche nell’opera che ha scritto per il progetto, Calci in culo al fiero stato nazione del Banglistan.

Leggendo questo testo, certamente duro e scarno, ma ricco di echi intertestuali che rimandano

alla letteratura e al cinema più recente (come non pensare a certe narrazioni pulp o anche a un film come

This Is England?), si può osservare come la scrittura di Ereddia si avvicini, con ogni probabilità, alle posizioni estetiche di un (impossibile?) “nuovo Verismo”. Si riprende così la categoria coniata per le opere canoniche di Giovanni Verga – ambientate in Sicilia, del resto, dove lo stesso Ereddia è cresciuto – ma se ne rileva

al tempo stesso un gradiente di contemporaneità non privo di ferocia – almeno dal punto di vista stilistico – e al tempo stesso umanamente vicino alla disumanità dei nostri giorni.

 Emiliano Ereddia Nasce nel 1977 in provincia di Ragusa. Si forma e deforma a Bologna negli anni ‘00, poi si diploma in tecniche della narrazione alla Scuola Holden con nota di merito. È sceneggiatore del film W Zappatore, cult movie indipendente che nel 2011 ha vinto il Brooklyn Film Festival come miglior film. Nel 2014 pubblica con Corrimano Edizioni il romanzo Per me scomparso è il mondo, menzione speciale al Premio Raffaele Artese 2015, secondo posto al Premio Kaos 2015, finalista al Premio Carver 2014. Vive a Roma, lavora come autore televisivo per programmi ultrapop in onda sui grandi broadcaster nazionali. 73


Intervista a cura di Lorenzo Barberis Il progetto DKMO nasce anche per riflettere sulla difficile situazione dei creativi in Italia. Qual è, secondo te, la situazione per quanto riguarda l’ambito della scrittura?

DMKO ragiona sulle “logiche dell’esclusione” a vari livelli. Il protagonista della tua sceneggiatura per W Zappatore potrebbe esser visto come un “escluso”. Perché la scelta di un personaggio di tale tipo?

La scrittura italiana? Qualcuno l’ha vista? Io no. Io vedo solo scrittori: scrivono tutti, tantissimi pubblicano qualcosa per via indipendente o privata, molti approdano al grande sogno utilizzando le piattaforme web, ci sono bizzeffe di poeti, camionate di giornalisti romanzieri, esseri privati che vendono i loro drammi personali così come si fa nei people-show in quella tv che bolliamo come immondizia, eserciti di opinionisti che vengono elevati al rango di, milioni di giallisti post-montalbaniani, ettolitri di scrittori di romanzi criminali noir, distese sconfinate di persone con il capo chino a scrivere sui social ma pochi, pochissimi, rarissimi creativi. In questo sistema di cose parlare di mercato dell’editoria, di politiche di promozione delle attività cosiddette culturali o di una situazione generale della scrittura in Italia può rivelarsi un esercizio inutile, forse anche dannoso e certamente fuorviante, e potrebbe condurci in quell’universo di specchi e frattali in cui l’atto di respirare risulta molto simile al senso di angoscia e inutilità dell’azione che genericamente ci prende quando capitiamo davanti a un telegiornale: l’Italia è ormai solo un approdo per legnami bagnati e per qualche cadavere che non ce l’ha fatta a veder terra, non abbiamo sviluppato alcuna idea di arte negli ultimi venti, forse anche trent’anni, e generalmente ognuno pensa per sé cercando la via più sbrigativa per raggiungere l’apparato del successo. E questo rende il gesto dell’artista, produttore dell’immateriale per eccellenza, molto materiale e ben poco artistico. In ogni caso, ritornando alla letteratura, sono convinto che in Italia ci vorrebbero meno scrittori fantasma e più fantasmi scrittori.

Il personaggio di Marcello Zappatore, uomo reale di un mondo surreale, preesiste al film e muove i suoi passi nell’universo narrativo già nel cortometraggio che precede il lungo, un lavoro di Massimiliano Verdesca che si intitola In Religioso Disagio e che racconta in sintesi la vicenda dello stigmatizzato poi sviluppata nella sceneggiatura di WZ. L’attenzione dei comuni mortali Verdesca ed Ereddia cade sull’uomo Marcello esattamente come l’attenzione di Dio cade sul personaggio Zappatore: produrre la risata salvifica, la maniglia di carne a cui appigliarsi mentre si sprofonda. In questo circolo dell’ironia e della distanza, non è Zappatore l’escluso, ma siamo noi resto del mondo.

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W Zappatore, come film, ha ottenuto molti riconoscimenti, ma di sicuro presenta elementi piuttosto forti, per gli standard italiani, di satira religiosa. Questo ha portato a problemi di “esclusione” del film oppure, in questo caso, non vi sono stati simili problemi censori? Certamente questa volontaria e suicida esclusione dello standardizzato mondo italico dall’universo narrativo di W Zappatore ha fatto sì che la distribuzione del film avvenisse per via indipendente (Distribuzione Indipendente è proprio il nome della società che ha il film in catalogo, e questo credo dica parecchio sull’indipendenza dell’operazione) e non sui grandi boulevard che vedono passeggiare i film italiani di cassetta e, perché no, di successo. Ma che io sappia non ci sono stati moti censori conclamati e non mi risulta di esser stato scomunicato. In ogni caso non ho ricevuto notifiche presso il


mio indirizzo di residenza, quindi ho buone ragioni per credere che la mia anima sia momentaneamente salva e al calduccio, coperta dall’eterno tepore della grande ala includente del pontificato di Papa Francesco. Simmetricamente a Zappatore, il protagonista di Per me è scomparso il mondo è, all’inizio e in superficie, un cantante “vincente”. Anche qui però sembra tornare questo tema dell’esclusione, cui nemmeno lui sfugge, cadendo in una spirale auto-distruttiva inevitabile (ed evidente fin dall’incipit). C’è la volontà di sviluppare un tuo “ciclo dei vinti” o è una coincidenza casuale? Come ragazzo siciliano cresciuto tra gli ‘80 e i ‘90, in mezzo agli agguati mafiosi e alle ritorsioni, in territori e ambienti che gridano la parola ABUSO graffiando il cielo a suon di pilastri di cemento armato da cui sporgono arrugginiti artigli di ferro sempre pronti a supportare altri eventuali nuovi abusi, in una produzione sensoriale di immagini e ricordi in cui umani latrano e cani parlano, nella completa inversione dei punti cardinali dell’agire, del buonsenso e della morale, al tempo io leggevo il mio conterraneo Giovanni Verga per prendere una boccata d’aria fresca. E in effetti è stato un evento seminale. Ah, com’era semplice per loro soccombere (verghiamo le esclamazioni di puro verismo tagliato finissimo)! Dolce la scomparsa di Rosso Malpelo negli accoglienti cunicoli della cava (nel Ciclo ci metto anche la novella, se permetti; e anche qua adesso mi tocca esclamare subito dopo la parentesi)! Dolce il naufragar di lupini in un lindo mar Mediterraneo! Dolce lo sfanculamento di Mastro-don Gesualdo di ogni cosa dotata di calore umano (e chiudo il mio personale Ciclo delle Esclamazioni)! Insomma, farsi sconfiggere è un atto d’amore estremo per il proprio pubblico, non credi? Il vinto è la base con cui si fabbrica un uomo, il manichino neutrale che nuota

nella materia prima della genesi. Come si fa a non rimanere poi folgorati dalla tentazione di chiudere tutto con una scarica di apocalissi? Il mio prossimo romanzo è già un’orgia di sconfitte, è un tatuaggio in faccia scritto con la sintassi sbagliata da qualche illetterato di periferia che si è improvvisato artista della pelle. Il tuo romanzo ha passaggi letterariamente anche molto sperimentali (particolarmente affascinante ho trovato il capitolo dei “reperti”). Questa scrittura – per fortuna – non piana, “liscia”, ha creato delle difficoltà (o magari, all’opposto, è stata un punto di forza)? Il mio motto è: Sperimentare –– Sperare e sperimentare. O forse era un altro. Non ricordo.

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Nicola Bonazzi

Aspettando i barbari

Non c’è più nessuno. Da ieri sono l’unica presenza umana tra queste mura. Fino a poche ore fa è rimasto con me un impiegato, lavorava qui da molti anni, quasi trenta credo. Ha provato a resistere fino all’ultimo, ma non ce l’ha fatta: anche lui, come me, non voleva abbandonare questo luogo, dove ha passato la maggior parte della sua vita. Poi ha deciso che non ne valeva la pena, che sua moglie e i suoi figli non meritavano le ore d’angoscia che stavano vivendo, per non dire di peggio, a seconda di quello che succederà. Quando se ne è andato ci siamo abbracciati come se non dovessimo più rivederci. Mi ero offerta di accompagnarlo con l’auto per un buon tratto, ma lui ha declinato dicendo che non voleva vedermi tornare indietro sola, con tutti i rischi del caso. Primo tra tutti quello di un guasto alla macchina: è sempre stato un tipo ansioso. Così se ne è andato a piedi, con un piccolo zaino in spalla, perché da qualche giorno è sospeso ogni tipo di collegamento. Per qualche ora, dalle grandi finestre del soffitto, ho potuto vedere la sua figura esile allontanarsi, fino a diventare un punto tremolante mangiato dalla foschia Spero che ce l’abbia fatta, che sia riuscito a tornare a casa. Forse ha incontrato qualche avamposto amico che l’ha soccorso e l’ha portato in città. Del resto, è probabile che l’inferno arrivi in città tra qualche ora o qualche giorno, e allora tutto questo non avrà più importanza. Ho deciso di dettare questa relazione al magnetofono per diversi scopi: servirà a capire ciò che sarà successo qualora dovesse capitarmi qualcosa; potrà servire, così mi illudo, alle generazioni future per evitare la barbarie che si sta consumando; più banalmente, serve a me, ora, per chiarirmi le idee su quello che devo fare, su quello che è più sensato fare: rispetto a me, rispetto al mio popolo e rispetto – anche se la pretesa sembra eccessiva – all’umanità. Quando i vari colleghi hanno cominciato a lasciare la biblioteca, più d’uno mi ha chiesto quali fossero le mie intenzioni. Ho risposto che non lo sapevo, ma che sentivo che non era ancora giunto il momento di andarmene. A dire il vero non sapevo se quel momento sarebbe mai giunto. Ma sentivo di voler essere l’ultima a chiudere il pesante portone d’ingresso, come un capitano abbandona la nave solo dopo che l’ultima scialuppa è stata calata in mare. Ora so di avere pochi minuti a disposizione per decidere se restare o andarmene. Sono direttrice qui da nove anni. Quando ho ottenuto il posto non ci credevo nemmeno io. Ho letto e riletto la lettera più volte. Ho telefonato al Ministero per accertarmi che non fosse uno scherzo. «Proprio così, signora», ha detto la voce inespressiva di una funzionaria, che forse neanche sapeva cosa questo significasse per me, «l’incarico è stato assegnato a lei». Mi sono chiesta perché fossi stata scelta: il mio curriculum non era così lungo da potermi dare la speranza di giungere a un posto di tale prestigio. Poi ho riflettuto e ho capito: non avevo indicato preferenze, e nelle motivazioni avevo segnalato la disponibilità a qualsiasi spostamento e a qualsiasi sacrificio. Tutto in nome della cultura. Per essere dislocati qui di disponibilità ce ne vuole parecchia, nonostante l’estrema importanza del ruolo, e dello stesso 76


luogo che mi ospita e per il quale lavoro da ormai così tanti anni. Tutti conoscono il valore, anche storico, di questa biblioteca, ma non tutti sanno che si tratta di una delle più antiche del mondo. Venne eretta in una zona desertica perché si pensava che l’aria secca avrebbe conservato meglio le pagine. Il sovrano che procedette alla sua costruzione morì in una battaglia per la conservazione del regno. Guerriero, ma amante appassionato della cultura. Naturalmente, nei secoli successivi, è stata restaurata più volte. Con qualche difficoltà: i materiali devono essere trasportati fino a qui e la città più vicina, ai margini del deserto, è a oltre trenta chilometri di distanza. Di notte se ne vedono le luci lungo la linea dell’orizzonte. La biblioteca contiene la più grande raccolta al mondo di manoscritti copti, persiani, arabi, ebraici, latini. Contiene, come tutti sanno, il più antico manoscritto dell’opera che postula la convivenza pacifica tra le religioni. Un manoscritto bellissimo, in una scrittura elegante e nitida, con un gusto straordinario per l’immagine miniata. Nei nove anni in cui sono stata qui sono venuti migliaia di studiosi per prenderlo in visione. Naturalmente, la procedura per mostrarlo è rigorosissima. Viene conservato in una teca con piccoli fori per l’aerazione, all’interno di un vano la cui temperatura è mantenuta sempre costante. Può maneggiarlo solo un addetto della biblioteca, il solo autorizzato a girare le pagine con appositi guanti di stoffa leggera, ogni volta sterilizzati. È evidente che chi si sottopone a questa procedura ha un’estrema necessità, o un estremo desiderio, di studiare il manoscritto. Non va dimenticato che c’è pure il deserto di mezzo, C’è chi è mosso solo dalla voglia di ammirarlo: è capitato in questi anni. Un tale un giorno, barba a punta e occhiali tondi, è rimasto chiuso nella stanza per otto ore consecutive. Si è alzato solo un paio di volte, quando l’addetto aveva i suoi bisogni ed era costretto a far uscire il visitatore. Prima di andarsene mi ha ringraziato, dicendo che era stata l’esperienza più emozionante della sua vita. L’aveva preparata, pregustata per anni. «Ora so», mi ha confessato già sulla soglia, dando per un attimo le spalle alla distesa desertica, «che l’uomo ha un grande potere: quello di distruggersi, ma anche quello di amarsi indefinitamente». Ma incontri del genere non sono stati infrequenti in questi anni, prima che crollasse per tutti l’idea del progresso continuo dello spirito. Il mio primo contatto con loro, con gli altri, con quelli che chiamerò semplicemente barbari per indicare qualcosa che sta al di fuori dei confini dell’umano, il mio primo contatto con loro è avvenuto a causa di questo manoscritto. Accettammo la richiesta di un tizio che si era qualificato come studente universitario, alle prese con una tesi di laurea sul sincretismo neoplatonico influenzato evidentemente dalle dottrine del manoscritto. Si presentò un giovane dall’aria accigliata: indossava una divisa militare nera, giacca e pantaloni dal taglio squadrato senza orli, la giacca chiusa con grossi bottoni fino al collo. Mi sembrò davvero strano, perché gli studenti di solito vanno in giro con qualche giacca di velluto tutta lisa, o in abbigliamento casual senza troppi pensieri. Il tizio restò sempre in piedi: osservava il manoscritto girandogli intorno e ripetendo tra sé parole incomprensibili: una specie di litania, di preghiera. 77


Poi lasciò la stanza e prima di congedarsi, con la stessa aria torva con cui era entrato, guardandomi fisso negli occhi come per rendere più efficace il suo potere di persuasione, mi disse queste parole: «Esiste una sola verità, e non appartiene a quel libro. Farebbe bene a ricordarsene». Non potrò mai dimenticare lo sguardo sprezzante con cui mi scrutò prima di reinoltrarsi nel deserto. Solo qualche mese dopo, grazie all’accumulo di informazioni che ormai giungevano quotidianamente dai notiziari, capii che quel tale era uno di loro. Esistono altri manoscritti dell’opera, tutti più recenti. Nelle razzie compiute dai barbari molti di questi sono andati distrutti, attraverso un macabro rituale in cui il testo viene infilzato da una lancia e issato in aria come il cuore strappato a un nemico e mostrato alla stregua di un trofeo. Negli ultimi giorni ho pensato spesso cosa fare del manoscritto: a un certo punto ho pensato anche di bruciarlo, per non dare a loro la possibilità di distruggerlo e mostrare le immagini dello scempio. Alla fine ho deciso di seppellirlo. Anche per questo ho aspettato che se ne andasse l’ultimo impiegato: nessuno, tranne me, doveva conoscere il luogo che custodirà l’opera. Se in futuro qualcuno ascolterà queste parole, sappia che dovrà scavare due metri oltre le mura, dove il terreno fertile non ha ancora ceduto al deserto, nella parte posteriore della biblioteca, verso l’angolo più a ovest. So che la decisione di attardarmi può mettere a repentaglio la mia vita, ma ho voluto compiere questa scelta in nome di un ideale più grande che non la preservazione di un’unica esistenza. Ora forse potrei andarmene: se raggiungo la macchina in fretta e mi lancio a tutta velocità nel deserto, ho ancora la speranza che non riescano a raggiungermi. A casa una madre, un figlio, un compagno aspettano il mio arrivo probabilmente in lacrime, distrutti dall’angoscia. Ma un altro pensiero ha cominciato a sfiorarmi la mente: quello di accogliere i barbari e parlare con loro, tentare di convincerli a lasciare intatta la biblioteca e proseguire. So che è un atto di orgoglio smisurato, di superbia addirittura, ma ho sempre creduto nel valore della parola e rinunciarvi adesso equivale ad abbracciare senza lotta la sconfitta. Del resto, la barbarie è potuta accadere perché molti hanno rinunciato. Ma servirà a qualcosa? Se davvero lasciassero intatta la biblioteca proseguirebbero per la città, dove i trofei non sono più libri, ma vite umane. E se offrissi loro la mia vita, in cambio della salvezza di questo posto? Accetterebbero? Perché dovrebbero farlo? Sento il peso del peccato che commetterei privando mia madre, mio figlio, il mio compagno, tutte le persone amiche, della mia presenza: anche ammesso che per alcuni di loro la biblioteca sia qualcosa di più di un ammasso di carta, ciò che realmente conta è la vita umana e la conservazione della specie. Tra poco fermerò la registrazione e la decisione dovrà essere presa. Qualunque cosa accadrà, e qualunque sarà la mia sorte, ora o in futuro, queste parole testimonieranno la mia buona fede e i dubbi di fronte a una scelta per me decisiva. Ecco, una nuvola di polvere si alza all’orizzonte. Stanno arrivando. Spengo.

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Il racconto di Nicola Bonazzi nasce come monologo teatrale inedito, scritto durante la preparazione

dello spettacolo L’Escale 32, una co-produzione italo-tunisina di KŬN Productions e Teatro dell’Argine, in tournée in Tunisia nell’ottobre del 2015. Direttore artistico della Compagnia Teatro dell’Argine, Bonazzi ha scritto e curato la regia di molti spettacoli legati alle tematiche più urgenti della contemporaneità,

lavorando spesso con gruppi composti sia da attori che da rifugiati politici. Aspettando i barbari prosegue

su questa linea, riportando all’ordine del giorno – tra vecchie e nuove guerre che distruggono vite umane, così come biblioteche e siti archeologici – gli echi letterari di Kavafis e Coetzee. Se lo scenario è quello

di un deserto dei tartari buzzatiano che via via si fa più inquietante, la protagonista, che si vede incaricata della difesa di una biblioteca, riesce a farsi portatrice di un epos che si ritrova soltanto nelle pagine dei

tragici cantori dell’assedio di Sarajevo, come Abdullah Sidran o Izet Sarajlić. Se il finale sembra evocare

un disperato «tengo famiglia», è possibile, in ogni caso, leggervi anche un DON’T KICK ME OUT che va al di

là dei confini dell’esperienza individuale, spingendo anche il lettore a riposizionare le proprie gerarchie dei valori e, naturalmente, a continuare la lotta.

 Nicola Bonazzi Drammaturgo, regista e direttore artistico della Compagnia Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Savena (Bologna). È autore e co-autore di svariati testi teatrali, tra cui Italiani Cìncali (finalista ai premi Ubu 2003), La turnàta, Liberata, Eden. Ha messo in scena, tra gli altri, Il killer Disney di Philip Ridley e Bollettino del diluvio universale di Gianni Celati. Nel 2007 ha pubblicato il romanzo Ninnaò per Archetipolibri. teatrodellargine.org 79


Intervista a cura di Lorenzo Cimmino Da dove nasce la tua esigenza di scrivere un pezzo del genere, chi rappresenta questo personaggio e la sua scelta finale? Il pezzo è nato in occasione di uno spettacolo teatrale che la mia compagnia, il Teatro dell’Argine, ha realizzato in Tunisia. Il lavoro è stato fatto con attori italiani e attori tunisini: nasceva dall’incontro con un’altra compagnia di Tunisi e dall’esigenza di lavorare insieme su temi che accomunano i due paesi: la migrazione, il terrorismo, la conflittualità latente o espressa… A un certo punto è sembrato che il tema della “scelta” potesse comprendere in sé tutto quello su cui ci interessava riflettere, e così, tra gli altri, è nato anche questo pezzo. In un luogo non troppo connotato, ma ai margini di un ipotetico deserto, e che quindi può assomigliare a certi territori della Tunisia, questa protagonista prova a fare resistenza culturale di fronte a una violenza barbarica che avanza. La scelta di restare a guardia della biblioteca per la quale lavora non cambierà nulla, probabilmente, nell’esito della lotta tra civiltà e barbarie, ma indica la strada che le persone di buon senso, con coraggio e consapevolezza, devono perseguire per opporsi alla distruzione e all’annichilimento. Da anni ti occupi di teatro con migranti o gruppi di persone ai margini della società, mettendo in scena degli spettacoli. In che modo pensi che questa esperienza possa essere utile oggi? Credo, un po’ ereticamente forse (soprattutto per chi si impegna in un’attività teatrale, tra l’altro così socialmente connotata), che questa esperienza non cambi, non possa cambiare la società. Forse non cambia nemmeno le persone che vi partecipano, perché molte di queste sono lì per occupare una parte del proprio tempo in 80

un’attività qualunque (e casualmente è il teatro); altre sono lì perché hanno già maturato la convinzione che il teatro possa essere un’attività interessante. Ma resta che, dentro quell’attività, si formano relazioni, amicizie, affetti: il teatro, come anche lo sport, dà la possibilità di attivare una reale condivisione di esperienze ed emozioni, proprio perché si fa insieme. E la condivisione è la base per costruire un sistema relazionale tra le persone. Quindi… Mi contraddico: in qualche modo, un modo non controllabile e forse sempre diverso, dal piccolo (ovvero dalla semplice relazione anche solo tra due persone) può nascere qualcosa di più ampio e importante. Quali esempi concreti hai vissuto, direttamente o indirettamente, di kicked out nel mondo culturale e sociale di oggi? Quali sono le cause e cosa ci dobbiamo aspettare, secondo te? Una delle cose per cui ci battiamo di più come compagnia teatrale è l’accessibilità dei luoghi di cultura. Cito sempre a questo proposito la “parabola della legge” contenuta nel Processo di Kafka: un contadino vuole entrare nel palazzo della Legge; un soldato è posto a guardia della porta, che tuttavia è aperta. Il contadino aspetta tutta la vita e poco prima di morire chiede al guardiano perché nessun altro abbia cercato di entrare: il guardiano risponde che la porta era aperta solo per lui; una volta morto essa sarà richiusa. Ecco, spesso la situazione dei teatri o di altre istituzioni culturali è simile a quella descritta nella parabola della Legge del Processo: le porte sono aperte, ma nessuno riesce a entrare, a varcare quella soglia, soprattutto psicologica, che permetterebbe di accedere alla fruizione della cultura. E chi gestisce quell’istituzione non fa nulla per facilitare l’accesso. Questo vale per un cittadino medio, figurarsi le difficoltà che possono avere i migranti o


persone che hanno qualche tipo di fragilità, a partire da quelle fisiche. A proposito di kicked out questo mi sembra un esempio lampante, seppure non visibile, di emarginazione. Se l’annullamento di qualunque frontiera, di qualunque barriera, è prima di tutto un fatto culturale, allora si può cominciare da qui. Se poi possa funzionare non so. Come si sarà capito anche da quanto ho detto in precedenza, sono ahimè piuttosto scettico sulla possibilità che le cose cambino, in un contesto, come quello attuale, dove le spinte per imporre confini e recinti, per marginalizzare le persone, sono enormi. La situazione finanziaria odierna, con una crisi perdurante, favorisce le disparità economiche tra le persone: questo è il primo innesco di altri conflitti e altre crisi, a partire dai fenomeni migratori che a loro volta conducono a sempre più vaste marginalizzazioni.

Quali sono i tuoi progetti artistici per il futuro? Stiamo pensando con la nostra compagnia a un evento spettacolare che coinvolga centinaia di bambini e ragazzi, e che possa raccontare i loro sogni, le loro utopie, o semplicemente quello che pensano delle grandi questioni che agitano la nostra contemporaneità. A proposito di condivisione tra persone di culture diverse, stiamo per cominciare un nuovo percorso del laboratorio teatrale Esodi, con ragazzi italiani e migranti, che avrà un esito finale tra giugno e luglio. Ho nel cassetto un paio di testi teatrali, ma su questi non dico nulla perché le difficoltà produttive ormai sono talmente grandi per chiunque, e anche per la nostra compagnia, che non so davvero se avranno un esito di qualche tipo…

Quali sono gli scrittori che ti accompagnano o ti hanno maggiormente influenzato? In tutta sincerità non ho numi tutelari che guidano la mia scrittura. So di essermi formato come lettore su alcuni testi e alcuni autori negli anni dell’adolescenza: posso citare Borges, Thomas Mann, Kafka, Nabokov, Calvino. Un po’ più tardi è venuta la lettura e la conoscenza personale con Gianni Celati, la cui lezione di libertà e di strenua opposizione alla psicologia borghese come gabbia alle soluzioni più aperte e fantastiche trovo sia un antidoto straordinario all’appiattimento culturale su modelli ormai troppo risaputi e ovvi, che piacciono soprattutto al mercato. Con lui cito Ermanno Cavazzoni, un altro amico. Tra gli scrittori di teatro, non posso fare a meno di leggere e rileggere Dürrenmatt e Pinter, mentre un romanzo straordinario e misconosciuto, che racconta l’infantilismo della società (quindi quello di cui siamo costantemente preda) è Ferdydurke di Witold Gombrowicz. 81


Uche Nduka

A Roundelay / Un rondò

Langston Hughes threw his books into the sea but they returned to him intact.

Langston Hughes gettò i suoi libri a mare ma quelli tornarono intatti verso di lui.

Red bell music didn’t wait till the overlooked became the overcooked.

La musica della campana rossa non attese che ciò che si era trascurato diventasse trito e ritrito.

Far below you seen from the perpetual place of a pumpkin head–

Molto sotto di te vista dal luogo perpetuo che è una testa a forma di zucca–

This armour hasn’t been shining.

Questa è un’armatura che non ha brillato.

Worrying about the world does not mean I have not done some bad things.

Preoccuparsi del mondo non significa che io non abbia fatto qualcosa di male.

What roundness there is. I can’t hum a retort to a blast furnace.

Quanta circolarità. Non posso mormorare un rimbrotto di rimando a un altoforno.

What the bluegrass picker pulled over me.

Il suonatore di bluegrass, quello che mi ha lasciato addosso.

On the move you’d do this or you’d do that–

Nel muoverti farai questo o farai quello–

Dalliance of verities & pluck.

Balletto di verità & coraggio.

What we’ve actually been through

Cos’abbiamo attraversato per davvero

in that space in that space in that space

in quello spazio in quello spazio in quello spazio

beholden to none a burnished indigo oscillating precipice.

caro a nessuno un indaco bruciato precipizio in oscillazione.

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Un rondò che non è propriamente veneziano, ma viene dall’altro capo del mondo: a tratti sembra

vicinissimo, ma al tempo stesso resta inafferrabile, perché le parole restano in continuo transito… Si può leggere così A Roundelay, del poeta Uche Nduka, nato in Nigeria e attualmente residente negli Stati Uniti: l’impressione è di orecchiare un’aria lontanissima eppure familiare.

Si prenda l’apertura, ad esempio, dedicata a Langston Hughes: fugace presenza in qualche antologia di letteratura inglese per le scuole superiori italiane, il poeta afroamericano è stato protagonista

del movimento culturale e politico denominato Harlem Renaissance, intorno agli anni Venti del Novecento, sperimentando la cosiddetta jazz poetry.

Certamente versatile – anzi: polivalente, polivocale, eterogeneo – è l’opera poetica dello stesso Nduka, autore cinquantenne che ha già all’attivo dieci libri di poesia. Nei suoi confronti, sono state utilizzate

definizioni molto diverse tra loro, talora contrastanti: poeta intimista, politico, surrealista, anarchico,

ambientalista, avanguardista… La poesia di Nduka sembra essere, in parte, tutto questo, perché è ancorata

a una diversa, e rinnovata, piattaforma: una torsione contemporanea del modernismo letterario nigeriano, che vede in Christopher Okigbo uno dei suoi padri fondatori.

 Uche Nduka Nasce a Umuahia (Nigeria) nel 1963, studia letteratura e storia alla University of Nigeria. Poeta, saggista e, nel campo delle arti visuali, collagista. Ha vissuto a lungo a Brema, dov’è stato docente di letteratura africana, ad Amsterdam e a New York, dove risiede e insegna, presso la City University of New York. Nel 1997 ha ricevuto l’Association of Nigerian Authors Award for Poetry per il libro Chiaroscuro. Tra gli ultimi libri di poesia pubblicati, Eel on reef, Ijele e Nine East. 83


Intervista a cura di Lorenzo Mari Che sia prodotta in patria o nella diaspora, la poesia contemporanea nigeriana sembra sentire una forte e trasversale necessità di confrontarsi con l’eredità della guerra tra Nigeria e Biafra, avvenuta quasi cinquant’anni fa. Perché? La poesia nigeriana – sia nel suo versante domestico che in quello diasporico – affronta i temi della guerra tra Nigeria e Biafra con una seria partecipazione perché si tratta di un conflitto dalle conseguenze molto dolorose nella storia della nostra nazione. I poeti intendono levare un monito contro la ripetizione di quella barbarie. Sentono che l’eredità di quel conflitto è stata devastante rispetto ai nostri tentativi di costruire una nazione veramente unita. A partire dal 1966, in Nigeria, un gruppo etnico, in particolare – gli Igbo – è stato preso di mira e massacrato quasi dappertutto. Gli Igbo hanno deciso di difendersi dallo sterminio e hanno dichiarato la nascita dello stato del Biafra il 30 maggio 1967. Tutti i popoli che abitano su questo pianeta hanno il diritto di difendersi da aggressioni omicide. Hanno il diritto alla vita, alla sicurezza, alla gioia, al progresso e alla creatività. Quando nacque, la Causa del Biafra era necessaria. La guerra fece tra le sue vittime il più importante dei poeti nigeriani, Christopher Okigbo, nato Igbo. Nella guerra si è usata la carestia come strategia e ha cancellato dalla faccia della terra tutti gli appartenenti alla mia generazione. Per chiarezza: io sono Igbo. L’estetica e la spiritualità Igbo esercitano una delle varie influenze che registro sulla mia scrittura/poesia. Ho scritto una poesia intitolata “Biafran Memory” (“Memoria biafrana”), inclusa nel mio primo libro di poesia, Flower Child. Altri poeti della mia generazione – Afam Akeh, Esiaba Irobi, Olu Oguibe, Obi Nwakanma, Maxim Uzor Uzoatu, Pita Okute, Obu Udeozo, Chris Abani, Elias Dunu, Obiwu, etc. – hanno 84

tutti scritto testi scolpiti nel marmo sul Biafra. Non c’è modo di poter dimenticare le lezioni, i moniti e le sofferenze del Biafra. Anche alcuni Poeti che si sono schierati dalla parte della Nigeria durante il conflitto – come John Pepper Clark, Wole Soyinka e Odia Ofeimun, tra gli altri – hanno scritto della guerra a partire dalle loro prospettive. La guerra tra Nigeria e Biafra è una macchia indelebile nella storia della Nigeria. Il processo di guarigione dalle ferite fisiche e psichiche causate dal conflitto è ancora in corso. Ancora oggi alcune delle ingiustizie che hanno portato alla guerra sono all’ordine del giorno: inettitudine politica, corruzione, violenze inter-etniche, ruberie sul petrolio. Anzi, la situazione complessiva è peggiorata con i massacri perpetrati da Boko Haram. L’esistenza della Nigeria come nazione è di nuovo in bilico: se ne sta mettendo a prova l’unità e l’integrità. È per questo motivo che sia i poeti nigeriani residenti in patria che quelli che vivono all’estero continueranno a scrivere della guerra tra Nigeria e Biafra, insieme ad altri temi, almeno fino a quando la Nigeria non diventerà una vera democrazia. Consideri il tuo lavoro come parte di una qualche forma di “avanguardia poetica”? Sono un poeta insurrezionalista e un utopista pragmatico. Etica ed estetica, per me, vanno di pari passo. Sono giocoso, ma anche serio. Nelle mie costruzioni letterarie trovano posto sia l’intelletto che l’emozione. La mia scrittura poetica vuol essere vivace e dirompente. La mia poesia cerca nuove prospettive e nuove strategie metaforiche. Politicamente, non mi interessa una Sinistra autoritaria e dogmatica. Non mi interessa una Destra vittima del panico, intollerante e omicida. Ciò per cui scrivo e vivo è una libertà senza compromessi,


per tutti. Sono portatore di energie ribelli che non sono riconducibili all’interno di un cliché, come ad esempio quello dell’avanguardia. Certo, nei “movimenti di avanguardia” trovo molti appigli. Trovo alcune delle motivazioni artistiche della sfera avanguardista utili e interessanti. Così come trovo fonte d’ispirazione nell’atmosfera di un film di Fellini. Nella mia scrittura ci sono elementi aggressivi e altri che non lo sono, aspetti gioiosi ma anche malinconici – dipende dal punto di vista. Appartengo a una Controcultura globale, agli Internazionalisti che non hanno nulla a che vedere con lo status quo politico, economico e artistico. Dico No all’inerzia. I miei principi e la mia visione del mondo sono libertari. Cosa significa Economia di Mercato? Libero Mercato? Menzogne! Menzogne! Menzogne! Parole come quella sono eufemismi/maschere per la brutalizzazione e lo sfruttamento dell’emisfero sud da parte della metà a nord. La voce arrogante espressa dall’Occidente mi mette a disagio. Per quanto mi riguarda, gli azzardi estetici e la leggibilità non si escludono a vicenda. Dopo aver girato il mondo, sono giunto alla conclusione che il proletariato può essere tanto avido, biasimevole e assetato di sangue quanto il padronato, o la borghesia. In ogni caso, non vedo nessuna scissione tra la pratica poetica e lo sforzo di rendere il mondo un posto migliore per chi lo abita. Non mi sento ingessato dalle proiezioni dell’iconografia. Sono molto consapevole della mia vulnerabilità come essere umano, della mia mortalità. Luoghi e persone sono effimeri. Non traccio nessuna linea di confine tra mondo fisico e metafisico. Credo fermamente in una fraterna solidarietà globale nel segno della vita, dell’arte, dei sogni.

Sono ormai vent’anni che vivo in mezzo a gente che non è nativa della mia nazione d’origine. In Germania e in Olanda, in particolare, ci sono persone che mi hanno accolto e offerto riparo quando ho iniziato il mio esilio auto-imposto fuori dai confini nigeriani, a causa della sua nefanda dittatura. Questi stranieri, che poi sono diventati amici, mi hanno offerto protezione e comodità semplicemente a partire dalla generosità dei loro cuori. Si sono assicurati che mi potessi concentrare sul mio lavoro, dandomi spazio e mezzi per continuare le mie indagini nei campi della letteratura, della musica e delle arti visive. Non mi hanno kicked out dalle loro nazioni. Mi hanno aiutato ad allargare la mia visione politica. Abbiamo lavorato insieme, educandoci reciprocamente sulle nostre diverse culture e modi di essere nel mondo. Amici e colleghi come Christoph Sehr, Yehudi Van De Pol, Karin Clark, Renate Albertsen-Martin, Uwe Sydow e Ian Watson, tra gli altri, hanno ammortizzato il mio atterraggio in Europa e mi hanno aiutato, quindi, a sviluppare il mio lavoro come poeta. Questi scrittori e attivisti incarnano i principi di DON’T KICK ME OUT. Combattono per ciò in cui credono; cooperano con persone di altre nazioni e altri continenti nelle loro lotte per la giustizia sociale e politica; fanno spazio, fra di loro, agli esuli. È per questo motivo che trovo il vostro progetto DON’T KICK ME OUT molto valido, pieno di risorse e tempestivo. Per me, il significato di DON’T KICK ME OUT risiede in un senso radicale di amicizia.

Qual è il primo significato con cui si declina il nostro DON’T KICK ME OUT nella tua esperienza di poeta? 85


Stefano Sanfilippo

Vuoto a rendere

Ripenso al passato. Da piccolino avevi i capelli più biondi e non ti staccavi mai da nostra mamma. Giocavi nel tuo mondo come tutti i bimbi quando giocano da soli. Poi hai iniziato a provare paura, quando hai scoperto il rumore del mondo degli altri. Non ricordo il momento in cui, con le nuove protesi acustiche, echi di ferro elettrici, hai potuto udire i primi suoni della tua giovanissima vita selvatica; ma immagino in te gioia e insieme terrore. Sordomuto, sordastro, handicappato, portatore di handicap, svantaggiato, audioleso, diversamente abile, disabile non udente. Più ti davano aggettivi politicamente corretti, e protesi sempre più piccole, meno ti sentivi uguale agli udenti parlanti, agli “avvantaggiati”, ai normoudenti o ai normoabili. Ero piccolo anch’io, solo tre anni più di te, e ho fissato solo alcune cose, altre forse le posso immaginare. Dalla scuola elementare, riportavi spesso nella cartella dolore, rabbia e i nuovi compiti della logopedista. Al pomeriggio ti aiutavo a farli: c’erano le schede di cartone con le vocali, le consonanti da ripetere insieme ai trucchi di pronuncia che insegnavano prima alla mamma, poi lei li insegnava a te e anche a me. Pensavo, forse, a quel tempo che aiutandoti nei compiti si aggiustava tutto. Il più grande di noi ci badava in cortile, mentre io ti badavo quando lui non c’era. Giocavamo, ci picchiavamo e ci volevamo bene, da piccoli, noi tre fratelli, come tutti i fratelli da piccoli. Ma sei cresciuto in perenne difesa dalle lame degli altri, a volte schermando, a volte fingendo, spesso trafitto alle lacrime. Non hai trovato spade e scudi abbastanza robusti per temprarti davvero. Credo tu non abbia mai accettato fino in fondo tutta la faccenda. Ma chi potrebbe accettarla? Siamo cresciuti noi fratelli un po’ vivendo e un po’ sopravvivendo, e tu reclamando di più perché meno hai avuto. Del lutto che sai, ai tuoi pochi diciassette anni, non parlo; mamma non c’era più. E così ognuno di noi torturava se stesso, raschiando e tarpando, nello stupore stolto del lutto senza risposte, da te fino a papà, nessuno escluso. Ognuno a suo modo, ognuno un poco frenato dal pudore per l’altro. Noi tre fratelli sempre un po’ più in parola snervata tra noi, sempre un poco più soli. Dopo non hai più potuto contenere la rabbia, anzi ne hai forgiato la tua corazza, che però è di latta. Hai sagomato, in una grottesca maschera d’odio, l’ingiustizia provata per ogni tuo singolo strappo di vita subìto. Hai colato dal cuore il rancore rovente per foggiare uno scudo, con cui scompigliare la fila ed esigere aiuto da noi. La tua ultima risorsa, quindi, sono sempre io: è un tacito accordo che funziona. «Puoi aiutarmi?» Era stato così da un certo momento in poi: mi chiamavi, inserendoti in una quiete che non c’era. Sgomitando, e rubando il posto nella fila di chi da prima reclamava il suo conto nella mia vita sospesa. Non importa, in questi casi per te non ci sono le file da rispettare. «Va bene, ti aiuto io».

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Si stabiliva il posto, l’ora e ciò che era da fare. Ma non era mai così semplice; di tacito, in fondo, c’era solo il fatto che io, come sempre, accettassi. Prima si contrattava: io cercavo di usare poche parole per capirci meglio, proponevo di trovarci a metà strada e di dividere la fatica. Ma tu no, tu alzavi sempre il prezzo che io abbassavo. E non mi scontavi nulla. Prima di farmi cedere, comunque alle tue condizioni, inscenavi la solita possessione di urla e scatti d’ira, già replicata centinaia di volte. Non recitavi, eri davvero in preda all’ira, così, come a me, feriva veramente la carta vetrata che le tue urla passavano dentro le mie orecchie, giù, lungo la gola, i polmoni e fino al mio cuore. Cessato lo strepito dovevo fare un respiro profondo e mi pareva che l’aria faticasse a scivolare dentro e fuori. Ogni mano di carta vetrata aggiungeva ustioni le cui cicatrici mi irruvidivano l’anima, ma non ancora abbastanza, perché sempre ripensavo al tuo passato. Finalmente poi ci si trovava. Andavamo insieme nel luogo dell’appuntamento, prima io parlavo per te, ponevo i tuoi dubbi, facevo le tue domande. Dopo ti davo le risposte, scioglievo i tuoi dubbi e per di più capivo al tuo posto. Davanti ad altri vedevo che soffrivi nel tenere la tua rabbia idrofoba al guinzaglio, da sempre con l’ansia e il rancore di chi cresce con un dito puntato contro, ma eri paziente, non perdevi la calma né l’educazione. Lo facevi più per non vergognarti di te che per rispetto di me. Risolto l’ennesimo impiccio ti sdebitavi offrendomi un caffè, addolcito con uno scarno grazie e un saluto pesto di nicotina. Poi ognuno ripartiva per rotte diverse: tu, verso la tua solitudine pesante di rabbia antica, io di nuovo verso la mia vita sospesa, con una cicatrice in più da accarezzare allo specchio. COMUNICAZIONI NON SARANNO RIATTIVATE SE NON IN CASO NECESSITÀ PUNTO Così diceva il solito cablogramma che partiva dopo, in automatico, dalla sala radio del tuo isolamento; tu non lo inviavi mai, però io lo ricevevo puntuale, a tarda notte, nel buio del sonno che non trovavo. Sapevo che non mi avresti cercato per un po’, fino al successivo S.O.S. che braccava il precedente. Ti avrei risposto perché sempre era andata così. Per questo aspettavo il dispaccio: solo quando ripensavo al passato e me ne facevo una ragione, il dispaccio giungeva e allora, sognando un po’ livido, potevo dormire. Ogni tanto partivo davvero, per rotte d’oltremare. Volevo sospendere la mia vita sospesa di qui e cercare colpi d’ala lontano, da te e anche da una parte di me. Ogni giorno un battito d’ala, senza taciti accordi; a volte stavo via anche trenta battiti. Toccavo terra nel Corno d’Africa: un altro continente, da esplorare come un pianeta passato e remoto, nella arida culla di Eva per noi o Awa per loro, madre nera di tutti. Curavo le piaghe e le ustioni degli altri e, un poco, persino le mie. Lavorando in un ospedale, cercavo di dare una mano che poi, alla fine, veniva stretta anche a me, insieme agli abbracci dei molti che vivevano là. Spesso marciavo confuso nel caos del mercato, divertendomi del chiasso alle spezie; continuavo ad amare il deserto, in cui passeggiavo tutte le volte che potevo, bevendone l’aria pulita e saziandomi gli occhi di cieli e di fate morgane. In cima alle rupi giravo in senso orario e antiorario per convincere me, incredulo, che spazio ce n’era. Sotto alla zanzariera, la notte, dormivo beato con ninnananna di ventola al soffitto, sognando come al ritmo rassicurante dalla sala macchine del piroscafo: il fuochista era mio amico. Poi tornavo. E tu: «Come è andata? Puoi aiutarmi?». Io sono sempre la tua ultima risorsa. Perché sempre ripenso al passato. Passeranno settimane o mesi ma prima o poi lancerai il tuo nuovo messaggio nella bottiglia perché sai che la raccoglierò e ti aiuterò, restituendotela come vuoto a rendere. 87


Ora sulla spiaggia cammino per mano con quanto ho in sospeso e annuso le onde per cercare gli odori dei miei oltremare. Fisso, mai stanco di farlo, la sabbia che si beve la schiuma e gli scogli che singhiozzano l’acqua. Non so per quanto camminerò. Ogni volta conto, e dopo dimentico passi diversi. Talvolta fino al tramonto, coi muscoli stanchi. Potrei, al buio della sera, superare la tua bottiglia che rotola sulla rena senza vederla. A volte, sdraiato su una duna di sabbia non mi muovo neanche, ascoltando solo le chiacchiere dei flutti col vento. Lì, stretto di sole e di me, potrei non vedere la tua bottiglia, incastrata tra le rocce a due passi. Oppure, in un giorno diverso, all’alba potrei marciare per poco e, subito, notare il vetro che luccica. Raccoglierei la bottiglia e, letto il tuo messaggio, potrei scagliarla indietro alle onde perché prosegua con un’altra corrente e venga raccolta da qualcun altro. Subito dopo questo sarebbe il mio cablogramma per te: IL SERVIZIO MESSAGGI IN BOTTIGLIA CON VUOTI A RENDERE È SOSPESO DEFINITIVAMENTE PUNTO AUGURO BUONA NAVIGAZIONE IN SOLITARIA PUNTO Perché sempre ripenso al nostro passato.

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Per chi fa un’esperienza diretta o molto prossima della disabilità, o diversabilità, uno dei temi salienti

riguarda la comunicazione tra gli individui. Non si tratta soltanto della capacità meccanica di vedere, parlare, sentire, bensì di quella di poter esprimere e condividere pensieri, sentimenti, emozioni.

Tra comunicazioni telegrafiche e messaggi in bottiglia, Stefano Sanfilippo ci conduce direttamente

all’interno di questa lotta tra silenzio e voce, descrivendoci un’esperienza che non di rado è dolorosa,

rappresentando una ferita difficile da rimarginare. Da lì, tuttavia, come in ogni scrittura, nasce la forza inappellabile delle immagini, delle parole.

Stefano Sanfilippo Nasce a Bologna nel 1965. Negli anni ’80 comincia a recarsi in Africa per volontariato. Dopo il liceo si diploma infermiere professionale e, nei successivi ventidue anni, lavora tra reparti intensivi in ospedale e servizi d’emergenza per il 118. Ha proseguito l’esperienza di volontariato quasi ogni anno, prima in Rwanda e attualmente a Gibuti, tramite l’Onlus Crewforafrica che fonda nel 2007. www.crewforafrica.org 89


Cristina Gardumi

Adults don’t exist #10 / Mia sorella e io

Mia sorella e io Tecnica mista su carta, 200 × 150 cm

Adults don’t exist #10 (dettaglio) Inchiostro su carta, 92 × 128 cm

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Cristina Gardumi è un’autrice che opera prevalentemente nell’ambito dell’arte visiva, pur occupandosi anche di teatro come attrice e performer. Ciò l’ha portata a una consapevolezza ad ampio raggio sulla crisi delle arti che è tra gli oggetti di riflessione di DON’T KICK ME OUT. Le sue opere si incentrano sulla rappresentazione di animali antropomorfi, innovando un’antichissima tradizione artistica, occidentale e non.

«All’inizio sono stata guidata proprio dal desiderio di bypassare i meccanismi di difesa del pubblico,

edulcorando contenuti spesso truci o fonte di angoscia attraverso un linguaggio illustrativo

e apparentemente infantile», confessa l’autrice. In molte opere è indagato il tema dell’esclusione e della sofferenza: «Quello animale per me è il lato più puro e innocente dell’essere vivente. La corruzione

di questa innocenza è cosa che pertiene all’essere umano soltanto. Forse i miei personaggi vivono sulla

linea di confine tra la purezza e la colpa; mi piace metterli in situazioni imbarazzanti, coglierli in momenti critici in cui il filo è lì lì per spezzarsi, poco prima della caduta. Sono i momenti di massima tensione. Ma mi piace altrettanto nascondere questa crisi sotto la coltre della normalità e del quotidiano». Anche nelle opere che l’artista ha pensato per DON’T KICK ME OUT è centrale questa figura

dell’Animale Innocente, specchio più puro della condizione umana, che viene per suo tramite riletta in una lente sanamente straniante.

 Cristina Gardumi Nasce a Brescia nel 1978. Artista visiva, attrice e performer, diplomata presso l’Accademia di Belle Arti di Verona e l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico a Roma. Vive e lavora tra Pisa, Roma e Milano. Spazia dal disegno alla video art, si cimenta come attrice, regista e scenografa. Collabora con vari autori illu-

strando le loro opere in scena e sulla carta. Ha partecipato a svariate mostre collettive in Italia e all’estero, ha vinto il Premio Celeste Pittura 2011 e il Premio Arte Laguna Pittura 2012. www.cristinagardumi.com

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Intervista a cura di Lorenzo Barberis Come abbiamo accennato già in altre interviste, il progetto DKMO nasce soprattutto da una riflessione sull’attuale situazione italiana, caratterizzata – specie nell’ambito delle professioni creative - da una forzata “fuga” verso l’estero anche per via della crisi sistemica incombente. Qual è la tua percezione del fenomeno, riguardo all’ambito artistico in cui ti trovi a operare? Parliamo di crisi da qualche anno, ma credo che il nostro settore sia nato in crisi, soprattutto nel contesto italiano. Oltre a occuparmi di arte visiva, lavoro anche molto in teatro come attrice e performer. Questo non fa che accrescere la mia consapevolezza che qualcosa non funzioni nel nostro paese per quanto riguarda i lavori “creativi” e il modo in cui la figura dell’Artista viene concepita. Quando ho rinnovato anni fa la carta d’identità, alla voce professione ho fatto scrivere “artista”. L’impiegata ha sorriso: «Ooooh, davvero!?». «Sì, davvero». Considerando anche la sua reazione ho dovuto aggiungere: «Purtroppo». Agli occhi dei più, gli artisti sono perdigiorno e outsider, refrattari ad accettare le regole. La verità è che non siamo noi a non accettare il sistema; è il sistema a respingerci. A non capire che la ricerca artistica non si è fermata dopo il secondo dopoguerra. Che un’arte contemporanea esiste. C’è un abisso incredibile tra il modo in cui gli artisti vengono trattati nel resto d’Europa e del mondo e come vengono denigrati qui. Basta pensare al giogo fiscale che pesa sulle spalle di singoli, gruppi e associazioni culturali che lavorano in ambito artistico, proponendo sempre nuovi progetti e tentando di operare in un ambito di vera ricerca. Il sistema punta a scoraggiare la creatività e chi la promuove. So che sto dando un quadro apocalittico, ma è la percezione che ne ho in questo momento. Sarà che ho appena trascorso qualche giorno a Parigi, dove respiri un grande 92

rispetto per l’arte e chi la pratica: l’arte è un lavoro. Lo vedi anche in come è strutturata la città, nella qualità e quantità delle proposte culturali che offre. Le tue opere si incentrano sulla rappresentazione di animali antropomorfi, innovando un’antichissima tradizione artistica, occidentale e non, che però – dall’Ottocento, circa – è spesso relegata (erroneamente) nella “illustrazione per bambini”. Questo ha comportato a tuo avviso problemi nella ricezione della tua produzione artistica, oppure «Adults don’t exist» e questa è una “esclusione” ormai superata? All’inizio sono stata guidata proprio dal desiderio di bypassare i meccanismi di difesa del pubblico, edulcorando contenuti spesso truci o fonte di angoscia attraverso un linguaggio illustrativo e apparentemente infantile. Siamo stati tutti bambini, e almeno per parte della nostra vita abbiamo vissuto a stretto contatto con figure zoomorfe, nelle fiabe e nell’iconografia infantile. Ci sarebbe da chiedersi perché si presuppone che gli ibridi Uomo-Animale siano portatori di un messaggio rassicurante. Ho sempre considerato il mio lavoro non illustrativo. Un po’ per la portata concettuale che sottende e un po’ perché non completa il senso di un testo come le buone illustrazioni dovrebbero fare. Sono esse stesse un “testo” per immagini. Lavoro per lo più sul concetto di serie. Ogni singola opera è costituita da una sequenza di disegni, legati da un filo comune, leggibili, volendo, come un unico racconto visivo. Nel mio piccolo i miei lavori sono da subito stati accolti come opere di pittura/grafica, senza troppi equivoci. A volte però capita ancora che qualcuno parli dei miei disegni come illustrazioni. In questi casi capisco che o l’opera è manchevole o è stata considerata solo superficialmente.


In molte opere è indagato il tema dell’esclusione e della sofferenza. Per certi versi, sia pure nella differenza complessiva, viene da pensare all’Art Spiegelman di Maus, che riteneva l’olocausto rappresentabile solo attraverso l’allegoria animale. In che modo ha influito, per te, la decisione di rappresentare emozioni umane in chiave zoomorfa? Quello animale per me è il lato più puro e innocente dell’essere vivente. La corruzione di questa innocenza è cosa che pertiene all’essere umano soltanto. Forse i miei personaggi vivono sulla linea di confine tra la purezza e la colpa; mi piace metterli in situazioni imbarazzanti, coglierli in momenti critici in cui il filo è lì lì per spezzarsi, poco prima della caduta. Sono i momenti di massima tensione. Ma mi piace altrettanto nascondere questa crisi sotto la coltre della normalità e del quotidiano.

desiderio di indagare questa femminilità così simile, ma anche differente da me. Forse ne farò una serie che racconta la sua vita. Certo, il fatto che in questo immaginario entrambe siamo dichiaratamente scimmie crea un’ulteriore piano di interpretazione e lettura del lavoro, in cui rientra sicuramente anche il tentativo, come dicevi, di ricreare una vicinanza con un’altra specie. Sarebbe bello se riuscissimo ad avere un rapporto di fiducia con le altre bestie di questo pianeta. Ci sentiremmo meno soli.

Il tuo lavoro potrebbe sembrare anche sottolineare, specie in alcune opere (penso ad esempio a Mia sorella ed io) la vicinanza tra l’uomo e gli altri esseri viventi. È una lettura possibile? Io guardo all’essere umano come a una creatura estremamente imperfetta se paragonata agli altri animali, nonché la sola davvero pericolosa, in grado di mandare in cortocircuito interi ecosistemi costringendo la natura a riprogrammarsi faticosamente da capo. Condanno la tendenza dell’umanità a porsi su un piano privilegiato rispetto a tutto ciò che la circonda, distruggendo ogni cosa senza remore e senza motivi concreti. Mia sorella e io però, più che vertere su tematiche universali di questo tipo, parla di qualcosa di più intimo. Io non ho sorelle, solo un fratello, ma ultimamente ho pensato a come sarebbe stato se avessi avuto vicino un’altra presenza femminile in famiglia oltre a mia madre. È nato così il 93


Giulio Pitroso

Per legittima difesa

Mi ricordo l’odore, anzi è come se ce l’avessi addosso ancora adesso. Una specie di puzza aspra di bitume. Sdraiato e annegato sul pavimento del corridoio, perché dentro agli scompartimenti non c’era posto. Qualcuno, di tanto in tanto, mi passava vicino, chiedendo scusa con un gesto o con la voce. Quando ci fermammo da qualche parte, nel bel mezzo del nulla di tutto ciò che sta tra Reggio e Napoli, le luci dei paesini si andavano spegnendo e il sole veniva su a disturbare il sonno. Il colore del cielo d’un rosato leggero, si cominciava a formare una striscia arancione attorno al profilo delle colline. Le ossa rotte, il collo pestato a sangue. A fare quel risveglio amaro e ansiogeno era l’immagine di ciò che sarebbe venuto dopo. I profili industriali dei palazzi di un cemento crudele, i cunicoli dei monolocali asfissianti, la linea gotica, il Po. E il freddo – Dio mio, il freddo – che entra nelle ossa, umido, insaziabile, ingrassato di pioggia e neve. La parte più ricca di questo grande paese – fatto di tanti paesi cuciti insieme con aghi insanguinati – invasa da noi, terroni e stranieri. A fare il risveglio greve erano i fantasmi degli incubi, sempre più o meno uguali: la piazza davanti alla chiesa madre con una ferita che si apre nella terra, da cui sgorgano sangue e petrolio, le case bianche e azzurre illuminate dalla luce gialla dei lampioni, il mare che divora la costa. Lo avevo detto ad Andrea, che magari qualcosa ci avrebbe potuto capire. «E che altro sogni, poi?». Sogno il paese intero che ci viene a salutare, ci abbracciamo meccanicamente – noi abbiamo le valigie in mano, la corriera pronta a partire – sono tutti vestiti a lutto e ci guardano con disprezzo o distolgono lo sguardo. Andrea aveva sbuffato con aria distaccata: «I sogni sono il campo dove si risolvono le contraddizioni che abbiamo dentro». Non avevo compreso la risposta, ma quel mattino, in un luogo imprecisato del Sud – che stavano abbandonando a migliaia – realizzai finalmente che cosa significasse e chi fossi io in quel dato momento. Ricordavo la gente di giù, arenata e immobile nell’attesa di qualcosa che non sarebbe mai avvenuto. La confidenza che si sarebbe andata erodendo negli anni, il pericolo di diventare a poco a poco un forestiero in casa mia. «Vai a cercare qualcosa, ma non sai come ti trovi. Ci sono cose per cui vale la pena restare», così mi aveva detto lei. Ed era rimasta, forse sperando che qualcosa sarebbe cambiato, in un gesto che a me parve più vile del nostro, perché tutto attaccato all’egoismo degli affetti, della casa, della famiglia e slegato da qualsiasi senso di vera responsabilità. Non soffriva lei – né tanti altri potevano – la forza spietata dell’essere lucidi e di fare scelte controvoglia. Al contrario, aveva il furore dell’ebbrezza e quel senso di distacco totale dalla realtà che prova chi è innamorato. Innamorato della propria vita più di qualunque altra cosa, dei punti di riferimento stabili. Il terrore di essere preda della corrente e dell’ignoto. Non un amore impavido per la nostra terra, massacrata, addolorata, sempre a lutto, né il desiderio di cambiarla. Lei come tanti altri, la massa inerme degli abitanti abbandonati a un pallido fatalismo e incapaci di sperare o immaginare qualcosa di diverso, perché nessuno glielo aveva insegnato in tempo e ora era troppo tardi per imparare. Questi pensieri amari, che non facevano altro che arrovellarsi e distorcersi, furono interrotti di colpo. Correva lungo il corridoio una famiglia di disgraziati. Avevano la pelle colore del caffellatte che facciamo a casa. Un padre, una madre e un bambino. Il primo portava un cappello verde, come quello degli alpini, con una strana penna nera, un giubbotto acetato, pantaloni da tuta, scarpe di vernice. Si portava sulla spalla destra un sacco azzurrognolo. La donna aveva una tuta rosa. Il bambino era piccolo, forse avrebbe potuto camminare, ma – date le circostanze – lei lo portava in braccio. Si fermarono, si dissero qualcosa, erano nervosi. Entrarono nel bagno. Il treno si stava per fermare a Ostia. Il controllore arrivò correndo, sfiatato, si tolse il cappello, s’asciugò la fronte. Aveva due lunghi baffi ed era fuori forma, troppo in là con gli anni. Un agente di polizia venne dall’altro vagone, in direzione opposta. Il controllore mi domandò quasi senza voce: «Dove sono? Li ha visti lei?». No, non ho visto nessuno, sono appena arrivato. «Sono degli extracomunitari». Il poliziotto non aveva trovato niente, la faccia tesa, le braccia allargate. C’era stato uno stupro qualche giorno 94


prima, le telecamere avevano incastrato un senegalese. Ma il peggio era successo a Milano, con quella storia dell’agente accoltellato. Perciò nell’aria c’era più tensione del solito. L’ossessione dei giornali aveva fatto il resto, martellando sui cervelli della gente. Nascondere un clandestino era reato, curarlo senza denunciarlo pure. E uno straniero è, più o meno, un clandestino e un rifugiato è pur sempre uno straniero. Poco prima che il treno ripartisse, in un momento di silenzio, sentimmo il pianto di un bambino. I due si insospettirono. Quello con i baffi fece un cenno verso la porta del bagno. Quell’altro accostò l’orecchio, poi urlò: «Polizia! Aprite!». Rispose solo il silenzio. Il controllore estrasse un arnese e sbloccò la porta. Li trovarono tutti e tre appiccicati, stretti in un abbraccio spaventato. Il padre scattò in piedi e spinse l’agente, urlò qualcosa, la madre e il bambino già correvano giù dalla carrozza, si mischiavano alla folla. Il controllore intervenne, strattonò il padre, cercò di tenergli ferme le braccia. L’agente aveva perso il controllo, urlava, aveva slacciato la fondina. Lo straniero si era divincolato, faceva come una bestia, colpiva e mordeva. Non ricordo il rumore dello sparo, ma solo il corpo di lui contro la parete, gli occhi svuotati di luce, la faccia pallida del poliziotto, l’errore a cui non si può porre rimedio, il controllore che scioglieva la tensione nel pianto. L’uomo in uniforme, un trentenne disperato, si rivolse a noi con la voce rotta: «L’avete visto anche voi, no? È stato per legittima difesa...».

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Raccontare una storia significa, in primo luogo, non restare impigliati nel groviglio di rappresentazioni

(spesso, poco più che stereotipiche) che quotidianamente circolano nelle narrazioni mediatiche, culturali e politiche nelle quali siamo immersi. Da anni, ad esempio, ci si pone una domanda pressante – soprattutto nei

talk show televisivi e sui giornali – sui limiti di quello che è il cosiddetto «eccesso di legittima difesa». Senza entrare nel merito di un dibattito che è inevitabilmente spinoso, mettendo in primo piano vicende individuali che sono spesso profondamente segnate da questo dilemma, si può comunque osservare come questo tema sia generalmente associato alla costruzione della figura del «clandestino» e, di conseguenza, ai timori

legati alla percezione di una «invasione» dell’Italia da parte di migranti e richiedenti asilo. Giulio Pitroso costruisce un racconto che gravita proprio attorno a questi temi, spiazzando, però, il lettore con la rivelazione – pienamente demistificante – delle molte falsità e delle molte verità che li circondano.

Giulio Pitroso Nasce a Ragusa nel 1989. Dopo la maturità classica, la laurea in Lettere Moderne a Catania nel 2013, studia Culture Moderne Comparate all’Università di Torino. Ha collaborato con diversi giornali occupandosi di inchieste e cultura. Premio regionale Nicholas Green, finalista A Sea of Words e secondo classificato nel concorso Racconti in Autogrill, è attivo nel campo del no profit e dell’antimafia sociale ed è presidente dell’associazione Generazione Zero dal 2012. www.generazionezero.org 96


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Daniele Comberiati

Piccola morte

Eccomi, stavo per dire, sono qui, sono arrivato. Sì, mi avevate chiamato – anzi, mi aveva chiamato la moglie – e sono venuto subito, avete visto? Dieci minuti in macchina dalla città. Riconosco i luoghi che C. mi aveva fatto vedere – vedere e non visitare, che da visitare non c’è proprio niente: la palestra, la piscina aperta sei mesi su dodici (che poi non è che faccia tutto questo caldo, me lo immaginavo secco e rachitico a nuotare con i brividi, però vuoi mettere: la piscina aperta sei mesi l’anno è compresa nel prezzo anche se ti geli le chiappe), una specie di minuscolo supermercato che aveva anche qualche medicinale, quelli dei vecchi per lo più, tranne il viagra che non si addice a un posto come questo. Quella stessa luce biancastra da Europa del nord, e infatti questi edifici mi ricordano terribilmente quella terra di mezzo fra Belgio e Olanda, con i fiumi gelidi a bagnare i giardini delle case appena costruiti, noi a tremare dal freddo perché i nostri ospiti ci tengono a mangiare fuori, che è fine giugno, anche se il vento fa raffreddare la carne e le nostre braccia scoperte si ricoprono di minuscoli brividi. Ma qui non siamo fra Belgio e Olanda, niente luce del nord e vento sferzante a ricoprire i nostri visi; qui siamo sul Mediterraneo, il sole dovrebbe essere caldo, la luce accecante e un odore di pino marittimo e resina dovrebbe depositarsi nell’aria. Invece niente, tutte uguali queste costruzioni, penso mentre con estrema lentezza mi avvicino al gruppetto di persone intorno a C. Lo avevo conosciuto in Belgio, un paio di anni prima, tramite un amico in comune. Ci eravamo visti in tutto, quanto? sei o sette volte, non di più, per questo ero rimasto abbastanza stupito quando la moglie mi aveva telefonato, il giorno prima. Avrebbe voluto che venissi, mi aveva detto con voce calma ma non particolarmente afflitta. Perché? Mi era sorto spontaneo domandare, ma per fortuna ero riuscito a trattenermi. Certo, verrò senz’altro, avevo risposto. Perché? Mi ero domandato dopo, quando potevo parlare, almeno a me stesso. Non avevo una risposta certa, così avevo provato a raccogliere i frammenti di C., tutto quello che potevo riprendere dai nostri pochi incontri. Me lo ricordo il primo giorno, in una piazza fredda e molto moderna, quel giorno sì con un clima nordico, un agosto ventoso e nuvoloso nel quale le dita dei nostri piedi cercavano disperatamente di unirsi e stropicciarsi per crearsi un’illusione di calore. È meglio che andiamo dentro, credo, mi aveva detto con un accento marcatamente francofono. Aveva una sciarpa rossa al collo – a me sembrava di seta, ma in realtà sarebbe potuta essere di qualsiasi materiale – e con aria particolarmente grave aveva affermato di essersi preso il raffreddore, pochi giorni prima. Per questo non posso stare molto, aveva aggiunto. Quell’affermazione mi era sembrava per lo meno inopportuna: mi aveva mandato almeno cinque mail nei giorni precedenti, e nonostante gli avessi detto che era un periodo piuttosto complicato – stavo traslocando dopo una separazione e avevo deciso di cambiare città – aveva insistito senza darsi la pena di ascoltarmi. Ci potremmo vedere in Francia, avevo provato a controbattere, non saremo poi tanto lontani. E invece niente, alla fine avevo ceduto, un po’ perché non sono mai stato in grado di controbattere sulla lunga distanza – pigrizia più che debolezza – un po’ perché quel tipo mi incuriosiva, così testardo e con una sorta di ansia che me lo rendeva vicino. Sono contento, così finalmente con te posso parlare in italiano. Non mi capita spesso, sai? Neanche quando lavoravo all’Onu. A casa mia, in Francia, ho una foto con Boutros-Ghali, te la farò vedere quando verrai. E poi aveva cambiato subito argomento: l’Eritrea, il dottorato in Francia, l’incontro con la prima moglie. Non mi è mai piaciuta la Francia, aveva aggiunto torvo. Ma è stato per sfuggire alla guerra. E il Belgio, il Belgio ti piaceva? Gli avevo chiesto io già in preda a una malinconica nostalgia. Lascia perdere, giusto perché c’era lavoro a Bruxelles (lavoravo all’Onu, sai? Mi aveva ripetuto almeno tre volte durante la nostra prima conversazione), ma sennò non ci sarei mai venuto. Bruxelles non è Parigi. E l’Eritrea? Chiedevo speranzoso. Oh quella! Non ci torno da vent’anni, mia moglie non si trova là. E non ho quasi più nessuno. Poi aveva insistito per pagare il caffè, si era scusato ancora per non poter rimanere più a lungo a causa del mal di gola e mi aveva dato appuntamento in Francia. Pensavo che non lo avrei più rivisto. 98


La mia sorpresa è stata grande quando, nel mio primo fine settimana francese (completamente solo che non conoscevo davvero nessuno), mi ha telefonato. Un bicchiere di vino in centro? Conosceva un’associazione italiana (pensionati con la passione per l’Italia e pronipoti di una comunità proveniente da Cetara) con la quale ogni tanto provava a parlare italiano. Ho fatto le scuole in italiano, sai? Il liceo di Asmara era il migliore di tutta l’Africa Orientale (la chiamava proprio così, con la dizione coloniale). Poi c’è stata la guerra... te l’ho detto che ho fatto il dottorato in Francia? Avevamo bevuto un bicchiere di un bianco acido e poiché erano solo le undici del mattino mi ero visto costretto a tornare in fretta a casa, in preda alla mia gastrite cronica. Ci vediamo presto, mi aveva detto. Uno di questi pomeriggi ti invito a casa, non di sera però, che sono troppo vecchio per le sere. Tornando a casa ci avevo ripensato ed ero rimasto colpito dall’ultima frase: troppo vecchio per le sere. In realtà sembrava “troppo” (o “troppo poco”) per molte cose: non si era adattato alla Francia né al Belgio, non rimpiangeva l’Eritrea, parlava di una moglie e di un figlio che però sembravano non avere ricadute pratiche sulla sua vita. Rimaneva così, ai margini anche fisici delle città in cui vivevo – e in effetti quando ci eravamo visti a Bruxelles mi aveva detto che abitava appena fuori e che l’inquinamento del centro aveva peggiorato il suo mal di gola. Mi invitò da lui il fine settimana seguente, una domenica grigia e freddina che non avrei mai pensato di vivere nel sud della Francia. Pensai per un attimo che il Belgio e il suo clima mi perseguitassero. Fu nella sua abitazione che ebbi davvero una sensazione di déjà-vu: anche il fiumiciattolo che bagnava il giardino era lo stesso dei miei amici in Olanda, i mobili mi parevano identici e simili sembravano pure le trote che ogni tanto saltavano, e infatti a nord come a sud c’era il divieto di pesca, che chissà che avevano dentro quei pesci mutanti e incuranti del clima... Su un comodino la foto di un ragazzo paffuto, con C. elegante e una donna stagliati su uno sfondo pastello. È mio figlio, mi avrebbe detto poi, bofonchiando qualcosa che non avevo capito bene e che non avevo avuto il coraggio di approfondire a proposito di un’adozione a distanza. Della foto con Boutros-Ghali, invece, nessuna traccia. Poi mi aveva preparato un piatto di camembert e di minuscole fette di pane. Lo compro dal panettiere del residence, è aperto anche la domenica mattina fino a mezzogiorno. E aveva tirato fuori un bianco sudafricano, dicendo che era il suo vino preferito. Me lo porta mia moglie da Parigi, quando viene qui. Il vino della regione lo bevo ma non mi piace granché, troppo acido. Ma se vuoi ho anche della birra. La moglie non era molto cambiata rispetto alla foto che avevo visto in casa; in effetti dall’immagine anche C. sembrava piuttosto anziano, forse è per questo che, vicino al figlio ancora giovane, mi era venuta in mente la questione dell’adozione a distanza. Del ragazzo comunque, nello sparuto gruppo di persone che attorniava e confortava la donna, non c’era traccia. Un paio di quei signori mi sembrava di averli visti al bar con C., forse erano iscritti all’associazione italiana. Con C. non avevo avuto l’occasione di parlare dell’Eritrea. Ogni volta che introducevo l’argomento sviava il discorso, riportandolo ai suoi punti di riferimento abituali: il dottorato a Parigi, il lavoro all’Onu, le istituzioni di Bruxelles. L’unico accenno all’Eritrea era nel suo italiano (e nei riferimenti vaghi alla scuola) e nel ricordo della guerra, che però, di fatto, aveva “fuggito”. Ma mi sembrava fosse fuggito, o piuttosto passato accanto, a molte altre cose. Quel funerale surreale, all’interno di un residence i cui abitanti, pur conoscendolo almeno di vista, avevano tutti deciso, per paura più che per indifferenza, di rimanere nelle proprie abitazioni, ne era l’ultimo segno tangibile. Da lontano mi era sembrato che la moglie mi avesse fatto un gesto, una sorta di saluto o qualcosa del genere. Le ho fatto un sorriso, dubbioso sul fatto che potesse davvero vederlo dalla distanza in cui mi trovavo. Poi mi sono girato e lentamente sono tornato alla macchina. 99


Attraversando una molteplicità di storie già indagate nell’ambito della sua già cospicua attività scientifica, Daniele Comberiati si pone una domanda molto semplice, che però ha la capacità di ridefinire i contorni dell’esperienza umana nel suo complesso: esistono segreti, o anche esperienze incomunicabili, che ci portiamo nella tomba? Hanno a che fare soltanto con le profondità della psiche umana oppure

riguardano anche quell’intreccio stretto delle vicende individuali con una più ampia storia collettiva che segna le esperienze di ciascuno? Cosa si può raccontare, ad esempio, della propria esperienza personale

«in Africa», se già quest’ultimo sostantivo rappresenta – dopo secoli di dominazione coloniale europea,

che non ha portato alcun incremento di conoscenza dei luoghi e dei popoli sottomessi – un concetto labile, una rappresentazione generica, uno stereotipo? Tra questi dubbi, di certo rimane soltanto il fatto che, come in ogni buon racconto, la «piccola morte» al centro della narrazione di Daniele Comberiati ha il potere

Foto: Claudio Capanna

di evocare continuamente «grandi storie».

Daniele Comberiati Professore associato di italianistica presso l’Université Paul Valéry di Montpellier. Ha pubblicato i saggi Scrivere nella lingua dell’altro. La letteratura degli immigrati in Italia (1989-2007) (Peter Lang, 2010), Tra prosa e poesia. Modernità di Sandro Penna (Edilet, 2010), «Affrica». Il mito coloniale italiano attraverso i libri di viaggio di esploratori missionari dall’Unità alla sconfitta di Adua (1861-1896), (Cesati, 2013). Nel 2014 è uscito il suo libro La caduta dei gravi. Roma, gli anni Novanta, la fuga (Nerosubianco) e nel 2015 il romanzo Vie di fuga con Besa Editrice (Premio Calabria e Basilicata). 100


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Sonno

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Domani


Sonno è una giovanissima artista che lavora ai confini tra disegno, illustrazione e fumetto,

presentando spesso brevi situazioni, momenti, dialoghi, colti con un segno icastico ed essenziale,

che risente certo – come per molti autori della sua generazione, ma qui riletto con un segno personale, nel tratto e nei temi – della lezione di Gipi ne La mia vita disegnata male e opere seguenti. Per il progetto

DON’T KICK ME OUT, Sonno presenta cinque rapide vignette quadrate e mute, tratteggiate con un segno minimale ma efficace. L’autrice presenta così questo lavoro: «Un uomo sta camminando, ha una valigia.

Sguardo vuoto, asettico. Va avanti, intorno a lui il deserto. L’uomo siamo noi, costretti a camminare senza distrarci. Perché ci sono cose più importanti, ma ci penseremo domani». La figura presentata, dunque,

è del tutto generica, permettendo al lettore di rispecchiarvi la propria situazione esistenziale; incuriosisce, però, la quarta vignetta, in cui il naso tozzo e squadrato diviene quasi, nel tratteggio rudimentale,

una proboscide d’elefante, effetto suggerito forse anche dal tono grigio della figura. Il simbolo animale della memoria si associa così all’assenza di pensiero portata dall’ossessione dell’andare, del domani che incombe: il tutto contribuisce a un sottile effetto straniante.

Sonno Nome d’arte di Michela Rossi, 24 anni, romana. Lapidaria del descriversi: «Disegno e scrivo». sonnomonamour.wordpress.com 103


Cristiana Astori

Tutto quel nero (inediti)

Juliette è un film di Jess Franco del 1970 con Soledad Miranda, tratto dall’omonima opera del Marchese De Sade. Purtroppo la pellicola è rimasta incompiuta a causa della morte dell’attrice e il regista ne ha girato un remake hard nel 1975 con Lina Romay, De Sade’s Juliette. L’originale con la Miranda è invece introvabile e, pare, sia andato distrutto. In Tutto quel nero, ho immaginato che la pellicola di Juliette fosse stata bruciata dallo stesso Jess dopo aver appreso dell’incidente della sua musa. Per non appesantire l’intreccio noir ho deciso di tagliare quei brani. Ora li ripropongo qui come omaggio a un’ineffabile pellicola che non vedremo mai e proprio per questo ci manca. Si era affacciato al balcone e aveva sentito la musica. Quella musica. Il Sogno d’amore n.3 di Franz Liszt. Proveniva da una finestra proprio di fronte alla sua, dall’altro lato della strada. Il Regista si accese il sigaro e guardò meglio. Erano le due di pomeriggio e il sole era alto nel cielo, eppure quella stanza era avvolta nell’oscurità. Le note del pianoforte si diffondevano tra i due palazzi per arrivare fino a lui, sospese nel vuoto. Il Sogno d’amore n.3 di Franz Liszt. Tentò di scoprire l’identità del misterioso pianista che suonava al buio. Non aveva mai avuto un vicino musicista. L’esecuzione non era eccellente, anzi piuttosto naif, ma le note erano calde. Si snodavano ipnotiche nell’aria e quasi lo toccavano. Era sempre più curioso. Entrò in casa a prendere un binocolo. Ora si sentiva come il voyeur del film di Juliette che spiava Soledad dalla finestra di fronte. Soledad... Avvicinò il binocolo agli occhi e fu nell’altra stanza. Le tende leggere, la penombra, il parquet che scricchiolava, l’odore di pescados che si levava dalla cucina e quel grande pianoforte appoggiato alla parete con su i candelabri in ottone e una sagoma china sui tasti. Quel posto gli era familiare. Mise a fuoco le lenti e guardò meglio: era lui! Il pianista era lui! Lui da piccolo, quando era appena un ragazzino. Ma era lui. E quello era il pianoforte di suo fratello. Enrique sì che era bravo, faceva il conservatorio. ¡Niño,qué mal tocas el piano!, aveva esclamato una volta sua madre, ma lui se ne era fregato. Glielo dicevano di continuo, anche con il suo cinema, ma lui non era mai stato a sentire nessuno. Quel pezzo di Liszt era tra i primi che aveva imparato e lo suonava di continuo, fiero. Era diventato il suo tormentone. Nella Spagna franchista non c’erano molti passatempi. Il regime aveva gettato su ogni cosa un drappo oscuro e soffocante. Tutto era proibito, a parte respirare. E poco altro. Allora si era messo a strimpellare e a leggere, come un pazzo. Il Sogno d’amore n.3 di Franz Liszt e il Frankenstein di Mary Shelley. Un’accoppiata bizzarra, forse. Ma che cosa di lui non lo era? Il personaggio del dottor Frankenstein lo affascinava. Come l’aveva affascinato la giovane autrice, Mary Shelley, che nell’introduzione si descriveva da ragazzina, immersa nella desolata campagna scozzese, intenta a inventare mondi e a riempire le ore con creazioni molto più interessanti delle sue stesse sensazioni a quell’età. Era sorprendente pensare che proprio quella ragazzina, non molti anni dopo, avrebbe dato vita a un personaggio come il dottor Frankenstein... Il Regista aspirò una boccata di fumo e continuò a guardare verso il balcone. Gli sembrava di sentire l’odore di cera del parquet, il suono di quella melodia al pianoforte, la voce della madre dalla cucina, mentre se ne stava raggomitolato in poltrona o sdraiato sul tappeto a leggere le gesta dell’uomo che aveva osato sfidare le leggi della natura... Tutto davanti a lui si mescolò, come in un’unica folle visione. Scorse lo scienziato chino sul tavolo operatorio, avvolto dalla melodia di Liszt e dal profumo dei pescados, che impugna un candelabro e illumina il volto del morto, animato dall’impulso irresistibile di dargli nuova vita. ...dargli nuova vita... 104


Come ammirava Sade per l’ironia, di Victor Frankenstein apprezzava il coraggio. Il suo valore non stava tanto nell’abilità di scienziato, ma nel fatto che aveva osato. Era andato oltre al limite, aveva usato la razionalità contro la razionalità e oltrepassato la barriera tra la vita e la morte. La vita e la morte... Soledad morta... no es posible... Già,non era possibile. Perché sarebbe stato lui a impedire che lo diventasse. Ora non era più un ragazzino che leggeva e strimpellava il pianoforte, mentre di là la madre cucinava i pescados. Ora era diventato un regista. Un Victor Frankenstein che per infondere la vita non aveva bisogno di raccogliere materiali da cripte, sale anatomiche o mattatoi, né scoperchiare tombe e torturare animali ancora vivi... No, niente di tutto quello. A lui bastava la macchina da presa. Jess Frankenstein... Ascoltò le note del Sogno d’amore di Liszt svanire nell’aria, mentre un tepore lieve gli allargava il petto. Non esisteva davvero pezzo più appropriato.

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Cristiana Astori, “regina del noir” italiano, nella sua trilogia dei colori ha creato un’innovativa figura di detective con Susanna Marino, cacciatrice di pellicole scomparse, una outsider della cultura,

nonostante le sue indubbie capacità: nei codici del genere giallistico, riflette bene la “generazione

DON’T KICK ME OUT”: marginalizzata dalle baronie culturali, va a cercare film “marginali”, perduti e ingiustamente dimenticati.

Per il progetto DON’T KICK ME OUT Cristiana ci ha offerto un “fotogramma perduto” del suo Tutto quel

nero, il primo, il romanzo più “esoterico” della trilogia. Al centro vi è un altro film perduto, Juliette (1970) di Jess Franco, tratto da De Sade e con protagonista Soledad Miranda, che Cristiana immagina bruciato dallo stesso Franco dopo la morte della diva. Una sorta di Inception del tema dell’Opera Perduta, insomma, e in generale sul fascino di cinema e letteratura.

Come afferma Cristiana stessa, «le cose che ci affascinano sono quelle celate ai nostri occhi: il cinema

stesso, quello ben fatto, attraverso le immagini, rimanda sempre a qualcosa di segreto che non può essere

rappresentato, ed è questo che ci colpisce ed emoziona. [...] I film scomparsi sono chiusi, impenetrabili, quasi frustranti, e proprio questa loro assenza fornisce un grande apporto al nostro immaginario, assottigliato dalla società dei consumi».

 Cristiana Astori Scrittrice e traduttrice, autrice per il Giallo Mondadori della trilogia Tutto quel nero (2011), Tutto quel rosso (2012) e Tutto quel blu (2014). Ha pubblicato racconti su varie antologie e tradotto, per Sonzogno e Mondadori, autori come Jeffery Deaver, Douglas Preston, Richard Stark e il ciclo di Dexter di Jeff Lindsay che ha ispirato l’omonima serie tv. 106


Intervista a cura di Lorenzo Barberis Il progetto DKMO nasce da una riflessione sull’attuale situazione italiana, caratterizzata – specie nell’ambito delle professioni creative – da una forzata “fuga” verso l’estero, anche a causa della crisi sistemica incombente. Qual è la tua percezione del fenomeno, riguardo all’ambito letterario in cui ti trovi a operare?

lui confuso e incerto: oltre a dare un quadro vero della nostra realtà quotidiana, e a denunciarla, ho pensato che questo facilitasse anche l’identificazione del lettore. Se un personaggio è troppo distante da me e tutto gli funziona, è difficile che mi ci immedesimi e che mi coinvolga nelle vicende.

Le storie che scrivo partono dal giallo, ma sfumano nel thriller e nell’action, spesso con venature horror: insomma, non si tratta del solito, rassicurante giallo con il commissario, che è il più richiesto in Italia. L’idea di proporsi all’estero, in cui la narrativa di genere è più letta e diffusa, è senza dubbio una tentazione e so di colleghi che ci stanno provando. Qui in Italia, il buonismo regna sia nel cinema (che produce quasi esclusivamente commedie garbate) che nella narrativa, in cui certi generi, specie l’horror, vengono sottovalutati quando non demonizzati. Per uno scrittore, comunque, non è immediato esportare le proprie creazioni, almeno non quanto un disegnatore di fumetti o un pittore, in quanto sussiste lo sbarramento della traduzione e questo impone la necessità e il rischio di un investimento economico.

Questi tuoi romanzi hanno al centro anche altri “esclusi”: pellicole perdute e registi dimenticati. Un espediente letterario per far partire un’avventurosa ricerca, o qualcosa di più?

Anche Susanna Marino, la protagonista della tua “trilogia dei colori”, sembra una “esclusa” dal sistema culturale, o perlomeno messa (ingiustamente) ai margini, tra lavoretti precari e baronie universitarie e culturali (pur essendo narrato il tutto con una certa ironia). Perché questa scelta? L’idea all’origine di Susanna era quella di diversificare il prodotto e quindi il punto di vista, allontanandomi dal classico e già visto “giallo con il commissario” che ho già citato. Mi piaceva il fatto di raccontare una storia che ricalcasse il nostro periodo di confusione e di incertezza, e che presentasse un “eroe” sui generis, anche

Da un lato si tratta di un semplice guilty pleasure, un modo di togliermi uno sfizio: il mondo dei film scomparsi mi ha sempre intrigato e, dato che mi piace raccontare delle cose che amo, non ho potuto resistere a tale tentazione. Inoltre sono dell’idea che le cose che ci affascinano siano quelle celate ai nostri occhi: il cinema stesso, quello ben fatto, attraverso le immagini, rimanda sempre a qualcosa di segreto che non può essere rappresentato, ed è questo che ci colpisce ed emoziona. A maggior ragione, in un mondo in cui tutto ormai viene mostrato, sbandierato o si può visionare con facilità, i film scomparsi sono invece chiusi, impenetrabili, quasi frustranti, e proprio questa loro assenza fornisce un grande apporto al nostro immaginario, assottigliato dalla società dei consumi. In particolare, in Tutto quel nero troviamo un riferimento all’esoterico abbastanza forte, più accentuato che negli altri due (dove talvolta torna sottotraccia, specie nella figura di Grey). Come nasce questa scelta? Tutto quel nero è la prima storia della “trilogia dei colori”. Nella mia mente, in realtà, avrebbe dovuto essere l’unica. Poi i lettori si sono affezionati al personaggio 107


di Susanna e mi hanno incoraggiato a raccontare altre avventure: la mia idea, però, non è quella di replicare le storie precedenti (come accade spesso nei piatti sequel cinematografici), ma di inventarne di nuove che contenessero sì gli elementi caratteristici del mondo di Susanna, ma che si differenziassero per ispirazione, atmosfera e anche per stile di scrittura. Tutto quel nero è infatti fortemente legato all’alchemica opera in nero, a Jung e ad Aleister Crowley: la struttura della storia è un calarsi in profondità, nel passato – inteso come l’epoca di Jess Franco e Soledad Miranda, ma anche nel passato traumatico di Susanna – un immergersi nel nero e nella morte che presuppone una rinascita verso la luce. In questo, la guida dello sciamanico Grey Angel è fondamentale, l’angelo grigio che unisce il bianco e il nero, il bene e insieme il male, due aspetti della stessa medaglia con cui junghianamente tocca venire a patti per trovare se stessi. Gli altri due romanzi della trilogia, invece, toccano altri temi e atmosfere, anche se la rinascita di alcuni personaggi è un elemento che spesso ritorna: in fondo, le avventure, come direbbe Vogler, sono sempre il viaggio di un eroe alla ricerca di un talismano e insieme quello dello scrittore alla ricerca della sua Storia. Pur approdata a un thriller venato di giallo, tu hai anche alle spalle un rapporto solido con la letteratura dell’orrore. Da sempre l’horror è stato in grado di raccontare in controluce, in chiave fantastica, le dinamiche di esclusione della società. Secondo te, in qualche modo, l’orrore e il fantastico di oggi sono ancora in grado di affrontare con efficacia tali temi? A mio parere, per via del buonismo diffuso a cui accennavo sopra, l’horror si è snaturato, trasformandosi in una sorta di fantasy edulcorato, in cui prevale un sentimentalismo superficiale e consolatorio. Le sto108

rie dell’orrore sono state private del loro potenziale catartico, soprattutto per esigenze commerciali. Ciò ha contribuito a creare la moda di personaggi che rassicurano e non provocano inquietudine, come per esempio i vampiri della Meyer e ciò che ne è conseguito. Sussiste comunque un gruppo di scrittori fedeli al genere delle origini e mi auguro che in futuro le loro storie tornino a prendere piede come nell’epoca in cui l’orrore faceva veramente paura.


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Carnovsky

Vesalio

Vesalio 3 Stampa giclée, 42 × 25 cm

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Vesalio n. 3 è un progetto di Carnovsky all’insegna della tecnica RGB (“Red-Green-Blue”, ovvero i tre colori di scomposizione della luce). Quest’ultima esigenza nasce dall’ipotesi di un sistema di decorazione di interni che possa mutare e interagire con stimoli cromatici differenti: RGB, infatti, consiste nella sovrapposizione

di tre immagini diverse; attraverso un filtro colorato (una luce oppure un materiale trasparente), è possibile vedere nitidamente i livelli in cui è scomposta l’immagine.

In questo ambito, la ricerca artistica di Carnovsky ruota attorno al concetto di metamorfosi, intesa come

incessante mutamento di forme a partire da un caos primigenio. Ne nasce un catalogo di forme naturali che comprende anche l’uomo, che prende spunto dai grandi testi della storia naturale europea, tra il XVI e il

XVIII secolo: da Aldrovandi a Ruysch, da Linneo a Bonnaterre, passando dall’anatomista e medico fiammingo Andrea Vesalio (1514-1564). Un catalogo che non ha, tuttavia, un fine tassonomico e scientifico nel senso moderno, ma che vuole, alla maniera dei bestiari medievali, classificare sia il reale che il fantastico, sia il vero che il verosimile.

Tout se tient, così come succede all’arte del design contemporaneo, che trova nuova legittimazione

proprio nella cultura del Rinascimento europeo. Acquista così un valore positivo l’intera “lezione del

Rinascimento”, un’epoca in cui, a più riprese, gli artisti italiani sono stati “espulsi” dal paese, contribuendo, però, alla rinascita della cultura e delle arti in tutto il continente.

 Carnovsky Carnovsky è un duo di designer milanesi formato da Silvia Quintanilla e Francesco Rugi, attivo dal 2007. Da allora espongono in tutto il mondo (Berlino, Londra, Parigi, Sidney, Toronto, Tokyo...). Tra i loro lavori, l’ultimo e più acclamato è RGB (Red-Green-Blue, i tre colori di scomposizione della luce), ricerca sulla profondità della superficie. www.carnovsky.com 111


Intervista a cura di Lorenzo Barberis Il progetto DKMO nasce come una riflessione sull’attuale situazione italiana, caratterizzata da una maggiore dinamicità verso l’estero anche per via della complessiva crisi di sistema, a vari livelli. Qual è la vostra percezione del fenomeno, riguardo all’ambito del design? Dal nostro punto di vista, abbiamo fin dall’inizio avuto chiara una dimensione internazionale. Se oggi non ti poni come obbiettivo, almeno potenziale, il mondo, semplicemente non esisti e hai già perso in partenza. In ambito più generale e in particolare nel sistema del design italiano questo è un fenomeno già molto presente fin dagli anni Settanta. Parliamo di un settore che è molto orientato all’export non soltanto in termini di fatturato ma anche di idee, di ideologie e di estetiche, ma che allo stesso tempo ha importato molti talenti dall’estero. Molti dei riconosciuti maestri di oggi, da Starck a Jasper Morrison sono diventati grandi anche per il fatto di aver lavorato in Italia con delle aziende italiane. Un processo di scambio continuo molto importante. Il provincialismo, il protezionismo sono sempre un errore. L’Italia gioca la sua partita globale meglio di quanto non possa sembrare a un analisi superficiale, ma certo potremmo fare molto di più se solo riuscissimo a scrollarci di dosso quel miscuglio tossico di complessi di inferiorità e di superiorità che purtroppo spesso ci caratterizza come nazione. Una chiave di lettura che abbiamo trovato in DKMO, e che è emersa anche da altri confronti e contributi, è il possibile valore di modello positivo della “lezione del Rinascimento”, un’epoca in cui, a più riprese (il 1492, il 1527…), gli artisti italiani sono stati “espulsi” dal paese, contribuendo però così alla rinascita europea della cultura e delle arti. Nel vostro lavoro RGB appare esserci un forte riferimento al Rinascimento. Qual è il motivo di questa scelta? 112

Il tuo riferimento al 1527, al Sacco di Roma, è molto interessante. Un’enorme tragedia naturalmente, ma allo tesso tempo il momento in cui, con la diaspora in tutta Italia e in Europa dei migliori artisti dell’epoca, si diffonde la maniera moderna e quindi il Rinascimento su scala continentale. Volenti o nolenti viviamo in un’ epoca postmoderna, in cui la citazione, il riferimento al passato sono quasi inevitabili. Lo facciamo anche noi, guardando al Rinascimento ma non solo, anche al ‘700, all’800. Però mischiando il tutto, ibridandolo con il pop, anche il kitsch talvolta, e con una certa ironia, speriamo. DKMO ragiona su varie “dinamiche dell’esclusione”, a vari livelli. Un altro elemento che appare dal vostro lavoro è una capacità di “reinventare la tecnologia” usando elementi tecnici magari già noti (l’RGB, i radiatori, etc.) ma sostanzialmente accantonati nel “mainstream” che vengono rivisti con un “lateral thinking” per produrre un design innovativo. Sì, certo. Comunque per noi la tecnologia è interessante solo come fine per creare un’estetica, della tecnologia per se stessa ci importa poco. Nel nostro lavoro c’è sempre l’unione di un elemento alto con uno basso: il Rinascimento unito a Las Vegas, o meglio Macau, considerando che quasi tutti i LED vengono prodotti in Cina… Abbiamo cercato di creare un’estetica interessante partendo da qualcosa considerato di cattivo gusto tipo le luci colorate… Per concludere, il design stesso, per molti versi, potrebbe essere visto in una posizione di ancora non totale inclusione nell’ambito delle tradizionali Belle Arti (come altri: fumetto, fotografia, videogame…) anche se negli ultimi decenni vi sono state parziali revisioni.


Qual è la vostra opinione al proposito? Oggi è veramente poco chiaro che cosa sia alto e cosa sia basso. L’arte ufficiale, quella delle Biennali o delle gallerie (con l’eccezione di alcuni pochi grandi artisti) è spesso un puro fatto di mercato, un mondo chiuso, finito, che ha perso completamente qualsiasi capacità di incidere sulla società, sull’estetica del tempo. Quell’arte lì è una roba completamente inessenziale, potrebbe sparire domani, e non se ne accorgerebbe nessuno… a parte forse qualche addetto ai lavori. Le cose veramente importanti, quelle ancora capaci di dire qualcosa, vanno cercate da altre parti: come dicevi tu in certi fumetti, in certi videogames, nei film di animazione, in un certo design, nelle serie TV… del resto sono le uniche cose che ci hanno sempre interessato. Per cui forse vale la pena vivere.

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Marina Sangiorgi

Xenia, dono e destino

a V.K. Quest’anno è stato l’anno della mia guerra. Ho scampato la guerra al mio paese e la guerra mi ha raggiunto nel mio corpo. Sono scappata da Sarajevo e in Italia mi sono ammalata. L’operazione, la mutilazione. Quest’anno sono saltata su una mina, in una sala chirurgica mi hanno ferita per sempre, mi hanno segnato, ho lasciato il mio tributo alla storia. Quest’anno sono sopravvissuta a stento, come i miei concittadini sotto i cecchini, come i miei genitori, salvi per miracolo, in fila alla cisterna dell’acqua. Mi sono ammalata e così ho vissuto la guerra che non avevo vissuto, anzi: ho avuto tutto, nelle ossa, addosso, la guerra e la malattia, e ora sono sola, così sola che le giornate si allungano vuote e disperate, per me, nell’estate che inizia, non so che fare; «Domanda a Dio», dice una mia amica, ma io sono comunista. Lei crede in Dio perché non sa quello che è successo a Sarajevo. A mia suocera, in uno degli ultimi giorni dell’assedio, hanno tagliato la gola. La madre del mio ex marito era musulmana. La ferocia è esplosa all’improvviso. Tra vicini di casa hanno cominciato a spararsi. Non può succedere nella mia città, pensavo. Nella mia via abitavano cattolici, ortodossi, musulmani, ebrei. Mia madre era ortodossa, mio padre musulmano, mia nonna cattolica, una mia zia ha sposato un ebreo sefardita. A casa mia si festeggiavano due Natali, il cattolico e l’ortodosso. I miei genitori credevano in Marx e mia nonna in Gesù e mio nonno in niente, canzonava tutti. A casa mia ci amavamo. Sarajevo era una città bellissima sotto le montagne; adesso pare viva, ma è morta. Il mio paese è sopravvissuto, è in bilico sul baratro, è appeso a un filo, ogni giorno si sta come sugli alberi le foglie (dice un poeta italiano), si sta precariamente, come me da quando sono malata. Ogni giorno mi chiedo: e oggi? Nell’inverno di Sarajevo tagliavano gli alberi dei viali per scaldarsi, mia madre si fermava a discutere, non voleva. C’erano meno venti gradi, non c’era il gas, e mia madre litigava per gli alberi! Quando ho rivisto i miei genitori, nell’estate del 1996 – nelle loro lettere tacevano i guai, scherzavano – ho pianto: erano magrissimi, scheletrici, sembravano prigionieri sopravvissuti ai lager. Ora vedo i profughi seduti per terra nelle stazioni, anch’io scesi dal treno a Bologna con una valigia e un bambino. Mia zia mi telefonò: «Xenia, che fai lì? Vieni a Vienna». Presi Jan, il suo violino, pochi vestiti primaverili e partii. Pensavo: finirà presto, smettono di sparare e torno. Invece dopo quattro giorni iniziò l’assedio. Chiusa fuori, sbarrata fuori da casa mia, in esilio. Mia zia era malata, nervosa. Restai un mese a Vienna. Cercai Birgit a Monaco, era stata mia testimone di nozze, ma non mi ospitò. Allora chiamai Gino e Teresa. Andavamo insieme al mare, nell’isola di Brac, eravamo già andati a trovarli a Bologna un paio di volte, Gino con mio padre era stato partigiano. Mi dissero: «Vieni subito». Mi videro, mi abbracciarono, mi portarono a casa loro; dal terrazzo guardavo il cielo azzurro, le grandi nuvole, le tapparelle alle finestre di fronte. «Non so come ringraziarvi». «Xenia, dono per gli ospiti, sei tu il regalo», scherzava Gino. Cercò di aiutarmi, mi presentò a un pezzo grosso, presidente di una cooperativa, che disse davanti a me: «Gli slavi bisogna aiutarli a casa loro». Giuro, disse così, mi venne da ridere, e infatti, appena uscì, risi. Mia nonna era austriaca, mio nonno francese, io mi sono laureata a Londra, su Shakespeare, e ho vissuto in Egitto e in Siria. Mi ricordo Aleppo, città dorata e profumata di gelsomini. 114


Il mio paese è il mondo, ogni camera d’ospedale è casa mia. Avrei potuto trovarmi sotto le tende dei campi profughi, in un ospedale da campo essere incisa dal bisturi. Adesso ho la cittadinanza, pago l’affitto, vado a lavorare. I primi tempi mi rinnovavano il visto ogni tre mesi, cercavo di arrangiarmi. Avevo un figlio di nove anni. Le donne dell’Arci mi aiutarono, lo iscrissi a scuola e Jan imparò l’italiano in due mesi. Ho lavorato come domestica, badante, cameriera, barista. A Londra, a vent’anni, mi mantenni all’università lavorando nei pub. Vivevo in una comune a Camden con i punk; chi si drogava, chi beveva, mentre io solo una birra ogni tanto, e un solo ragazzo, buffo e scozzese, con cui condividevo un materasso. Poi tornai a casa, conobbi Miro, ci sposammo. Nacque Jan. Dopo due anni mio marito andò a vivere con una ragazza bionda. Pure io sono bionda (somiglio alla mia bisnonna, nobile e dama alla corte di Sissi), ma quella ragazza era ancora più bionda di me, ho sempre pensato. A Sarajevo lavoravo in biblioteca. Grazie ad amici di Gino mi assunsero all’archivio di una fondazione, poi in altri posti. Adesso abito a Borgo Panigale, in autobus vado alla biblioteca in via Del Piombo, tra due anni incrociando le dita la pensione, stringerò la cinghia. Jan è fisioterapista, per fortuna lavora, viene a trovarmi spesso con Larissa e Thomas. Larissa è rumena, molto bella, bruna. Jan me lo disse dopo alcuni mesi: «È rom». Allora? Li ho sempre visti i rom a Sarajevo, le donne con gli occhi neri come la notte, i volti scavati, i bambini con le guance tonde e i capelli scarmigliati. Conoscevo anche una loro associazione, sono andata ai concerti. Sorrisi a Larissa: «Avete una bella tradizione culturale», dissi. E Larissa, che pure ha gli occhi neri come la notte, sbottò: «Ma quale tradizione! I rom rubano il rame per fare le pentole e le grondaie, mandano le donne a vendersi sulla strada, suo zio è diventato ricco con le truffe alle assicurazioni. Le donne le fanno sposare a quattordici anni e poi solo figli, in casa, con il velo in testa e le gonne lunghe. Hanno i milioni, ma li spendono in Mercedes e orologi d’oro». Meno male che lei è diversa, mi dice, lavora, porta i jeans, si raccoglie i capelli con una matita, in casa mia, e si mette a lavare i piatti. Thomas è bruno, con gli occhi grandi e grigi di Jan, un piccolo zingaro, mi corre incontro abbracciandomi le gambe: «Nonna!». Quanti popoli nelle sue vene. Jan mi ha detto: «Forse ci sposiamo». «Bene». «In chiesa. Larissa è cattolica». «Sei sicuro?» gli chiedo. Jan è cresciuto con Che Guevara e le feste di Liberazione in via Togliatti. «Sai, lei ci tiene. È credente». «Convivete da cinque anni, avete fatto un figlio». «Battezziamo Thomas nella stessa cerimonia». Lo guardo. «Sei arrabbiata?» mi chiede. «Siete adulti, siete voi i genitori». Il mio bisnonno è morto tornando dalla Mecca, è in paradiso di sicuro, probabilmente capirebbe. Lo dico alla mia amica che crede in Dio, e lei ride: «Perché non ti converti?», mi propone. I cecchini spararono a Sarajevo durante una manifestazione per la pace, c’erano molti italiani, morì un ragazzo di Padova. Ho conosciuto sua madre. Era venuta a Sarajevo per vedere quel punto, si fermò davanti al muro. Non piangeva, stava in silenzio, forse pregava. 115


A Sarajevo tanta gente si è suicidata dopo la guerra. Hanno resistito all’assedio, sono finiti i massacri, eppure molti – alcuni li conoscevo – si sono buttati dalle finestre, si sono impiccati nei bagni. Non mi interessa questo Dio, per cosa mi ha fatto? Si è preso tutto, la vita, la patria, il mio corpo. «Ti ha dato anche tutto» ribatte la mia amica. «Tutto è troppo poco. Non mi interessa. Non mi basta». Le offro una torta. Dice: «Buona, con le arance?». «No, di carote». Invento le ricette, mi piace cucinare. Quando mi portano Thomas mangiamo un budino di cioccolata, gli leggo le favole sul divano. Si appoggia a me, e mi preoccupo: ho paura che se ne accorga, ma sorride contento. Ogni volta che qualcuno mi abbraccia o mi guarda temo che capisca. Ho il reggiseno con la protesi, la gommapiuma al posto della carne, che cosa sono ormai?, non una donna, una carcassa; non sono niente e non ho un posto. «Non sono di nessuno e di nessun posto. Il mio paese è il mondo», ho detto alla mia amica. «Sì, è così anche per me. Il mio monastero è il mondo». Thomas chiude gli occhi, lo guardo, gli astri del cielo girano intorno a questo bambino che dorme, – tutto deve avere un senso, mio nipote deve essere felice, se riuscissi a pregare forse pregherei, per lui e ogni altro figlio, e figlia, che non debba più subire nessun male, che non succeda più niente di atroce alla gente – ma è inutile, non spreco l’energia e il fiato. Mi stendo sul letto invece, una pillola per dormire, e un altro giorno è andato.

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Stando al titolo, Xenia dovrebbe essere colei che porta dono e destino all’incrocio delle strade di

Sarajevo, Vienna, Londra, Bologna e di altre città ancora. In entrambe le determinazioni, tuttavia,

dominano le note dell’amarezza e dell’ironia, perché ciò che Xenia porta con sé, in primo luogo, è la ferita insanabile della guerra, intesa tanto come il conflitto che ha lacerato il territorio e la storia jugoslava, quanto come la malattia che colpisce la donna al suo arrivo in Italia. Marina Sangiorgi racconta

una storia durissima, perché chi, con Xenia, può dire: «Il mio paese è il mondo, ogni camera d’ospedale

è casa mia», sta guardando, in realtà, il lato oscuro di ogni facile cosmopolitismo e di ogni banale retorica dell’incontro. Una sofferenza di questo tipo non si sopprime mai del tutto, non lascia mai una vera e propria via di scampo.

Marina Sangiorgi Nasce nel 1972, si laurea in Lettere a Bologna, vive a Imola e scrive racconti. Ha pubblicato Frammenti di un’autobiografia imperfetta (Il Vicolo, 2000) e Rubare tempo all’allegria (Raffaelli, 2008). Suoi racconti sono presenti su riviste e in varie antologie, cura la rubrica Salotto letterario per la rivista clanDestino. Fa parte dell’associazione culturale di scrittori Viaemiliaventicinque. Ha scritto testi teatrali messi in scena dal Tilt (Trasgressivo Imola Laboratorio Teatro). 117


Tomas Bassini

Senza Titolo

Ăˆ curioso pensare a come i panni stesi si comportano sempre alla stessa maniera. Per loro non fa alcuna differenza, stare da me o stare da te è la stessa cosa. Se ci pensi se la passano parecchio comoda, loro. A me son toccate quasi tre ore di volo, sei di pullman e venti minuti di traghetto per arrivare alla conferma che è comunque la solita storia. E in aereo ho pure mangiato male.

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Da più di un secolo a questa parte, il genere lirico non è più associato in modo univoco e inappellabile

all’effusione dell’Io, delle sue sofferenze e dei suoi mali. Da vari decenni, la pratica dell’understatement –

che ha raggiunto il suo apice con la diffusione dell’estetica postmodernista – tende a contraddire o anche solo a sminuire l’assolutezza del sentimento individuale. Oltre a rimettere in gioco la costruzione stessa del soggetto della lirica in rapporto alla società, questo fenomeno ha un notevole impatto tonale, spesso trascurato dalla critica letteraria più irrigidita e austera: dona leggerezza e brio.

È questo il caso della poesia di Tomas Bassini, capace di mettere in versi una storia di distanze e solitudini – di kicking out, come si dice da queste parti – in primo luogo con una serie di spiazzamenti figurali

a partire dall’immagine, altrimenti abusata, dei panni stesi e infine di strappare un sorriso con una chiusa fulminante e molto, ma non troppo, umana.

Tomas Bassini Nasce nel 1985, si laurea in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Siena. Risiede attualmente a Çanakkale (Turchia). Per le edizioni Lettere Animate pubblica nel 2014 l’e-book Di quelli con cui. La sua prima raccolta di poesie è stata pubblicata dall’editore Galassia Arte nel novembre 2014, È stato l’amore la grossa fregatura. 119


Cutter

Untitled #1

Untitled #1 Tecnica mista su carta, 21 Ă— 29,7 cm

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Il lavoro artistico di Cutter nasce da un mash-up vorticoso di diverse tendenze artistiche, dai manga di

Go Nagai al segno di Picasso e altri grandi delle avanguardie storiche, tenendo anche conto delle ricerche più aggiornate della storia dell’arte, da Murakami a Charles Burns.

Nell’opera realizzata per DON’T KICK ME OUT, c’è un muro al centro della scena, che taglia in due

terra e acqua. Una figura ambigua si trova a cavalcioni: un corpo più umano (ma non privo di elementi

deformi) dal lato della terra e una parte più mostruosa che emerge dalle acque. La tentazione è di leggere

l’opera di Cutter in chiave Lovecraft: un Cthulhu o comunque un Old One che sale dalle acque, e uno della sua progenie terrena “dall’altra parte del muro” (in Lovecraft, tra l’altro, il fantastico era anche il luogo delle sue idiosincrasie paranoidi per le migrazioni che minacciavano il suo New England). Tutto ciò non

risolve però l’ambivalenza della figura: è un solo essere che si presta a scindersi, o viceversa due esseri che si stanno fondendo in uno solo, o sono semplicemente due figure affiancate e indipendenti? Stanno

andando dal mare verso la terra, oppure viceversa, oppure ancora sono immobili? Di certo, l’ambiguità riflette l’indefinitezza in cui si trova la generazione kicked out: a suo modo, quindi, diviene

“macchia di Rorschach” in cui ognuno può cogliere la sua interpretazione di un inquieto “passare il muro”.

Cutter Nome d’arte di Emiliano Pireddu. Nasce a La Spezia nel 1978. Dopo il Liceo Artistico Statale di Cagliari, si è laureato all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Lavora da freelance come cartoonist, web e graphic designer. Per l’illustrazione predilige una tecnica mista di acrilico, penna bic e grafite su carta; per la pittura, tecnica mista (olio, smalto, acrilico e grafite) su carta o tela. www.cutterslab.com 121


Anna Carla Scesi

Allora Tu sei la mia Lezione più grande

Sono in un’osteria, il sole è tramontato, sto cenando e scrivo del conflitto, scrivo dell’incontro, scrivo del nuovo che nasce grazie all’incontro di due poli, scrivo che dal conflitto di due corpi, di un corpo e di una cosa, di una mano e di uno strumento, di due opinioni, di due nuvole, di due nazioni, nasce un rumore, un manufatto, la pioggia, un suono, un bambino, una nuova entità, una nuova idea. Sfioro con le dita una moneta che è qui sul tavolo e penso che l’intensa identificazione con un polo del conflitto conduca inevitabilmente allo scontro con il suo opposto. Qualcosa di nuovo emerge in noi, e lo osserviamo contemporaneamente anche nel mondo esterno: attraverso l’incontro con una nuova persona, con i suoi pregi oppure i suoi difetti, l’incontro con un nuovo lavoro, con una nuova idea, con un popolo o una credenza diversa. Come se la moneta si capovolgesse sul tavolo della vita e mostrasse improvvisamente una faccia sconosciuta e nuova. Ciò minaccia di cambiare la nostra prospettiva, mettendo in discussione la vecchia faccia alla quale eravamo abituati e che ci donava sicurezza, con la quale ci identificavamo e verso cui provavamo uno stabile senso di appartenenza, e allora mi chiedo: come mai non arriviamo a intuire che le due facce sono sostanzialmente parte della stessa cosa? Come mai vengono evocati sentimenti di diffidenza, sospetto, aggressione, violenza verso le persone e gli eventi che non rientrano nel conosciuto? Forse incombe più del dovuto l’eterno conflitto della paura contro la fiducia e si diffonde come un virus dalla terra interiore verso la nostra esteriorità. Anch’io mi dimentico di me molto spesso, di chi sono veramente: mi sembra di perdere la strada per tornare in me e la ricerca muove sempre a nuovi ventagli di possibilità. Mi piacerebbe accettare l’esistenza del conflitto come fosse solo un cambiamento di stato e trasformarlo, smascherare l’ignoranza e la paura che in maniera occulta fanno trasudare da questo sostantivo ombra e negatività con l’intento di evocare violenza e potere distruttivo e vorrei elevarlo a passaggio creativo. Riconoscere il suo beneficio, la sua grazia, toglierlo dalle segrete polverose del castello e incoronarlo. Restituirgli riconoscimento di ruolo come parte naturale e integrante del processo della vita, della chimica di ogni particella che si incontra, si scontra e trasforma se stessa. Mi piacerebbe che la parola conflitto suonasse come una benedizione e fosse ricordato come il principio della vita stessa. E quindi sono qui in questa osteria, è sera inoltrata, sto cenando e scrivo del conflitto, dell’incontro, della crisi, del nuovo. Scrivo di passaggi, di posti e poli che uno lascia e nei quali non è ancora sicuro di essere arrivato. Scrivo della fine di uno scontro. Scrivo dell’amore, di possibilità di comprensione. Scrivo di sospensione. Scrivo di me che scrivo che sono in un passaggio fra ciò che ero e ciò che sarò. Sono alla fine di una lunghissima crisi, e mi sto chiedendo se sono a casa, se è arrivato finalmente il tempo della pace, della sintesi dei due poli, del riconoscermi in un nuovo io appena nato e appena fiorito. Mi sto chiedendo se anch’io sono capace di assimilare e accettare quello che ho ritenuto fino a qualche tempo prima altro da me, entrando in conflitto. Se dopo tutto questo scrivere, riesco ad accogliere una visione che ho creduto diversa e ho aggredito. Alzo lo sguardo dal foglio, un ragazzo mi guarda, ha occhi antichi, dolci, saggi, ha una custodia sulle spalle. «Sei un musicista?» domando. «Si, sono un violinista» risponde. E come in un lampo mi viene in mente un sogno di un anno prima dove una ragazza suonava un violino per trasmettere agli altri l’armonia suprema e questa le veniva a sua volta trasmessa da un angelo e mi veniva detto, da una voce fuori 122


campo, che molte opere d’arte erano state trasmesse in questo modo. Mi risveglia una battuta timida e rispettosa dell’oste che sta chiedendo al ragazzo di suonare qualcosa e osservo la risposta del ragazzo. Lui scambia qualche sincero convenevole e, di buon grado, appoggia la custodia all’estremità opposta del mio tavolo ed estrae il violino. Sistema l’archetto, accorda lo strumento e ci racconta timidamente quello che vorrebbe suonare: una delle sedici Sonate sui Misteri del Rosario del musicista H. Biber. È la sonata nella quale si racconta che per ognuno di noi, dopo tutti i misteri della vita di Cristo, è rimasto accanto un angelo: l’angelo custode. Ed ecco che sono qui in questa osteria, è ormai notte fonda e siamo in cinque ad ascoltare la sua musica: io, quello che sembrerebbe essere il maestro del violinista, una coppia di ragazzi e l’oste. Mi sembra un sogno. Non scrivo, mi limito ad ascoltare, come fossi altrove, questa musica soave e sono rapita dalla coincidenza tra il mio sogno e tutto ciò che sta accadendo in questa osteria: il violino, l’angelo, lo scrivere del conflitto, l’armonia trasmessa alle persone dai piani sottili dell’esistenza. Respiro improvvisamente bellezza, proprio la stessa che nasce alla fine di un conflitto. Sono a casa, è l’alba e sto scrivendo della vita che, a domanda, risponde. Il titolo è tratto dalla poesia Alcesti di Mariangela Gualtieri (Bestia di gioia, Einaudi, 2010).

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Può esistere un incontro che escluda il conflitto o, viceversa, un conflitto che escluda l’incontro?

Su questo rovello, che è di natura intimamente filosofica, s’interroga la voce narrante di Allora Tu sei la

mia lezione più grande di Anna Carla Scesi. Apparentemente un semplice frammento di un “diario d’osteria”, dove le osservazioni della vita circostante si mescolano a riflessioni e spunti lirici, il testo pone

interrogativi che sono in realtà ineludibili per chiunque voglia confrontarsi con il presente e con le sue

dinamiche pressanti di inclusione ed esclusione. Sarà soltanto l’apparizione, quasi epifanica, di un musicista a dipanare la matassa non tanto di queste domande, ma delle ansie, se non delle angosce, che ne nascono, per scoprire, infine, che davanti a tanti quesiti, solo della vita stessa, nella sua pienezza e compiutezza, si può dire che «a domanda risponde».

Anna Carla Scesi Nata a Bologna nel 1982, si laurea in Biologia presso la facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. Parallelamente, si diploma come counselor, figura professionale esperta nella relazione e nella facilitazione di processi psicologici. Partecipa alla messa in scena di diversi progetti teatrali della Compagnia Teatro dell’Argine fra i quali Cronache da un mondo perfetto e Il Sapore dell’acqua. 124


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Alessandro Vecchi

Una corsa nello spazio contro il tempo

Foto tratte dal reportage Sky’s Connection Cina, 2011

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Negli scatti di Alessandro Vecchi si parte sempre dalla realtà, accondiscendendo a un’illusione che l’arte

della fotografia porta inevitabilmente con sé fin dalla sua nascita. Tuttavia, nelle immagini catturate dalla macchina fotografica di Alessandro, DON’T KICK ME OUT riesce anche a farsi qualcos’altro, come

l’autore stesso sintetizza: «DKMO è per me una preghiera, un’invocazione. Un estenuante continuare a

muoversi alla ricerca dell’essere umano e del suo senso per trovare nell’altro le risposte che mi sfuggono. DKMO è quello che grido da dentro ogni volta che mi sveglio, ogni volta che porto con me la macchina fotografica, pretestuoso passepartout, per aprire la prossima porta. La Vita, la Morte, la Preghiera,

i mestieri antichi e moderni, il quotidiano. Osservare in un’estenuante rincorsa a un senso che mi faccia

sentire parte integrante del tutto cercando di elevarmi dal quotidiano restando al contempo connesso con la terra, con la realtà, come un aquilone che può mantenersi in aria ben saldo alla terra».

Alessandro Vecchi Fotoreporter. Nasce a Roma nel 1981 e studia fotografia fin da adolescente. Si diploma presso la Scuola per la Cinematografia e la Televisione Roberto Rossellini di Roma e da allora ha vissuto all’estero, in particolare tra Belgio, Cina, Irlanda, Scozia e Togo. www.alessandrovecchi.com 127


Raffaele Guida

Settefonti

Dalla collina di Settefonti, laggiù a Ozzano, quattro ruderi e la chiesa dell’Assunta, crollata, esausta, una ruga nel cielo che si staglia, abbarcata, dove c’era un paesino ora soffia silenzio. La smania vagava a cercare qualcosa, vasellame, ruderaglia, la vanga del servo cercare il niente, poca cosa, l’atteso le nuvole fredde muggivano. Un corvo. Risalendo la china compresi la fonte, quel traboccare d’acqua e le fronde gravide, non era, non più, i calanchi verdastri sprofondavano nello zolfo, franare di massi. Me ne andavo verso strade mai viste in una triste felicità, una domenica di novembre, senza più pensare, senza più svanire, nel tepore del primo gelo che punge la pelle. Dimenticavo chi ero, mio padre, gli affanni non avevo ancora trent’anni e abbandonai la paura e la gioia di vivere e morire, spiccavo erbe povere, felice, la mia cena. Amo il vento che costringe a coprirsi la testa, barbaro meridionale che confonde montagne per colline, il Cimone, gli Euganei, qui a Settefonti perdere, vedere. Vedere, perdere.

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All’inizio della poesia di Raffaele Guida, una panoramica del paesaggio sul quale si staglia la chiesa di Santa Maria Assunta di Settefonti (nel territorio comunale di Ozzano, in provincia di Bologna) sembra preludere – secondo un procedimento tipico della tradizione poetica europea, dal Romanticismo in poi – alla

descrizione di uno scenario interiore. Tra i versi, si può leggere, per esempio: «dove c’era un paesino ora

soffia solo silenzio» – una frase che tradisce anche una precisa reminiscenza ungarettiana, confermata

simbolicamente dal fatto che della chiesa oggi restano soltanto i ruderi, dopo il bombardamento subito durante la seconda guerra mondiale. In realtà, il testo ci conduce a un’esplorazione che è ben più complessa di una semplice interrogazione della natura e della propria interiorità, cogliendo un

personaggio in transito – anzi, un autoproclamato «barbaro meridionale che confonde montagne per colline» – che si pone di fronte tanto al proprio passato quanto al proprio futuro. L’esito è insieme metafisico e anti-metafisico, culminando nell’equivalenza finale, di caratura filosofica: «Perdere, vedere. Vedere, perdere».

Raffaele Guida Nasce nel 1987. Dal settembre del 2013 vive e lavora a Bologna, dove è iscritto alla facoltà di Lettere dell’Alma Mater. Ha viaggiato tra Marocco, Andalusia e Creta. Alcune sue poesie e contributi critici appaiono su riviste come Verde, Alibi e De-comporre. Tuttora collabora con quest’ultima, come redattore. 129


Valentina Rossi

Lo sciamano

Lo Sciamano Tempera su carta, 24 Ă— 33 cm

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In questa illustrazione, Valentina Rossi ci propone uno studio sulla figura archetipica dello sciamano. In molte culture, lo sciamano svolge la funzione di curatore, operando sulla linea di frontiera tra

il malessere visibile e non visibile; è un custode del passato e al tempo stesso un indagatore dell’oscurità

del futuro. Valentina Rossi ci propone un pensieroso sciamano moderno, del nostro tempo – come possiamo inferire dai vestiti – e che quindi lavora, con ogni probabilità, sul confine sottile tra inclusione ed esclusione, tra la cultura di origine, da cui è sradicato, e la cultura della modernità tecnologica, che gli nega il suo status.

Valentina Rossi Si laurea in Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Roma, per poi specializzarsi in Illustrazione Editoriale all’Accademia di Belle Arti di Macerata. Espone in gallerie come il Lanificio 159 di Pietralata e al Visiva, la città dell’immagine di Roma. Finalista al Festival Internazionale del Fumetto Bilbolbul 2014 e al concorso Oltre di Disegni Diversi a Fano, collabora con la rivista online C+B, come decoratrice e visual designer freelance. hyropere.blogspot.it 131


Paola Boioli – DM4GP

Past Perfect

Past Perfect Video, 1’ 52’’

https://vimeo.com/151770640

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Dalla collaborazione tra Paola Boioli e DM4GP per il progetto DON’T KICK ME OUT nasce Past Perfect. Il video costituisce una raffinata riflessione visuale sul tema della scultura, dell’arte funeraria,

del classico, del classicismo (o meglio ancora dei classicismi) e, più in generale ancora, dell’umanesimo

e dell’umano. Past Perfect è, in inglese, il tempo precedente a un altro tempo nel passato, ma il nome deriva da un tempo latino, il perfetto, che si è perso in italiano, sostituito come funzione dal passato remoto, ovvero “lontano”.

Le “dinamiche dell’esclusione” su cui si concentra DON’T KICK ME OUT (anche qui, un titolo inglese, ma

per parlare dell’Italia) sono quindi indagate sotto il profilo del rapporto coi classici: un’esclusione non

tanto spaziale ma temporale, la cesura non solo verso le nuove generazioni, ma verso il passato, da quello individuale del mondo cimiteriale a quello collettivo dell’eredità greco-romana e rinascimentale.

Paola Boioli

DM4GP (Dirty Music 4 Guilty People)

Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera e La Scuola Civica di Cinema di Milano. Si occupa di video dal 2002, realizza corti, videoarte, videoclip e spot pubblicitari come editor e come flame artist. Nel 2011 pubblica il libro Carmelo Bene. Il cinema della Dépense per le Edizioni Falsopiano.

Nome d’arte di Alessandro Paseri. Laureato in Comunicazione di Massa e Multimediale presso l’università degli studi di Torino. Si occupa di audiovisivi, tv e cinema, lavorando fin dal 2000 come aiuto regia e montatore per numerose produzioni audiovisive broadcast nazionali ed estere. Espone nel corso degli anni in rassegne d’arte contemporanea a Cuneo, Torino, Milano, New York, Pechino con opere di video arte e installazioni. Da sempre si dedica alla sperimentazione musicale elettronica. soundcloud.com/dm4gp 133


Paolo Cossi

Il mondo nella tasca

Il mondo nella tasca Tecnica mista, 15 Ă— 35 cm

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Paolo Cossi, importante nome del fumetto d’autore italiano, ha spesso lavorato in connessione con tematiche realistiche e storiche, mettendo al centro del suo approfondimento gli esclusi, ossia i

personaggi marginalizzati, se non anche rimossi, dalla storia (includendo in questa definizione anche

diverse figure femminili, come Tina Modotti e Mara Nanni). Non sono mancati protagonisti “a tinte forti”

come Unabomber, oggetto di un suo importante volume del 2005, ma molto ampia è stata anche la riflessione fumettistica sulla figura di Hugo Pratt, apprezzato nei paesi francofoni e al tempo stesso quasi dimenticato dalle nuove generazioni di fumettisti italiani.

Nell’opera realizzata per DON’T KICK ME OUT, Cossi accosta due invenzioni della modernità europea, il

treno e la mongolfiera. Mettendo a confronto la rapidità di viaggio acquisita con il treno e le prime, ormai romantiche, esplorazioni aeree, l’artista sembra chiederci se davvero l’avvento della modernità ci abbia consentito di avere Il mondo nella tasca.

 Paolo Cossi Fumettista, nasce a Pordenone nel 1980. Vincitore di svariati riconoscimenti, tra cui: premio Jacovitti, Albertarelli e “Condorcet-Aron per la democrazia”. Ha pubblicato diversi titoli dal 2002 a oggi: Unabomber (2005) per BeccoGiallo, Medz Yeghern. Il Grande Male (2008) e Ararat. La montagna del mistero (2015) per Hazard; con cui pubblica anche Un gentiluomo di fortuna una biografia in tre volumi dedicata a Hugo Pratt. I suoi libri sono stati tradotti in Francia, Belgio, Spagna, Olanda, Norvegia e Corea. www.cossipaolo.blogspot.it 135


Intervista a cura di Lorenzo Barberis Il progetto DKMO nasce per riflettere sulla difficile situazione dei creativi e degli artisti in Italia, spesso kicked out dal sistema nazionale. Dal tuo punto di vista, com’è la situazione del mondo del fumetto? Io di base sono una persona propositiva. Non nego che il fumetto in Italia non abbia passato un bel momento, ma mi sembra che adesso ci siano delle nuove realtà che stanno lavorando bene e molti autori che stanno apportando sincero entusiasmo nei loro lavori. Certo non mi azzardo a fare paragoni con Francia e Belgio, dico piuttosto che anziché lamentarsi è bene tirarsi su le maniche e mettere tutta l’energia che possiamo in questo fantastico mondo. Siamo anche in un momento storico particolarissimo dove il digitale diventa protagonista, non è un male e non è un bene, è quello che ci riserva il futuro. Il fumetto abbandonerà il cartaceo? Tutti leggeranno sui video? Resteranno i libri solo per i collezionisti? Abbiamo in tasca molte ipotetiche risposte ma nessuna verità, quindi credo sia bene coltivare la curiosità e tenere le menti bene aperte. La crisi del fumetto? Mah, credo sia piuttosto un virus, un virus che ha preso la letteratura in generale: indebolimento a causa di mancanza di lettori. Questo è il vero problema. Il tuo lavoro appare molto in linea con il progetto DON’T KICK ME OUT, perché molte delle figure storiche che hai approfondito sembrano, a vari livelli, degli “esclusi”, marginalizzati se non rimossi dalla storia. Da cosa deriva questa scelta? Mi piace raccontare la Storia attraverso “le storie” di gente semplice, gente che ama, odia, che si spaventa e che diventa coraggiosa, proprio come farebbe uno qualsiasi di noi. Per essere più preciso, intendo dire 136

che racconto le storie attraverso i sentimenti umani, piuttosto che attraverso le figure storiche con le quali abbiamo vestito molti personaggi. L’essere umano, questo è il mio protagonista. Le sue emozioni sono le mie compagne di viaggio. Mi lascio trasportare dalle loro vite, chiudo gli occhi e le ascolto… il racconto a fumetti nasce di conseguenza. Tra quelle da te approfondite, una figura che mi ha colpito molto è Unabomber, che ho sempre considerato uno dei grandi rimossi dell’immaginario italiano (a partire dal sovrapporlo e confonderlo con l’omologo americano). Tu che impressioni hai ricavato della vicenda nel corso della tua personale indagine artistica? Quando lavoravo al libro, le tristi vicende di Unabomber erano ancora vicine nel tempo. Era ed è stata la prima volta che mi sono trovato ad avere un misterioso e oscuro personaggio che mi fiatava sul collo. Sentivo la sua presenza e per diverso tempo ero in allerta ogni volta che nel mio paese vedevo qualche oggetto per terra. L’obiettivo del libro era principalmente quello di tenere informate le persone (soprattutto i ragazzini) perché un fumetto, a differenza dell’articolo di giornale o della notizia in TV, resta nel tempo. Non è stato facile, comunque, per nulla. Molto ampia la tua riflessione fumettistica sulla figura di Hugo Pratt, un grandissimo autore che formalmente è consacrato nel pantheon dei comics italiani… Eppure a volte pare che la sua lezione sia, se non dimenticata, un po’ accantonata nel mondo del fumetto odierno. Pratt è sicuramente uno tra i più grandi maestri che abbiamo avuto. Nei paesi francofoni, tutti lo ricordano e lo apprezzano; da noi, mi sembra che le nuove gene-


razioni non lo conoscano bene. In sincerità non voglio indagare su cosa si legge oggi, ma piuttosto sul perché non si legge in generale. Questo è il punto dannoso per la cultura italiana. Tornando a Pratt, mi piacerebbe suggerire a chi vuole avvicinarsi professionalmente al mondo del fumetto, di leggerlo, perché la sua capacità di narrare, la sua abilità negli intrecci, e il suo gusto per l’avventura, fanno di lui un maestro che può insegnare moltissimo e risvegliare molte intuizioni. Per concludere: secondo te, lo stesso medium fumetto è ormai giunto a una piena accettazione come prodotto culturale o resiste ancora una certa marginalizzazione? Non parlerei di piena accettazione purtroppo. Resta sicuramente, in parte, un mancato riconoscimento culturale. C’è molto da fare, ma non è una battaglia persa. Vedo muoversi molte persone, molti autori e molti editori in direzioni coraggiose. Sono pieno di fiducia, sono propositivo, ma questo ve lo avevo già svelato all’inizio dell’intervista.

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Riccardo Capparella

L’Aquila

L’Aquila 1 Inchiostro su tela cartonata, 40 × 25 cm

L’Aquila 2 Tecnica mista su tela cartonata, 70 × 70 cm

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Le opere di Riccardo Capparella sono dedicate a L’Aquila, città natale di suo padre, sconvolta dal terremoto del 6 aprile 2009. L’Aquila #1 offre una rappresentazione del Duomo della città,

di Collemaggio e delle Novantanove Cannelle. Al centro dell’opera, un’aquila lacerata, forse morta.

L’Aquila #2, pur nascendo sotto il segno dell’estemporaneità, intende seguire una costruzione musicale, nella quale si possono individuare alcuni punti ben precisi, che corrispondono alle stelle della

costellazione dell’Aquila. Al ricordo personale (l’artista ha ricevuto all’Aquila la sua formazione

musicale) si unisce il dato storico: la città abruzzese, infatti, è stata edificata non soltanto a imitazione della pianta di Gerusalemme, ma anche disponendo i principali monumenti sacri in modo da ridisegnare sulla terra le stelle dell’omonima costellazione.

Riccardo Capparella Nasce a Roma nel 1983, attualmente vive a Bologna. Pittore e disegnatore autodidatta, la sua ricerca è incentrata sullo studio della forma in relazione alla casualità, avvalendosi nei primi anni della penna bic su cartone e, successivamente, di altri strumenti e supporti come colori acrilici e tempera, su tela o legno. www.ticco.net 139


Diego Bordignon

Salvate il ballerino Mousbah

Una decina di anni fa, quando di certo nella mia vita c’era davvero poco, o comunque meno di quanto ho ora nel mio quotidiano, mi ritrovai a casa di un mio amico assieme ad altri nostri compagni di classe delle superiori. Erano miei amici appunto, ma nessuno di loro sapeva della mia omosessualità, da sempre presente nella mia storia e identità, e altrettanto a lungo repressa, per paure che in molti, troppi, hanno vissuto e continuano a vivere. Durante uno di quei giorni in riva al lago fece capolino da una rivista sfogliata da un mio amico un articolo dedicato a Mousbah, ballerino libanese omosessuale che, nell’intervista fattagli, dichiarava: «Sono gay, e non me ne vergogno». Sotto una sua foto in pantaloni tigrati, Mousbah parlava della difficile condizione degli omosessuali in molti Paesi «dei popoli di Allah». Ricordo benissimo di aver letto di nascosto quell’intervista in bagno, il più rapidamente possibile, io che di vergogna e paura ne avevo tanta, e di aver riportato il giornale in salotto, come nulla fosse, prima che qualcuno notasse la sua assenza. Poco dopo però quello che aveva trovato l’articolo, ignorando tutto, ignorando il vero me, decise che la foto di Mousbah sarebbe diventata il bersaglio ideale della pistola a pallini di uno del gruppo che, ovviamente, rispose entusiasta e divertito alla proposta. Rimasi impietrito di fronte a tutto, incapace ancora di dire la verità, la mia verità, spaventato e anche incazzato con quelli che, per l’ennesima volta – non per cattiveria, necessariamente, ma per pura ignoranza – mi avevano recato l’ennesima ferita e offesa cui io, silenziosamente e codardamente, mai rispondevo. Decisi però una cosa: Mousbah andava salvato, a qualsiasi costo, la sua storia, il suo coraggio, la sua foto dovevano essere protetti da tutto questo, da un odio ingiustificato e da un gesto privo di senso. Mi alzai da dove stavo, fingendo di dover andare in bagno, presi di corsa la rivista sotto la felpa senza farmi notare e strappai rapidamente la pagina con la foto nascondendomela in tasca, piegata. Dopo pranzo l’idea del tiro al bersaglio tornò tra i miei amici; aprendo la rivista però, rimasero delusi dal constatare la sparizione del «ballerino frocio»: nessuno sapeva darsi una spiegazione. Oggi, a distanza di una decina d’anni, mi ritrovo tra le mani la foto di Mousbah, un po’ sgualcita e rovinata forse, ma con la stessa espressione favolosa e fiera che ricordavo. I miei amici, per scelta mia, hanno scoperto e fortunatamente accettato la mia omosessualità qualche tempo dopo il furto della foto: c’è anche chi, a mente più distesa dopo aver appreso la notizia, mi telefonò per chiedermi scusa. «Per cosa?». «Per tutto, per questi anni, e per il male che ti ho fatto senza sapere». In questi giorni di polemica, di impossibilità di dialogo con chi si nasconde dietro un libro, di rabbia e chiusura, e di carampane della moda che dovrebbero limitarsi a cucire, mi piacerebbe davvero sapere come sta Mousbah, e magari regalare come segnalibro a qualcuno la sua foto un po’ spiegazzata per ricordare loro che «le cose cambiano», sempre.

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Diego Bordignon racconta dall’interno i silenzi, i timori e i nascondimenti che ancora accompagnano

l’esperienza dello stigma sociale riguardante l’omosessualità nell’Italia contemporanea. Diego sceglie di non indulgere nel vittimismo, ma di portare con sé un piccolo talismano che possa favorire la presa di

parola, l’azione e, infine, la ricostituzione di una soggettività che è, per altri versi, costantemente messa

sotto assedio da un contesto sociale dove correntemente circolano discorsi e pratiche omofobe. Non si

tratta, allora, di «salvare il soldato Ryan», ma «il ballerino Mousbah», con la sua carica dirompente che fa capolino sulla pagina stampata, allo scopo di favorire l’emersione di tutto quello che è stato ingiustamente, e dolorosamente, ricacciato in una stanza chiusa, in un corpo senza voce.

Diego Bordignon Nasce a Milano nel 1985, dal 2010 vive a Bologna. Laureato in Scienze della Formazione, durante il percorso di studi lavora come collaboratore e poi come responsabile dei contenuti redazionali di siti web legati al turismo in Italia. 141


Silvia Mannino

La passata / Buon appetito

Buon appetito Video, 3’ 25’’

https://vimeo.com/153088430 La passata Fotografia, 20 × 30 cm

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Il progetto presentato da Silvia Mannino per DON’T KICK ME OUT si sviluppa tramite un set di foto e un

video associato, che insieme costruiscono una riflessione, attenta e spregiudicata, sul tema del cibo, e in particolare il cibo italiano, che costituisce l’identità (spesso acritica) della nostra nazione. Il video è il punto di partenza, con la sua forza dirompente, soprattutto nell’impatto psicologico, che centra

perfettamente il tema dell’Espulsione. Nel video, come anche nelle foto, ritorna una forte carica erotica

associata al cibo, che è quasi sempre presente nella pubblicità alimentare: se a volte questo succede con involontario parossismo, fino a sfociare nel comico, quella di Silvia, però, è una scelta intenzionale, e

quindi, stante anche una certa ironia, disturbante. Forse il debito più evidente dell’opera – debito che però diviene una totale riscrittura – è con La grande abbuffata: se il film di Ferreri era una riflessione sul

rapporto malato dell’immaginario italiano, soprattutto maschile, con il cibo e la sessualità, qui la stessa

spietatezza è rivolta al lato femminile dell’esperienza. In Buon appetito, inoltre, le dinamiche dell’espulsione sono declinate anche nel senso del sogno della “Merica” da parte del migrante italiano di ieri e di oggi.

Nelle immagini pseudo-pubblicitarie di Silvia c’è, infatti, una critica sottile ma feroce al wannabe americano

che caratterizza l’Eat-alia di oggi, cattiva versione colorizzata di un film in bianco e nero di Alberto Sordi. Un’Italia che ha perduto tratti d’identità, e che vomita i suoi figli dopo averli divorati – come una femminea Chronos. Silvia ce lo ricorda, mettendo in gioco la sua mente e il suo corpo.

Silvia Mannino Nata a Tempio Pausania nel 1976, si occupa prevalentemente di fotografia industriale. Parallelamente, ormai da molti anni, porta avanti una ricerca artistica personale che utilizza come mezzo espressivo l’immagine video e la fotografia. behance.net/silviamannino 143


URFAUT

Snow Grey I

Snow Grey I Per scaricare l’immagine: urfaut.com/snowgreyI

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Fin dall’avvio della sua produzione artistica, verso la seconda metà degli anni ’90, URFAUT opera sulla

liminalità del fatto estetico, giocando sull’estensione dei confini della elaborazione e della percezione artistica: si tratti dell’uso della fotocamera cellulare, l’occhio vertoviano del nostro tempo, o delle modalità di propagazione dei social network, come in Dailyphonenotes, fino alla reinvenzione di un

dagherrotipo per la nostra età digitale nei suoi Urtypes. Qui, in linea con questa sua poetica, URFAUT propone Snow Grey I, una delle sue ultime ricerche che sfrutta il concetto informatico del glitch.

Apparentemente l’opera sembra un’immagine digitale codificata male, ma, se combinata a un’altra immagine gemella dal titolo Snow grey II, forma una chiave, un codice che permette di accedere a un’altra opera

ancora. Quella “vera”? «Quid est veritas», diceva un antico romano imbevuto di scetticismo pirroniano.

Ritorna, come sempre in URFAUT, il gioco sull’ambiguità dell’opera d’arte e dei suoi confini, anche perché

l’opera autentica potrebbe essere piuttosto (anzi, è probabile, come nella lettera rubata di Poe) questa texture pixellata di bianchi e di neri: una nebbia granulare che tutto avvolge nel rumore di fondo che è la principale colonna sonora della nostra epoca. Esprimendosi al proposito, l’artista (sempre ieraticamente criptico)

afferma: «Un rito forma archetipicamente una tela. Come ogni mago, solo l’artista sensibile ha il disegno nella mente». Una texture/tessitura intricata e labirintica, come il filo di Aracne, che crea un labirinto, invece di dipanarlo.

 URFAUT L’artista rifiuta di fornire informazioni personali. 145


Intervista a cura di Lorenzo Barberis Il tema di DON’T KICK ME OUT è l’espulsione dei giovani creativi, in vari ambiti, dal sistema Italia. Dal tuo punto di vista, come valuti la situazione al riguardo?

Parliamo allora dei tuoi lavori precedenti: in ognuno di essi si può trovare il tema del DKMO. Urtypes, ad esempio, è sospeso tra arte e fotografia…

Certo, c’è un problema di sistema e soprattutto in Italia, ma forse il danno maggiore all’artista viene dalla saturazione, dal rumore di fondo. Nell’età dei social, la qualità artistica è irrilevante, conta di più la capacità di networking, la capacità di creare il meme, di rendere la propria opera virale. La conseguenza è che l’artista vale tanto quanto il suo prezzo. Andreste in giro con il cartellino del prezzo attaccato sul vestito nuovo? Intendiamoci, anche nel Rinascimento, l’artista che sapeva sfruttare il network aveva più possibilità di essere quotato… Anzi, se andiamo a vedere, il network è stato inventato da Cosimo de’ Medici. La differenza però è che esisteva un canone e l’arte non si esauriva solo con la costruzione del personaggio. La colpa di tutto ciò non è solo del sistema ma di noi artisti in primis che accettiamo di essere solo degli enormi cartelloni pubblicitari. Senza poi contare che stiamo parlando di una nicchia ristretta che è totalmente irrilevante nel computo della storia: l’arte si sta spostando in altri campi, “campi dannati”, se mi passate il termine forthiano, che la maggior parte degli artisti rifiutano o non hanno gli strumenti per riconoscere. Diogene, se fosse vivo oggi, non cercherebbe l’uomo con la sua lanterna: cercherebbe l’artista.

Sì, è la caratteristica predominante di tutti i miei lavori, ridefiniscono il confine non solo tra arte e fotografia ma in tutte le categorie. Sembra assurdo ancora oggi dover parlare di arte e di categorie, ma se vai a vedere l’arte contemporanea, anche quella considerata fluida, è sclerotica e classificata a priori prima ancora di essere concepita: l’arte veramente fluida viene recepita immediatamente dalle masse, molte volte è fatta da persone che non sono neanche considerate artisti (alcuni di loro non sanno neanche di esserlo) ma ignorata da coloro che dovrebbero essere i primi a comprenderla. In base a questi presupposti, ho scelto di lavorare senza la possibilità di avere una facile contestualizzazione e di operare sempre uno smontaggio del pre-costruito, dei concetti acquisiti dell’oggetto artistico. Come ogni opera d’arte, in fondo, dovrebbe fare.

Anche nel tuo lavoro per DKMO c’è un riferimento a questi temi, mi pare.

Sì, in IMAGO c’è questo concetto, ritornare alla forma dell’arte sacra. Nello specifico, ciò avviene usando il trittico come formato, utilizzando immagini volutamente a bassa qualità, tratte dal primo cellulare pensato per far foto a essere commercializzato. Si ottiene così una grana deflagrata, “pixellata” che però rimanda quasi al mosaico bizantino o alle vetrate delle cattedrali

Sì, è una sorta di lavoro situazionista che tenta di mettere in crisi il progetto stesso, ponendo il fruitore di fronte a una scelta e finisce anche con la deturpazione fisica del libro. Di più non posso rivelare. 146

Anche il lavoro di IMAGO andava ad usare la fotografia digitale dei cellulari, al livello del 2005, per realizzare delle moderne icone. Ricordo l’anno in cui tutti i pellegrini a Roma si facevano un selfie con Papa Wojtyla; è notizia di questi giorni che Papa Francesco ha benedetto delle foto sui cellulari, creando dei santini virtuali…


(forte anche dell’influenza esercitata dall’algoritmo di compressione). E poi, certo, c’è la volontà di usare una fotografia “sporca”, che sarebbe stata scartata da qualsiasi fotografo, soprattutto ai tempi in cui è stato fatto il progetto, e renderla la testata d’angolo di un mio lavoro. Sempre, però, rispettando il “grado zero” della fotografia, e strutturandovi sotto più piani di significato. Nel lavoro che stai chiudendo in questo periodo, Daily Phone Notes, pare riemergere questo riutilizzo della fotografia “da cellulare”, “da social network”, ovviamente ricontestualizzata. Sì, anche qui: una fotografia “esclusa”, che io reinserisco nel mio lavoro tramite la mia reinterpretazione. In Daily Phone Notes uso un linguaggio “basso”, il “volgare” del nostro tempo, ovvero il cloud, lo sciame umano fotografico dei social e la sua sintassi volubile, sgrammaticata. Ma allo stesso tempo cerco di dargli una regola, rielaborandolo in modo pertinente in maniera da creare un linguaggio nuovo a più livelli di comunicazione. C’è un gioco ironico, ma c’è anche una serietà profonda, quasi religiosa in questa riscrittura visuale. Per concludere, una domanda sul tuo nome. URFAUT è una sigla piuttosto esoterica, che racchiude molteplici significati. C’è un rimando all’Urfaust di Goethe, alla fautographie di Man Ray, all’errore primordiale che contiene l’errore stesso (UR-fault) e altri riferimenti ancora. Ma ho anche notato che anagrammando URFAUT viene come soluzione FUTURA. Ha un qualche significato? Certo. È il mio avatar in Fallout.

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Emma Marongiu

Senza Titolo

Senza titolo Acquerello, matita, rielaborazione in digitale, 42 Ă— 29,7 cm

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L’illustrazione che Emma Marongiu ha pensato per il progetto DKMO è classica e innovativa al tempo

stesso. L’autoritratto del cartoonist circondato dai suoi cartoon è un archetipo consolidato, diffusosi specialmente col fumetto e l’illustrazione; anzi, spesso, il fumettista è perfino oppresso dai suoi

personaggi, che lo incatenano al tavolo da disegno e lo vessano perché l’artista continui a proporre storie, sviluppi nuove possibilità. È l’inversione del rapporto – sempre apparente – tra controllato e controllore:

non è il disegnatore che controlla i suoi cartoon, ma viceversa (in altri ambiti, come il teatro di marionette,

questo topos è ancora più antico). Qui la disegnatrice appare circondata da alcune buffe creature, spettrali o forse simpaticamente mostruose, che però non la spronano al lavoro: glielo impediscono. Mostriciattoli grotteschi e, a una seconda occhiata non così innocenti; anche il disegno che l’autrice sta compiendo è di una medusa con un diavolo (un serpente) per capello, in stile più realistico, e meno “disneyano”.

Circa la motivazione di questa scelta offre una lettura piuttosto interessante: «Ho scelto di dare

un’interpretazione intimistica alla dimensione dell’incontro e del viaggio. Carl Gustav Jung scrisse che

l’incontro con se stessi è una delle esperienze più sgradevoli, alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo circostante. Chi è in condizione di vedere la propria ombra e di sopportarne la

conoscenza ha già assolto una piccola parte del compito. Credo che queste parole riassumano bene il

concetto che ho voluto rappresentare nella mia illustrazione. Ognuno di noi sceglie, in modo più o meno conscio, uno strumento d’elezione per “entrare in contatto”, una “attrezzatura” per comunicare con se

stesso e con gli altri, un proprio personale Sollievo. Per me questo strumento è sempre stato il disegno».

Emma Marongiu Nasce nel 1984 in Sicilia, cresce in Sardegna. Consegue il diploma in illustrazione presso la Scuola Internazionale di Comics e la laurea in comunicazione pubblicitaria a Roma, si trasferisce prima a Bologna e poi a Berlino, dove attualmente vive e lavora. Ha partecipato a nume-

rosi concorsi e mostre, tra i quali: Storie che fanno eco, Pallidamente, Talent Next del Pisa Book Festival. Ha inoltre pubblicato con Acco Editore e sulla rivista Icomics. occhioniapotropaici.carbonmade.com

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Anna Corsi

Ciao amore

Ciao amore, sono di nuovo qui, vicino a te... Facciamo come se, per un attimo, la comunicazione si sia interrotta e ora abbiamo trovato il modo per riprendere il discorso. Eravamo ragazzini, vivevamo lontani l’uno dall’altra e, allora, scambiarsi lunghe lettere era diventata una dolce consuetudine. La nostra vita insieme, dopo, è stata piena condivisione: spesso, non c’era bisogno nemmeno di parole, bastava uno sguardo, un gesto, l’espressione del viso, un sospiro... Anche un silenzio parlava. Ora sei di nuovo lontanissimo, non so dove, per questo voglio tentare di ricominciare a scriverti, come fosse soltanto lo spazio a separarci, raccontandoti emozioni, sensazioni e pensieri che ogni giorno riempiono in modo disordinato la mia mente, i miei giorni e le mie notti. Ho esitato prima di decidermi, alla fine, ho cercato di immaginare quale sarebbe stato il tuo commento di fronte ai miei dubbi e, come sempre, ho sentito la tua voce che m’incoraggiava, con brevi parole ironiche, semplici e leggere... E mi hai convinta. Abbiamo parlato spesso della morte e più volte ci siamo detti che fa parte della vita, anche se è impossibile non averne paura. Ci eravamo promessi che, se uno di noi fosse rimasto solo, avrebbe trovato il modo per non farsi sopraffare dal dolore, cercando un motivo per andare avanti. Io, scherzosamente, ti dicevo che avresti fatto finalmente bellissimi viaggi, conosciuto nuove persone e che avresti potuto innamorarti di nuovo e, per burlarmi di te, ti elencavo, ridendo, i rischi e i pericoli degli amori senili. Tu, con altrettanta ironia, mi dicevi che sicuramente me la sarei cavata anche da sola, perché nessuno è insostituibile, perché ero una tosta e ormai ero abituata a ricominciare tutto da capo. Entrambi, in modo più o meno consapevole, avevamo la preoccupazione l’uno per l’altra, “nel caso che”. E poi te ne sei andato, in un attimo, come avresti voluto, dopo il caffè e l’ultima sigaretta insieme. Così mi sono abbandonata al dolore e, per la prima volta, ho sentito tanta rabbia... Rabbia perché mi hai lasciato troppo presto, rabbia perché la vita ci ha negato troppo, rabbia per il mio corpo inutile inchiodato su questa maledetta sedia. Ho riflettuto tanto e ho concluso, con angoscia, che l’unica via d’uscita era la rassegnazione, l’accettazione di una situazione surreale, in cui mi sarei limitata a esistere. Tua A. Caro amore, ieri sono andata a dare l’ultimo saluto a Riccardino, aveva compiuto cinque anni. Alla fine del rito religioso, inaspettatamente, il giovane padre è andato davanti al microfono e ha parlato, a lungo, con voce pacata e lo sguardo tenero. Ci ha raccontato del suo bambino, del suo carattere ostinato, della sua voglia di vivere ogni momento in cui la malattia gli dava tregua, della sua capacità di dimenticare paure e sofferenze per salire di nuovo sull’altalena, per mangiare la pizza, per salire sul treno, per andare all’asilo, anche solo per un’ora. Conservare l’interesse per la vita e rialzarsi dopo ogni caduta, non sprecare un attimo, trovare sempre un motivo per vivere: questa è stata la grande lezione che Riccardo ha dato a babbo e mamma. Un padre e una madre che, coraggiosamente, si sono proposti di vivere il futuro secondo questo insegnamento. Allora, umilmente, mi sono chiesta se e quanto fosse moralmente giusta la mia decisione di arrendermi, di rinunciare, giusta per me, per te, per nostro figlio, per quelli che mi vogliono bene. Ho ricordato la nostra promessa, ho pensato che la mia serenità è stata il conforto della tua vita e ancora sarebbe la tua consolazione e in me si è accesa una piccola speranza... Ciao amore, tua A. 150


Caro amore, ricordi il momento in cui, per la prima volta, ho accettato di sedermi sulla mia sedia a rotelle? Ai miei occhi, era un grosso, ripugnante ragno metallico: per molto tempo l’avevo tenuta fuori dai miei pensieri, ostinatamente e rabbiosamente. Alla fine, quando il mio corpo mi ha sfacciatamente tradita, mi sono arresa. Con smarrimento e impotenza, da subito ho compreso che ero arrivata al termine del mio bel viaggio e che ne iniziava un altro, più tormentato, che non avevo né scelto né programmato. Così, sono entrata nel mondo della diversità, che è un’altra dimensione, nella quale guardi da una nuova prospettiva. Ho smesso di volare alto, ho cominciato a guardarmi vicino e ho visto, ho cominciato ad ascoltare e ho sentito. Non ti parlerò di ciò che ho perduto, né di quanto mi è stato negato, ma di ciò che credo mi abbia arricchito. È come se, nel buio di questa diversa dimensione, qua e là, giorno dopo giorno, abbia raccolto qualcosa che, a lungo andare, si è rivelato prezioso. È stato subito necessario imparare a ignorare o a sostenere gli sguardi curiosi e insistenti di coloro che in te non vedono più la “normalità”, bensì la diversità, che suscita interesse ma anche disagio e, talvolta, diffidenza. Presto, ho saputo rispondere con leggera ironia a domande e osservazioni talvolta impietose, a pormi e a impormi nei rapporti umani, innanzitutto come persona. È stato più difficile imparare un po’ di umiltà, perché, per chiedere aiuto, è necessario soffocare l’orgoglio, scoprire le ferite e ammettere la propria debolezza e io ancora non sempre ne sono capace. Ho scoperto la pazienza, perché non sempre e non subito c’è chi può aiutarti; la riconoscenza, quella che non si esprime e non si esaurisce con un ringraziamento, ma che ti rimane dentro per sempre; la tolleranza, che è accettazione del diverso, ma anche indulgenza verso me stessa e con gli altri; la solidarietà, che si può esprimere anche con la semplice condivisione. Amore, non dirmi che sono retorica e anche un po’ presuntuosa; lo so che non sempre riesco a essere umile, paziente, tollerante... Sono i vecchi spiritelli che, ogni tanto, si destano e fanno capolino... E ho imparato ad ascoltare, perché tutti parlano, parlano... Ma chi sta di fronte, spesso, non ascolta e, se ascolta, non riesce a decifrare il messaggio. Ho imparato anche ad avere coraggio: quando ho avuto tanta paura, non l’ho ascoltata, non mi sono fatta travolgere, l’ho schiacciata dentro di me, fino a farla diventare piccola piccola... Il viaggio, per me, non è terminato; dovrò continuare in solitario. Ciao, tua A. Caro amore, mi chiedo perché mi dia sollievo tradurre in parole i sentimenti, le emozioni, le sensazioni, gli stati d’animo e leggere e rileggere queste parole scritte per te. I pensieri si rincorrono all’infinito nella mia mente, i rimpianti e i ricordi del passato si mescolano alle paure e alle speranze per il futuro; il presente è il continuo, faticoso tentativo di trovare un equilibrio in una situazione che ancora, a momenti, sento estranea e inaccettabile. I pensieri si rincorrono, s’incontrano, si scontrano e poi, senza che io lo voglia, si dissolvono e non riesco a ritrovarli, svaniscono senza che io sia riuscita a prenderne piena consapevolezza. Allora mi fermo, prendo respiro... E scrivere è come ripiegarmi su me stessa per dipanare questa lunga matassa aggrovigliata, ed è liberatorio tradurre in linguaggio ciò che riesco a far emergere. È consolatorio rivolgermi a te, certa che riuscirai a capire anche ciò che non scrivo e ciò che non riesco a spiegare. Ciao, tua A. 151


Ciao marito, mi viene spesso in mente la risposta che ero solita dare un tempo a tutti coloro che, non trovando parole abbastanza consolatorie, mi dicevano che ero stata troppo sfortunata, riferendosi ovviamente alla mia condizione di persona disabile. E io, ostinatamente, ribadivo che non mi ritenevo sfortunata perché, in fin dei conti, la malattia avrebbe potuto attaccarmi molto prima, come ha fatto con molti miei “compagni di viaggio”, in quanto, statisticamente, la mia malattia colpisce perlopiù intorno ai venti anni, e anche prima, quando non hai ancora deciso cosa farai della tua vita, quando inizi timidamente a fare progetti, quando il mondo è ancora tutto da scoprire. Invece, dentro di me, la belva si è destata tardi, lasciandomi il tempo di gustare e apprezzare la vita. Per questo, ero e sono tuttora fermamente convinta di essere stata privilegiata, in quanto ho vissuto pienamente tutte le fasi della mia esistenza, dall’infanzia alla maturità; ho conosciuto l’allegria e la spensieratezza dell’adolescenza e della gioventù; ho amato chi ho scelto e sono stata amata da chi mi ha scelta; mi sono realizzata nella mia professione; ho guadagnato l’amicizia e la stima di tante persone; sono stata moglie e madre... Nei momenti bui, quando mi sembrava di non farcela più ad assistere al progressivo deterioramento del mio corpo, mille volte mi sono ripetuta l’elenco di tutte le cose belle che avevo avuto il tempo di fare, quelle cose che sarebbero rimaste mie per sempre, perché nulla mi avrebbe rubato la bellezza delle sensazioni, delle emozioni e dei sentimenti, che sono le uniche cose che veramente ci appartengono. Alla fine concludevo, con convinzione, che non ero stata poi così sfortunata ed era per questa convinzione che sono sempre riuscita a trovare, non la rassegnazione, ma la serenità. Anche ora, quando il peso della tua assenza mi schiaccia, cerco di rivivere i nostri momenti più belli, penso a ciò che abbiamo avuto, a ciò che abbiamo condiviso, ai dolori che ci hanno reso più forti e alle gioie che ci hanno dato speranza; mi ripeto che è stato bello invecchiare insieme e che abbiamo fatto questo lungo viaggio tenendoci sempre per mano, pronti a sostenerci l’uno con l’altra; cerco di convincermi che, in fin dei conti, abbiamo portato a termine i nostri progetti più importanti... Ma tutto questo non mi basta, non basta a scemare il senso di vuoto che ho dentro. Non sono ancora capace di ragionare sulla mia vita in termini positivi; è come se fossi un’altra persona, una persona molto diversa, anzi: io sono la stessa ma, all’improvviso, è cambiata drammaticamente la mia prospettiva... Ciao, tua A. Ciao amore, una nostra amica mi ha iscritta a un gruppo su Facebook, composto da migliaia di miei compagni di odissea, anche loro desiderosi e bisognosi, come me, di condividere esperienze e stati d’animo, in qualsiasi momento e in qualunque modo, con la certezza che qualcuno, di lì a poco, ti risponderà, seppur con un semplice mi piace, che significa semplicemente ti ho ascoltata. Ecco ciò che ho scritto per farmi conoscere: Ringrazio per la cordiale accoglienza nel gruppo e mi presento: vivo in Toscana, ho 64 anni, malata di sclerosi multipla da 23. Sono dunque una veterana molto, molto malridotta, reduce di tante battaglie (tutte perse). Per me sedia a rotelle e sollevatore non sono più un incubo, in quanto fanno parte da tempo del mio quotidiano, così come ho imparato a 152


essere realistica, cauta e razionale di fronte alle “periodiche” scoperte sensazionali... Posso dire di avere compiuto diligentemente tutto il percorso – cortisonici, immunosoppressori, interferone, immunomodulatori – compresa qualche deviazione per “terapie alternative”, dalla Kousmine alla terapia del digiuno, senza trascurare nemmeno ridicole pratiche dal sapore magico, ma si sa... Quando la scienza è impotente si tenta qualunque cosa. In pochi anni la malattia mi ha rubato tutto, ma mai il coraggio, la serenità e la voglia di esserci, questo perché ho avuto la grande fortuna di avere al mio fianco chi ha messo me al centro della sua vita, in modo incondizionato. Da poco tempo non ho più la mia “ombra” ed è soltanto ora che fatico a trovare il senso della mia esistenza. Voglio dire, ragazzi, che si può convivere con la malattia, anche nelle forme più gravi, senza perdere il gusto per la vita, soltanto se chi ti sta vicino vede in te, essenzialmente, la persona e non la disabilità. Ciao a tutti. Caro amore, voglio condividere con te questa bellissima emozione: i genitori di Riccardino aspettano un figlio. Prima che se ne andasse, hanno avuto il tempo di annunciarlo a Riccardo, che desiderava tanto un fratellino. È la vita che vince, nonostante tutto, anche quando crediamo sia impossibile. Anch’io voglio credere che la mia vita avrà ancora un senso.

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Sia nel titolo che nell’intestazione di una delle lettere di Anna Corsi si legge un saluto semplice eppure

accorato, certamente pieno tanto di gioia quanto di sofferenza: «Ciao amore». È così che Anna si rivolge al marito, rievocando la vita passata insieme, continuando nella testimonianza del proprio amore e,

al tempo stesso, raccontando la propria lotta quotidiana contro la malattia. Sembrerebbe un carico

inaccettabile, soprattutto quando tale esperienza si ritrova riflessa nell’esperienza della malattia di altre persone, aggiungendo dolore al dolore. Tuttavia, la testimonianza di Anna non è altro che uno strenuo, ripetuto, combattivo DON’T KICK ME OUT di fronte alle difficoltà che possono far parte della vita di ognuno e, senz’animo di impartire lezioni a nessuno, le parole di Anna si fanno esemplari.

Anna Corsi Ex insegnante di 65 anni. Dopo una vita “normale”, moglie e madre entusiasta della sua professione, a 42 anni si ammala di una grave malattia che sconvolge la sua esistenza e che, in poco tempo, la porta alla disabilità. Partecipa al bando DKMO per portare la sua testimonianza. 154


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Gianni Barelli

Please don’t leave me

Please don’t leave me Video, 1’ 12’’

https://vimeo.com/152139301

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L’artista visivo Gianni Barelli (Arezzo, 1976) opera prevalentemente tramite media come video, istallazioni e performance. Laureato all’Accademia di Firenze nel 2002, vanta collaborazioni con l’Institut Für Alles

Mögliche di Berlino e Geborgen Kamers a The Hague. Per DON’T KICK ME OUT ha pensato un omaggio a Bas Jan Ader, artista performativo olandese scomparso nell’Oceano Atlantico nel 1975 (un anno prima della nascita di Barelli) nel corso di una traversata dalla grande valenza concettuale.

Il titolo, Please Don’t Leave Me, riprende sia il titolo di un’opera di Ader del 1969, sia il tema dell’esclusione che connota DON’T KICK ME OUT. Gli occhi lacrimanti con cui si apre il video richiamano la performance più nota di Ader, I’m too sad to tell you. La pratica di cancellare il foglio e realizzarvi un nuovo disegno,

qui funzionale alla creazione di un particolare video d’animazione, rimanda a quanto faceva Ader stesso durante i suoi studi artistici.

Le lacrime formano quindi le acque atlantiche in cui si compie la sua allegria di naufragi, l’ogiva

dell’occhio sovrapposta a quella dell’esile imbarcazione, mentre l’albero rimanda forse alla «caduta organica», un altro dei concetti-cardine delle performance di Ader. Un lavoro coerente, rigoroso

ed efficace: nel naufragio di Ader, si possono leggere in controluce anche i drammatici naufragi di oggi.

Gianni Barelli Nasce nel 1976 ad Arezzo, si diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze nel 2002. Nel 2012 è stato selezionato da Visualcontainer Italian Videoart Platform, con il video Genesi o melanconia del dormiente. Nel 2013 collabora con BAU Magazine, contenitore di cultura contemporanea, con un progetto dal nome Archivio sincronico familiare. www.giannibarelli.com 157


Giacomo Lombardi

Senza Titolo

Senza Titolo Reflex, b/n, foro stenopeico

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La foto di Giacomo Lombardi appartiene a una serie di scatti dedicati alla “frontiera catalana”, ovvero ai

confini della comunità autonoma della Catalunya che, in futuro, potrebbero diventare il confine di uno Stato indipendente, qualora il progetto di secessione dalla Spagna, già attivo da molto tempo, diventasse realtà. Della frontiera catalana, Giacomo Lombardi non intende mettere in luce la rappresentazione del

simbolismo politico, poiché del nazionalismo catalano non si vede quasi nulla, in tutta la regione, salvo qualche bandiera appesa ai balconi di tanto in tanto. Interessandosi ai paesaggi, naturali o abitati

dall’uomo, che compongono questa ipotetica frontiera, Giacomo Lombardi intende, invece, darne una visione multi-prospettica, totale, utilizzando la tecnica del foro stenopeico per giocare tra ciò che

Disegno: Moira Franco

è visibile e ciò che (ancora?) non lo è.

Giacomo Francesco Lombardi Nato ad Alessandria nel 1986, ha studiato filologia e linguistica teorica a Pavia e Venezia. Assecondando il bisogno di sperimentare il mondo e raccontarlo, cosa che si fa in genere meglio per strada che in biblioteca, ha iniziato a lavorare come fotografo freelance. Nel 2013 si è trasferito a Barcellona, dove continua la sua attività di reporter, cercando di raccontare storie lente e di dedicare tempo a conoscere le realtà che lo circonda - unico modo che considera plausibile per poter avere un’esperienza del mondo non superficiale. 159


Nucleo_Piergiorgio Robino

Out of the blue

Out of the blue Inchiostro serigrafico su carta, 17 Ă— 24 cm

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Piergiorgio Robino è il fondatore e direttore dello studio Nucleo (1997), collettivo internazionale di

giovani artisti e designer con sede a Torino, celebre – tra i molti altri progetti – per il particolare utilizzo

della resina come materiale per un design di alto livello. Robino è anche guest professor per il Politecnico torinese, la Domus Academy di Milano e la Bezalel Academy di Gerusalemme.

Dal 2008 affianca all’attività di designer quella di artista visuale; in questa veste ha pensato per il progetto

DON’T KICK ME OUT un contributo particolarmente significativo, con un intervento artistico diretto su ogni singolo volume cartaceo. Al proposito, egli ha spiegato che «l’intervento sul catalogo è quello di una colorazione che utilizzando la tecnica del dip-dye con inchiostri serigrafici, rende ogni esemplare

unico. L’immagine che otterremo vuole rappresentare la distanza, l’interruzione, la pausa, la riflessione, quel momento che ci separa da un’azione che comporta dei rischi per i quali non ci sentiamo pronti».

In questo modo, l’intervento di Robino, del quale forniamo qui una fotografia del making of, conferirà una particolare preziosità al catalogo DKMO, rendendolo un libro d’arte autenticamente unico in ogni sua

copia. Si tratterà, al contempo, di una meta-riflessione – pienamente in linea con i temi di DON’T KICK ME

Foto: Daniele Ratti

OUT – sul confine tra oggetto d’uso e oggetto d’arte, tra designer, artista, artigiano e artiere.

 Piergiorgio Robino Nasce ad Asti nel 1969. Guest professor al Politecnico di Torino, alla Domus Academy di Milano e alla Bezalel Academy di Gerusalemme. Nel 1997 fonda Nucleo, un collettivo internazionale di giovani artisti e designer con sede a Torino, che tuttora dirige. Le opere di Nucleo hanno partecipato a numerose mostre in Italia e all’estero (Francia, Belgio, Spagna, Germania, Brasile, Danimarca, Stati Uniti) e nelle principali fiere di arte e design in Europa. www.nucleo.to 161


Intervista a cura di Lorenzo Barberis Il progetto DKMO nasce anche come riflessione sulla difficile situazione delle professioni creative in Italia. Come collettivo Nucleo hai goduto certamente di un osservatorio privilegiato sulla situazione del design negli ultimi anni. Qual è la tua impressione al proposito?

possibilità che ci possono offrire. La maggior parte delle conoscenze acquisite sono nate in atelier, durante i processi di produzione o durante la sperimentazione effettuata nel tentativo di raggiungere il risultato che ci eravamo preposti.

La crisi ha scomposto tutte le carte in tavola per la maggior parte dei creativi italiani, noi inclusi. Ognuno si è dovuto reinventare cercando nuove strade e possibilità. Da questo rimettersi in gioco sono nate delle nuove entità come i fablab oppure sono state riscoperte delle tecniche desuete, ora rinate con una veste nuova, come ad esempio il letterpress nella grafica. Questo fenomeno è irreversibile, una naturale evoluzione in atto su tutti i mercati: da una parte il low cost, dall’altra high end. Da una parte l’Ikea, dall’altra una nuova Haute Couture, arredi fatti su misura da designer con piccole produzioni artigianali curate in ogni dettaglio.

La tua produzione si è spostata nel tempo dal design all’arte (e in questa veste relativamente nuova partecipi al progetto). Qual’è il motivo di questa evoluzione?

L’elemento forse più tipico dei tuoi lavori nell’ambito del design è l’uso della resina. Come nasce la scelta di questo materiale, molto particolare? Personalmente, io amo le resine: dagli approcci infantili con i fossili di ambra alla tesi di laurea in cui ho sviluppato un progetto con i materiali compositi, non ho mai smesso di averci a che fare. La resina è un “materiale materiale” perché è più di un materiale. La resina può essere trasparente, opaca, flessibile, morbida, rigida, colorata, ricca di sfumature, opalina, forte, debole, liquida, solida e una delle caratteristiche più importanti è che può includere tutto al suo interno, dal legno, ai metalli, alle fibre, ecc. Lavorare con resine è complesso, ma dopo sei anni di esperienza sta diventando sempre più interessante e intrigante soprattutto quando si comprendono le infinite 162

Nel 2008 per noi era urgente fare un passo indietro verso la nostra parte primitiva, agendo con le mani come un uomo preistorico, ma usando il nostro sapere contemporaneo. Eravamo soprattutto annoiati dalla situazione di stallo che si era creata, un po’ provocata dalla crisi e molto provocata dalla percezione del cambiamento in atto, l’inizio di quella che oggi definiamo terza rivoluzione industriale. Così sono iniziati i primi lavori progettati a computer ma realizzati a mano. È stato poi il lavoro svolto a essere riconosciuto come degno di una veste museale. Dall’estetica che ricorda volontariamente il Primitivismo, rifacendosi alle forme arcaiche, al processo, il nostro rimando al mondo dell’arte è stato sicuramente percepito e bene accolto. A tuo avviso, vi è ancora una resistenza da parte del mondo accademico e del pubblico ad accettare il design come forma d’arte pienamente legittima? Sì, assolutamente. Oggi, se volessi fare un paragone, ci troviamo nello stesso momento storico in cui ci si chiedeva se la fotografia era arte. Come per la fotografia, bisogna fare delle distinzioni, essendo entrambi mezzi di produzione di massa.


Io sono convinto che arte e design siano discipline sempre più unite, ma allo stesso tempo non debbano essere confuse. Il design deve rimanere il mezzo per la soluzione dei problemi e l’arte il mezzo per stimolare la mente a porsi dei quesiti. Quindi per rispondere alla domanda se il design potrebbe essere arte, incomincio dicendo che non mi piace la parola artdesign – in quanto etichetta che crea confusione - è come se definissi uno stato della materia ‘liquidosolido’. Per descrivere il lavoro di Nucleo ho iniziato a definirlo come “arte funzionale” (Functional Art), perché decadono in questo approccio i valori che fanno del design, il design come lo conosciamo: la funzionalità, la sostenibilità, la riproducibilità, ecc. Penso che questa etichetta vada applicata anche a tutti quegli autori che nell’ultimo decennio si sono confrontati su questo argomento, identificando una nuova disciplina che si esercita attraverso la creazione di elementi che hanno nella funzionalità il denominatore comune e nel processo e concezione una forma completamente artistica. D’altro canto, penso anche che si debba riconoscere a posteriori un valore di opera d’arte al design industriale che effettivamente abbia contribuito per ricerca estetica, materica o sociale alla nostra storia.

fatto con “le regole del buon design”. Le dieci regole di Nucleo: un’opera deve essere Funzionale un’opera deve essere Materica un’opera deve essere Narrativa un’opera deve essere Unica un’opera deve essere Fatta a Mano un’opera deve essere Sperimentale un’opera deve essere Indeterminata un’opera deve essere Relazionale un’opera deve essere Durevole un’opera deve essere Originale L’intervento sul catalogo è quello di una colorazione che, utilizzando la tecnica del dip-dye con inchiostri serigrafici, rende ogni esemplare unico. L’immagine che otterremo vuole rappresentare la distanza, l’interruzione, la pausa, la riflessione, quel momento di blu che ci separa da un’azione che comporta dei rischi per i quali non ci sentiamo pronti.

Il lavoro che hai pensato appositamente per il progetto DKMO è un intervento diretto sul catalogo del progetto. Com’è strutturato esattamente questo intervento artistico, e perché una scelta di questo tipo? Perché rappresenta il nostro modo di lavorare. Nucleo ha un manifesto per la creazione dei propri lavori. Quando abbiamo iniziato con Primitive la prima serie di elementi di arredo in resina, ho sentito la necessità di creare un manifesto un po’ come Dieter Rams aveva 163


ATTENZIONE

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