436 - Anna Giraldo

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Anna Giraldo

Casini Editore


Š 2011 Valter Casini Edizioni www.casinieditore.com ISBN: 978-88-7905-196-5


Well I’m cryin’ Now my lovely man Yes I’m cryin’ Now and no one can Ever fill the The hole you left my man I’ll see you later My lovely man if I can — Red Hot Chili Peppers, My Lovely Man



Premessa

Ho un sogno ricorrente. La notte è splendida. Scintillante. Tutt’intorno edifici lussuosi, insegne multicolori, gente elegante. Respiro l’aria frizzante, un effluvio indescrivibile mi avvolge. Nel sogno, so esattamente dove mi trovo. Il mio vestito di seta rossa scivola sul mio corpo. Qualcuno mi cinge il fianco. La sua stretta è ardente, è ciò che ho sempre desiderato per me. La sua mano accarezza il mio vestito, provocando una sensazione languida sulla mia pelle. Nel sogno, so esattamente di chi si tratta. Il nostro passo è veloce e deciso, siamo giovani e siamo bellissimi. E io sono felice.


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Poi mi sveglio e non c’è più nulla. Né un nome, né un viso, né un luogo familiare. Solo beatitudine.


1. Da novembre a giugno

Avevo dieci anni quando compresi che dovevo cavarmela da sola. Mio padre non c’è, non c’è mai stato. Mia madre invece c’è e c’è sempre stata. Troppo. Smodatamente e nella maniera più sconveniente che conosca. Si chiama Alessandra e io la chiamo così, non mamma, perché non merita tale appellativo. Avevo dieci anni, un mese e un giorno e la mia nonna materna era venuta a mancare da qualche settimana. Era quasi natale. Mia madre quella sera era uscita per l’ennesima volta e si era dimenticata di tornare a casa. Dimentica di rincasare perché, come mi fa presente quasi ogni giorno, lei ha bisogno dei propri spazi. Prima di allora, quando accadeva, riempivo un sacchetto con qualche vestito e mi trasferivo dalla nonna. Non che la cosa mi piacesse. Lei era tutt’altro che carina e simpatica, era una vecchia signora rigida, scontrosa, paranoica e pessimista. Ma mi bastava bussare alla sua porta perché mi passasse vitto e alloggio e un rifugio sicuro. La nonna viveva in una vecchia casa ai bordi del paese, in simbiosi con decine di gatti randagi, gli unici esseri che riceves-


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sero smancerie da lei. Dormiva, si lavava, cucinava, mangiava, parlava solo con i gatti e lasciava un posto piccolo per me, quando ne avevo davvero bisogno. Non mi faceva mancare nulla: cibo, vestiti puliti anche se infestati di peli di gatto, un letto da condividere con gli altri componenti della colonia e persino qualche libro di fiabe da leggere la sera. Mi trattava come un suo gatto, tranne che per le coccole: a me non ne riservava alcuna. Ma almeno, in qualche modo, lei si occupava di me. Al suo funerale Alessandra in lacrime mi aveva giurato: — Non ti lascerò sola mai più. Ed ecco che invece ci era cascata di nuovo. Il problema non era la sua lontananza o la necessità di arrangiarmi a casa, ma il fatto che era molto, molto arduo nascondere le sue scappatelle alle mamme delle compagne di scuola, alla maestra, alla vicina. Abitavamo in un misero paesino nel bel mezzo della Pianura Padana, dove tutti sapevano quanto era suonata mia nonna, che non avevo un padre e che mia madre era un po’ fuori. Se quelle persone fossero venute a sapere che rimanevo sola per giorni, avrebbero coinvolto i servizi sociali, il medico di base, i vigili urbani e il sindaco. Per me sarebbe stato un vero disastro. Un disastro perché non volevo dire a nessuno che le cose a casa mia non andavano sempre bene, che lei era irritabile, lunatica, iniqua, che avrei preferito mi amasse in maniera un po’ meno contorta. Già la mia vita andava a rotoli così: se ci si fossero messi anche loro, le cose non avrebbero potuto fare altro che peggiorare. Così, quella mattina, quando la sveglia suonò e mi accorsi della sua assenza, decisi che avrei fatto di testa mia. Mi vestii di tutto punto, attenta a non abbinare troppo i colori, come faceva lei d’abitudine. Mi pettinai, per quanto fosse pos-


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sibile con una lunghissima chioma ondulata che da mesi aveva bisogno del parrucchiere, anche perché «per queste fregnacce non ci sono i soldi». Poi scesi in cucina e mi preparai una lauta colazione: tè caldo e gallette di riso, l’ultimo cibo commestibile non scaduto rimasto nella dispensa. Frugai a lungo nella sua stanza in cerca di soldi. Nel letto, sotto il materasso ricoperto di vestiti stropicciati e puzzolenti, nel cassetto del comodino tra mozziconi di sigaretta e pillole di tranquillanti. Quando ebbi racimolato tutto il possibile, mi infilai il cappotto, badai a chiudere bene la porta di casa e mi incamminai verso la scuola. Ci arrivai con soli dieci minuti di ritardo, molto meglio di quanto sarebbe accaduto se lei ci fosse stata. Raccontai alla maestra che Alessandra aveva il mal di testa ed era rimasta a letto. Lei ci cascò. Al ritorno da scuola deviai verso il supermercato. Mi ci volle un po’ per capire cosa comprare, facendomi bastare i soldi, senza dare troppo nell’occhio. Alla fine mi presentai alla cassa con fare spensierato e con la scorta di viveri il più grande possibile tenendo conto del budget. Purtroppo la cassiera conosceva Alessandra e mi chiese come mai facessi la spesa da sola. Le raccontai la medesima frottola rifilata alla maestra. Anche lei ci cascò. Quando Alessandra tornò, le provviste erano finite dalla sera precedente. All’uscita da scuola, l’ultimo giorno prima delle vacanze di natale, lei mi aspettava affranta, piangeva e mi chiedeva scusa. Mi trascinò al supermercato senza smettere di piangere, al punto che ebbi il timore che la cassiera indovinasse quanto era accaduto e scoprisse la mia bugia. Comprò tutto quello che le sembrava adatto a festeggiare il natale: vino, salame e il dvd di un vecchio film giallo. Roba poco adatta a una bambina di dieci anni, che vorrebbe cioccolata, giocattoli e latte caldo.


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Questo è uno dei motivi per cui io scrivo natale con la “n” minuscola. Dopo quella prima volta, Alessandra se ne andò e tornò indietro molte altre volte e io affinai pian piano la tecnica. Imparai a fingere, a raccontare che andava tutto bene, ad arrangiarmi in ogni circostanza. D’altro canto, quando Alessandra era a casa e decideva di occuparsi di me, le cose andavano anche peggio. Bisognerebbe impedire di mettere al mondo dei figli alle persone a cui manca l’attitudine. Non ha mai avuto la minima idea di cosa cucinare, di come educarmi, di cosa diavolo fare con il bucato e l’igiene della casa. Tutto con lei è improvvisato, inventato, arrabattato. Le voglio bene, ma è una frana, e tutta la mia vita l’ho passata a coprire le sue fughe e a subire le conseguenze dei suoi errori. Da qualche giorno ho terminato il quarto anno di liceo. Sono venuta su come meglio ho potuto, quindi la maggior parte delle persone mi guarda con diffidenza perché sono diversa dalle ragazze della mia età. Per prima cosa, sembro più grande. Sono alta e ho una sfacciata chioma di capelli ondulati rosso scuro fino al punto vita. Ho gli occhi blu, non azzurri, ma blu del mare profondo, e la pelle ambrata totalmente priva di lentiggini. Nessuno si capacita di come io possa essere uscita con questo abbinamento di colori, il mio professore di scienze dice che è contro ogni legge della genetica. Sono diversa dalle mie compagne di scuola, tutte composte e timorate. Io sono un incorreggibile maschiaccio. Non vesto come loro, non vesto di rosa, non metto golfini. Il mio guardaroba è scarno, solo jeans e un paio di pantaloni mimetici. Magliette senza scritte o disegni, rigorosamente nere. Una t–shirt bianca che mi dette la nonna una volta, taglia da bambina, mi sta un po’


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stretta ma la metto ancora. Qualche maglione invernale e una vecchia felpa nera appartenuta a mio padre, un paio di scarpe da ginnastica e un paio di anfibi. Serve altro? Una giacca per l’inverno. Sono minimalista come la nonna, non mi trucco, non tengo ai vestiti o ai vezzi, non mi serve nulla. Piaccio ai ragazzi perché sono una ribelle, perché mi si nota da lontano, per il mio modo di parlare e di comportarmi in pubblico, sempre sopra le righe. Piaccio ai ragazzi per i miei tatuaggi. Uno, quello che preferisco l’ho fatto sulla schiena, alla base del collo. Chi me l’ha fatto dice che è un Triskel, tre spirali che si dipartono da un unico centro. Un paio di mie compagne, a scuola, ucciderebbero per averne uno uguale. L’altro invece, abbraccia letteralmente il mio fondoschiena. Questo, più che altro, i ragazzi lo immaginano. Anzi, ne favoleggiano. So che a diciassette anni una ragazza non dovrebbe essere tatuata, ma tutto ciò fa parte dell’improvvisazione educativa di Alessandra nei miei confronti. Li ho fatti l’anno scorso, con i soldi guadagnati per aver aiutato d’estate un nostro conoscente al bar nella piazza del paese. All’inizio doveva trattarsi di una punizione per il votaccio in condotta conseguito a fine anno scolastico e poteva essere un provvedimento adeguato, in effetti. Così Alessandra concordò con il mio datore di lavoro di farmi prendere servizio dalle sei del mattino per le colazioni, di farmi coprire la fascia oraria dei caffè dopo pranzo e degli aperitivi serali fino alle otto di sera. Lavori forzati, insomma. Fatta eccezione per il misero compenso percepito. Mia madre era felicissima di non avermi tra i piedi per tutta la giornata e di poter saltare la preparazione delle colazioni, dei pranzi e delle cene.


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A fine agosto, in una giornata di turno, ne approfittai per fare un giro in una città vicina con il mio flirt di allora, mentre Alessandra era convinta che fossi al lavoro. Avevo in tasca tutti i soldi guadagnati al bar e la prima cosa che vidi fu la vetrina di questo curioso laboratorio di tatuaggi in cui era esposto un disegno di cui mi innamorai perdutamente. Mandai in avanscoperta il ragazzino e questi uscì dal negozio con una bella liberatoria da far firmare ai miei genitori. La firma non era proprio autografa, ma il tipo del laboratorio non fece tante storie e alla fine della giornata avevo già il Triskel e un abbozzo dell’altro tatuaggio, oltre alla temperatura un po’ alterata e un bruciore infernale che li percorreva entrambi. Nasconderli sotto i capelli lunghi e la felpa legata in vita non fu difficile e la settimana successiva ripetei la gita per completare il lavoro. Alessandra se ne accorse solo quando, tornata a casa dalla seconda seduta, rimasi due giorni a letto febbricitante a pancia in giù. L’unico suo commento, mentre barcollavo in cucina per prendere un’aspirina, fu: — Ben ti sta. E la passai completamente liscia. Anzi, per impedirmi di guadagnare altri soldi e fare altri tatuaggi, mi esonerò dal lavoro, permettendomi così di tornare alla lettura. La mia unica grande passione. Amo leggere più di ogni altra cosa al mondo, a mio modo sono una inguaribile secchiona. Riduco la mia vita sociale alla presenza a scuola e a qualche uscita con i tipi che mi ronzano intorno, per il resto passo tutto il tempo che posso in biblioteca dove leggo qualsiasi cosa: romanzi, fumetti, storia, fisica, chimica. Qualsiasi cosa. La biblioteca del mio paese ormai mi sta stretta, così faccio fuga da scuola e mi rintano in quella della città per passare lì tutta la giornata. Quando leggo dimentico di mangiare e di dormire. Per questo motivo sono la prima della classe in tutte le materie, tranne in condotta. Ma questa è un’altra storia.


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Molti dei miei professori mi ammirano, anche quando devono sbattermi fuori perché faccio casino o li correggo davanti a tutta la classe perché stanno sparando emerite stronzate. Alcuni mi odiano, ma alla resa dei conti, quando mi assegnano i voti, sono costretti a darmi sempre il massimo e questo fa sì che mi detestino ancora di più. So anche farmi voler bene dai compagni perché sono prodiga e scaltra nel passare i compiti in classe. Invece non passo appunti, non ne ho mai presi in tutta la mia vita scolastica. Mi piacciono le lingue straniere e, a parte l’italiano, leggo, scrivo e parlo l’inglese. Tutto deriva dal fatto che mi chiamo Redlie McFarlane. Ebbene sì, la mia stirpe ha origini anglosassoni; mio padre è scozzese, per la precisione. Non ho passato un solo giorno che ricordi con lui. Tutto ciò che mi ha lasciato è questo nome e cognome e la sua vecchia felpa nera un po’ sgualcita. Fatto sta che tutti, da sempre, quando mi sentono pronunciare il mio nome per la prima volta esclamano: «Ah! Quindi chissà come parli bene l’inglese!», così ho dovuto impararlo per forza. E siccome amo tanto leggere, ho pensato che certi classici della letteratura inglese potevano essere più gustosi in lingua originale e, come diretta conseguenza, ciò ha migliorato oltremodo il mio rendimento scolastico. La mia professoressa di inglese mi adora, apro bocca e mi dà dieci e lode, il che a mio avviso non mi fornisce grossi termini di paragone e non mi permette di migliorarmi o comprendere se la mia pronuncia sia o meno buona. Ciò mi infastidisce molto perché io, fondamentalmente, in fatto di cultura, sono una grandissima rompipalle. Sto imparando a leggere anche il francese, non è nelle mie corde, ma la poesia dei francesi sì, quindi mi sforzo. Poi c’è lo spagnolo. È stata dura perché non avevo alcuna idea della pronuncia e il libro di testo che avevo acquistato all’inizio era un po’ troppo elementare, ma alla fine è stata una delle


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mie migliori vittorie in campo linguistico anche se ho ancora molto da imparare. Il tedesco mi fa schifo. Peccato per Goethe, ma non si può avere tutto dalla vita. L’estate per me è il periodo più bello e più brutto assieme. Da un lato ho la possibilità di fare ciò che desidero. Posso seppellirmi per ore dentro Shakespeare, posso approfondire gli argomenti di mio interesse. Posso alzarmi all’alba e andare a letto tardi la sera, tanto non ho bisogno di concentrazione per la scuola, e posso permettermi di dormire poco. Posso anche saltare i pasti per continuare a fare ciò che sto facendo che, in linea di massima, è leggere o studiare. Ma non c’è scuola e sono costretta a casa per giorni e giorni. Quindi, se Alessandra non decide di sparire e perdersi in giro per un po’, devo sopportare le sue continue intemperanze, i suoi stupidi umori, le sue mattinate chiassose, con canzonacce da radiosveglia a tutto volume, quando decide che deve ripulire tutta la casa e che io la devo aiutare.






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Casini Editore Via del Porto fluviale, 9/A – 00154 Roma www.casinieditore.com info@casinieditore.com Finito di stampare nel mese di marzo 2011 Stampato per Casini Editore dalla Arti Grafiche La Moderna — Roma



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Ăˆ inequivocabile, gli appartengo. So che dovrei temerlo, so che dovrei scappare, e invece sono sua. Anima e corpo, perdutamente sua. Lasciati coinvolgere anche tu dalla storia d'amore di Redlie e Sean!

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