GRIP 2

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Stefano Passeri Giorgio Sicbaldi Luca Manca Olmes Carretti Mauro Meli Aldo Winkler Road to El Alamein and more...

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Planet Motors S.r.l. Viale Marconi 113, 09045 Quartu Sant’Elena (CA) info@planetmotors.it planetmotors@tiscali.it Tel: 070 881179 Fax: 070 880263


editoriale immaginate... Con grande soddisfazione porto a conclusione questa fatica. GRIP 2 contiene molte storie, di personaggi famosi e non. Immaginate che Stefano Passeri si fidanzi con vostra sorella. Avreste più di un’occasione per fargli qualche domanda da appassionato. Immaginate anche di essere particolarmente curiosi e anche un po’ invadenti: potrebbe darsi il caso che la vostra chiacchierata assomigli all’intervista che Marcello Peddis gli ha fatto per GRIP. Immaginate ora un mondo dove gli scooter non sono solo usati per andare in ufficio ma addirittura per le gare. Un mondo dove si può essere pilota ufficiale in sella a uno scooter e corrervi una sei giorni sull’Isola di Man. Immaginate di essere voi questo pilota e pensate quante grappe dovreste bere prima di decidere di raggiungere l’Isola di Man in scooter, con vostra moglie! Ora, sappiate che questo mondo è esistito e, almeno nei ricordi (di pochi) esiste ancora. “Storie di (stra)ordinaria passione” parla di questo. Mettete ora da parte l’immaginazione e concentratevi sul resto di GRIP. Troverete un’intervista a Luca Manca per sapere come sta, a mesi dal suo incidente; interviste a Olmes Carretti e Mauro Meli, personaggi del mondo della moda e dello spettacolo visti dal loro lato motociclistico. Leggerete l’appassionante storia di Aldo Winkler sulla sua Dakar ’89, raccontata con le parole e le foto del protagonista. Troverete ancora notizie utili (e dilettevoli) sul Pharaons Rally grazie alla testimonianza di Massimo Mocci. Infine, gli articoli “Senza parole” e “Garage panorama” saranno un piccolo bonus. Alberto Valtellino

in questo numero GRIP 2

GRIP magazine di Alberto e Marcello Valtellino a questo numero hanno collaborato: Chiara Dentoni Claudio Meloni Marcello Peddis contatto: gripmag@ymail.com

Stefano Passeri intervista Giorgio Sicbaldi storie di (stra)ordinaria passione Luca Manca di nuovo al 100% Olmes Carretti focus on: Maurofocus Meli on: Aldo Winkler Lost in the desert Road to El Alamein parte II senza parole garage panorama

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Tutto quello che avreste voluto sapere su

STEFANO PASSERI * (ma non avete mai osato chiedere) testo: Marcello Peddis e Alberto Valtellino grafica: Alberto Valtellino

Intervista atipica perché abbiamo deciso di “non fare le solite domande” ma di chiedere al campione quello che spesso ci viene in mente quando spingiamo la moto verso la partenza, il giorno prima della gara, oppure quando ci alleniamo e pensiamo che andare di più sia impossibile. In parole povere vorremmo carpire i segreti per andare più forte, almeno sulla carta. Ovviamente non c’è una ricetta standard per vincere sennò saremmo tutti campioni. È lecito e interessante, però, cercare di scoprire come ha fatto e cosa passava per la testa (e il polso) di un pilota che ha vinto tanto nell’enduro.

“Sono rientrato a casa e ho detto a mia madre: Voglio fare il pilota ufficiale!”


La prima domanda è sempre banale: com’è nata la passione per l’enduro? Mio fratello Sergio, di otto anni più vecchio di me, era appassionato di regolarità e seguiva un suo amico nelle varie corse. Mi ha portato, in sella con lui su di un Hercules 50 cc., alla Valli Bergamasche del 78 / 79 (non ricordo con esattezza) e poi alla 12 ore di Franciacorta. Mi è venuto il “groppo alla gola” e ho deciso di provare a fare quel mestiere. Il passaggio delle moto in PS era emozionante e spettacolare, ma ciò che mi è rimasto impresso era l’atmosfera dell’assistenza al controllo orario e del paddock. I vari team schierati che preparavano la moto per il parco chiuso con i piloti che facevano la messa a punto prima della corsa. Da pelle d’oca! Sono rientrato a casa e ho detto a mia madre: “Voglio fare il pilota ufficiale.” Quando un buon amatore si confronta con dei professionisti, si ritrova sempre con dei distacchi pesanti (anche in una linea non troppo tecnica si possono beccare diversi minuti) eppure si è convinti di essere andati forte e non aver commesso errori. Probabilmente anche tu agli inizi hai avuto questi problemi. A parte l’allenamento, come hai capito come fare la differenza? In realtà non credo che si capisca mai qual è la ricetta giusta. Da parte mia ho avuto la fortuna di potermi allenare molto e dedicare molto tempo alla moto. Penso che con queste due cose si metta in azione un ingranaggio che ti porta naturalmente a guidare forte e con sicurezza. Per vincere le gare poi - dico una grandissima banalità - ci vuole fortuna, determinazione, capacità di concentrazione, freddezza di fronte ai problemi. Tutte cose che quando uno vive per la moto, arrivano alla portata, poi sta a te saperle sfruttare al meglio.

Per vincere ad alti livelli, quanto conta il “coraggio fisico” (chiudere gli occhi e rischiare) e quanto la tecnica di guida? La mia risposta ovviamente non può avere valenza in senso assoluto. Per quanto mi riguarda, non credo di aver fatto del rischio il mio cavallo di battaglia. Certo che in qualche occasione non si può stare tanto abbottonati, bisogna mettere un po’ la pelle al sole… ma non troppo, non ne vale la pena. Hai corso e vinto contro quasi tutte le leggende dell’enduro. Qual é il pilota che hai temuto di più, quello che magari in un punto molto pericoloso ti faceva pensare: “Qui tizio tiene aperto, devo farlo anch’io sennò prendo dei secondi che non riuscirò a recuperare”? Tutti i miei avversari mi hanno fatto passare notti insonni pensando a come sarebbero sfrecciati in PS… Durante le mie ricognizioni in speciale prima della gara, ogni curva, ogni ostacolo era il pretesto per fermarsi a riflettere su come lo avrebbero affrontato gli altri piloti. Ho sempre cercato di interpretare le speciali da più punti di vista, anche quello del mio avversario. Ricordo che Paul Edmondson sulle speciali sabbiose era fortissimo, Sala nelle PS veloci era imbattibile, Petteri Silvan straordinario quando il terreno si deteriorava e si bucava. Signorelli preparatissimo nelle gare lunghe e faticose, ma riguardo le speciali rischiose, quello più temibile


era Fausto Scovolo. Ancora: qual’é il pilota di ieri e di oggi che hai stimato di più come doti di guida? I più ammirati sono stati Gualtiero Brissoni e Alessandro Gritti, mentre Stephane Peterhansel è stato un grandissimo con il quale ho potuto confrontarmi direttamente sui campi da gara ma spesso e volentieri faceva un altro sport da quanto andava forte!

Sei stato uno dei pochi (forse l’unico) a fare l’Assoluta con un ottantino nel campionato italiano. Per molti è un’impresa straordinaria. Ti ricordi qualcosa di quella gara oppure fu un episodio come tanti nella tua carriera? Ricordo con molto piacere l’episodio. Guardando oggi quello che succedeva allora posso dire che vivevo in uno “stato di grazia”. Pensavo fosse parte del mio essere, sembrava normale. La vita, le esperienze che sei costretto ad affrontare, ti fanno capire che invece tutto è momentaneo e tutto va conquistato con il lavoro, giorno per giorno. Comunque, guidavo e percorrevo le traiettorie delle speciali con il cervello che faceva scorrere tutto al

rallentatore. Avevo tutto il tempo di decidere dove mettere le ruote, a quale velocità percorrere le curve, come affrontare le asperità del terreno perché il mio “computer di bordo” rallentava l’ingresso delle sollecitazioni visive con il risultato di darmi il tempo di decidere cosa era meglio fare. Non potevo sbagliare, ero efficace, veloce e tutto era sotto controllo. Sicuramente in tanti anni di gare ne avrai visto di tutti i colori. Hai degli aneddoti particolarmente brillanti da raccontare? Ce ne sarebbero veramente un’infinità, tantissimi al limite della leggenda per quanto incredibili e singolari… In qualche caso non è possibile raccontare i fatti con nomi e cognomi perché potrebbero scoppiare delle guerre! Sfiorando appena l’argomento, mi viene in mente la Sei Giorni di S. Pellegrino: la battaglia tra Tullio Pellegrinelli e Giorgio Grasso che alla fine dell’ultimo giorno si trovano divisi ad 1 decimo di secondo dopo 6 - dico 6! - giorni di prove speciali. Durante la gara i due dormivano nella stessa stanza, al ritiro della nazionale, quell’anno al rifugio del monte Poieto, erano nello stesso letto a castello e una notte il letto si è rotto facendo crollare il pilota alloggiato sopra lo sfortunato occupante della cuccetta di sotto. Difficile far capire con il mio scritto il clima che si era formato nella squadra della sei giorni in Australia nel 1992. Arnaldo Nicoli si svegliava un’ora prima (5.00, 5.30) accendendo il riscaldamento in modo che al mio risveglio l’ambiente fosse più accogliente. Gian Marco Rossi in Olanda nel 1984 si fermò in una buca di fango e acqua per aiutarmi a uscire dai guai nei quali mi ero cacciato per l’inesperienza, eravamo rivali


“Vivevo in uno stato di grazia. Non potevo sbagliare, ero efficace, veloce e tutto era sotto controllo.” e occupavamo la quinta e sesta posizione nella classifica della classe 80. Ancora tanti altri, si potrebbero scrivere pagine su pagine… Qual’é la moto che hai amato di più tra le molte che hai guidato (ufficiali e non)? Quella che mi ha gratificato di più dal punto di vista sportivo, è senz’altro il KTM 80 cc. La più interessante e stimolante da guidare è stata l’Aprilia Bicilindrica, piena di contenuti da scoprire, innovazioni tecniche, nuove sfide. Peccato sia finita così. Oggi molti sostengono che le moto sono tutte valide, in realtà non è proprio così. Ovviamente senza fare nomi, ti è mai capitato di provare una moto (recente e non) e dire: “che cesso non la vorrei neanche se me la regalassero”? Raccontarci perché? Mi è capitato, non di recente. Quando sono salito in sella ho proprio esclamato ciò che hai scritto sopra. Molto alta, poco guidabile e assolutamente instabile nei percorsi veloci, pesante. Non aveva nessun pregio ed io non avevo proprio nes-

suna intenzione di guidarla. Poi mi hanno fatto cambiare idea. Con il lavoro dei meccanici, sono riuscito ad ammorbidire il carattere scontroso che aveva evidenziato in quel primo approccio. In un’intervista J. M. Bayle, parlando del CR 250, disse: “Si, l’Honda è una moto molto reattiva, ma per me è meglio che sia così, d’altronde basta stringerla forte tra le gambe e non ci sono problemi”. Tra i costruttori di moto ci sono due filosofie abbastanza distinte, quelli che fanno moto molto svelte e quelli che le fanno molto stabili. Se dovessi scegliere tra le due? Ne prenderei una molto stabile e la farei diventare agile e svelta! Da sempre ci sono molte polemiche tra gli appassionati sulla stampa specializzata. Molti sono convinti che una moto vada bene tanto quante sono le pagine di pubblicità che la casa costruttrice compra.Tu che hai fatto il tester diverse volte per le riviste, hai dovuto sottostare a restrizioni? Assolutamente no. Le sensazioni che


dola da un importatore italiano. Motore, sospensioni, manubrio, impianto elettrico, tutto rigorosamente di serie. La gara non era proprio una “passeggiata non competitiva”. Sono certo che nell’enduro la differenza la fa sempre il pilota.

“Ai miei tempi le speciali non erano le sole a decidere la classifica, contava anche la regolarità con cui affrontavi il percorso, non come adesso che è ridotto a un semplice trasferimento da una PS all’altra.” provavo mentre guidavo le moto erano trascritte senza nessun filtro. Al limite, si trovavano le parole giuste per descrivere un difetto ma certamente non si faceva finta di niente. Oggi quasi tutti hanno capito che le sospensioni sono molto più importanti del motore per andare forte. Nonostante i grandissimi progressi delle moto di serie, molti le fanno preparare ugualmente. Pensi sia realmente necessario un motorone se non si hanno le caratteristiche fisiche e tecniche da ufficiale? Credo veramente che, al giorno d’oggi, le moto in commercio vadano più che bene per affrontare qualsiasi esame. Ricordo a chi non è convinto di ciò che un certo Shane Watts in Portogallo, alla sua prima esperienza mondiale, fece l’assoluto con una moto di serie che lui stesso si montò il giovedì antecedente la gara, prenden-

L’enduro mondiale in questi ultimi anni è cambiato: Blanchard sostiene di aver dato a questo sport una grande visibilità, però già qualche top rider (e non solo) ha cominciato a criticarne la trasformazione. Le prove estreme, che dovrebbero secondo alcuni fare da spartiacque tra enduristi ed ex crossisti, sono diventate spesso delle arene artificiali dove lo spettacolo è ridotto a vedere radiatori fumanti e gente che spinge. Non credi che vedere dei campioni spingere in mezzo a degli ostacoli artificiali alla velocità di 1 Km/h, invece che giovargli, danneggi l’immagine di questo sport? No, non credo che danneggi l’immagine. Credo che l’enduro moderno non abbia ancora trovato la sua giusta dimensione. Stiamo attraversando un momento in cui cerchiamo di spettacolarizzare tutto perdendo di vista quello che è il vero sentimento dell’enduro, ed è per ciò che troviamo ai vertici delle classifiche molti piloti che arrivano da altre specialità (il motocross). Ai miei tempi contava la malizia, saper interpretare la gara nella sua globalità, la velocità di esecuzione non era la sola prerogativa di chi vinceva. Le speciali non erano le sole a decidere la classifica, contava anche la regolarità con cui affrontavi il percorso che rappresentava una discriminante, non come adesso che è ridotto a un semplice trasferimento di piloti da una PS all’altra. Non voglio dire che “era meglio ai miei tempi”, dico solamente che lo spettacolo cui assistiamo non è la vera essenza dell’enduro. Non so nemmeno se


sarebbe riproponibile un tipo di gara come ai vecchi tempi, però… Non posso trattenermi dal chiederti una cosa sulla famosa Aprilia RX. Ho letto di leggende che avesse un telaio Husqvarna o che fosse tutto in titanio. Anche che avesse il motore Rotax o che derivasse da un motore 125 GP. Sono leggende o verità? Quanto di quella moto corrispondeva alla RX che si comprava in concessionaria? Penso proprio che tu abbia usato il termine giusto: “leggende”. 1- Il telaio era derivato da quello di serie; aveva un diverso angolo di sterzo. Il telaietto posteriore era in alluminio, quello di serie era in ferro. Il materiale aveva caratteristiche diverse da quello in vendita ma certo NON era in titanio. 2- Il motore aveva i carter fusi in terra, la valvola sullo scarico era a depressione e non elettronica come quella di serie. NON era assolutamente derivato da un motore 125 GP, mentre era figlio del certosino lavoro di un certo Luca Buosi al quale devo molto in termini di risultati sportivi. Le prestazioni del suo bambino erano veramente strepitose! Cilindro, biella, albero motore standard erano solo controllati e accoppiati con molta precisione.

TITOLI CONQUISTATI CAMPIONATI ITALIANI 2003 Yamaha 250 1998 KTM 125 1997 KTM 125 1995 Kawasaki 125 1992 Aprilia 125 1990 Husqvarna 125 1989 Husqvarna 125 1988 Husqvarna 125 1987 KTM 125 CAMPIONATI EUROPEI 2003 Yamaha 250 2002 Yamaha 250 1986 KTM 125 CAMPIONATI DEL MONDO A SQUADRE (Sei Giorni) 1997 Italia 1992 Australia 1989 Germania 1986 Italia CAMPIONATO DEL MONDO Due volte classificato secondo


HUSABERG SARDEGNA V.le Marconi ang. Via Mercalli - 09131 CAGLIARI Tel. 070 4525070 - Fax 070 453054 Sito: www.husabergsardegna.com Email: info@husabergsardegna.com Husaberg in Sardegna è distribuito da GRUPPO AUTOVAMM


testo: Alberto Valtellino grafica: Alberto Valtellino

in Man e ritorno alli i d la o Is – a n cav Sardeg poco più di 7 ’impre: 5 2 1 a tt re b m La km. Sembra un per più di 3000o sconsiderata… e non sa quantomen è tutto! anche un pasra ’e c a tt re b iva Sulla Lam la di man partopo o s ’I ll a … e ro r. D segge iorni in scoote: stesso g 7 i d ra a g a a un il ritorno a cas la gara, infine, in due. scooter sempre


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Ciò che segue è la storia del viaggio e della gara che fece nel 1967 Giorgio Sicbaldi, pilota “ufficiale” della Innocenti, scelto per rappresentare la casa costruttrice alla Scooter Week: una manifestazione della durata di una settimana all’interno della quale c’erano varie competizioni di ogni tipo, dedicate solo agli scooter. Gare, giochi e feste erano organizzate per quella che sarebbe stata la decima edizione dell’evento, considerato l’Olimpiade dello Scooter. Dal 25 al 30 di giugno furono ben 768 gli scooteristi provenienti da tantissime nazioni a prendere parte alle competizioni.

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Giorgio Sicbaldi è nato in Sardegna e alla fine degli anni ’60 era uno dei migliori motociclisti sardi, uno dei pochi di alto livello. Aveva cominciato con le gare regionali ed era passato subito alle competizioni nazionali ed europee: gareggiare era diventata la conseguenza ovvia di una grande passione per le due ruote. Nel ’67 era appena trentenne e con una notevole esperienza agonistica alle spalle: aveva già corso vari Motogiro d’Italia, Giro dei Tre Mari e campionati europei. Nello stesso anno, i tre migliori piloti in sella a una Lambretta nella corsa Milano – Taranto ebbero il diritto di rappresentare la casa costruttrice alla gara inglese. Furono Paggi, Apolloni e, ovviamente, Sicbaldi.

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Per i tre che avrebbero dovuto formare la squadra “Lambretta Club d’Italia”, si era pianificato che raggiungessero Douglas (capitale dell’isola) con un volo di linea pagato dalla Innocenti. Giorgio, ben deciso a unire l’utile al dilettevole (in una maniera che forse oggi condividerebbero in pochi), decise di farsi dare il corrispettivo del costo dei biglietti aerei

per coprire le spese di viaggio da casa sua all’isola inglese in sella alla sua Lambretta (quella da gara!). Con in mente tutt’altro che una traversata solitaria, si mise in sella in compagnia di Fabiana, con la quale si era appena sposato e che lo accompagnò entusiasta per tutto il viaggio.

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La Scooter Week era rivolta a un vastissimo pubblico di scooteristi e aveva un carattere competitivo, ludico e d’aggregazione. Nonostante lo spirito votato al divertimento e alla condivisione, le gare erano tutte particolarmente impegnative e corrispondevano alla tendenza del periodo di correre su lunghe distanze e su terreni di ogni genere, con prove di regolarità, di velocità pura e di accelerazione. Ciò che era messo alla prova più di tutto era la costanza di prestazioni di mezzo e pilota. Sarebbe dunque l’idea che è stata alla base della regolarità da cui viene il moderno enduro. Giorgio, nonostante la sua posizione privilegiata di collaborazione con la casa, disponeva di un mezzo molto vicino alla serie. “Molto” significa che la 125 Special era di fatto di serie, con alcune piccole preparazioni artigianali e pochissimi pezzi speciali. L’idea del viaggio dalla Sardegna piacque molto ai dirigenti della Innocenti che videro l’occasione di un’ottima pubblicità per l’affidabilità del proprio mezzo.

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La classifica della gara era stilata sulla base di tre competizioni: la Manx 400, la gara di trial notturno e la Druidale. Tutte si svolgevano sui percorsi e sullo sfondo della competizione che ha reso leggendaria l’Isola di Man: il Tourist Trophy. La Manx 400 era una prova di regolarità e resistenza, che si svolgeva il primo giorno: 400 miglia totali


in questa pagina: Giorgio prima della partenza della Manx 400 (foto riferita al ’68). nella pagina successiva: Prove di sprint (per potersi abbassare meglio e per alleggerire la Lambretta, Giorgio toglieva la sella dello scooter, sedendosi direttamente sulla scocca).

la prima gara era la Manx 400: 600 km

totali


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lungo il celebre circuito di 37,72 miglia del TT. I concorrenti prendevano il via nel pomeriggio della prima giornata e correvano fino a tarda notte, arrivando al traguardo quasi all’alba del giorno dopo. La seconda prova era il trial notturno. Una prova di abilità su 70 miglia di percorsi impervi, mulattiere e boschi; tutto in notturna. Ogni pilota montava fari supplementari sulla moto e sul casco e si svolgeva un po’ come una caccia al tesoro, con una tabella che dava le indicazioni per arrivare al checkpoint successivo. Fu la prova più difficoltosa e solo 39 su 90 piloti riuscirono a portarla a termine. La terza e decisiva com-

petizione era la famigerata Druidale: una prova di regolarità “veloce”, su una parte del percorso del TT. Era compreso anche il passaggio del guado: molto temuto dai piloti. Una discesa lanciava gli scooter a gran velocità e, quando arrivavano al guado, facevano lo stesso effetto di un Boeing che tenta l’ammaraggio. Oltre a queste tre imprese (più che competizioni), c’erano una miriade di altri eventi. Gare di sprint, gimcane, slalom, speedway, addirittura corsa con le bighe e motocross. Giorgio prese parte anche all’edizione del ’68 (alla quale si riferiscono le foto dove compare col numero 438).

Sbarcato dal traghetto nella mattina del 25 giugno, Giorgio ebbe poco tempo per riprendersi dopo due giorni di viaggio per arrivare a destinazione. Infatti, la Manx 400 prendeva il via nel pomeriggio dello stesso giorno. Se mai non ne avesse avuto abbastanza, lo aspettavano circa 600 kilometri da percorrere senza sosta. Fabiana, la moglie, si occupò di fare assistenza per l’intera durata della gara che si protrasse per tutta la notte. Al posto degli integratori moderni, i piloti del tempo si facevano bastare un buon the caldo. Pochissimi terminarono la corsa senza penalità e ognuno di questi fu premiato con una medaglia d’oro. Il giorno dopo ci furono le prove di sprint. Giorgio riuscì a fare ottimi tempi, grazie a una buona messa a punto dello scooter e a una stazza da fantino. Poi fu il turno della gara di trial. In molti non avevano mai corso in tali situazioni e in quei percorsi, per di più di notte. A complicare ancora la gara ci furono gli errori nei chilometraggi riportati nelle tabelle di marcia. Giorgio si ricorda il buio del bosco solcato dai fari degli scooter che puntavano in ogni direzione: tanti avevano perso la strada e giravano


gli scoote r a gran v elocità, quand o arrivava no al guado, fa cevano lo stesso effetto di un Boe ing che tenta l’ammara ggio alla cieca in cerca dei checkpoint. Con lo spirito di adattamento Giorgio riusciva a cavarsela comunque, anche quando il terreno non lo favoriva e con il passare dei giorni cominciò a concretizzarsi la possibilità di un buon risultato. Seguì una giornata di pausa in cui ci furono i giochi (ovviamente in scooter), concorsi e altre manifestazioni. Il penultimo giorno ci fu l’ultima gara valida per la classifica: quella sul circuito della Druidale. Anche qui i risultati di Giorgio furono molto buoni e la direzione di gara, incredula, volle smontare la sua Lambretta per controllare che fosse realmente un 125. Dai controlli, emerse che la cilindrata era quella giusta e Giorgio poté raccogliere i risultati che si era guadagnato sul campo: salì sul podio, dietro a John Ronald e Neville Frost. Era la

terza piazza assoluta su ben 768 concorrenti. Fatto il suo dovere, non rimaneva che rimontare il portapacchi alla fida Lambretta, fare spazio alle coppe e imbarcarsi con la moglie alla volta di Calais, in direzione di casa.

Classifica finale 1) John Ronald (Lambretta SX 150) 2) Neville Frost (Lambretta SX 200) 3) Giorgio Sicbaldi (Lambretta S 125) Classifica a squadre 1) Lambretta Club D’Italia (Apolloni, Paggi, Sicbaldi)



testo: Alberto Valtellino foto: Judith Tomaselli, JVD Berni/Bauer grafica: Alberto Valtellino

Il 7 gennaio 2010 arrivava dal Cile – dove si stava disputando la Dakar 2010 – la notizia di un grave incidente occorso a Luca Manca. Il sardo è uno dei piloti italiani di maggior spicco nel panorama rallystico mondiale; già il giorno precedente si era reso protagonista delle cronache cedendo la sua ruota posteriore al compagno-amico Marc Coma, che aveva fuori uso la sua. Il gesto, acclamato per la sua sportività, aveva fatto retrocedere il pilota fino alla nona posizione. Il giorno successivo, per recuperare il tempo perso dalla testa della gara, tentava un difficile recupero quando è incappato in una prima caduta. Nonostante la brutta botta (ripresa in una sequenza fotografi-

ca diffusa su internet) Luca ha ripreso la corsa. Al chilometro 14, però, ha perso ancora il controllo della moto, rovinando a terra ad altissima velocità. La situazione è apparsa subito critica. Fortunatamente i soccorsi sono stati prontissimi e il pilota è stato messo in coma farmacologico. Solo il 14 gennaio è arrivata la notizia del suo risveglio e il 4 febbraio, finalmente, è stato riportato in Italia. Per la lealtà del suo gesto nei confronti di Coma, la Fondazione Ernest Lluch gli ha conferito un premio alla sportività. A mesi di distanza dal fatto, per avere notizie ufficiali della sua condizione attuale, lo raggiungiamo telefonicamente per sentire dalla sua voce come sta.


Ciao Luca. Anzitutto, come stai? Bene! Mi sono ripreso al 100%, si va sempre in moto, stiamo già recuperando il tempo perso dall’incidente. Nonostante quei sei mesi in cui non si andava in moto il ritmo gara e la velocità sono come prima. La preparazione è già a buon punto, quasi al massimo. Le condizioni di salute sono tutte ottime: sono tornato al tempo della Dakar, sia fisicamente sia atleticamente. Dunque ti stai allenando in moto? Ora sto girando con un KTM 250 due tempi da cross, con la moto da enduro, col 690 da rally e con la moto da trial. Diciamo che non mi sto facendo mancare niente. Hai avuto modo di ricostruire gli attimi della caduta? Ero in un tratto veloce, con un fondo molto duro con un po’ di sabbia perché poi si arrivava alle dune. Io stavo cercando di recuperare il tempo perso il giorno prima, in mezzo alla polvere e ai piloti non veloci. Il retrotreno è partito troppo e mi sono staccato dalla moto. Per questo non ho avuto conseguenze fisiche, tranne il gran colpo in testa. Comunque la botta è stata forte perché andavo a 156 orari. Mentre mi stavo risollevando, sono arrivati subito i medici. Era il primo waypoint, ero primo assoluto di giornata come era successo nelle tappe precedenti e gli aiuti sono arrivati subito. I medici mi hanno soccorso e mi hanno messo in coma farmacologico. Da lì ci sono stati i sei mesi di fermo, anche perché avevo un grande ematoma nella parte sinistra del mio cervellino! Non è stato un mio errore di guida. Non è stato diverso da quello che può succedere in un regionale di enduro o di cross, solo che la velocità era molto alta. Mi ha

confortato sapere che la mia preparazione fisica mi ha permesso di non rompere neanche un ossicino, infatti, non ho avuto neanche una frattura. Dopo il tuo ritorno in Italia? È stato bello perché tante persone e tanti amici erano felici che fossi ritornato senza grossi problemi. Dopo ho dovuto aspettare sei mesi perché il mio ematoma si assorbisse del tutto e poi, già dai primi di giugno, ho ripreso ad allenarmi e a usare la moto. Quando ho ripreso la moto è andato tutto perfettamente sin dall’inizio, in maniera naturale. Allenandomi sempre in Sardegna, da solo, non avendo mai contatti con persone al di fuori dell’isola, tutto questo mi ha fatto molto piacere. Evidentemente ciò che ho fatto durante gli anni è servito a qualcosa. Mi è sembrato di vedere, almeno su internet, molta solidarietà nei tuoi confronti sull’accaduto. A te è sembrato altrettanto? Quella c’è sempre stata perché io ho sempre aiutato tutti i motociclisti, dalle gare amatoriali a quelle di mondiale. Inoltre, con la fortuna che vado sempre forte, la gente si è sempre ricordata di me e mi sono venuti incontro un po’ tutti. Molte persone però, italiane e non, hanno un po’ approfittato del mio incidente. Uno non può dichiarare “Luca Manca è caduto perché andava troppo veloce: stava insieme ai primi!”. Dichiarazioni così sono state fatte da gente, soprattutto italiani, con la quale non avevo un rapporto di amicizia solo per uscire nel telegiornale di Sky o sulla cassetta della Dakar. Hai già degli accordi per il 2011? KTM Austria e KTM Italia mi daranno sempre una mano. Riparto a fare la Dakar


da privato, come prima. Faccio tutto il Mondiale e, con la mia tranquillità, si farà la gara. Si cercherà di prepararsi al meglio e poi vediamo. Io sono uno che, quando qualcuno mi supera perché va più veloce, non ne faccio una malattia. Non dico che Luca Manca abbia la tecnica di Coma o di Despres, però ho la determinazione. Vado come loro per la voglia di migliorare. Questa è la cosa che mi porta avanti.

Pronto ?

Tra l’altro, relativamente da poco, sei diventato papà. Ho una bambina di sedici mesi. È nata l‘anno scorso quando c’era il Rally dei Faraoni. La mia vita familiare è tranquilla: lavoro, vado in moto e non le faccio mancare niente. Questo però non ha mai cambiato il mio atteggiamento rispetto alle gare. La mia mentalità non mi porta a dire: “Adesso c’è la bambina e vado più piano”. Semmai a prepararmi per gareggiare in tranquillità e sicurezza. Comunque io, che sono esigente con me stesso e non mi accontento mai, sono ritornato alla mentalità di prima. Non mi sono mai rilassato: la mattina alle sei vado sempre a correre; oggi dall’una alle quattro andrò in bicicletta. Ci si allena sempre. Ero molto amico di Meoni che ha vinto la prima Dakar a 43 anni, sono molto amico di Coma e anche lui è come me. Interpreto la moto come uno sport dove non ci si deve mai considerare arrivati. L’anno prossimo mi riscriverò a un moto club sardo per rifare cross, enduro e recuperare tutta la mentalità gara. Nel 2011 farò anche il trial! Ora si aspetta pazientemente, riprendendo a fare le gare di regionale e riacquistare la velocità in gara che c’era prima.

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P E R S O N A L

T R A I N E R

L U C A F R A U . I T RARI NANTES INSIDE


Olmes Carretti di Alberto Valtellino

focus on:

Il noto designer di moda italiano e i suoi trascorsi enduristici.

La ragione per la quale ho voluto realizzare questa intervista è che mi affascinava il punto di vista particolare, inconsueto, verso il mondo della regolarità degli anni ’70 del mio interlocutore. Data la sua storia, le sue caratteristiche, visto il campo in cui ha trovato fortuna, ho giudicato interessante riportare a voi parte della piacevole conversazione con Olmes Carretti: personaggio italiano di successo nel campo della moda. Originario di Reggio Emilia, si è avvicinato al mondo dell’abbigliamento nel 1973 col negozio Portobello Bazaar. Da qui ha trovato espressione la sua creatività, nella fabbricazione di capi prima e, poi, nel lancio di alcuni marchi d’abbigliamen-

to. Il boom avviene con Best Company: vero fenomeno sociale e commerciale, che dal ’82 al ’92 raccoglie un grandissimo successo. Tanti e famosi sono i marchi ai quali il nome di Olmes Carretti è stato legato: Henry Lloyd, By American etc. Scoprire che ha avuto un passato da endurista è stata una sorpresa e un’occasione di capire come lui abbia vissuto questo sport. Interessato tanto alle due ruote, quanto alle esperienze di vita che una disciplina così dura sa offrire, ha tratto ispirazione e insegnamenti cominciando in quel contesto ad applicare la creatività che sarà la sua fortuna negli anni a venire.


Come ti sei avvicinato alla regolarità e alla moto? Allora facevo una professione per raccattare qualche soldo: con altri due abbiamo aperto un negozio di roba usata e ciò mi ha permesso di conoscere, attraverso gli indumenti, la vita degli altri. Ho scoperto che la giornata delle persone aveva tanti spazi, ognuno con la sua funzione: lavoro, svago, divertimento. Da questi indumenti mi sono avvicinato agli sport e fra questi c’era anche il motociclismo e la regolarità. Manipolando questi indumenti, questi tessuti, questi materiali, ho fantasticato su cosa potesse

succedere a queste persone che andavano per boschi, per sterrati. Appena ho potuto, con i primi soldi, mi sono comprato un cinquantino, mi sono iscritto a una scuderia e ho cominciato a correre. Mi ricordo che avevano una maglia con una scritta piccolissima in tinta unita: Moto Club Sezzi. Poi, facendo lo sport ho cominciato a disegnare le maglie della mia scuderia. Abbiamo trovato uno sponsor: prima nessuno aveva una maglia con una scritta. Lo sponsor faceva motori agricoli, era mio cliente. Mi pare ci avesse dato dieci milioni che, per allora, erano una cifra! Io ho preparato queste

maglie che erano piene di scritte, mettevo anche chi non pagava, giusto per folklore. L’anno dopo hanno cominciato le altre scuderie e nell’arco di quattro o cinque anni le maglie e i giubbotti cominciavano ad avere queste cose qua. Per me il motociclismo è stato anche un esperimento. Da lì il mio lavoro si è sviluppato, avevo richieste di prodotti dell’usato che nel mercato comune non c’erano e ho cominciato a prepararli. Poi si è avvicinato qualche industriale che aveva compreso probabilmente che cosa stesse succedendo e da lì ho cominciato a fare prodotti.


Ho cominciato a correre nella 50 perché non ho un gran fisico; solo l’ultima stagione l’ho fatta con un 75 Puch ma, dato il mio peso di 60 kg, la mia cilindrata era la 50. Era il 1973, l’anno dopo il mio primo viaggio in Cina, quando ho cominciato a correre nel provinciale, regionale e qualche interregionale. Ho iniziato con il Caballero e dopo tre anni ho cominciato a correre con l’SWM. Quali sono stati gli insegnamenti di questo sport? Mi ha insegnato la disciplina. Mi ha insegnato a soffrire, mi ha insegnato la fatica. Per fare le cose devi prepararti, devi sapere che cosa fai, quale sarà il passo dopo. Credo che formi il carattere: è una scuola. A ogni gara tu impari, correggi gli errori, punti ai tuoi obiettivi. Poi, non avendo nessuno che mi desse suggerimenti, mi ricordo tanta sofferenza. Ci sono state tante gare che non ho terminato per sfinimento. Il resto è divertimento. Ti accorgi di queste cose dopo. Impari ad amare la natura, attraversi dei luoghi in cui non avresti possibilità di andare, impari lo spirito di gruppo. Meglio di una scuola o del militare. Anche perché tutto quello che impari dagli altri, te lo danno gratuitamente, senza secondi fini.


Cosa ti viene in mente di quel mondo, di quegli anni, di quello stile? Era uno stile di vita completamente diverso, meno impegnativo, più umano, dove le persone avevano dei rapporti anche solo con gli sguardi, con un sorriso o con una frase. Oggi è tutto più misurato, ogni cosa è più controllata, verificata, non istintiva come una volta. Questo dipende dalla cultura della società, dagli eventi della storia che hanno modificato il modo di essere delle persone. Una volta potevi fare le stesse cose di oggi, ma con più stile, in maniera più naturale. Oggi c’è sempre quel freno, quell’inibizione per cui “devi stare attento a ciò che fai”. Mi capita di viaggiare e trovare ancora dei posti nel mondo dove si può vedere la sincerità nello sguardo della gente; persone che, nonostante condizioni precarie, hanno comunque il sorriso. Sono i paesi nei quali io sto meglio. Sto pensando alla fascia Himalayana, dove ci sono paesi che frequento per lavoro adesso. In paesi del genere o vai nella merda o negli alberghi di lusso. Quando lavori, devi andare negli alberghi di lusso, però preferisco mangiare con la gente del posto, mi sento molto meglio.


“Ora comprendo quello stile. Quelle persone avevano messo in sequenza delle priorità durante l’azione, che gli permet-i tevano di raggiungere l’equilibrio in ogn , cosa. L’estetica è la cosa più importante anche nel mondo delle gare. Chi pratica l’estetica, chi ha uno stile, sa benissimo di averlo.”


Vedo che la gente “non” si accontenta di poco. Non è vero che un tempo, la gente si accontentava di poco. Penso che una volta si avessero le stesse ambizioni che abbiamo oggi, solo che una volta si viveva (e in certi paesi lo fanno ancora) in modo più diretto, con condivisione più che con scontro. Oggi viviamo in difesa. In certi paesi non esiste la difesa, non ci sono le braccia conserte, ci sono le mani che si muovono, l’apertura. Queste cose le posso trovare anche vicino a casa, soprattutto nei paesi e dove ancora esistono delle comunità, dove non c’è il “cosiddetto” benessere.

Pagina precedente: La foto in basso ritrae la squadra del MC Sezzi. Carretti è il pilota a destra. Interessanti le taniche di benzina per il rifornimento “a caduta”, dotate anche di rubinetto (sul tetto del furgoncino). In basso alcuni dei marchi legati al nome di Olmes Carretti. A sinistra si vede l’etichetta di Spitfire Jeans: suo primo marchio.


Mauro Meli di Alberto Valtellino

focus on:

Musica, opera, teatri e... La passione per il fuoristrada: Mauro Meli.

Ho conosciuto Mauro Meli in moto e non avevo idea della sua storia personale e professionale. Una volta approfondita la conoscenza ho giudicato interessante fare due chiacchiere sulla passione che abbiamo in comune: la moto e il fuoristrada. È un personaggio pubblico, nel senso che – anche per il lavoro che fa – molte informazioni a suo riguardo sono alla portata di tutti. Per riassumere brevemente dico che è nato a Cagliari, è musicista, organizzatore musicale ed esperto di pianificazione dello sviluppo. La sua carriera nel campo della musica inizia con un diploma in chitarra, studiando a Milano e Parigi; poco dopo comincia a occuparsi di organizzare e dirigere eventi musicali. Nel 1996 è no-

minato sovrintendente del Teatro Lirico di Cagliari, nel 2003 passa alla direzione del Teatro alla Scala di Milano e dal 2005 è sovrintendente del Teatro Regio di Parma. Cosa ci fa su GRIP? La mia finalità è di illustrare un punto di vista differente sul nostro sport: quello di un musicista di livello, di un professionista riconosciuto e di un uomo che ha vissuto tante esperienze, che continua a emozionarsi per la moto e l’enduro. Nell’intento di presentare meglio l’intervistato aggiungo che è il tipo che trova la sublimità della moto in una bella impennata, nella melodia di una bella tonalità di scarico e nella poesia dei paesaggi della sua Sardegna.



Mauro, parlami di te e la moto. Mi ero fatto comprare il casco e il giubbotto di pelle a 5 anni ma, allora, non c’erano le minimoto e nessuno dei miei parenti era motociclista. Anni dopo, un amico mi fece un invito a una prova di una gara e quello fu il primo contatto con l’enduro. Io mi ero fatto prestare un motorino con il quale avevo fatto parte del percorso e mi aveva affascinato l’idea di fare fuoristrada in mezzo a cespugli, agli alberi. In quel momento avevo deciso che, appena avrei compiuto diciotto anni, mi sarei comprato la moto. Così è stato. Mi sono comprato la Ossa 250 e, dopo qualche mese, ho iniziato con le gare. Non era proprio adatta per gli esordi ma si poteva usare anche in giro e andare in due. L’enduro mi è sempre piaciuto moltissimo: sia l’uscire con gli amici in montagna, in campagna a trovare percorsi nuovi, sia il clima della gara. Cosa c’è di bello oggi che c’era anche al tempo? Intanto il piacere di andare in moto. Io sono sempre stato motociclista, ho sempre avuto la motoci-

cletta e l’enduro è il piacere della moto unita alla natura: le montagne, le colline, l’attraversamento di un ruscello, la ricerca di percorsi nuovi. Il piacere è quello, non è diverso da prima. Sono anche i profumi, i paesaggi che cambiano curva dopo curva. Poi le moto di oggi danno un grande piacere di guida. Anche se non sono particolarmente nostalgico, ho delle moto dei tempi in cui facevo le gare. Ho due SWM e un KTM 250 del ’75. Una moto che ti è rimasta nel cuore? Una è l’ottantino Puch degli anni settanta.: la moto più bella che ho avuto. Aveva il radiatore di traverso, il serbatoio rosso trasparente. Però anche l’SWM 125 col Sachs a 6 marce era una moto straordinaria. Il vecchio Puch era una moto meravigliosa ma lo è anche il mio KTM moderno: non potrei dire di non averla nel cuore. Allo stesso modo tra le mie chitarre non posso sceglierne una. Ho avuto la fortuna di possedere chitarre straordinarie, anche molto diverse tra loro. Non si può non citare la Fender Stratocaster che è sicuramente uno degli oggetti




“Se dovessi associare moto e musica direi: Alessandro Gritti in fettucciato e una canz one degli U2 oppure la mia Harley Fat Boy del 20 03 e Graceland di Paul Simon. ”

più straordinari che ha costruito l’uomo. Ed è anche alla portata di tutti. Quando la suono penso: “Quale è l’oggetto che dà questa soddisfazione e costa mille euro?”. Oltre la moto? Ho iniziato a suonare da bambino il pianoforte e da adolescente la chitarra con gli amici (un curriculum musicale simile a quello di tanti altri). Poi, casualmente, ho iniziato a fare il conservatorio per migliorare la tecnica con la chitarra ma non avevo l’idea di fare il professionista. Invece, con lo studio, mi è stato proposto di trasferirmi a Milano a insegnare chitarra. Dopo essermi trasferito, ho iniziato a vivere dell’insegnamento e dei concerti. La musica leggera (pop, blues, rock) è una passione che ho sempre conservato. Tuttora ho la passione per la

chitarra nell’accezione più ampia del termine. A me piace “la chitarra”. Moto e musica non le ho mai abbinate per forza: le ho sempre vissute in parallelo. Sono due passioni apparentemente contraddittorie perché una, di primo impatto, è il trionfo del rumore, l’altra è il trionfo del suono melodioso, bello, ricercato. In realtà, anche nei motori il rumore dà un piacere fondamentale: innegabile. Dal mio punto di vista la differenza più grande è che nella musica sono un professionista, nella moto sono un appassionato. Se dovessi associare moto e musica direi: Alessandro Gritti in fettucciato e una canzone degli U2 oppure la mia Harley Fat Boy del 2003 e Graceland di Paul Simon.


RAPRESENTANZE ELETTRICHE PER TUTTA LA SARDEGNA

Area Elettrorappresentanze di Francesco Zedda Sede operativa traversa A. Meucci scala B - 09127 CAGLIARI Mobile: 329 4081089 – Ufficio: 070 3495181 – Fax: 070 4522868 Mail: area.elettro@tiscali.it – francyzedda@tiscali.it Partita IVA 03265680920 www.areaelettro.it


Lost lto più che un semplice ricordo: L’Amarcord di questo numero è mo infatti, l’appassionante racconè una storia completa. Vi propongo, venturosa vicenda di cui è stato to che Aldo Winkler ha fatto dell’av ’89. Nonostante sia una storia protagonista nel corso della Dakar posta in maniera così dettaglianota, penso non sia mai stata pro i), sempre che non sia stata ta (visto anche il corredo d’immagin di Winkler. Data l’eloquenza ascoltata direttamente dalla voce di più lasciandovi direttamente dell’autore non spendo una parola al suo scritto e alle sue foto. Alberto Valtellino


“Era molto buffo fare il collage di tutti quei pezzi con sopra scritti i nomi di Orioli, De Petri, Balestrieri, Terruzzi, Everts, Kasmakers” la potete leggere. Non l’avevo Racconto la storia che tutti mi chiedono cosi o a giugno come massimo, per mai scritta. Per fare la Dakar bisogna deciderl o e anche dal punto di vista avere il tempo di prepararsi fisicamente, in mot Honda Italia e aveva vinto Orioli logistico. L’anno precedente avevo corso con ocilindrico. Nei primi mesi con il bicilindrico; io ero nel team B con il mon Ormeni si sono compromesdopo la gara i rapporti tra Honda ed il team di di restituirgli la moto e, per il si, di conseguenza la Honda mi aveva vietato rifare la Dakar e avevo in garamomento, di tenerla. Verso giugno decido di liore in proporzione alle perforge una moto bellissima, probabilmente la mig il permesso di poterla riutilizzare mance di quei tempi. Chiedo per prima cosa Italia al quale sono molto e il dottor Manicardi (allora presidente Honda anche le moto che sono state grato) mi ha dato l’autorizzazione di prendere indispensabile per avere ricambi usate da Kasmakers ed Everts (il papà), cosa tutta la moto. Era molto buffo e per poter rinfrescare con materiale in ordine tti i nomi di Orioli, De Petri, fare il collage di tutti quei pezzi con sopra scri ogni modo la moto era della Balestrieri, Terruzzi, Everts, Kasmakers. Ad o quel materiale era strausato HRD, bellissima per quei tempi. Purtroppo tutt amenti vari. Sono riuscito a avendo alle spalle più di quattro Dakar con allen al limite, fare un motore buono e uno di scorta un po’


“l’obiettivo primario era quello di arrivare in fondo” Era un anno particolare e non sono riuscito per vari motivi a mettermi in un team o mettermi insieme ad altri piloti. Così decido di farla completamente da solo. Decido di prendere Mario Barbiero come meccanico aviotrasportato e di fare tre casse che ho suddiviso su tre camion diversi, cosi avevo più possibilità in caso di ritiro di uno di essi. L’anno precedente avevo fatto diciannovesimo e, se non avessi preso tre ore per un salto di controllo orario, in Francia avrei fatto dodicesimo. Mi ero preparato come non mai con la segreta ambizione di entrare nei dieci ma onestamente l’obiettivo primario era quello di arrivare in fondo. La gara parte nonostante un incidente mortale a un giapponese in trasferimento in Francia, preso in pieno da un ubriaco. Sono cose che colpiscono nel profondo, addirittura da farti pensare al senso di tutto ciò. In Tunisia ho saltato un timbro ma me ne accorgo e torno indietro, però perdo parecchio tempo e sono abbastanza indietro in classifica.


“Da qui cominciano i miei guai!” Nella tappa che arrivava a Tumu su un pianoro di sabbia con alcuni altri piloti ci perdiamo (ai tempi non c’era il GPS!) e mi fermo insieme ad altri per fare il punto della situazione. Ero lì fermo, mi volto e vedo un cretino francese, perso anche lui, che andava guardando di lato: non mi vede e mi centra in pieno. Da qui cominciano i miei guai! Non ci siamo fatti male ma il retro della mia moto si è piegato, con i serbatoi posteriori che toccavano la ruota. In tre l’abbiamo raddrizzata almeno per proseguire. A Tumu (altra tappa senza meccanico aviotrasportato), alla sera del 31 dicembre, l’organizzazione aveva fatto un cenone bellissimo per il capodanno, con tanto di fuochi d’artificio. Naturalmente, mentre gli altri gozzovigliavano, io sono stato costretto a lavorare per risistemare la moto.


“si riaccendono le mie segrete speranze” Dirku/Termit: tappa con dune molto difficili. Incontro Boano che arrancava tantissimo con il suo Africa Twin; lo aiuto molte volte a disinsabbiarsi. Termit è un posto sperduto con un rudere di casa; l’Africatours (il catering) non c’è: quindi nulla da mangiare. Ci danno bottiglie d’acqua e razioni di sopravvivenza. Noi motociclisti siamo andati da un gruppetto di locali e, pagando, abbiamo mangiato un pollo che mi è sembrato meglio di qualsiasi ristorante con stelle Michelin. L’organizzazione ci comunica che la tappa Dirku del giorno precedente è stata tagliata fino al punto del primo timbro. In classifica ero ben quattordicesimo: si riaccendono le mie segrete speranze.


“nei primi km la moto comincia rattare” Termit/Agades: parto subito e nei prim i km la moto comincia rattare, e iniziano i miei guai. Ancora oggi non ho capito cosa non funzionasse, probabilmente era benzina sporca. Ad ogn i modo sono stato costretto a fermarm i più volte per pulire il carburatore. Quest’ operazione però comportava il fatto di smontare il serbatoio della moto: pra ticamente tutta. A un certo punto, in una di queste soste (da notare che ero in pieno Tenerè)… …dal nulla sono sbucati due ragazzini sui 15 anni. Non gli do molta retta perché ero concentrato sui miei problem i. Improvvisamente mi rubano casco e borraccia a forma di marsupio. Li ins eguo, raggiungo quello con il casco, me lo riprendo e lui scappa via. Finisco di montare la moto e riparto. Faccio altri 10 km e la moto si ferma di nuo vo. Questa volta il pezzo di ottone che tiene il getto del massimo è caduto giù dal corpo del carburatore. Un disastro! Non ho mai capito se si è rotto per stre ss del materiale o perché a forza di avvitare e svitare, si è rotto. Ad ogni mo do ero esausto, chi è un motociclista sa cosa vuol dire quando la moto non par te: ti stanchi tantissimo ed era tutto il giorno che a singhiozzo non partiva . Spero che arrivi un camion in gara e che mi carichi la moto, magari arrivo ad Agades, molti piloti hanno avuto questa fortuna. Passo la notte vedend o in lontananza i fari dei mezzi, pur troppo tutti molto distanti.


“il camion scopa passerà...” aggio (che vedete Al mattino passa un aereo, mi vede e mi lancia un mess scopa passerà. Sei sulnella foto) dove c’è scritto: “non ti muovere, il camion !” e se ne va via. In quel la pista. Scrivi il tuo numero sulla sabbia. Coraggio (dis)avventura. La preciso momento mi è stato detto che è iniziata da mia lizated”, ha scritto “recupersona che mi aveva visto, invece di segnalare “loca ad aspettare. perated”. Ignaro di tutto ciò, mi metto con pazienza mettendosi una pietra Avevo letto un libro in cui un tuareg era sopravvissuto forza della mente. Ho in bocca, diventando lui stesso una pietra con la sola é nel tentativo di cercato di imitarlo. Avevo però parecchia sete anche perch a la seconda notte senmettere in moto, avevo consumato molte energie. Pass ire. Mi ricordo di aver za vedere nessun camion, ma finalmente riesco a dorm he, fontane, docce… fatto tantissimi sogni con tante forme di acqua: vasc


“A questo punto dovevo prendere una decisione importantissima...” cia in quanto mi sono consapevo gos an di so sen un ale ass mi o Al mattin gori sono già ripartiti. Dopo quest’an alt gli a: gar ri fuo ero ai orm che lizzato rané non sono ancora arrivati? Arrive rch “pe o: bbi du ro alt un ale ass scia, mi cui ttina e penso ai due ragazzi con ma la ta tut so pas to sta o est qu In no?”. pentorno indietro troverò qualcuno” se e ent am cur “Si io. erb div el qu avevo a: tornare ere una decisione importantissim nd pre evo dov to pun o est qu A . sai ente, con l’insicurezza di trovarlo veram o, un alc qu di rca rice a all o ietr ind ndo suno arriva più. Magari, gironzola nes i gar ma se che an lì re sta ure opp to e il camion scopa dove mi aveva vis come uno stupido nel deserto arriva non trova nessuno. Forse questi mi ronzavano nella testa. Tutta una serie di pensieri come la vicenda. eriormente drammatico di tutta questo è stato il momento più int to più la perché il giorno dopo non avrei avu Alla fine decido di partire, anche tempo. forza di camminare per un po’ di


“Prima di partire, faccio il testamento...” Prima di partire, faccio il testamento con un messaggio per Paola con il quale trasmettere il mio amore. Parto a metà pomeriggio con molta tituban za e torno indietro sulle mie tracce. Cam mino e cammino… A ogni passo mi sentivo sempre più debole ma, passo dop o passo, proseguivo. Ormai era notte e non vedevo più nessuna traccia ed ebb i ancora più angoscia. Fino a che improvvisamente mi sembrava di aver vist o una lucina in lontananza: sembrava vicina mentre era distantissima o, così mi sembrava!


Più mi avvicinavo, più ero sicuro che c’era qualcosa e, sebbene stanchissimo, tutte le angosce erano svanite. Più mi avvicinavo, più mi tranquillizzavo, però sempre più sentivo la stanchezza; probabilmente la tensione che fino a quel momento mi dava energia si stava attenuando e di botto tutta la stanchezza si faceva sentire. In quel momento mi è venuto in mente il disegno di una barzelletta del tipo che camminava a quattro zampe e ridevo tra me. Giungo presso la lucina, che era un fuoco che scaldava una famigliola composta da due genitori e sei bambini. Mi accolgono con molta premura, probabilmente rendendosi conto dello stato in cui ero. La prima cosa che chiedo è “l’eau”, loro invece mi hanno offerto una brocca di latte cagliato parecchio denso e, nonostante avessi una sete terribile, facevo quasi difficoltà a ingerirlo. Dentro di me immaginavo che effetto di “caghetta” mi sarebbe venuto ma loro insistevano dicendomi: “vitamin, vitamin!”. Subito dopo, però, per fortuna mi hanno offerto il loro mitico tè. Forse la cosa più buona che abbia mai bevuto, solo che i bicchierini erano piccolissimi e nonostante continuassero a darmeli, continuavo ad aver sete. Dopo questo “trattamento” il mio fisico si è ripreso ridandomi subito energia.

“La prima cosa che chiedo è l’eau”


“ come un sasso mi sono addormentato”

Con loro era difficile comunicare; si parlava gesticolando e con qualche francesismo che mi pareva potessero comprendere. Il capo famiglia parlava tantissimo ma non capivo molto. Abbiamo iniziato un certo tipo di “relazione”: ho cercato di fargli capire cosa mi era successo spiegandogli che la mia moto si era rotta e che avevo anche necessità di essere accompagnato al “Gudron” ovvero una strada asfaltata. Lui mi fa capire che ci vogliono cinque giorni per arrivarci con il cammello, e che sarebbe disposto a portarmi. Dopodiché, come un sasso mi sono addormentato e noto che dentro la capannina dormiva solo la moglie e il bambino più piccolo mentre tutto il resto della famiglia era raggruppato di fronte all’ingresso: erano tutti rannicchiati insieme, probabilmente per avere meno freddo. Io invece m’infilo nel mio fido sacco a pelo e mi addormento. Al mattino, per prima cosa li vedo alzarsi, rivolgersi verso la Mecca e pregare. Era incredibile che ci fosse tanta popolazione nonostante fossi in mezzo al Tenerè, uno dei deserti più aridi del mondo. Ogni due o tre ore qualcuno passava di lì, chi faceva solo un cenno di saluto, chi (per la maggior parte) si fermava a fare una sosta. Era come una specie di rito e il mio Tuareg, tutto bello contento, raccontava con fierezza la mia presenza e il passaggio della Dakar qualche giorno prima. Era incredibile vedere quest’uomo così appassionato nel raccontare. Penso sempre la stessa storia, a tutti questi passanti.


La vita era molto semplice: la donna schiacciava il miglio, l’uomo costruiva corde con l’erba e comandava ai suoi ragazzi di tenere nelle vicinanze tutti i cammelli, legati con le due zampe anteriori. Mi spiegò che la sua occupazione era di allevare cammelli, farli crescere e, una volta all’anno, andare a vendere i grandi e comprarne piccoli. Un altro episodio abbastanza interessante è che, preparando l’acqua per il viaggio, vedo che la teneva in due grosse camere d’aria di camion molto vecchie e piene di buchi tappati con dello spago. A questo punto, avendo con me la trousse per riparare le forature, mi offro di riparargliele e così ho fatto. Questa cosa per lui è stata super apprezzata e mi accorsi che ai suoi occhi ero diventato importante.

“ai suoi occhi ero diventato importante”


Continuando a parlarci sempre gesticolando ho fatto l’errore di spiegargli che mi avevano rubato la borraccia, non riuscendo però a fargli capire che in quel momento stavo bene. Nella sua testa si è convinto che mi avessero rubato la borraccia mentre stavo male (quando mi aveva visto arrivare da lui). Che guaio, non l’avessi mai detto! Questo fatto l’ha completamente trasformato: era agitatissimo, nervosissimo e addirittura aggressivo tanto che si è vestito di tutto punto, si è legato un coltello alla spalla, si è allacciato la spada con la cintura e senza tante buone maniere, mi ha fatto capire che dovevamo andare. Ero preoccupato di infilarmi in qualcosa di pericoloso vedendo il suo atteggiamento e gli feci capire che non ero in grado di camminare, che ero stanchissimo, almeno come scusa speravo funzionasse: nulla. Sempre più deciso mi prese un cammello, ci mise una sella (nient’altro che due bastoni con una coperta) e mi spinse sopra. Dopo due passi la corda che teneva la sella si ruppe e, come un sacco di patate, caddi e mi tagliai il palmo della mano. Sanguinavo. Lo supplicai di stare li: nulla. Sembrava che se non mi avesse portato dove voleva, avrebbe perso la faccia, l’onore. Non vi e stato nulla da fare e, mio malgrado, siamo partiti a piedi. Io avevo gli stivali e camminavo impacciato e lui, che era magrissimo con gambe che sembravano degli stuzzicadenti, camminava veloce e mi spronava a fare in fretta (vista la loro proverbiale lentezza e distacco dalle cose mi sembrava assurdo essere sollecitato con nevrosi a fare fretta proprio da uno come lui e in quel posto).


Dopo un’ora di cammino arrivammo presso un raggruppamento di capanne di almeno quattro gruppi di famiglie. Io ero parecchio preoccupato vedendo l’aria che tirava. Mi mise in disparte e si unì a quello che sembrava il capo. Arrivò un ragazzo che mise un tappeto al suolo e tutti, me compreso, eravamo in cerchio. Seduti a dieci metri l’uno di fronte all’altro, i due personaggi si misero a discutere tra loro parecchio animatamente. Non so per quanto tempo durò questa discussione ma a me sembrò un’eternità. Dopo un po’ uno dei due alzò un braccio e un altro ragazzino corse verso di lui porgendogli la famosa borraccia (cercai di vedere se riconoscevo i ragazzi del primo incontro, ma non c’erano e tutto rimase per me un mistero). Quando l’altro capo famiglia porse la borraccia al mio tuareg l’atmosfera si rasserenò e improvvisamente si calmò. Dopo che si salutarono venne nella mia direzione con un’aria d’assoluta fierezza e mi porse la borraccia, soddisfatto come se avesse compiuto una grande cosa. Ovviamente lo ringraziai, salutammo tutto il gruppo di persone presenti e tornammo presso la sua capanna (altri km a piedi: che fatica!). Finalmente arrivammo e, di fronte all’ennesimo tè, tornai sull’argomento che mi portasse all’asfalto. Mi promise che l’indomani mattina saremmo partiti. A questo punto riuscii per la prima volta a dormire sereno.


“l’elicottero ti verrà a prendere fra un’ora e mezza” Al mattino ovviamente avevo molta fret ta, ma la proverbiale lentezza si stava esprimendo al massimo. Sembra va che non volesse partire e me lo fece capire con tantissime scuse, o così ave vo interpretato pensando magari che volesse avere un compenso. A un certo punto, dopo aver insistito tanto, mi fece dei segni puntandosi l’orecchio e non riuscivo a capire nulla. Nel frattempo l’aereo dell’organizzazione mi stava cercando con il metodo a scacchiera (così mi fu riferito) e, dopo due ore, sentii anch’io il rumore dell’aereo. Tutto eccitato tirai fuori i razzi che ave vo con me in dotazione di sicurezza, e cominciai a usarli. Li vide, così si avv icinò e mi lanciò un altro messaggio insieme a una razione di sicurezza in cui c’era scritto: “l’elicottero ti verrà a prendere fra un’ora e mezza. Coragg io!” e se ne andò via. Offrii a tutta la famiglia il contenuto della razion e di sopravvivenza in cui vi erano dei dolci, delle noccioline, un succo di fru tta e parecchie robe energetiche sicuro che avrebbero gradito, invece me la rifi utarono. Questa cosa che mi sorprese molto, facendomi rimanere male.


“Ho in mente la scena in cui lui mi trattiene per i vestiti” A questo punto decisi anche di dargli lo stesso i soldi che gli avevo promesso. Lui non conosceva il valore del fran co francese, conosceva solo il franco çefa, ovvero la valuta del luogo. Sono sicuro che quando avrà portato i sold i a cambiare avrà avuto una bellissima sorpresa perché il çefa valeva sei volte tanto il franco francese. Gli spiegai che presto sarei andato via con le persone che sarebbero venute a prendermi e qui cominciò una lunga discussione perché lui insisteva nel portarmi all’asf alto di persona. Anche qui, un po’ per la difficoltà di comunicazione, un po’ perche insisteva, non riuscii a fargli capire che non era necessario e che dov evo andare via con gli altri. Questa discussione continuò finche non arrivò l’elicottero e mi dispiacque molto perc he dovetti quasi scappare dalle sue insiste nze. Ho in mente la scena in cui lui mi trattiene per i vestiti e io, quasi con forza, mi dovetti svincolare.


Avrei veramente voluto dargli un abbraccio, ringraziarlo dandogli la mano da grande uomo che era, e questa situazione mi lasciò l’amaro in bocca. L’elicottero partì e guardai quelle persone che mi salutavano ed ebbi un sentimento di tristezza nel lasciarli. Dall’alto vidi anche la mia moto e ancora provai un senso di tristezza. Era strano: avrei dovuto essere felice, finalmente in salvo, ma ero quasi malinconico. Arrivammo ad Agades e qui alcuni membri dell’organizzazione mi controllarono dal punto di vista fisico. Mi misero su un aereo e arrivai a Niamey dove nel frattempo la gara stava di tappa. Tutti i miei amici mi fecero grandi feste e subito riuscii anche a fare il primo pasto serio dopo tanto tempo. Riuscii anche a telefonare a casa a Paola avvisando che tutto era a posto e che stavo bene, chiedendomi il perché in tutti questi giorni non mi ero fatto vivo. Voglio approfittare della occasione per ringraziare Beppe Gualini e Andrea Balestrieri e molti altri piloti, perche insistettero molto spiegando all’organizzazione che ero ancora in mezzo al deserto. Se non fosse stato per loro sicuramente nessuno sarebbe venuto a prendermi. La Dakar intanto il giorno successivo partì e, da Niamey, insieme a Bebbe Gualini ci organizzammo per prendere il primo aereo per Parigi.

“ebbi un sentimento di tristezza nel lasciarli”


finalmente... Vi racconto ancora un piccolo aneddo to. Mentre aspettavamo l’aereo che par tì due giorni dopo, gironzolai per la citt à e incontrai un ragazzo di circa sed ici anni che era un genio in matematic a e che mi fece anche da guida per la città. Gli proponevo addizioni, sottraz ioni, moltiplicazioni e divisioni con numeri di cinque cifre e, nel giro di poc hi secondi, solo con la mente mi dava la risposta giusta. Io, per controllarla con carta e penna ci mettevo parecchi minuti e se non era giusto, ricontrolla ndo, avevo sbagliato io. È particolare come in posti del genere si possano trov are tali personaggi. Al mio ritorno mi accolsero con tante feste tutti i mie i amici anche se avrei preferito essere festeggiato per un bel risultato. A con clusione di questa Dakar, sentendom i responsabile per la moto, avvisai l’Hond a Italia del fatto che era dispersa nel deserto e che mi sentivo in dovere di recu perarla. Mi fu risposto che ormai era persa e che non dovevo recuperarla, però al tempo stesso gli chiesi di poterlo fare e tenermi la moto. Nella stessa tap pa Picard, pilota ufficiale Cagiva, si ritirò. Contattai Azzalin, responsabi le del reparto corse, per poter fare il recu pero insieme. Mi diede il numero di tele fono di Manu Daiak il quale era stat o amico fraterno di Therry Sabine che era una potenza ad Agades. Fu molto disponibile e mi promise che sul camion che andava a prendere la Cagiva avrebbe caricato anche la mia. Manu Daiak morì qualche anno dopo in un misterioso incidente aereo in cui le voc i dicono che fu un attentato. Aldo Winkler


Il Centauro snc V.le Marconi ang. Via Mercalli 09131 Cagliari Tel. 070/492692 Fax 070/456697


di Alberto Valtellino foto di Edoardo Bauer, Energia e Sorrisi, Bruno Appiani

La seconda parte di Road to El Alamein è scritta dopo il Pharaons Rally 2010, con le emozioni che Massimo Mocci, amico di GRIP, ha riportato con sé dall’Egitto. Purtroppo Massimo non ha concluso la gara. Ciononostante sentiamo dalle sue parole come ha vissuto l’esperienza, infatti, aldilà del risultato sportivo rimane tanto altro che l’Africa può offrire. L’articolo, come ho specificato nello scorso numero, ha anche l’intento di fornire una guida utile a chi volesse partecipare a una gara del genere. Perciò riporto le interessanti interviste ad Alberto Dottori, che ha allestito la KTM di Massimo, e Luca Frau, suo preparatore atletico.


STAI CALMO, USA LA TESTA, AMMINISTRA Sono stati molto importanti i due giorni precedenti. Dato il mio carattere apprensivo non vedevo l’ora di partire. Con l’attesa accumulavo tensione e partire è stata una liberazione. A me piacciono molto questo tipo di gare perche non c’è grande distacco tra professionisti e amatori. La differenza c’è sul campo ma, sul momento, puoi parlare tranquillamente con un Coma. La mattina, comunque, si è tutti svenati per le piramidi, si fanno foto assieme e c’è una bella atmosfera. Nel 2008 siamo anche tornati alle piramidi per la fine della gara, ed è stato molto impressionante terminare così. Quest’anno, invece, l’arrivo è stato nel parcheggio di un albergo. Partita la gara abbiamo fatto una decina di chilometri per uscire dalla zona delle piramidi, siamo arrivati in una strada a tre corsie e siamo rimasti imbottigliati in un traffico caotico. Lì inizi a rischiare veramente con i camion che ti sfiorano. Dopo un po’ c’era un “lascia asfalto” e iniziava la prima speciale. Era una distesa di terra con pietre: sabbia niente. La cosa che pensavo è: “Stai calmo, usa la testa, amministra”. Le velocità erano alte, c’erano dossi e la gara durava tanti giorni: dopo dieci chilometri ho cominciato a vedere gente a terra. Ho osservato come partiva Coma e lui, come gli altri, non partiva a fuoco. Anche se poi sai che andranno a manetta. Ho sentito che, con la telemetria, hanno registrato che Lopez è rimasto per l’85% della speciale “full gas”! Dopo centosessanta chilometri, quando ho visto da lontano il primo cordone di dune, ho sentito il mio umore che cambiava. Mi sono detto (ho proprio parlato da solo tipo deficiente): “Ecco le mie dune!”. Perché per me sono la cosa


più bella. Sono talmente diverse dal solito che ti danno una sensazione fortissima: in quel momento è andata via tutta l’apprensione per la gara. UN ATTIMO DI DECONCENTRAZIONE Cosa molto importante: durante la prima tappa ho soccorso il pilota che mi precedeva il quale ha avuto un bruttissimo incidente. In un piano molto veloce è andato a sbattere contro una tubatura che correva lungo il terreno, saltando letteralmente in aria. Sono rimasto con lui molto tempo aspettando che si rianimasse e la cosa mi ha molto impressionato. Vedere cadute di questo tipo, a queste velocità, con una persona che vola in aria... Arrivi e non parla più, c’è la moto in condizioni pietose, lui è tutto storto. Il road book segnalava una “pipeline” per la quale bisognava rallentare e lui era sulla nota giusta ma, probabilmente, ha avuto quell’attimo di deconcentrazione che gli poteva essere fatale (Massimo ha assistito il concorrente fino all’arrivo dei soccorsi, in seguito ha saputo che si è ripreso bene, ndr). IL MAL D’AFRICA ESISTE Col passare dei giorni sentivo che cresceva una tensione: secondo me l‘ansia di finire questa gara. Non stavo cogliendo il divertimento, la vita del bivacco e gli aspetti belli della corsa che tanto ho voluto e per cui tanto ho sacrificato. Ciò che cercavo dell’Africa è il paesaggio molto diverso, un altro mondo, ma anche la solidarietà nel gruppo, le amicizie particolari che nascono. Un altro motivo per cui mi sono ripresentato è stato per la curiosità di rifare la gara con l’esperienza acquisita; non certo per la classifica che non ho mai guardato. Non sono il solo che non l’ha fatto: Boano padre lo diceva al figlio.

Dall’alto: Massimo assieme ai piloti assistiti da Energia e Sorrisi, la partenza, un momento della gara e una foto di un motociclista autoctono.


Potevo limitarmi alla partecipazione del 2008 perché avevo realizzato il mio sogno da bambino ma sapevo che mi sarebbe piaciuto tornare, perché Il “mal d’Africa” esiste… Per l’aiuto che mi ha dato in questa impresa volevo ringraziare in primo luogo Simona, la mia ragazza, e poi i tanti amici che mi hanno dato il loro supporto: Fenu Erminio Autotrasporti, Planet Motor,

Centro Carrelli, CARVI di Matteo e Marco Macciò, Allianz RAS Nuoro di Gianfranco Moro e tutti i ragazzi del Motoclub Arborea.


ALLESTIRE LA MOTO Intervista ad Alberto Dottori Nel 2008 Massimo aveva fatto allestire il suo KTM 530 da Alberto Dottori (www. albertodottori.net). Lui ha fabbricato il cupolino, il serbatoio ausiliare posteriore e l’alloggiamento per la strumentazione. A lui rivolgo le domande per capire come allestire il proprio mezzo. Oltre agli obblighi imposti dal regolamento, come deve essere equipaggiata una moto per una gara come il Pharaons? La moto deve essere equipaggiata con almeno 2 litri di acqua per un eventuale emergenza che, normalmente, viene portata in un piccolo serbatoio inserito nel paramotore. Poi, per la navigazione è necessario un contenitore porta attrezzi contenente il minimo indispensabile per un veloce intervento sulla moto e una piccola dotazione di pronto intervento medico. È bene avere il porta roadbook elettrico, almeno due trip per calcolare la strada percorsa (meglio se ognuno ha un sensore indipendente,ndr) e un ripetitore di CAP ossia la bussola elettronica collegata al GPS per la navigazione tramite gradi di bussola. Quali particolari bisogna curare per evitare sorprese nel deserto?

Chiaramente la sicurezza del mezzo è la cosa più importante e quindi la moto, se equipaggiata con un kit rally installato successivamente alla sua costruzione, deve essere collaudata, deve essere affidabile: non si devono staccare parti o rompere supporti durante la gara. Si devono montare gomme adatte per il percorso con mousse. Chiaramente tutto il gruppo trasmissione deve essere di materiale adatto all’uso sulla sabbia cioè corona in acciaio e catena con o-ring molto resistente. Il motore nuovo deve assolutamente essere provato e rodato bene per capire se ci sono difetti di costruzione; se invece è già usato deve essere ricondizionato con parti nuove. L’olio deve assolutamente avere la gradazione 10/60 per resistere alle alte temperature e deve essere cambiato tutte le sere durante la gara. A ciò bisogna aggiungere ovviamente almeno un serbatoio maggiorato per migliorare l’autonomia del mezzo. L’organizzazione consiglia di accertarsi che si possano percorrere almeno 250 km su ogni tipo di terreno, poiché tale distanza è quella che intercorre tra un rifornimento e l’altro durante la corsa. Guidando sulla sabbia, inoltre, è bene tenere in conto che i consumi aumentano del 10% rispetto alla normalità.


Dall’alto: Interruttore della ventola, serbatoio dell’acqua, pompa della benzina, comandi trip, antenne della


PREPARAZIONE FISICA Intervista a Luca Frau Entriamo nello specifico della preparazione fisica intervistando Luca Frau (www. lucafrau.it): il personal trainer che ha seguito Massimo in questi mesi. Laureato in Scienze motorie ha un’esperienza ventennale nella preparazione atletica. Ora è responsabile del centro sportivo della società Rari Nantes a Cagliari. Come hai deciso di preparare Massimo per il Faraoni? Con Massimo abbiamo lavorato sul miglioramento della capacità aerobica, della forza resistente, della forza funzionale e della flessibilità. Come hai deciso di allenare tali caratteristiche? Con brevi sedute di forza utilizzando attrezzi isotonici, manubri e bilancieri, ai quali sono seguiti dei circuiti cardiomuscolari di tipo funzionale, soprattutto attraverso l’utilizzo di macchinari a cavi, esercizi specifici e stretching. Equilibrio, stabilizzazione e propriocettiva sono stati stimolati con l’utilizzo di piccoli attrezzi instabili e con il core training, specialmente con l’ausilio delle vibrazioni meccaniche (vedi www.powerplate.com).

L’alimentazione? Sicuramente l’alimentazione è alla base del buon risultato finale. Oltre a mangiare in modo corretto ed equilibrato, Massimo ha integrato con l’uso di aminoacidi e proteine, col giusto apporto di liquidi e sali minerali. PIANO DI LAVORO Aprile – condizionamento generale – 3 settimane Maggio / prima sett. di Agosto – forza e aumento delle capacità cardiomuscolari Settembre – richiamo delle qualità allenate Note: Massimo ha sempre svolto delle sedute di forza specifica sulla MTB per due volte alla settimana, dopo la seduta di palestra, e 2/3 sedute di allenamento specifico in moto. Nel mese di agosto l’allenamento in moto è diventato molto più intenso vista l’assenza del lavoro in palestra. MTB 2 volte alla settimana Moto 2/3 volte + 5 gare di regionale enduro + smesso di fumare


Massimo si allena con il Power Plate. Il manubrio simula fedelmente la moto. Nella pagina precedente e in questa si vede il tatuaggio che Massimo ha voluto farsi per celebrare la conclusione dell’edizione ‘08: sfegatato.


Planet Motors S.r.l. Viale Marconi 113, 09045 Quartu Sant’Elena (CA) info@planetmotors.it planetmotors@tiscali.it Tel: 070 881179 Fax: 070 880263


senza parole di Claudio Meloni




Non sono in molti a potersi permettere di non fare manutenzione alla propria moto e, entro certi limiti, la cura del proprio mezzo è anche un piacere. Il garage, l’officina, la cantina del motociclista diventa spesso il luogo dove si consuma il rapporto più diretto col mezzo meccanico. Il praticante di lunga data, assieme all’esperienza acquisita, avrà accu-


mulato gli attrezzi e gli strumenti per essere autonomo. CosĂŹ il garage diventa il luogo ideale per spendere le domeniche o i momenti di tempo libero, specialmente nel periodo invernale, quando il gelo fa desistere anche i piĂš temerari e la moto chiede pietĂ dopo una stagione di frustate in mulattiera. Ăˆ il momento giusto per leccarsi le ferite in previsione del


bel tempo, di camuffare le ammaccature in vista di un bel “conto vendita” o, perché no, di un bel pomeriggio d’evasione totale. Sembra un luogo comune adatto all’Omen di Zelig ma: l’uomo, nella sua cantina, è monarca assoluto. Non esistono tavolette del cesso da sollevare, non ci sono rifiuti da smistare, non ci sono calzini da rivoltare prima di essere


messi in lavatrice. Volendo esser precisi non ci sono neanche limitazioni al rutto e alla bestemmia (non che ce ne sia bisogno dato che siamo tutti lord!). A voler raggiungere la completezza scientifica, bisogna precisare che ci sono tanti modi per organizzare la propria cantina. Ci sono i maniaci del’ordine, con mille cassettini per la catalogazione estrema e


ci sono i precari che sono accampati come se dovessero fare i bagagli da un momento all’altro. In molti casi, una delle cose piÚ curiose sono le reliquie, i cimeli, i feticci che si accumulano nel corso di anni. Maglie, caschi, tabelle porta numero, proprie o altrui, costituiscono un ricordo ben tenuto o un resto accatastato. Alcuni hanno piccoli musei, altri


possono indicarvi un ammasso di metallo impanato di grasso e polvere dicendovi che quello è la loro XR 600 dell’89. Tra queste suggestioni io faccio una carrellata fotografica della mia tana motociclistica. Alberto Valtellino


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