Lo sguardo della critica_ Prefazione e introduzione

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COLLANA LE MUSE

Non dicere ille secrita a bboce


© Cartman Edizioni 2016 Cartman Edizioni corso M. d’Azeglio, 102 – 10126 Torino (Italia) tel./fax +39.0118905849 www.cartmanedizioni.it – redazione@cartmanedizioni.it ISBN 13: 9788889671603 Realizzazione grafica di copertina: Dorina Xhaxho In copertina: Ave Appiano, Onda forma, 2014 (dettaglio) Finito di stampare nel mese di aprile 2016 da Grafica Pollino.


Daniele Barni

Lo sguardo della critica I conoscitori d’arte in Italia tra XIX e XX secolo

CARTMAN



Indice Prefazione di Francesco Federico Mancini

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Introduzione. L’arte dell’attribuzione

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Giovanni Morelli Ivan Lermolieff L’anatomista dell’arte La cosiddetta Fornarina

19 21 35 51

Bernard Berenson Alla corte di Berenson Lo scienziato dell’arte Tre enigmi tra Signorelli e Piero della Francesca

61 63 91 101

Roberto Longhi Il discepolo diventa il maestro Il poeta dell’arte Apparizione d’oro

107 109 125 141

Federico Zeri Calibro Zeri Il sociologo dell’arte Quattro statue e due artisti

151 153 177 189

Conclusioni. L’archetipo del conoscitore

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Le opere principali dei conoscitori

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Fonti delle immagini

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Immagini

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Bibliografia

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Prefazione di Francesco Federico Mancini

La riapertura dell’Accademia Carrara, avvenuta il 23 aprile 2015, ha segnato un momento importante per la cultura artistica italiana; intanto perché un grande e prestigioso museo è stato, dopo anni di chiusura, restituito alla pubblica godibilità; e poi perché la raccolta bergamasca, oggi più che in passato, appare in grado di far comprendere quale sottile disegno collezionistico stia a monte di una realtà museale tra le maggiori e più stimolanti del nostro Paese. Costruita in un lungo arco di tempo grazie all’apprezzabile lungimiranza di uomini come il conte Giacomo Carrara, morto nel 1796, il conte Guglielmo Lochis, esponente di primo piano della politica e della cultura bergamasca del primo Ottocento, il grande conoscitore Giovanni Morelli e lo storico dell’arte Federico Zeri, questa raccolta, oggi riallestita con raffinata sapienza, consente di immergersi nella affascinante realtà della connoisseurship, termine entrato nel lessico disciplinare per definire quella pratica conoscitiva messa a punto da un gruppo di studiosi che, proprio a cominciare da Morelli, seppero dimostrare nei fatti, ma anche in teoria, la ‘potenza discriminatoria’ dello sguardo al cospetto delle opere d’arte. Il lavoro di Daniele Barni ripercorre con intelligente profondità il contributo metodologico e critico offerto alla storia dell’arte dai quattro maggiori conoscitori del nostro tempo: Giovanni Morelli, Bernard Berenson, Roberto Longhi e Federico Zeri. Se il primo e l’ultimo di questa eccelsa short list hanno scelto di legare il proprio nome all’Accademia Carrara di Bergamo, Berenson e Longhi hanno preferito affidare il loro ricordo a Fondazioni appositamente istituite. Particolarmente importante è stata comunque la sopravvivenza delle quattro raccolte d’arte che, nella loro meditata configurazione, rappresentano il riflesso di una sensibilità collezionistica alimentata dalla padronanza della cosiddetta scienza

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conoscitiva. Se lo sforzo di Giovanni Morelli è stato quello di dimostrare la possibilità di giungere a una sorta di oggettivizzazione del giudizio critico, isolando i caratteri distintivi, la grafia di ogni singolo artista, merito di Bernard Berenson è stato quello di aver tentato di correggere le ‘storture’ positiviste di Giovanni Morelli “a tal segno inficiato di mero empirismo – sono parole dello stesso Berenson – da poterlo condurre ad affermare che, soprattutto, il conoscitore doveva guardarsi dal bernoccolo della filosofia”. A parere di Berenson il metodo attributivo non poteva fondarsi sul semplice riconoscimento delle morfologie stereotipe e ricorrenti. “La tecnica attribuzionistica berensoniana – scrive Gianni Carlo Sciolla – pur partendo dall’utilizzazione del metodo morelliano, ne sente tuttavia l’insufficienza e la meccanicità”. Il tentativo di Berenson fu infatti quello di reintrodurre nel metodo attribuzionistico il criterio soggettivo di valutazione della qualità ma anche lo studio degli schemi e delle forme della visione. Quanto a Roberto Longhi, è lo stesso Barni a scrivere che lo studioso, se da un lato si affiancò a Berenson nel criticare il ‘grafismo’ di Morelli, inteso come “sminuzzamento analitico in dettagli e grossolanità di analisi sull’opera nella sua complessità”, da Berenson prese le distanze introducendo un nuovo modo di leggere l’arte. Secondo Carlo Ludovico Ragghianti Longhi “vitalizzò la cronologia e ogni sorta di relazioni e si muovette all’interno delle personalità artistiche seguendole nelle movenze più riposte, cogliendo spesso con estrema capillarità i sintomi di ogni esperienza, di ogni spostamento, recezione, trasformazione, reazione nelle forme della visualità”. Passando infine a Federico Zeri, costui, pur recependo in modo intelligentemente selettivo il metodo morelliano, criticò in Berenson il suo eccessivo radicamento nel positivismo; ma soprattutto trovò inaccettabile lo scarso interesse da lui manifestato per la storia in generale. Nei suoi ricordi autobiografici scrisse che lo studioso americano “considerava la storia dell’arte un capitolo a parte, del tutto indipendente dalla sociologia, dall’economia o dall’iconografia. A lui sembrava che l’opera d’arte si riferisse soltanto a se stessa, i quadri

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ai quadri, i segni e i dettagli ai segni e ai dettagli. Come faceva anche Longhi, non gli interessava per nulla l’importanza del committente, del perché e del come della committenza. Non concepiva che un’opera d’arte stesse all’incrocio di varie cause oppure fosse il prodotto di una rete di motivi”. Con Zeri il mestiere del conoscitore muta di segno; nel senso che, pur attribuendo agli indizi morelliani il giusto peso, “essendo questo il fondamento dell’attività del conoscitore”, imprescindibile è calare l’opera d’arte in un “tessuto di congiunzioni e relazioni storiche”. Di fatti, e in questo Zeri opera uno strappo nei confronti della tradizione, è per lui “impossibile considerare l’opera d’arte in se stessa, in un semplice gioco di rimandi interni”. La conclusione cui Zeri perviene è la seguente: “È vero che si può essere un grande conoscitore senza essere uno storico; ma non si può essere un grande storico se non si è almeno un poco un conoscitore, dato che ciò implicherebbe che si parli dei quadri senza nemmeno aver coscienza della loro realtà”. L’ottimo lavoro di Daniele Barni ci introduce nel cuore di questo vivace dibattito, offrendone una lettura articolata e ricca di spunti; ma soprattutto ripercorrendo, attraverso mirate esemplificazioni, il metodo seguito dai quattro illustri studiosi nel dare un nome e una precisa collocazione storica a quelle opere che Bernard Berenson evocativamente chiamava homeless. È merito dell’autore aver fornito in questo studio una sintetica ma ben informata storia della connoisseurship, presentata come rivisitazione di procedimenti agnitivi e interpretativi che partendo dall’empirìa mettono in atto, talvolta, sofisticate eleborazioni intellettuali.

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Introduzione L’arte dell’attribuzione

I conoscitori sono individui dall’occhio palestrato, con il quale sono capaci di spostare l’opera d’arte dall’anonimato al suo autore. Il rafforzamento delle loro retine avviene sull’opera d’arte stessa, di cui inseguono senza fermata le linee, circondano i volumi, radono le profondità, scalano i cordoni di luce e scendono i gradi dell’ombra. I conoscitori, però, sono di necessità pure capaci di pesare con l’occhiata la qualità, l’originalità e lo stile dell’opera d’arte, dunque possono assumere persino le fatiche del critico e, cronicizzando l’osservazione, quelle dello storico dell’arte1. Anzi, per precisione, si potrebbe essere grandi conoscitori anche senza essere critici e storici dell’arte, ma certamente non si potrebbe diventare grandi critici e storici dell’arte senza essere diventati almeno un po’ conoscitori2: perché il critico e lo storico giudicano correttamente soltanto attraverso opere d’arte di attribuzione certa; e perché i loro giudizi avvengono esattamente sulle medesime tacche di quelli del conoscitore3. Lo spostamento dell’opera d’arte dall’anonimato al suo autore si chiama ‘attribuzione’, e la capacità necessaria al conoscitore per tale operazione ‘arte dell’attribuzione’ o, con ibrido franco-inglese, ‘connoisseurship’. Oggi, dopo generazioni di studi, il conoscitore, il critico e lo storico dell’arte possono maneggiare mezzi d’indagine numerosi ed efficaci, 1  Grassi L.-Pepe M., Dizionario della critica d’arte, UTET, Torino, 1978, p. 124. 2  Zeri F., Confesso che ho sbagliato, con la coll.ne di Mauriès P., Longanesi, Milano, 2009, p. 38. 3  Grassi L.-Pepe M., op. cit., p. 124.

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oltre ad accedere all’opera d’arte da diversi indirizzi4: quello formale e stilistico; quello iconografico e iconologico; quello sociologico; quello psicoanalitico; quello strutturalistico; e quello antropologico. Lungo la direzione formale e stilistica si ricalcano i tragitti delle forme e dello stile, come la linea, il volume, lo spazio, la dimensione, il rilievo, il movimento e il chiaroscuro. Attraverso quella iconografica e iconologica, invece, si cerca di toccare la comprensione e l’interpretazione del soggetto dell’opera d’arte, ovvero del contenuto rappresentato: con l’iconografia si tenta di svelare i tipi e i generi delle figurazioni, le fonti letterarie d’ispirazione e gli schemi della composizione figurale; con l’iconologia, a sua volta, si cerca di svelare i significati simbolici e allegorici della composizione figurale e di metterli in fermentazione con l’ambiente dell’artista, del committente e del pubblico, al fine di farne esalare l’etere culturale. Lungo la direzione sociologica, poi, si percorrono i rettifili, gli incroci e le svolte della società che ha emesso l’opera d’arte, nella quale si trovano di nuovo gli artisti, i committenti e il pubblico, in modo da rintracciare il come e il perché da quel preciso ambiente sia potuto gemmare quel tipo d’arte preciso: si indagano alla lente la condizione e i condizionamenti sociali e contestuali dell’artista; i materiali, le tecniche e l’organizzazione della lavorazione; la cultura e le ideologie della committenza; la produzione culturale nella produzione materiale; le modalità e le tipologie di recezione delle opere; i laboratori dell’arte; la fisiologia tutta, insomma, delle operazioni d’arte e del loro ambito. Attraverso quella psicoanalitica, poi, ci si può infiltrare nella mente e nel carattere dell’artista per scovarne le complicità con l’opera d’arte: in particolare, si tenta di risolvere gli intrichi e gli intrighi tra inconscio, sogno, incubo, fobia, ossessione con le forme e con lo stile; inoltre, si controllano i modi della percezione oculare e socio-culturale dell’arte. Lungo la direzione strutturalistica, invece, ci si riconduce ai congegni delle forme interne e delle figurazioni dell’opera d’arte: cioè, alle 4  Sciolla G. C., Studiare l’arte: metodo, analisi e interpretazione delle opere e degli artisti, UTET, Novara, 2010, pp. 145 e ss.

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macchinazioni narrative; alle posizioni e opposizioni dei profili e delle sagome e alle loro sovrapposizioni culturali e simboliche; alle coincidenze e alle discrepanze visive e mentali nella fruizione dell’opera d’arte, oggi e nel passato. Attraverso quella antropologica, infine, si prova a recintare la fertilità geografica, storica, economica, sociale e culturale in cui siano di rigoglio le opere d’arte e d’arte applicata, cercando di carpirne i momenti produttivi, tecnici, materiali come prove testimoniali dell’epoca. Nella sua attività il conoscitore correda le opere d’arte di etichette tipo formulari che prezzino la sua intuizione. In ordine decrescente di valore: il ‘nome dell’autore’, per marchiare il dipinto con la certezza dell’attribuzione; ‘attribuito a’, per sussurrare con formalità che la convinzione del museo, della pinacoteca, della galleria o della collezione ospitanti sia tarlata da qualche riserva sull’attribuzione del dipinto; ‘copia di’, per ammettere che il dipinto non sia l’originale ma che ne sia un riflesso contemporaneo o successivo; ‘seguace o cerchia di’, per raccontare la disdetta di aver capito che il dipinto sia di pennello ammaestrato in ambiente al limite con quello del maestro, senza però individuazioni precise; ‘scuola o bottega di’, per rivelare che il pennello del dipinto, pur anonimo, abbia piluccato sulla tavolozza di un discepolo o di un aiuto del maestro; ‘alla maniera di’, etichetta usata solitamente da Federico Zeri per descrivere un dipinto che abbia soltanto qualche allaccio consumato e indefinibile con la maniera di un maestro; ‘imitazione di’, per dire con educazione che il dipinto abbia subito passate di pennelli successive e non originali oppure, peggio ancora, che sia un falso conclamato5. Giorgio Vasari, già nel Cinquecento, definendo etimologicamente “maniere”6 le mani dei vari artisti nelle varie epoche, tentava così per mezzo di stile, o appunto di maniera, di incasellare l’arte italiana in un ri5  Secrest M., Bernard Berenson: una biografia critica, trad. it., Arnoldo Mondadori, Milano, 1981, p. 295. 6  Vasari G., Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Newton Compton, Roma, 2001, pp. 31 e ss.

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ordino e, come ad esempio per la sua collezione di disegni, di brancicare verso qualche attribuzione. Tuttavia, solamente con lo straripare del collezionismo e del mercato d’arte cominciarono ad affiorare i primi conoscitori: si ebbe così la necessità di marcare le opere d’arte con etichette di verità, per neutralizzare copie e falsificazioni. Per l’intero Seicento, non solo collezionisti e recensori d’arte, come Giovanni Pietro Bellori, Giulio Mancini, Filippo Baldinucci, Carlo Cesare Malvasia, Marco Boschini in Italia, André Félibien e Roger de Piles in Francia, ma anche pittori, come Carlo Maratta e Pieter Paul Rubens, azzardavano sul tappeto dell’attribuzione7. Baldinucci paragonava direttamente il “colpo di pennello” del pittore alla calligrafia dello scrittore e nella Lettera (1681) al marchese Vincenzo Capponi si domandava se esistesse un codice di giudizio per colui che volesse “farsi giudice delle maniere”8: concludendo, però, che mentre il carattere della scrittura rimaneva più o meno simile, lo stile dei pittori sarebbe potuto apparire più volte mutevole. Soltanto nel Settecento, Jonathan Richardson delineò per la prima volta il profilo del perfetto conoscitore d’arte e la procedura della sua azione attributiva nell’opera, dal titolo serpeggiante, The Connoisseur, an Essay in the Whole Art of Criticism a sit Relates to Painting and a Discourse on the Dignity, Certainty, Pleasure and Advantage of the Science of a Connoisseur (1719): il conoscitore doveva essere un gentiluomo colto, assiduo nei luoghi d’arte come e soprattutto l’Italia, vagliatore affinato e raffinato di immagini di opere, abile nella mnemotecnica degli stili; i suoi fogli firmati e impressi a ceralacca, le expertises, divennero allora veri assegni di scambio nei mercati d’arte9. Sempre nel Settecento Luigi Lanzi, attraverso la sua opera Storia pitto7  Enciclopedia dell’Arte, Garzanti, Milano, 2002, p. 68. 8  Cit. in Grassi L.-Pepe M., op. cit., p. 124. 9  Dizionario della pittura e dei pittori, Einaudi, Torino, 1989, vol. I, pp. 164-165.

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rica dell’Italia dal risorgimento delle Belle Arti fin presso al fine del XVIII secolo (1800), compattò le fondamenta di tutti gli studi successivi: frazionò l’Italia artistica in scuole regionali e le scuole in periodi, però poi risommò i periodi e le scuole gli uni agli altri secondo addendi di stile; non rinunciò, inoltre, al procedimento empirico sull’opera d’arte, sulla quale individuava la “maniera” “da un andamento di mano, un giro di pennello, un segnar di linee più o meno curve, più o meno franche, più o meno studiate”10; anzi, lo sintetizzò con un nuovo procedimento nel quale si serviva della cronologia comparata e dell’analisi dei documenti e della letteratura d’arte. Ai primi dell’Ottocento, infine, nel ripullulare di musei, tra i primi il Louvre, di riviste e di cataloghi d’arte, ovunque si voleva aver bisogno di esattezza di giudizio. I conoscitori, allora, si affrettavano a sottoporre come a brevetto i loro metodi di attribuzione, pretesi esatti11. Inizialmente, ci si illuse, soprattutto in Germania, che tale esattezza potesse trovarsi fossilizzata nelle miniere documentarie di archivi e biblioteche, ma velocemente ci si accorse che i documenti e le testimonianze sarebbero potuti essere imprecisi o, magari, anche falsificati12. L’unica certezza non poteva che risultare quella cavata, eventualmente, da dentro le opere d’arte stesse. Perciò, sempre sul piano dell’opera d’arte, si divaricò un bivio: da una parte, l’attribuzione scientifica di Giovanni Morelli; dall’altra, quella intuitiva di Giovan Battista Cavalcaselle. Lungo entrambe le direzioni si percorreva la storia dell’arte soffermandosi sulla forma delle opere e sullo stile degli artisti: però, mentre Morelli, già medico, indugiava più sulle forme e le anatomizzava, Cavalcaselle, da storico, indugiava più sugli stili, temperandoli. Da quel bivio si prolungarono due direzioni attributive: quella di Morelli

10  Cit. in Grassi L.-Pepe M., op. cit., p. 59. 11  Dizionario dell’Arte, op. cit., p. 68. 12  Venturi L., Storia della critica d’arte, Einaudi, Torino, 1982, pp. 221-223.

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proseguì attraverso studiosi come Bernard Berenson; quella di Cavalcaselle attraverso studiosi come Adolfo Venturi; finché altri studiosi, come Roberto Longhi e poi Federico Zeri, non le avrebbero riannodate in metodologie complete, totali. La direzione che mi ha attratto come il Nord attrae l’ago e che ho percorso nella poca carta seguente è stata quella da Morelli attraverso Berenson. Questi, uniti a Longhi e a Zeri, sono i conoscitori che ho considerato. Magari, in prossime trattazioni potrebbe essere richiuso, su Cavalcaselle attraverso Venturi, il circuito attributivo qui avviato. Le ragioni della scelta sono state tre: la prima di ordine narrativo, poiché le vite di Morelli e di Berenson sono cave di pepite diegetiche; la seconda di ordine biografico, in quanto Berenson ebbe a maestro Morelli, Longhi ebbe, fra gli altri, Berenson, e Zeri, fra gli altri, Longhi, e in quanto ognuno ebbe con il predecessore l’incrocio di vita decisivo; la terza di ordine culturale, perché l’ascendente della scienza sulla mentalità contemporanea mi ha indotto, probabilmente come per tic, a orientarmi verso chi impugnasse o pretendesse di impugnare un metodo scientifico di attribuzione. Ho suddiviso la trattazione in sei parti: oltre alla presente introduzione, le conclusioni e, in mezzo, i quattro capitoli riservati secondo cronologia a Morelli, a Berenson, a Longhi e a Zeri. A sua volta, ogni capitolo è diviso in tre sezioni: la prima riferita alla vita del conoscitore, la seconda al suo metodo attributivo e la terza a un esempio di attribuzione. Nelle sezioni sulla vita, così come nell’introduzione e nelle conclusioni, sono soprattutto le mie parole a occupare le righe, e anche i pensieri altrui, il cui riferimento è comunque citato in nota, passano attraverso rielaborazioni e adeguamenti miei; nelle sezioni sugli esempi attributivi, al contrario, sono le parole dei conoscitori a fare per lo più volume; mentre nelle sezioni sul metodo di attribuzione la divisione va circa per la metà. Rarissime volte, invece, ho trascritto direttamente le parole di altri studiosi d’arte, e cioè quando il rielaborarle e il riadattarle avrebbe prodotto inutili doppioni o il rischio di sfumature interpretative. Con le citazioni dirette,

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tuttavia, inframmezzate per intero all’opera e non relegate all’appendice, non ho voluto avvantaggiarmi per scorciatoie poco volenterose, ma lasciare luogo al racconto senza mediazioni di chi sia a sua volta raccontato: per poterne cosÏ capire i toni, il lessico, la morfologia, la sintassi, i modi e, quindi, la personalità .

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