I Promessi Sposi_Prefazione e Introduzione

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COLLANA LE MUSE

Non dicere ille secrita a bboce


© Cartman Edizioni 2016 Cartman Edizioni corso M. d’Azeglio, 102 – 10126 Torino (Italia) tel./fax +39.0118905849 www.cartmanedizioni.it – redazione@cartmanedizioni.it ISBN 13: 9788889671597

Realizzazione grafica di copertina: Dorina Xhaxho In copertina: Ave Appiano, Onda forma, 2014 (dettaglio) Finito di stampare nel mese di marzo 2016 da Grafica Pollino


Laura Iura

I Promessi Sposi tra romanzo e spettacolo L’Opera moderna di GuardÏ/Flora

Prefazione: Marcello La Matina

CARTMAN



Indice

Prefazione

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Marcello La Matina

Inroduzione

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I. Lingua e società

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Televisione e cultura linguistica

21

Il genere del musical

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Dal romanzo al musical

45

2. Storia e struttura

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Sistemi segnici del racconto

61

I predecessori de “I Promessi Sposi”

67

Organizzazione narrativa

79

Organizzazione discorsiva

97

3. Immagini e musica

115

Storyboard

115

Didascalie immagini

125

Immagini

129

Spunti musicali

137

Intervista a Michele Guardì

161

Conclusioni

167

Bibliografia

169

Sitografia

175



Prefazione di Marcello La Matina

L’historia. Si può scrivere de’ Promessi sposi senza che questa parola ci s’affacci alla mente recando un suo corteo di sopite memorie? Al lettore frettoloso quei suoni non diranno molto; ovvero gli ricorderanno una qualche formula di quelle che usano gl’ipnotizzatori. – Historia! E il poverino è tosto riportato alla veglia dalla quale l’imbroglio o una terapia lo avevano per breve tempo esiliato. Al lettore svezzato che subito v’inciampa nel romanzo, la parola suonerà invece come l’incipit di un incantamento da consumare a piacere per tutta la lettura. – Historia! E il lettore, beato, dismette i panni dell’ordinario, per indossare quelli di un testimone che vive in mezzo ai fatti, ai personaggi, ai luoghi e ai tempi della storia. Il gioco di prestigio abilmente orchestrato dall’autore del romanzo, Alessandro Manzoni, si compie in questo punto, nel quale la storia (la story) si scambia di posto con la (h)istoria, la finzione con il vero. V’è di più: l’autore della storia finge d’averla solo scoperta e riscritta in un manoscritto milanese che narrava di fatti accaduti due secoli prima. Il lettore, per parte sua, mette in atto la sospensione dell’incredulità e accetta per vero il verisimile. Ogni camouflage preserva tuttavia una qualche verità, se nella caricatura umoristica o nella maschera tragica lo spettatore è mosso al riso, o alla paura e alla pietà. L’efficacia simbolica non può essere predeterminata come fosse una proprietà del testo: essa resulta dal contratto tra autore e lettore, attore e pubblico, parlante e ascoltatore. Manzoni stesso ne ebbe prova quando cominciò a occuparsi della peste in Milano: a turbarlo profondamente non era soltanto la verità storica che andava emergendo dalla lettura degli Atti processuali. Egli fu segnato

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da quei resoconti di untori divenuti (falsi) accusatori di sé – e, dunque, autori, romanzieri, di una vita tristemente camuffata, di una verità che è costretta dal Potere a farsi verisimile e menzogna. Manzoni visse quella vertigine dolorosa di cui narra Luigi Pirandello in una sua novella, nella quale v’è un autore che dà udienza ai suoi personaggi, mentre si attarda nel dormiveglia della domenica mattina. Quell’autore è, va da sé, lo scrittore medesimo. Tuttavia, se è così, di chi sono quelle parole che tanto lo turbano? Cosa conferisce a quelle parole e a quei personaggi l’alterità che esse oppongono a colui che dovrebbe esserne l’autore? C’è un Autore diverso dall’autore, così come c’è una Storia che non è la storia? Nello stesso spirito, Manzoni si era chiesto: “Dov’era l’(h)istoria delle unzioni, se non nella fantasia morbosamente accesa di quei giudici e di quei testimoni che videro solo quel che vollero vedere?” E ancora: “Chi era l’autore dell’unzioni, se non l’untore stesso? e dov’era Dio in quel frangente dell’(h)istoria? Dove la Provvidenza?” La storia milanese di Alessandro Manzoni è bensì un romanzo misto di storia e invenzione; ma non di quei romanzi dove verità e fantasia vadano fra loro d’amore e d’accordo. C’è una tensione evidente in essi, che lo scrittore cerca di assegnare a due suoi simulacri testuali: da una parte, l’Anonimo autore dello scartafaccio da cui asserisce di aver preso la trama dei fatti; dall’altra, la Peste, demiurgo furioso, marteau sans mâitre, a cui Manzoni chiede di trasformare in peripezia il groviglio dei fatti. Né l’Anonimo dell’inizio né la Peste conclusiva sono, però, espressioni dell’intenzionalità manzoniana; si direbbe, anzi, che essi debbano la loro presenza operante nel romanzo alla persistente debolezza che spinge Manzoni a rimandare – e, al tempo stesso, affrettare – il suo giudizio sui fatti, sul “sugo della storia”, sull’Autore della Storia. L’(h)istoria, dunque, si può veramente definire come la tensione che causa e, in una, indebolisce lo sforzo creativo del narratore, con il porre incessantemente al suo cospetto le ragioni di Altri, non importa se autori

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o personaggi veri o presunti, fittizi o reali. L’historia, potremmo anche azzardare, è la malattia mortale dell’autore, poi che nulla può redimere la serie dei fatti, neppure l’atto squisitamente creativo di rifar loro “la dicitura”. Lo scartafaccio, una volta creato dalla fantasia dell’autore, cessa di appartenergli e si ritaglia una zona franca, divenendo titolare di una intenzionalità propria. Umberto Eco, in uno scritto di alcuni decenni fa, seguendo e rattoppando la teoria medievale, identificava una intentio operis (una intenzionalità dell’opera letteraria), come distinta dall’intentio auctoris (che manifesta il progetto dell’autore modello) e dall’intentio lectoris (che concretizza le mosse interpretative del lettore modello). Ora noi siamo portati a riconoscere, in aggiunta, un quarto elemento: una tentio operis, una tensione o torsione dell’opera, che ha nella (h)istoria la propria cifra stilistica e la propria pretesa veritativa. Solo il fatto che questa tensione abbia luogo in un campo spettacolare giustifica il fatto che se ne accenni qui. Il campo di tensione della (h)istoria – ovvero il campo che ne mostra la natura conflittuale nella forma di uno spettacolo – è il teatro. Va da sé che ‘teatro’ non sia qui tanto un termine artistico quanto piuttosto un termine giudiziario. Teatro è ogni luogo dove un personaggio è chiamato dai suoi conspecifici a rendere ragione della propria vita. Teatro è lo spazio logico-narrativo dove qualcuno (che ne sia costretto dalla cogenza sociale) è richiesto di cucirsi addosso un racconto, di costruirsi come soggetto narrante. Il suo proprio è l’atto di reddere rationem (in greco, il logon didònai), ovvero il gesto nel quale si rapprende la drammaturgia del quotidiano. Quello stream che vediamo spalmato nei palinsesti televisivi o nelle pagine dei quotidiani e che spesso, con esecrabile sarcasmo, viene chiamato “Tv-verità”. Drammaturgia del quotidiano è la contesa tra vicini, la lite per un’eredità, ma anche il fatto di cronaca giudiziaria o la vicenda di una improvvisa vincita al lotto. Ciò che accomuna tutti questi piccoli drammi è ciò che permette loro di ritagliarsi uno spazio nel flusso di incoscienza dello spettatore televisivo: è la loro sceneggiatura, la loro impalcatura drammaturgica. La quale,

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in mancanza di un autore vero e proprio, deve contentarsi di cronisti, di testimoni, di consulenti più o meno fidati. Quel che il dramma cerca è un luogo dove inscenare – o, semplicemente, sversare – la propria tramatura drammatica. L’eroe di questo piccolo mondo è ben designato dalla maschera siciliana del tragidiaturi, di cui diremo un’altra volta. Ciò che importa dire qui è una cosa ben più rilevante ai nostri occhi di lettore antico. E cioè che, se tutta questa massa di fatti e fatterelli, di “gliuommari” (come li avrebbe definiti il gaddiano Ingravallo) e intrighi di strada; ebbene, se tutta questa materia “vile e meccanica” non avesse oggi la Tv, mai potrebbe arrivare all’orecchio e all’occhio del pubblico. Tuttavia, questa materia spesso informe non è sempre stata trattata così. Essa ha rappresentato per secoli quel che lo scrittore Giuseppe Antonio Borgese amava chiamare “epopea del vicinato”. La drammaturgia del quotidiano era nella sua sede quando veniva articolata nei saloni da barbiere – e, prima ancora, nella Grecia antica, presso il kourèion, il negozio del barbitonsore, che, ancora nel II secolo dopo Cristo, il filosofo Plutarco riteneva fosse làlos, «chiacchierone». Il romanzo ellenistico che ancora conserviamo non è che il prodotto meglio confezionato di questa epopea in larga parte perduta tra le sabbie del deserto egiziano. L’indimenticato grecista Bruno Lavagnini ha reso un affresco mirabile di questa forma senza nome, individuandone appunto l’origine nelle storie che sorgevano all’ombra dei santuari pagani, e che venivano narrate dagli exeghetai che guidavano allora i visitatori. L’ampio abbondante naufragio di queste forme espressive ci dispensa da ogni ulteriore passo. Basterà ricordare l’opera di Michail Bachtin, per consentire al lettore di queste pagine un viaggio appassionante nel mondo antico e moderno, lungo i secoli dell’epica orale, dei cantastorie, dei guzlar, dei rapsodi: sono tutte epoche attraversate da questa materia grassa e spesso ignorata solo perché, all’apparenza, ignorante. I viaggi nel “basso corporeo”, sovente commisti ai patimenti dell’anima devota, sono la parte emersa di questo continente paraletterario o affatto letterario.

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Il mondo antico prima, e poi quello medievale, ebbe in questo modo il suo teatro di piccole cose e di piccoli protagonisti. Un mondo di testi, spesso senza autore, situati al confine tra storie di ogni giorno e Storia. Genere popolare, questa epopea del vicinato si contentava di apparire e poi sparire nelle coscienze e nel linguaggio dei popolani. Come mostra, a noi che ne abbiamo restituito il testo in edizione critica, quel dramma pastorale composto nel Settecento dal cappuccino frate Fedele da San Biagio e familiarmente noto in tutta la Sicilia come La Pastorale (ripresa letteralmente da Michele Guardì nella V scena). * Non si capirebbe nulla de I Promessi Sposi di Michele Guardì e Pippo Flora, opera moderna ispirata dal romanzo manzoniano, se non si tenesse, anche in parte, presente questa lunga, e ancora poco e mal conosciuta, vicenda di fatti, autori, storie. L’(h)istoria è il teatro, dove Guardì e Flora trascrivono il testo manzoniano, badando a che la scena funga da cassa di risonanza per tutto quello su cui Manzoni era stato reticente. Non vengono riempiti di senso, è vero, i famosi asterischi (***) sotto i quali lo scrittore milanese occultava i tratti della Storia, mescolandoli con le rughe della storia. Vengono però all’ipostasi interessanti tratti e caratteri di un modo di narrare che la sapiente scrittura di Guardì e la vivace intuizione musicale di Flora riprendono originalmente senza nessuna caduta di stile. La trama dispiega anche musicalmente il conflitto fra storia e automatismo della Fortuna; che è il conflitto tra una concezione cristianamente sensibile alla Provvidenza e una visione disincantata che cede alla superstizione, al Fato, alla Fortuna dei Carmina burana. Nelle prime battute Pippo Flora introduce un disegno ritmico affine a quello di Carl Orff, ma senza quella finta filologia che rende stucchevoli molte pagine di quei canti medievali (e anche dei Catulli Carmina).

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L’(h)istoria è già qui, nella indecidibilità tra singolare e plurale che appare fin dall’esordio corale: «Il tempo passa, la storia si ripete / Corsi e ricorsi, tornano le storie». Lo stesso potrebbe dirsi delle ardite modulazioni, nell’inserzione di canti popolari milanesi: chi non s’è chiesto quale fosse la canzonaccia con cui Bravi si congedano da don Abbondio? ovvero quali fossero i canti delle donne che ornano Lucia per il rito nuziale? O quelli dei Lanzichenecchi in rotta? Chi non ha avuto voglia di ascoltare il ritmo della “notte degl’imbrogli”? o il canto che gli appestati elevano a Dio nel Lazzaretto, in una struggente processione guidata da un cappuccino? Tutto questo e altro si ritrova nell’opera di Guardì e Flora. Gli umili trovano in questo teatro la concreta espressione della loro vicenda, come già era accaduto nel romanzo manzoniano. Ed è merito di Laura Iura, autrice del libro che qui si presenta, aver compulsato l’Opera di Guardì e Flora, collocandola nell’incrocio tra Storia e storie; che significa, per noi, nel crocevia tra filologia e semiotica testuale. Questo lavoro paziente e generoso non è riservato al solo pubblico degli specialisti. Esso spera di trovare accoglienza fra tutti gli amanti dell’opera manzoniana e fra i sempre più numerosi cultori di questi moderni Promessi Sposi, nati dalla penna e dalla fantasia di Michele Guardì e Pippo Flora. Dei quali ci piacerebbe un giorno raccontare le origini siciliane e tante altre belle cose. Ma di libri, diceva il Manzoni, ne basta uno alla volta, quando non sia d’avanzo. E questo di Laura Iura certamente piacerà al lettore come è piaciuto a colui che ha avuto qui il piacere di presentarlo. Buona lettura.

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Introduzione

I confini del testo letterario sono stati travalicati dal momento in cui si sono generalizzate le trasposizioni da un medium all’altro, che comportano la traduzione in un diverso sistema semiotico. È il caso ad esempio degli adattamenti audiovisivi di romanzi, nei quali il passaggio dalla pagina allo schermo comporta il cambiamento di certe proprietà intrinseche del testo di partenza. Talvolta esso prevede già al suo interno molteplici interpretazioni che sono esplicitate nei diversi testi in cui viene trasposto, ma allo stesso tempo può rimanere immutata, nel passaggio dall’uno all’altro, la struttura mitica veicolata soprattutto dai personaggi, che «continuano a popolare la vita degli uomini; non appartengono a nessuno e appartengono a tutti» (Corti, 1997: 87). In linea con le più attendibili teorie della traduzione considerata in rapporto a una semiotica culturale1, è possibile analizzare qualsiasi traduzione da una prospettiva sincronica, considerando cioè la rete intertestuale nella quale un determinato testo viene ritradotto, per giungere a una concezione che Gianfranco Marrone ha definito sociosemiotica.2 Partendo da tali presupposti, la presente ricerca si basa su un approccio di questo tipo, sulla ‘traduzione’ dal romanzo al musical, ed è incentrata sull’analisi semiotica di un testo appartenente al genere dell’opera

1  Un contributo interessante sulla teoria della traduzione relazionata a una semiotica della cultura è stato fornito da Nergaard S. (1993). 2  Marrone G., Montalbano: affermazioni e trasformazioni di un eroe mediatico, Rai-ERI, Roma 2003. Studiando a fondo il fenomeno applicato al personaggio di Montalbano, Marrone spiega che a cambiare, durante il processo di trasposizione, non è «solo il punto di vista sul personaggio, ma il personaggio stesso», perciò non va presa in considerazione esclusivamente la relazione tra la pagina e lo schermo in senso univoco, bensì l’‘intertesto mediatico’.

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moderna, I Promessi Sposi-Opera moderna di Michele Guardì. Nel tentativo di assolvere quello che dovrebbe essere il compito di una lettura semiotica, ossia «quello di separare, nel momento interpretativo, ciò che è compatibile con l’‘equilibrio topologico’ della struttura originale da tutti quegli elementi che, pur presenti in un modo o nell’altro in tale struttura, ne costituiscono una enfatizzazione o una riduzione, insomma, una interpretazione incongrua»3, ho deciso di procedere suddividendo il lavoro in tre parti. Le tre sezioni sono rispettivamente dedicate al rapporto che intercorre tra la cultura linguistica e la televisione, per poter procedere meglio allo studio dell’opera in questione e capire la scelta di un linguaggio che possa avvicinare maggiormente il pubblico; all’analisi semiotica di alcune scene del testo di Guardì, messo in musica da Pippo Flora; in ultimo, all’aspetto musicale e scenico con la realizzazione di uno storyboard per le medesime scene analizzate. È noto che il famoso romanzo di Alessandro Manzoni ha subìto moltissimi adattamenti di vario genere nel corso degli anni: dall’immagine pittorica al fumetto; dal melodramma all’opera lirica di Amilcare Ponchielli, Errico Petrella, e Luigi Bordese; dal cinema – con i film del regista Mario Bonnard nel 1923 e di Mario Camerini nel 1924 – fino a giungere a sceneggiati televisivi come “I Promessi Sposi” di Sandro Bolchi del 1967, la miniserie tv di Salvatore Nocita (1989) o parodie goliardicodissacratorie che hanno intrattenuto il grande pubblico televisivo, tra le quali ricordiamo il Quartetto Cetra (1985) e “I Promessi Sposi” del trio Massimo Lopez, Anna Marchesini e Tullio Solenghi (1990). La produzione massmediologica ha garantito senza dubbio il successo 3  Manetti dà questa definizione in La semiotica dei “Promessi Sposi”, introduzione al volume che raccoglie i testi delle conferenze tenute su questo tema nel 1986 da studiosi di diverse aree culturali, per un’iniziativa da lui coordinata e progettata da Umberto Eco all’interno della cattedra di Semiotica. Tale progetto era rivolto a fasce più eterogenee di persone, dagli studenti del corso agli specialisti e ai professori delle scuole superiori, con la finalità di coinvolgere un pubblico più ampio di quello abituale e di applicare degli strumenti semiotici ad un testo molto noto.

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dell’originale, ma allo stesso tempo in alcuni casi ha creato delle qualificazioni che lo allontanano da quelli che volevano essere i fini iniziali di diffusione dei contenuti del romanzo. L’industria culturale è giunta a creare un nuovo macrotesto sostenuto dal consumo popolare e diversificato da quello di partenza, al punto che le varie riscritture favoriscano una sorta di ‘implosione’4. Il film di Nocita, che tratta la nota storia della coppia di giovani intenta a coronare il sogno di unirsi in matrimonio, ricrea in parte l’atmosfera che lo scrittore aveva evocato nel romanzo. Non è semplice il compito di effettuare una riduzione cinematografica della struttura narrativa di uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi, senza dubbio le musiche e le scenografie hanno contribuito in quest’impresa. Il castigo divino e la volontà di Dio sono irrevocabili, quindi anche nel film vengono rappresentate dal segnale della peste. Si possono individuare citazioni dirette dal romanzo, ma ciò che dà forza è il messaggio trasmesso, l’idea di un Dio ‘che atterra e suscita, che affanna e che consola’. Dunque ciò che in primis va individuato è la struttura narrativa soggiacente comune a tutti i rifacimenti, in secundis la struttura discorsiva che contribuisce a superare la sfera narrativa, per far sì che la natura delle entità semiotiche in essa comprese esca dal testo per entrare in un sistema più ampio. Per questo motivo i personaggi del testo letterario si trasformano in ‘eroi’ nella coscienza dei lettori5, dal momento che le loro azioni, ragioni e passioni, vengono assorbite e inconsciamente paragonate dagli spettatori a quelle che avrebbero avuto loro stessi, come è avvenuto per il mito dei Promessi Sposi. Alcuni personaggi sono portatori di valori morali 4  Le varie divulgazioni del testo manzoniano sono analizzate e ripercorse da Bettetini e Grasso in Manetti (1989: 245-261/ 293-297). 5  Spesso si creano varie figure mediatiche che non hanno più collegamento con il processo di costituzione del personaggio nel testo letterario, ma popolano un contesto culturale indipendente, come i superuomini di massa di cui parla Eco (1978).

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in cui i lettori/spettatori credono ancora, quali la giustizia contrapposta all’ingiustizia verso i deboli, altri invece si fanno rappresentanti di una diversa opposizione valoriale, non più sociale, ma giuridica, che contrappone la legalità alla criminalità. Naturalmente I Promessi Sposi hanno ispirato anche il teatro e per quanto concerne il musical, due sono le maggiori realizzazioni di cui dispone il nostro patrimonio artistico in questo settore: “I Promessi Sposi Musical” dell’attore, drammaturgo e regista napoletano Tato Russo, in scena dal 2000 al 2003, e “I Promessi Sposi-Opera moderna” del siciliano Michele Guardì appunto, in scena dal 18 giugno 2010. Le due composizioni presentano delle affinità portando in scena la stessa ambientazione del Seicento con gli spagnoli a Milano, la peste, i monatti e così via, ma hanno anche delle note individuali di grande originalità, e azzarderei a supporre che l’impegno di Guardì nel realizzare un lavoro del genere sia stato maggiore poiché già aveva un ottimo precursore, per cui più difficoltosa potrebbe essere stata l’impresa di non creare un duplicato. In tutti e due i casi si hanno grandi scenografie ricche di costumi, luci e musiche; nel musical di Tato Russo tutto è mosso da frequenti cambi di scena che conferiscono uno spiccato taglio cinematografico, quindi la sua scrittura si avvicina più alla sceneggiatura che al libretto. Inoltre la sua predilezione per un impianto cinematografico dell’opera lo ha portato a eliminare le storie parallele di Fra Cristoforo o della Monaca di Monza, che invece non vengono tralasciate da Guardì. Entrambi preferiscono far precedere l’inizio in medias res, dall’incontro tra Don Abbondio e i bravi, da un antefatto della storia tra i due ragazzi o da un prologo degli incontri di Lucia con Rodrigo così da poter «denunciare maggiormente il disagio e il dolore di quello che sarebbe accaduto poi [...]: non può esserci partecipazione alla descrizione d’un dolore se prima non vi sia stata descrizione e compartecipazione d’una

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eguale felicità»6. Nessuno dei due libretti è scontato né scade nella banalità, anzi ambedue riescono a tenere sempre accesa l’attenzione di un pubblico che già conosce la storia e nonostante ciò riesce a immedesimarsi nelle intricate vicende che non vengono modificate. Analogamente l’interesse suscitato da questi spettacoli è dato dall’impressione di non assistere a nulla di macchinoso o artificiale, quasi da non far trasparire l’enorme lavoro narrativo che c’è alle spalle e che ha portato a una traduzione della pagina scritta in musical, quindi in termini linguistici, endolinguistica e intersemiotica.7 Proprio di questo lavoro di retroscena vorrei riuscire ad approfondire le modalità, compiendo un’operazione induttiva e deduttiva insieme. Per cominciare ho cercato di approfondire il procedimento, che sta alla base di una riduzione di qualsiasi genere e che già ho potuto rintracciare, leggendo gli appunti lasciati da Tato Russo riguardo la stesura del libretto: Riscrivere I Promessi Sposi se pure in forma di musical, se pure in forma di libretto, non era una facile avventura. Qui c’era da accontentare il gusto del pubblico e le malizie degli illuminati. Bisognava leggere e rileggere per non deludere le aspettative di nessuno... e invece al contrario la prima idea che mi veniva in mente era quella di fare a meno il più possibile di rileggere il romanzo e procedere invece a una prima scrittura seguendo il filo dei soli ricordi scolastici o del “doposcuola più odioso e accanito”, per ricavarne il succo delle emozioni e il mio personale punto di vista 6  Ogni commento di Tato Russo si può trovare nel sito ufficiale www.promessisposimusical.it alla voce ‘appunti’. 7  I diversi tipi di traduzione (interlinguistica, endolinguistica, intersemiotica, endosemiotica) sono determinati dai differenti sistemi di codifica dei segni. Lo studioso Roman Jakobson ne parla in un articolo del 1959, On Linguistic Aspects of Traslation, nel quale il fenomeno della traduzione è trattato in modo immanente alla teoria linguistica. In esso la distinzione posta da Jakobson fra tre tipologie di traduzione lascia aperto un varco e all’interno di quella intersemiotica (da un sistema verbale a uno non verbale) introduce quella tra sistemi semiotici non verbali (se da un dipinto ad esempio si passa a un filmato o una statua).

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sulle cose e sui personaggi [...]. L’arte della Sintesi che è prima una necessità teatrale e poi vieppiù un’esigenza per la musica mi inducevano a prevedere che se mi fossi riaddentrato in un’analitica rilettura del testo avrei perduto il dono della concisione, della brevità tanto necessaria al successo d’uno spettacolo dei nostri giorni, e della capacità inoltre di descrivere con la musica grandi emozioni, ché di questo solo può vivere la buona musica. Cominciai così a pormi la prima domanda che capivo di portare dentro da tempo immemorabile o addirittura da quei banchi di scuola all’applicazione dei quali chiedevo riscontro e memoria: com’è possibile che quei due fessacchiotti di innamorati del Manzoni, per fama secondi o eguali solo ai Romeo e Giulietta di Shakespeare, non avessero mai fatto vibrare o innamorare intere generazioni di ragazzi e di fidanzatini studenti, così come era invece accaduto con quelli del Bardo? Il regista trova la risposta nella struttura stessa dell’opera del Manzoni in cui la trama era motivata dalla descrizione di un periodo storico e ogni cosa (personaggi, protagonisti, antagonisti) sottostava a questo intento. La volontà di superare questa esigenza manzoniana porta al bisogno d’una ‘storia romanzata’. Questa è stata l’ottica con cui il napoletano Russo ha rivisitato «la storia delle difficoltà dell’amore di quelle due creature perché ne derivasse un coinvolgimento emotivo per lo spettatore e allo stesso tempo una risorsa musicale per il musicista». In fondo è l’obiettivo a cui punta anche il siciliano che parte da premesse simili, ma dà un’impostazione un po’ diversa al suo musical. In particolare dalle parole di Tato Russo emerge il riferimento all’arte della sintesi come azione primaria nell’ambito teatrale, ma che comunque viene compiuta sia da uno scrittore sia da un lettore nel momento in cui vengono a contatto con un complesso di segni, e che sicuramente avrà dovuto svolgere anche Guardì. Per chiarire questo punto, mi riconduco a quanto scritto da Segre nel suo volume Semiotica filologica, poiché trovo indispensabile ricordare che: «ogni testo è un complesso di segni grafici, che hanno avuto come significato primario dei valori linguistici […]. Ma se anche

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ogni testo costituisce una somma di materiali linguistici preziosi, noi non vi ricorriamo solo per questo. Ogni testo è la voce di un mondo lontano che noi cerchiamo di ricostruire […]. Chiunque componga un testo opera una sintesi di elementi analitici della sua esperienza. Sintesi discorsiva (linguistica) di elementi culturali. A sua volta il lettore analizza la sintesi attuata dalla scrittore, e ne ricostruisce gli elementi in una sintesi interpretativa. Questo ciclo analisi-sintesi-analisi-sintesi costituisce un’attività eminentemente semiotica, dato che sono in gioco, in ogni fase del ciclo, dei significati, e che la comprensibilità è comprensibilità di significati»8. Nel tratteggiare il procedimento filologico Segre delinea tre tipi di codificazione che si succedono secondo questo ordine: segni grafici; segni linguistici; contenuto culturale; mondo lontano. Tutte queste codifiche sono rette dall’atto stesso della lettura che quindi permette di avvicinarci al testo; in alcuni casi però, come specifica Russo nella sua dichiarazione riguardo il lavoro di riscrittura sopra riportata, leggere e rileggere può sviare da quelle che sono le prime impressioni personali; pertanto egli ha preferito attenersi alle interpretazioni che in lui erano rimaste dalle prime volte in cui era entrato in contatto con l’opera. Questo concetto si ricollega immediatamente alla differenza che si stabilisce tra i due atteggiamenti di un lettore al momento dell’attività appercettiva e valutativa: si tratta di una lettura ingenua e di una lettura consapevole. Con questa seconda modalità nella vita di tutti i giorni si compie, magari senza neanche accorgersene, un atto di filologia che il critico letterario Gianfranco Contini, nel suo Breviario di ecdotica del 1979, ha definito ‘evento quotidiano’. Su questo concetto tornerò in seguito, nel capitolo specifico dedicato al passaggio dall’originale al genere del musical-opera moderna. Ora vorrei precisare invece che nello stesso anno in cui Contini pubblicò il Breviario, Umberto Eco ha presentato nel suo libro Lector 8  Segre (1979: 7)

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in fabula la distinzione fra le due figure di ‘Lettore Empirico’ e ‘Lettore Modello’, nelle quali ho individuato un riferimento implicito ai diversi atteggiamenti con cui un lettore si pone nei confronti di un testo. Mentre il Lettore Empirico può essere chiunque si accinge a leggere e spesso «usa il testo come un contenitore per le proprie passioni, che possono venire dall’esterno del testo, o che il testo gli può eccitare in maniera casuale»9, il Lettore Modello è capace di cooperare all’attualizzazione del testo e da esso viene postulato come strategia cooperativa, assumendo quindi in sé dei ‘doveri filologici’10. Fatte queste considerazioni sorge spontanea la curiosità di sapere come abbia ritenuto di procedere Michele Guardì ed è interessante capire in che modo si sia distanziato dal precedente kolossal nazional-popolare di Tato Russo che è stato definito11 «la risposta italiana a Les Miserables, cioè al più celebre e popolare dei grandi romanzi francesi», magari ripercorrendo brevemente le tracce lasciate da un genere cinematografico tipicamente americano come il musical e accostandovi gli studi di analisi del racconto, che a partire dai formalisti russi hanno subíto delle evoluzioni. Per capire in profondità come si possa trasferire e far rivivere un mito come quello dei Promessi Sposi, in una società che è notevolmente cambiata rispetto al pubblico originario a cui era destinato il romanzo, e con un mezzo diverso dal libro, quindi per apprezzare dei valori che Manzoni voleva trasmettere e che si sono mantenuti universali nel tempo, è indispensabile analizzare il contesto in cui si compie quest’operazione.

9  Eco riprende questo concetto nel libro Sei passeggiate nei boschi narrativi (1994: 10) in cui viene raccolto il ciclo di conferenze tenute alla Harvard University nel 1993. Il volume contiene delle riflessioni, fatte partendo proprio dall’esperienza del lettore, sulla narratività e su come vengono letti i romanzi. 10  Uno dei ‘doveri filologici’ del Lettore Modello è «recuperare con la massima approssimazione possibile i codici dell’emittente», come precisa Eco a p. 63. 11  Baffi, in “la Repubblica”, 29 ottobre 2000.

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