9 minute read

L LA COPERTINA Antonio Pronostico | OPINIONI Fabrizio Federici La

La copertina di

Antonio Pronostico

Advertisement

Antonio Pronostico è nato nel 1987 a Tricarico e il giorno dopo si è trasferito a Potenza, dove è cresciuto. Ora vive a Roma. Ha studiato comunicazione visiva a Firenze, dove ha iniziato a disegnare e con due grandi amici ha fondato il Collettivomensa, rivista autoprodotta di letteratura e fumetto. Nel 2020 espone i suoi lavori presso la Galerie Glénat a Parigi. Nel 2019, insieme al regista Fulvio Risuleo, pubblica Sniff, il suo primo graphic novel, edito da Coconino Press. In seguito pubblica Passatempo (2019), Cinque – Giovanni Truppi (antologia, 2019) e Tango (2021), sempre con Coconino. Ha collaborato con L’Espresso, la Repubblica (web), La Stampa (web), Internazionale, Jacobin Italia, Artribune, Donna Moderna.

“La cover che ho realizzato punta a essere il meno descrittiva possibile e ci porta dritti davanti a qualcosa di meraviglioso che non vediamo, ma che accende in noi quel forte e inaspettato sentimento che è la sorpresa”.

La storia di Roma spiegata al museo

Fabrizio Federici storico dell'arte

IMusei Capitolini sono bellissimi ma la parte romana semplicemente non spiega Roma”.

Con queste parole, estratte da un tweet dello scorso 18 agosto, Carlo Calenda accendeva una delle polemiche che maggiormente hanno segnato l’ultima campagna elettorale per le amministrative. Via i Capitolini, e via pure il Comune, sostituiti da un immenso museo dedicato alla storia antica della città, dal granitico nome di Museo Unico Romano.

“Spiegare” la storia dell’Urbe, spazzandone via un capitolo fondamentale, che è al contempo una pagina di primaria importanza della storia del collezionismo e dei musei, trattandosi della prima istituzione pubblica di questo genere aperta al pubblico (1734). La proposta calendiana, peraltro irrealizzabile, è già stata ampiamente (e giustamente) criticata, respinta, sbeffeggiata da storici, direttori di museo, giornalisti. Lasciamo dunque stare la pars destruens e proviamo a vedere se c’è del buono, almeno al livello delle intenzioni, in quanto ha proferito il candidato sindaco.

UN MUSEO UNICO PER LA ROMANITÀ

Con il suo tweet Calenda sembra aver riaperto – non si sa quanto consapevolmente – un annoso dibattito: se vi sia bisogno a Roma di un museo che “spieghi” la storia della città, ai cittadini e ancor di più ai turisti, che spesso, nei loro frettolosi tour, posano il piede sul suolo dell’Urbe senza sapere nulla di consoli, imperatori e pontefici. Un museo siffatto sarebbe senz’altro utile: ma come realizzarlo? L’impresa, per un luogo dalla storia unica come è la Città Eterna, è di quelle da far tremare i polsi. Si potrebbe pensare a una grande struttura, la cui prima parte sia occupata da un grandioso affresco sulla storia di Roma, capace di informare e al tempo stesso affascinare il visitatore, appoggiandosi su pochi reperti altamente significativi e sulle nuove possibilità messe a disposizione dalla tecnologia. Un’introduzione che sia in grado di trasmettere al pubblico poche e fondamentali nozioni, di fornire come una mappa essenziale con cui poi il turista possa avventurarsi alla scoperta della città. All’introduzione dovrebbero seguire gli approfondimenti, in forma di una o più mostre dedicate a momenti e temi specifici, allestite con pezzi provenienti in massima parte dalle raccolte civiche e statali dell’Urbe. Mostre che “spieghino” porzioni della storia della città, puntando su un taglio, per l’appunto, storico, sostenuto da una narrazione efficace e coinvolgente.

Un museo che spieghi la storia di Roma sarebbe utile: ma come realizzarlo?

E LA BASILICA VATICANA?

Il discorso vale anche Oltretevere. Non esiste un museo della Basilica di San Pietro. A dispetto del fatto che i musei delle chiese principali di alcune città italiane (Milano, Firenze, Pisa) sono stati in anni recenti magnificamente rinnovati e si annoverano oggi tra gli elementi di spicco dei panorami museali di quelle città, manca un museo che racconti la storia della Basilica Vaticana. Esiste un Museo del Tesoro ma, come si intuisce dal nome, non si tratta che di una selezione di pezzi eccellenti, che non pretendono di dare forma a un racconto. Molti oggetti (opere d’arte, modelli) si trovano nei locali annessi alla basilica, non accessibili; altri “ingolfano” il già ricchissimo percorso dei Musei Vaticani (della Pinacoteca, in particolare).

Un grande museo che racconti la storia di San Pietro sarebbe, naturalmente, strepitoso, sia per l’importanza religiosa, culturale, artistica del sito, che per l’avvincente storia architettonica del complesso, con una basilica di Età Moderna che ha preso il posto di una assai più antica, della quale peraltro il visitatore non avvertito ha scarsa contezza, nell’esiguità di tracce materiali che il tempo costantiniano ha lasciato.

Il restauro della Pietà di Michelangelo

Antonio Natali storico dell’arte

Il museo che porta l’arte fuori dai musei

Stefano Monti economista della cultura

olte delle espressioni artistiche contemporanee stanno ragionando su linguaggi che potrebbero rendere concretamente operabile il concetto di ubiquità dell’arte. Eppure pochi pensano a quante trasformazioni questi processi possano condurre, anche in termini di luoghi espositivi. Oggi il museo rappresenta il luogo espositivo per eccellenza: non solo per coerenza contenutistica, ma anche e soprattutto perché il museo è il luogo che garantisce i migliori standard di sicurezza legati alla salvaguardia delle opere. Se così non fosse, la geografia urbana delle nostre esposizioni disegnerebbe forse delle mappe diverse: molta arte contemporanea, ad esempio, più che in un museo starebbe meglio in differenti tipologie di strutture, ma si tende ancora a preferire i musei perché sono i luoghi più sicuri, e che individuano le organizzazioni più professionali per la gestione delle opere.

Con le nuove forme d’arte, sia quelle a oggi esistenti, sia i linguaggi che è lecito attendersi nell’immediato futuro, è possibile che tale centralità del museo non rappresenti più un elemento dato per scontato. Si pensi ad esempio alle mostre di opere d’arte digitale. Se l’opera è digitale, e se non può quindi rompersi irrimediabilmente, allora nulla toglie che possa trovare spazio in un supermercato o in un garage. Così come nulla vieta che possa continuare a essere allestita nei musei, se ci sono le condizioni ideali per la fruizione. ANDARE OLTRE IL MUSEO

Finora i musei hanno rappresentato la sede naturale delle mostre e i professionisti adattavano i display alla struttura. Se tuttavia i musei divengono soltanto una delle potenziali tipologie di strutture espositive, allora la possibilità che altre tipologie di immobili presentino maggiore coerenza culturale con la mostra va presa in considerazione. E qui i musei dovrebbero, per una volta, iniziare ad anticipare i tempi, intercettando

llo scadere del 2018 l’Opera del Duomo di Firenze decise di metter mano al restauro della Pietà di Michelangelo, nota come Pietà Bandini. Quella risoluzione trovò prontamente il sostegno generoso dei Friends of Florence, la Fondazione americana che da oltre vent’anni s’accolla gli oneri della tutela di buona parte del patrimonio d’arte di Firenze (incluse quelle opere che, per esser meno celebrate e perciò meno ambìte dal turismo attuale, non troverebil cambiamento e modellandosi per poter mantenere la propria centralità. I musei continueranno senza dubbio a rappresentare la sede naturale per molte mostre. Ma per molte altre il processo di evasione dal museo sarà sempre più evidente. A meno che il museo non inizi ad agire come struttura di servizio più che come semplice luogo espositivo, creando partnership con il produttore della mostra, fornendo competenze e coordinamento logistico. bero conforto negli oculati mecenati nostrali). Le operazioni di restauro sono state più volte inceppate dalla malignità d’un morbo di cui è venuto in uggia anche il nome. E però l’impresa – comprensiva delle indagini scientifiche che costituiscono la premessa d’ogni intervento conservativo – ha fatto comunque il suo corso, arrivando a compimento nel settembre di quest’anno 2021 e sùbito offrendone gli esiti ai visitatori. A vero dire, il marmo di Michelangelo non è stato mai inibito a chi visitasse il Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. La Pietà, ogni volta che la legge consentiva l’accesso alle sale, poteva da ognuno essere guardata, conforme alla pratica del “cantiere aperto”. OSSERVARE DA VICINO LA PIETÀ

Il restauro dunque s’è svolto sotto gli occhi di tutti; e tutti potevano seguire l’avanzare della pulitura d’un marmo che pian piano perdeva quell’omogenea tonalità ambrata, cui nei secoli era pervenuto a furia di stesure di materiali incongrui, vòlte appunto a uniformarne le apparenze. Ma era proprio quell’uniformità a smorzare i palpiti d’una scultura la cui lavorazione è segnata da gradi diversi di compiutezza: dall’appena sbozzato al quasi finito.

La pulitura sensibile e discreta, ch’è la sostanza dell’intervento odierno, favorisce una lettura del marmo struggente e criticamente proficua. E chiunque lo desideri potrà – da ora alla fine di marzo del 2022 – profittare delle strutture

Adel cantiere di restauro per salire al piano su cui posa l’opera di Michelangelo e avvicinarsi al marmo M fin quasi a toccarlo, potendo finalmente apprezzarne da vicino il variegato trattamento. E l’occasione sarà buona per darsi al contempo ragione del tenore d’un museo in cui sono esposte creazioni che ne fanno uno dei maggiori istituti al mondo quanto a scultura medioevale e umanistica: da Arnolfo di Cambio a Donatello, da Andrea Pisano a Ghiberti, da Luca della Robbia a Verrocchio e Pollaiolo, su su fino a Michelangelo. Fino alla fine di marzo chiunque potrà apprezzare da vicino il restauro dell’opera NON SOLO BRUNELLESCHI Sia detto questo perché non c’è nei fiorentini e neppure negli stranieri la coscienza piena della qualità altissima del Museo del Duomo di Firenze. Gli ospiti forestieri accorrono infatti numerosi ai luoghi dell’Opera di Santa Maria del Fiore, ma la loro aspirazione massima è salire alla lanterna in cima alla cupola di Brunelleschi per godere della veduta di Firenze dall’alto. È segnatamente quel belvedere la loro meta. L’epifania mirabile di colli e case che da lassù si squaderna giustifica davvero il desiderio di quell’ascesa. Siccome però molti (peraltro politicamente autorevoli) s’illudono che sia ognora più diffusa ai giorni nostri l’aspirazione alla “bellezza”, mi pare sia necessaria una riflessione su quelli che vengono interpretati come interessi culturali; giacché un conto sono i paesaggi e gli spettacoli della natura (davanti ai quali l’uomo – da sempre, non da oggi – si commuove), altro conto sono le opere di cui proprio l’uomo è artefice. Mi convincerò d’un comune anelito a incontrare la “bellezza” quando vedrò varcare la soglia del Museo del Duomo da almeno la metà di quelli che discendono dal colmo della cupola brunelleschiana, lì a due passi. Nulla toglie che l’opera d’arte digitale sia esposta fuori dai musei

IL MUSEO COME ATTIVATORE DI OPPORTUNITÀ

Questa strategia potrebbe trasformare una potenziale criticità in un’opportunità concreta di estendere ancor più il ruolo del museo come attivatore e non come semplice attrattore culturale. Sfruttando la propria rappresentatività culturale, il proprio brand, le proprie relazioni sul territorio e le competenze presenti in molti musei, si potrebbero anche creare strutture leggere di collaborazione con professionisti locali per favorire la nascita di nuovi format di mostre: dal real-estate scouting a campagne di comunicazione meno istituzionali, il museo, attraverso opportune scelte strategiche, potrebbe acquisire un ruolo ancor più importante nella vita cittadina, strutturando partnership pubblico-private realmente remunerative per il privato, e che non si limitino a vedere nella cultura una semplice vetrina.

Intervenire nelle periferie, piuttosto che fare campagne di promozione per le stesse, agire da riqualificatore immobiliare, piuttosto che ospitare convegni sulla rigenerazione urbana, essere il museo stesso il motore che porta l’arte fuori dai musei, anziché subire un processo che, per alcune tipologie di linguaggi, più che naturale pare quasi inevitabile.

This article is from: