Un giorno maledetto - Romolo Panico

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Introduzione di Andrea G. Pinketts




Š 2010 Valter Casini Edizioni www.casinieditore.com ISBN: 978-88-7905-163-7


UN GIORNO MALEDETTO ROMOLO PANÌCO

Casini Editore



Introduzione

L’errore che diventa orrore. Qualcosa di straordinariamente cinematografico a cui mi sono dedicato a partire da Il senso della frase, da un pezzo di vita e anima. I neoinquilini di una casa maledetta che sfidano il fato sono vicini di casa de I ragazzi del massacro di Giorgio Scerbanenco. Sono vittime e colpevoli sacrificali di un gioco più grande di loro. Il romanzo Un giorno maledetto di Romolo Panìco sarebbe altrettanto cinematografico se non fosse possibile immaginarselo al presente. Niente “Venerdì 13”. Un giorno come un altro. «Un giorno dopo l’altro la vita se ne va» come direbbe Luigi Tenco se non avesse rinunciato a essere dei nostri. I mostri siamo noi viventi. I mostri siamo noi quando ci manifestiamo. Quando ci mostriamo. Romolo Panìco pur essendo questore ha tutte le doti per diventare regista di un film di parole. Un regista horror, naturalmente. A partire dal cognome. Panìco racconta, come pochi altri sono in grado di fare, il chiaro, il quasi chiaro, il chiarissimo e l’oscuro di una città come Napoli. Coi suoi nomi e i suoi cognomi. Un po’ inventati e un po’ no. Restando al cinema mi viene in mente un film di Florestano Vancini datato 1962, La banda Casaroli. Vancini narra, pur non essendo uno scrittore e tantomeno un questore, una serie di rapine avvenute nel 1950 in alcune banche di Genova, Torino, Roma e Binasco. Le indagini si concentrarono a Bologna dove vennero indivi-


duati i componenti della banda. Il capo banda, ferito e arrestato, in fin dei conti diventò “leggenda”. I complici si tolsero la vita. Ora, Panìco parte da una rapina finita male con tanto di bambina ammazzata da un cocainomane ammanicato al potere. Essendo il colpevole estremamente, se mi passate il termine, “paraculato”, un ignobile avvocato trova un caprone espiatorio, peraltro “figurante del colpo” e in qualche misura lo usa per un ricatto tra gentiluomini dalle carriere politiche già assicurate. Ma un commissario che sembra uscito, malandato, da Il giorno della civetta vuole vederci chiaro. Certo, Romolo Panìco non è Sciascia e forse a pensarci bene neanche Sciascia è Sciascia. Ma ha il potere assoluto di tentare di fare giustizia tra ambiguità e poetica del “vissuto”. Una scrittura felice su argomenti disperanti fa sì che ove mai Un giorno maledetto, titolo di semplicità gaddiana, diventasse un film, mi presenterei al casting per il ruolo del commissario, tra omicidio volontario e preterintenzionale, tra Malacarne e Monnezza, sotto il «Colle dell’Oro» sarei perfetto, come perfetto è questo romanzo che scova e scava nello sporco con l’aplomb di un magistrato pulito. Colpi di scena raccontano magistralmente (del resto l’autore è maestro di stile e magistrato) l’inevitabilità delle connection a non connettersi tra loro. La possibilità, con tutto il tempo che ci vuole, di spazzare via corrotti, corruttori e colpevoli, nella migliore tradizione del senso di giustizia che alberga anche nel “Non peggiore di noi”. Panìco ha il colpo in canna ma solo quando è costretto spara all’alluce dello Stivale. Andrea G. Pinketts



Sia i soggetti che le vicende narrate sono frutto della fantasia dell’autore e non si riferiscono a fatti e circostanze realmente accaduti.


Un giorno come tanti

Colle dell’Oro era una zona di periferia poco abitata e coperta da un silenzio ovattato che l’avvolgeva in tutte le ore del giorno. Non era un luogo molto frequentato e il resto degli abitanti della città preferiva il caos rumoroso a quella tranquillità addolcita dal verde. I pochi reperti archeologici che abitavano le villette isolate di quella zona periferica, alle sette di sera — otto se era d’estate — sparivano silenziosamente come se li avesse inghiottiti un’astronave. La villa dei Lombardi era lì da sempre e non c’era altra zona della città che piacesse di più a quell’agiata famiglia della borghesia umbra. Non erano solo le tradizioni familiari ad aver determinato la scelta di vivere in quella zona, che tutto sommato era anche scomoda, ma l’esigenza di svegliarsi la mattina con il canto degli uccellini o con il sole che inondava quell’ampio giardino ben curato, posto a nord, era per loro quasi vitale. Non importava se i galli la mattina fossero i padroni di quell’area e alle cinque di ogni giorno, compresi i festivi, tutti fossero costretti a svegliarsi perché quelle bestie dimostravano al mondo la loro prepotenza; per gli abitanti della zona quelle urla stridule e insistenti erano diventate quasi un sussurro necessario. A quella gente non interessava neppure il lamento quasi infantile dei gatti che si accoppiavano solo di mattina presto, e che nel farlo sembrava stessero per morire, perché anche quei gemiti piagnucolanti erano diventati una parte essenziale della loro esistenza.


Non era il rumore dei clacson delle macchine a disturbare il loro riposo, e neanche il fischio del treno che dalla stazione centrale si diffondeva in gran parte della città, avvertendo tutti, per almeno un quarto d’ora, che stava per partire, o qualche sacrestano che dalle sei di ogni mattina iniziava a rompere i santissimi, avvertendo la comunità dei fedeli, con quelle campane odiose e insistenti, che era passata un’altra mezz’ora della loro vita. Era tale il silenzio di Colle dell’Oro che anche il camion della monnezza, che di notte veniva a svuotare i cassonetti, sembrava fosse entrato in casa di ognuno di loro, e tutti oramai sapevano dai vari rumori che un fiii era la leva del pistone che sollevava il cassonetto, un batapumb era lo svuotamento della monnezza nel camion, e un vaffanculo era ciò che urlavano quegli uomini, quando cadeva tutto a terra. Il riposo silenzioso e tranquillo, dopo una giornata convulsa di lavoro e di frenetiche attività, era una cosa della quale quella gente non poteva fare a meno. Il verde che si trovava tra quelle case era impensabile per il centro cittadino, così come l’aria che si respirava non era intaccata dal veleno tossico che spesso opprimeva la zona urbana con una cappa scura, soprattutto nelle giornate afose e umide. La villa della famiglia Lombardi era un palazzotto antico che aveva subìto poche modifiche, ben inserito nella vegetazione di alberi secolari e di siepi curate con attenzione e gusto che ne mascheravano la struttura; un muro alto che la recintava tutta ne lasciava scorgere i contorni solo attraverso un cancello che lambiva la strada. Alle sei di mattina erano poche le macchine che percorrevano quella via e il chiarore dell’alba stava prendendo il sopravvento sulle tenebre della notte e, con lentezza, molti iniziavano la loro giornata. Anche in quella villa, per la famiglia Lombardi, il giorno era iniziato come al solito a tale ora, e anche Stefano e Francesca a fatica stavano raccogliendo le forze per iniziare un’altra delle solite giornate lavorative.


Napoli era fatta così! Una soluzione si trovava sempre, bastava non avvilirsi

In un’altra parte d’Italia: Napoli; in un ridente e signorile quartiere: i vicoli della Maddalena; in un appartamento lussuoso e ben arredato: un basso di due camere senza finestre, Geppino Casamassima, detto ’o Ggepps, si preparava per il suo ultimo giorno di lavoro. L’azienda dove lavorava stava per chiudere, così come tante altre in quella città dove l’imprenditoria settentrionale, sfruttati tutti i contributi statali erogati per agevolare l’occupazione meridionale e terminati i fondi per la cassa integrazione, non era più interessata a spremere quella parte dell’Italia, schiava di un pizzo da pagare mensilmente a criminali e amministratori affamati e senza scrupoli, o asfissiata dalla continua lotta combattuta contro l’assenteismo difeso da un sindacato assillante e provocatorio. E così Geppino, dopo essersi lavato e vestito, cercando di non far rumore per non svegliare moglie e figli, alle sei di quella mattina, anche lui, stava uscendo da casa per andare a prendere la sua Fiat Panda quattro per quattro, comprata a fatica con una montagna di cambiali che adesso non sapeva più come pagare. — Allanemechive… — imprecò quando capì che quei due ragazzi che scappavano stavano portando via la ruota di scorta e l’autoradio sottratta dalla sua macchina, dopo aver rotto il finestrino. Senza riflettere li inseguì, lanciandogli ogni cosa che gli capitava di raccogliere, accecato dalla rabbia e imprecando ogni sorta di maledizione, aggiunta a qualche solenne bestemmia, ma si fermò perché la distanza tra lui e loro aumentava e perché


capì, per sua fortuna, che oltre all’autoradio avrebbe perso anche l’orgoglio e sarebbe andato a finire in ospedale con qualche costola rotta o peggio, se li avesse raggiunti. “Che bella giornata!” pensò Geppino. “’O can mozzc’ semp o stracciat!” Ritornando malinconicamente verso la macchina, mentre il quartiere iniziava a svegliarsi e a riprendere le solite abitudini, fottendosene dei problemi di ’o Ggepps che adesso doveva pure sostituire il finestrino rotto e non sapeva dove andare a prendere i soldi, la rabbia gli fece uscire inaspettatamente due lacrime dagli occhi. Entrò in quella maledetta fabbrica come se stesse andando al patibolo, rincuorato dai suoi compagni di lavoro che capirono ciò che gli era successo appena videro le condizioni della sua macchina. Geppino sapeva che, seppure le sue sorti lavorative fossero le stesse di quelle di molti altri uomini e donne di quell’azienda, non tutti erano preoccupati per il loro futuro e per il licenziamento che non era stato possibile evitare. A molti di loro sembrava che il problema non li riguardasse e alcuni si erano arrangiati trovando un’alternativa, che a Napoli si chiama ’mbruolglio o camorra. Anche a lui avevano proposto una soluzione che però si era rifiutato di accettare, perché aveva ben capito di cosa potesse trattarsi. Napoli era fatta così! Una soluzione si trovava sempre, bastava non avvilirsi. E molti la soluzione l’avevano trovata: eccome se l’avevano trovata! Negli ultimi giorni due pezzi di malacarne, che lavoravano — si fa per dire — in quell’azienda, si erano avvicinati a lui con insistenza, cosa che non avevano mai fatto prima, e gli avevano proposto un lavoretto facile e remunerativo da fare fuori città. Una rapina sicura, dicevano. Un gioco da ragazzi, che avrebbe fruttato tanto da potersene fregare della chiusura della fabbrica. Lui avrebbe dovuto solo guidare la macchina; il resto l’avrebbero fatto loro e adesso ’o Ggepps, che doveva pure aggiustare la sua di macchina, ci stava seriamente pensando.


Una piccola città, come tante altre

Le giornate a casa Lombardi iniziavano quasi sempre nello stesso modo: con gli uccellini, i galli e i gatti arrapati, con la solita spensieratezza e con la certezza di conoscere come sarebbero finite e, in quei giorni, né Stefano né la moglie Francesca immaginavano la valanga che gli sarebbe piombata addosso e che avrebbe cambiato per sempre la loro vita. Fuori dalla villa una Bmw scura era posteggiata a distanza, in corrispondenza del cancello d’ingresso dal quale si scorgeva la serranda del garage, e i due uomini seduti nella macchina da alcuni giorni stavano osservando i movimenti all’interno della villa e, soprattutto, le abitudini di Stefano. — Dio santo, oggi non ce la faccio proprio ad alzarmi. — Francesca sussurrò quelle parole lamentandosi, mentre cercava di infilare la testa sotto il cuscino, per evitare la luce che Stefano aveva acceso sul suo comodino. Era una bella donna di trentasei anni, bionda e snella, che curava l’aspetto fisico con costanti e faticose ore in palestra o in centri estetici. Insegnava lingue al liceo scientifico statale e, per il resto, la sua vita si divideva tra l’aiutare il marito nella sua attività e, soprattutto, far crescere e seguire l’unica figlia che aveva avuto dopo un parto che le impedì di averne altri. Aveva conosciuto Stefano solo un anno prima del loro matrimonio e all’inizio la relazione non era stata accolta con entusiasmo dai suoceri, che ritenevano prematura quell’unione, soprattutto perché Francesca proveniva da una famiglia modesta e di scarse risorse economiche. Temevano, sin dall’inizio, che


lei mirasse alla posizione sociale ed economica della loro famiglia e avevano più volte dimostrato questo disappunto al figlio, con inevitabili e lunghe discussioni che si protraevano anche per settimane. Poi col tempo avevano accettato quella donna e avevano anche imparato ad apprezzarla, rendendosi conto degli errori di valutazione fatti; tanto che era diventata lei, e non il marito, il punto di riferimento per quasi tutte le questioni familiari. Elisa, la madre di Stefano, aveva dovuto inserirla negli ambienti cittadini che contavano, ma le aveva anche elencato i difetti di quella società provinciale, della quale era oltremodo opportuno fare parte. Quella era una piccola città e, come in altre realtà di provincia, la vita si svolgeva in modo regolare e determinato, tutto ruotava intorno a pochi ed esclusivi circoli di persone che contavano qualcosa, o che avevano grosse risorse economiche. Non importava poi tanto che quelle persone fossero in grado di abbinare correttamente i congiuntivi, costantemente confusi con l’indicativo, o usassero il condizionale senza alcuna condizione, e neanche che le corna si sprecassero; l’importante era far parte di una cerchia di persone, definite perbene, che attraverso le loro relazioni e le loro connessioni si dividevano tutto quello che c’era da dividersi. Le cose andavano così in quella città e Francesca avrebbe dovuto integrarsi perché il suo ruolo sociale adesso era cambiato, non era più conveniente che fosse solo semplice, genuina e spontanea. I suoi gesti dovevano essere misurati e le sue frequentazioni adeguate a quelle nuove regole. Stefano era un uomo garbato e intelligente ed era riuscito, con calma e onestà, a creare autonomamente un’avviata attività commerciale nel settore orafo gestendo una gioielleria in viale Mazzini, meta abituale della buona società. Non aveva ancora sperimentato sulla sua pelle l’arroganza e la violenza e non aveva ancora sofferto le pene che altri suoi colleghi di lavoro, in altre città, avevano subìto e, tranne che per l’affannosa rincorsa di alcuni debitori o per qualche costosa truffa subìta per la sua coglionaggine, non si era ancora trovato ad affrontare il male puro. Anche quella mattina, come tutte, si era svegliato presto con il canto del solito gallo e i consueti gatti e, dopo il bacio alla


bella moglie, si era dedicato alle sue abitudinarie faccende: un buon caffè preso in compagnia di Francesca che, prima di quella salutare bevanda, non era in grado di connettere; un bacio a sua figlia Federica che, come ogni mattina, appena lui si avvicinava, lo abbracciava e lo trascinava nel suo lettino. Anche quella mattina il suo cuore si era riempito di gioia per il dono che un Dio, al quale credeva con rispetto, gli aveva concesso. Guardava sua figlia e si sentiva contento di vivere, pensando che non avrebbe potuto chiedere di più alla vita. La baciava sussurrandole nell’orecchio di alzarsi perché era tardi e, come ogni mattina, sentiva i lamenti di Federica che cercava di coprirsi tutta con il soffice piumone tirandolo a sé per coinvolgerlo in quel suo caldo giaciglio, dal quale non aveva voglia di staccarsi. Com’era bella, pensava; somigliava molto alla madre e la immaginava crescere e diventare una donna con mille interessi e tanta voglia di vivere: lui l’avrebbe seguita fino a che le forze glielo avessero permesso.



I libri cambiano il mondo

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Casini Editore via del Porto Fluviale, 9/a – 00154 Roma www.casinieditore.com info@casinieditore.com Finito di stampare nel mese di maggio 2010 Stampato per Casini Editore dalla Arti Grafiche La Moderna – Roma



— Dottore — era la voce antipatica del poliziotto della sala operativa che lo aveva chiamato sul cellulare, — sembra ci sia stato un omicidio nella zona di Rocca San Zenone. Sembra si tratti di una bambina che hanno trovato alcuni contadini. — Come sarebbe a dire sembra?! — domandò sconcertato dalla notizia e incazzato perché ogni cosa, in quella città, si avvicinava a un “sembra”.

18,00 euro ISBN: 978-88-7905-163-7

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788879 051637

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