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L GIRO D’ITALIA Carlo Antonelli Gaia Cambiaggi || 14 L Massimiliano

Monte di Portofino

CARLO ANTONELLI [ giornalista e produttore culturale ] GAIA CAMBIAGGI [ artista e fotografa ]

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Milano

Artribune #62

Venezia

Artribune #58

nzitutto dobbiamo parlare de Il Monte. Il A fatto che tecnicamente si chiami Parco Regionale di Portofino è una fesseria. È Il Monte, e basta. Altro disturbo da togliersi subito dai piedi è l’intelligenza degli alberi e della popolazione vegetale e dei funghi, poi, ci mancherebbe. L’abbiamo sempre sentita dentro, ben prima che Stefano e Anna ce la venissero a raccontare. Il Monte, subito appena ti avvicini, entra dentro le tue fibre e ti rende muschio tra i muschi, felce tra le felci. Subito. È un’entità superiore, un GGG enorme di cui vediamo fisicamente una grande zampa con le varie dita (mica cinque, di più), e anche un pezzo di caviglia. E il resto del torso e delle gambe e delle braccia è sparso dentro il polmone verde, le conche muscolose e insieme morbidissime e le alte vette appenniniche che sembrano nascere da mandibole chiamate (nel complesso) Entroterra.

Il Monte respira e ti fa respirare, subito. Il Monte ti cura se stai male, subito. Il Monte ti vuole bene qualunque cosa tu abbia combinato, immediatamente. E, se verrai in autunno (ovvero con 25 gradi di media), Il Monte ti accarezzerà e centomila corbezzoli ti faranno esplodere gli occhi. Altro che le misteriose sostanze che certamente assumeva Rubaldo Merello (pittore, 1872-1922) quando ossessionato cercava prima dei tempi di farci capire l’alterazione della percezione – anche gloomy – che sta qui ovunque e sulle cui tracce Gaia Cambiaggi si muove come un animale bipolare.

Scegliamo una strada tra le mille, scegliamo la via del mare. È un lungo dito cui arrivi scorrendo una specie di lunga venatura, da San Rocco di Camogli in giù. Fino alla Punta (Chiappa) e a Porto Pidocchio, nomuncoli che non rendono giustizia alla maestà del luogo, non a caso dedicato alla Madonna della Stella Maris, Madonna con tanto di cappelletta sullo scoglio-penisola appuntito, dove in modo avventuroso alcuni hanno fatto l’amore a ora tarda, con piena benedizione della Signora.

Se continui, anche con un vaporetto pubblico, la magnificenza delle dita del GGG diventa chiara, e la Storia viene fuori: i bunker di cemento grigio meravigliosi di una qualche Guerra Mondiale, la Cala degli Inglesi, la Cala dell’Oro (storie di pirati, reali), la Torre Saracena (che ricorda le frequentissime incursioni nordafricane), l’Abbazia di San Fruttuoso, regno di frati pescatori cattivissimi contro tutti, e la torre dei Doria con l’araldo stampato su un lato della leggendaria famiglia che ha fondato l’abbazia per ragioni ereditarie e dalla storia grandiosa che arriva fino a noi (la discendente Ginevra Doria, per dire, lavora con Paola Clerico al progetto

Cabras (Oristano)

Artribune #61

espositivo Case Chiuse di Milano). E poi giù lungo il Parco Marino protetto fino alla grande scogliera – dalla quale precipitò la contessa Augusta – e girando l’angolo trovi la stessa Portofino.

Da lì risalendo ci buttiamo dentro il verde che è (again) pari a una botta di acido: tutto verde, verde di ogni tipo, macchia mediterranea vera (non tanto per dire), bacche, pini, fiori, agave, capanne che sembrano esplodere sotto la luce, rami secchi, di colpo il blu e luce dappertutto tra le ombre. Risalendo di nuovo la china fino alla seconda Vetta, passando per gli Olmi e piano piano fino ai dolmen di Pietre Strette, si torna a una delle basi, al vecchio albergo/sanatorio liberty abbandonato che guarda i due golfi (ci arrivi lungo una strada stranamente piatta, senza contare poco dopo il bosco di lecci secolari detto Bosco delle Fate, ed è subito Signore degli Anelli).

Si scende, pieni di luce, e si approda da Nicco, dal 1974 grandi cocktail con un servizietto di snack, immobile negli anni, e tra questi un piccolo würstel trafitto tagliato in due da un pezzetto di gruviera. Il tempo è sparito da tempo. Di nuovo un golfo, il Golfo Paradiso. Nell’Hotel Paradis (ora ovviamente vuoto), Nietzsche – che veniva spesso – scrisse Aurora.

Palermo

Artribune #59-60

GIRO D’ITALIA

è una guida sentimentale che esplora la Penisola, dai più piccoli ai maggiori centri abitati. Seguendo la metafora del ciclismo, procede con lentezza, attraverso lo sguardo dei fotografi associato alle parole di autori di varie discipline. Un viaggio in soggettiva, per tracciare una mappa inedita del nostro Paese – un viaggio curato da Emilia Giorgi.

BIO

Gaia Cambiaggi (1977) è una fotografa e artista la cui ricerca guarda all’architettura, alla città e ai paesaggi artificiali in relazione alle comunità che li abitano. Le sue opere sono state esposte presso istituzioni internazionali come la Biennale di architettura e urbanistica Shenzhen-Hong Kong, Experimenta (Biennale del design di Lisbona), la Biennale di Architettura di Venezia, Manifesta Palermo (eventi collaterali). Oltre alla sua produzione personale, lavora su commissione ed è stata docente di Fotografia d’Architettura presso l’Istituto Europeo di Design di Torino. In collaborazione con Benedetta Pomini e Delfino Sisto Legnani si dedica a un’approfondita ricerca nell’archivio fotografico di Ramak Fazel presso la galleria Viasaterna.

a destra e nelle pagine successive: Gaia Cambiaggi, Monte di Portofino, 2021. Courtesy l’artista

LA CARICA DEI NON ASSESSORI ALLA CULTURA

Di solito quando scrivo questi editoriali a valle delle elezioni amministrative è tutto un considerare quello o quell’altro assessore. Cosa farà, come si muoverà, che cosa significa quella nomina, perché quella figura così competente è rimasta fuori. E ce ne sarebbe anche stavolta, eccome. Certo, mi sarebbe piaciuto commentare l’assessore alla cultura di Roma, ma mentre scrivo (il 27 ottobre, a nove giorni dal ballottaggio) Roberto Gualtieri non ha ancora una giunta. Potrei poi scrivere di Tommaso Sacchi, con questo curioso trasloco di assessore sull’asse Firenze-Milano. E potremmo anche discettare sull’interessante figura di Rosanna Purchia, nuovo assessore alla cultura di Torino, dove ha stravinto un sindaco che era dato per perdente da tutti quanti.

E invece no. Notizie su questi assessori – pure su quelli ancora non nominati – le troverete nel nostro sito, qui sul magazine parliamo del dato principale che emerge da queste elezioni e no, non è l’astensionismo. Faccio riferimento ai non-assessori, eccolo il dato. Non solo Firenze, dove appunto Sacchi è andato via ma nessun sostituto è stato nominato. Ma anche in città altrettanto cruciali per la vita culturale del Paese come Bologna o Napoli. In tutte queste grandi aree urbane, queste capitali culturali, la delega alla cultura se l’è presa il sindaco. Se l’è tenuta lui.

Il sindaco che fa anche l’assessore alla cultura fotografa insomma una città che si disimpegna sulla cultura o una città che ha invece nella più alta considerazione le attività culturali?

A questo punto a noi sta l’analisi. Perché è avvenuto questo? Due possibili risposte, tutte e due sensate, tutte e due da soppesare. La prima risposta è quella “media”, di chi magari è blandamente appassionato di faccende culturali: “Ah, fanno così perché non gliene frega nulla della cultura, manco gli assessori nominano”. La seconda risposta è più articolata: non sarà mica che la delega alla cultura, che un tempo era

più una bega che un onore, è diventata qualcosa di profondamente

necessario per gestire a pieno il governo di una città, la sua identità, la sua immagine, il rapporto con le aziende che vi investono, i flussi del turismo? Il sindaco che fa anche l’assessore alla cultura fotografa insomma una città che si disimpegna sulla cultura o una città che ha invece nella più alta considerazione le attività culturali?

Qualche dubbio ulteriore lo devono instillare le considerazioni di Gaetano Manfredi, il quale, da neoeletto sindaco di Napoli, ha fatto come i colleghi di Bologna Lepore (che nella precedente giunta faceva l’assessore alla cultura e ha deciso di farlo anche da sindaco!) e di Firenze Nardella: s’è tenuto per sé l’assessorato culturale. Come mai? Non ha trovato nessuno che lo volesse fare? Ha preferito istituire altri assessorati su altri temi e poi aveva finito i posti? Lui la vede in maniera diversa: “L’ho fatto perché la cultura è l’asset più strategico e importante per la città, in particolar modo in questa fase iniziale. La mia scelta è stata orientata al desiderio di valorizzare al massimo questo settore, mettere in campo attraverso di me tutte le energie cittadine al fine di creare un grande piano strategico culturale. Non avrò tempo? Beh, mi circonderò di una squadra competentissima all’insegna dell’ascolto e del dialogo”.

Insomma, assessorati depotenziati e penuria di interlocutori o

semmai super assessorati culturali con a capo addirittura il

primo cittadino? Inutile dire che ci faremo particolarmente attenzione nei prossimi mesi.

ECCO COME HO PORTATO CULTURA E PATRIMONIO VISIVO NELLA PUBBLICITÀ

Cinque anni esaltanti, trascorsi a creare, produrre e pianificare la comunicazione del più grande gruppo di comunicazione italiana: la TIM.

Come tante storie, anche questa è iniziata per caso e dalla porta più potente del nostro Paese: la sua storia e la sua arte. Infatti all’inizio entro in Fondazione TIM e ho l’opportunità di proporre il progetto di recupero del Mausoleo di Augusto. Diamo il via, così, al più importante atto di mecenatismo del Paese; cosa giusta per il luogo che aveva accolto le spoglie di Mecenate (sito sul quale incombeva l’eco di riconoscersi nel destino lessicale di un altro suo ospite: Vespasiano). E in epoca di metaversi, quest’anno abbiamo realizzato il viaggio digitale nelle tante vite del monumento e il primo a compierlo è stato Mark Zuckerberg (collegato coi suoi Oculus dalla sua casa di Palo Alto).

Comunque, nel 2016 parte l’avventura commerciale e, grazie all’intuizione della mia metà, Allegra, individuo un testimonial che diventerà il testimonial del Gruppo: Sven Otten, il ballerino vitruviano (quello che balla nella circonferenza perfetta del monoscopio dei nostri monitor). E da quel momento cominciamo a farlo vivere nei luoghi più iconici e accomunanti del Paese: un flash mob sulle scalinate di piazza di Spagna, dove il nostro logo viene composto dalla coreografia dei ballerini. Poi passiamo ad affiancare Sven alla mitologia contemporanea e ai suoi supereroi, scegliendogli come partner una divinità del nuovo Olimpo: Spider-Man. Ha colori uguali ai nostri, il rosso e il blu, e condivide un’identica competenza: “È il massimo esperto di reti”. Per questo lo facciamo volare prima sullo skyline delle nuove architetture di Milano e poi di San Marco e Rialto a Venezia.

Quindi lavoriamo a identificare uno spazio architettonico che definisca la centralità della nostra azienda nel nostro Paese. Scegliamo lo stadio romano di Domiziano, la piazza Navona di Innocenzo X, che trasformiamo nella pista di atterraggio – una citazione di Grazia Toderi e della sua Mirabilia Urbis – del mito interstellare di Star Wars (alla continua ricerca di connessione). La nostra piazza sarà però circondata non da Roma, ma dagli orizzonti architettonici e iconici dell’intero Paese. E il “dominio” visivo su quel luogo sarà totale. Cominciamo a cavalcarne le stagioni: in primavera un’infiorata conquista il selciato; in estate allaghiamo l’invaso e riconsegniamo lo spazio ai seicenteschi

Il viaggio di TIM

Mausoleo di Augusto Piazza di Spagna

Piazza Navona

Villa di Massenzio

Milano

Sanremo Venezia Portovenere

Palo Alto

In epoca di metaversi, quest’anno abbiamo realizzato il viaggio digitale nelle tante vite del Mausoleo di Augusto e il primo a compierlo è stato Mark Zuckerberg.

giochi acquatici (con tanto di Federica Pellegrini e musical all’Esther Williams); in inverno facciamo ghiacciare la piazza dove JSM pattinerà con Carolina Kostner. Citiamo quindi l’esercito di terracotta contrapponendogli un pacifico plotone di automi elettronici accesi da un telefonino: i nostri robot TIM detentori ancora del Guinness mondiale per questa performance. Poi leghiamo la piazza al Festival di Sanremo (kermesse di cui siamo sponsor unici). Il premio per il vincitore del più importante evento musicale (non esistono fenomeni equivalenti capaci di attrarre oltre il 50% del pubblico di un intero Paese per più di cinque ore e per cinque giorni consecutivi) è composto da un leone e una palma: due elementi che si ritrovano nella Fontana dei Quattro Fiumi tra il Gange e il Nilo. Quindi sarà un morphing a unire i due luoghi: Roma e Sanremo. E con un altro volo connettiamo i Måneskin, nostri testimonial, alla piazza. Infatti, con una benaugurante citazione del concerto Live at Pompei (Pink Floyd, 1971), portiamo il gruppo romano a Massenzio, costruendo un palco sulla spina del monumento archeologico contenente un accenno all’obelisco (richiamo di quello agonale, oggi simbolo della Fontana dei Quattro Fiumi, proveniente proprio dal circo di Massenzio).

Quindi per il lancio, mondiale, di Disney+ su TIMVISION siamo l’unico Paese a localizzare la campagna globale della company statunitense traghettando i più iconici personaggi di quel pianeta d’invenzioni nei luoghi dell’immaginario artistico italiano. Impegno che riprendiamo con lo spot della ripartenza post pandemia inserendo una città metafisica che rimanda al felliniano episodio di Boccaccio 70. Per la partenza della Serie A TIM lanciamo un Intervallo, storico formato della tv pubblica, che sostituisce alle cartoline d’Italia i campi reali e immaginifici delle nostre città (in anticipo di un progetto di personalizzazione di ogni sigla delle partite di campionato, ognuna differente dalle altre, disegnate dalla star dei fumettisti italiani Carmine Di Giandomenico).

Anche per il primo spot dedicato al 5G chiediamo aiuto alla potenza della nostra storia. I primi frame sono dedicati alla chiesa di San Pietro, un ammutolente gotico genovese che domina sulla grotta di Byron a Portovenere. Per il secondo spot, dedicato a ciò che il 5G ci permetterà di “rivedere”, il Mausoleo di Augusto disvela le sue diverse esistenze – tomba, giardino all’italiana, più grande auditorium d’Europa – sotto la guida del maestro Riccardo Muti.

Quindi otto clip, ancora dedicate al 5G,

concepite con il gruppo di lavoro di Toi-

letpaper di Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari.

Un ultimo “dettaglio”. Questi cinque anni hanno camminato sui passi di una voce: Mina.

Ligure a Roma, Luca Josi è stato fino a poche settimane fa e negli ultimi cinque anni brand strategist di TIM.

L’ARTE (NON) È UN’ISOLA

The Play, Current of Contemporary Art, Fiume Yodo, Giappone, 20 luglio 1969, fotografia di documentazione. Photo Higuchi Shigeru © The Play

Lontani da tutto e da tutti, separati dal mondo, distanti dagli altri e dall’altro. Sentimenti che molti di noi hanno provato a causa della pandemia da Covid-19 tanto da descrivere questi stati d’animo come una sorta di esilio, letteralmente l’essere fuori dalla (propria) terra. Se citando Hemingway via John Donne possiamo ancora affermare che “nessun uomo è un’isola”, ciò non toglie che l’idea del distacco dal continente possa, in casi specifici, fungere da attivatore di energia creativa. Isolamento o separatezza infatti possono non essere sempre sinonimi di difficoltà o disagio, anzi, una delle figure ricorrenti che associamo al termine isola è la cosiddetta “isola felice”.

Questa visione in ambito artistico porta alla mente una delle declinazioni della Supersuperficie (1971) di Superstudio, in cui elementi tipici della vita domestica come un guardaroba, un asse da stiro, mobili e tappeti sono allestiti all’aperto circondati da uno spazio algido e vuoto. La metafora di un ambiente galleggiante, nel quale si trovano condizioni che sarebbero impossibili al di fuori. A proposito di galleggiamenti, di immagine in immagine, non è difficile finire alla zattera a forma di freccia con cui

La frontiera come luogo del collegamento. Significato che è possibile ribaltare se la figura del migrante prende la forma di un’intera isola invece che di una persona o di un popolo.

il gruppo giapponese The Play attraversa il fiume Yodo nella prefettura di Kyoto proprio sul finire degli Anni Sessanta.

Cosa succede quando l’oggetto dell’at-

tenzione si allarga fino all’arcipelago? In questo caso l’azione può spingere sull’accentuazione dei confini, dei limiti geografici tra terra e acqua, espandendoli come fossero carichi di un’aura. Nel maggio del 1983 Christo & Jeanne Claude completano Surrounded Islands, circondando per due settimane diversi atolli della Biscayne Bay a Miami con larghe falde di tessuto rosa shocking. La frontiera come luogo del collegamento, possibilità di unione, marcatore di contatto. Significato che è possibile ribaltare se la figura del migrante, ovvero di chi si sposta verso nuove sedi, prende la forma di un’intera isola invece che di una persona o di un popolo. “Chili Moon Town”, nella descrizione degli artisti Anna Galtarossa e Daniel Gonzalez, che l’hanno creata nel 2007 a Città del Messico,“is a utopian floating city of dreams that knows no boundaries. It was born as a free city without frontiers. Its citizens do not migrate; the city itself migrates, carrying the dreams of people”. L’isola come mezzo per fuggire non tanto dalla realtà quanto dalle logiche che la regolano e impediscono l’insorgere di un pensiero alternativo. Un interstizio di

possibilità che valica i contorni del reale

per attestarsi come spazio libero, anche per ospitare operazioni artistiche. Era lo scopo principale di RMB City, piattaforma creata al largo delle coste virtuali di Second Life nel 2009 dall’artista cinese Cao Fei. O, infine, quando l’isola viene riportata forzatamente, seppur a scopo protettivo, al suo statuto di marginalità, come nel progetto di Riccardo Benassi Piramide di vetro antiproiettile per l’isola di San Paolo, di proprietà della Famiglia Beretta (2009), tornato alla luce di recente nella mostra Hidden Displays 1975-2020 al MAMbo di Bologna.

LE SOVVENZIONI PUBBLICHE E LA MORTE DELL’INNOVAZIONE

Una delle debolezze del settore culturale è la sua dipendenza dalle sovvenzioni pubbliche. Ritengo sia un grave distorsore di mercato, ma non in termini di concorrenza sleale: qualcuno prende di più o semplicemente prende e quindi è avvantaggiato su chi non prende o prende meno. Il problema è ancor prima: gli operatori producono in funzione di come e cosa “beccano”.

Certo, lo so che è dalla notte dei tempi che l’artista produce per il benefattore, il “principe”. Quindi – come dire – questa forma di opportunismo mercantilista è insita nel “gioco” della produzione artistica. Ma oggi il consumo culturale è massivo: miliardi di persone vedono film, visitano musei, assistono a spettacoli, ascoltano musica, leggono letteratura ecc.

Quindi non ci può essere più il dualismo: committente – produttore, mecenate – artista. Perché l’arte non si realizza per uno. In qualche modo potremmo dire che il mercato, ovvero il grande consumo d’arte, la spersonalizzazione del destinatario (non del benefattore) ha liberato la produzione artistica. Eppure il dualismo persiste: siccome i soldi per lo più li mette l’amministrazione pubblica, allora io l’assecondo! Questo genera operatori culturali viziati, impreparati alla domanda vera di mercato, al destinatario, insensibili – spesso, non sempre – alla vera qualità dell’offerta. E soprattutto, cosa che io non riesco a perdonare loro, l’essere noncuranti dell’unica vera metrica del successo in una produzione: l’abbondanza nel consumo.

Gran parte dell’offerta culturale è

economicamente mal impostata. Non vive né sopravvive del successo nella vendita al dettaglio. I cosiddetti ricavi propri, la biglietteria, sono sempre una quota marginale dell’equilibrio di bilancio o del guadagno. L’offerta culturale sta in piedi

Bisognerebbe seguire il modello anglosassone del matching grant: per ogni euro che trovi da solo, io te ne do un altro.

20 piattaforme europee che usano il match-funding

Spagna CROWDFUNDING BIZKAIA crowdfundingbizkaia.com

Italia EPPELA eppela.com

Germania FAIRPLAID fairplaid.org

Lituania FINBEE finbee.lt

Spagna GOTEO DONATION goteo.org

Belgio GROWFUNDING growfunding.be

Italia IDEAGINGER ideaginger.it

Belgio | Olanda KOALECT koalect.com

Spagna LA BOLSA bolsasocial.com

Spagna LÁNZANOS lanzanos.com Francia | Belgio | Italia LITA.CO fr.lita.co

Francia | Germania | Italia Olanda | Spagna OCTOBER october.eu

Olanda ONEPLANETCROWD oneplanetcrowd.com

Portogallo PPL ppl.pt

Italia PRODUZIONI DAL BASSO produzionidalbasso.com

UK | Portogallo | Spagna SEEDRS seedrs.com

UK SPACEHIVE spacehive.com

Germania | Austria STARTNEXT startnext.com

Francia | Italia ULULE it.ulule.com

Italia WEARESTARTING wearestarting.it

fonte: EuroCrowd, working group CF4ESIF – Crowdfunding for European Structural and Investment Funds, Scaling Up Partnerships, 2021, eurocrowd.org

perché il grosso è da sovvenzione pubblica. Questo genera luoghi troppo vuoti, offerta non innovativa, artisti “conniventi” o comunque sempre gli stessi, politica dei prezzi sconclusionata (o troppo economici o troppo cari)…

Se l’operatore si misurasse veramente col mercato, ci sarebbe una fisiologica innovazione in tutto: nell’offerta, nell’erogazione, nell’accessibilità, nei linguaggi, nella promozione, nel marketing. Infatti i pochi comparti culturali che vivono a mercato (ad esempio musica registrata ed editoria libraria) sono ben attenti a cosa vanno a fare. Perché lo stesso non si può dire di un teatro o di una compagnia teatrale, oppure di un produttore cinematografico, o di festival o di un museo?

Io non dico che non ci debba essere il

sostegno pubblico. Gran parte dell’offerta culturale non può scaricare il costo di produzione sui soli ricavi propri, non sarebbe sostenibile, è assodato, però i fondi andrebbero erogati diversamente. Bisognerebbe seguire il modello anglosassone del matching grant: per ogni euro che trovi da solo (biglietteria, sponsorizzazioni, liberalità ecc.), io te ne do un altro. Si deve rischiare come in qualsiasi altra iniziativa imprenditoriale. Sarebbe tutta un’altra musica.

MUSEI SENZA MEMORIA

Ci sono opere che vogliono dispiacere, ma appena entrano in un museo d’un colpo “piacciono”. Un cadavere in strada procura orrore, in un museo curiosità. “Restituitemi il corpo di mio padre”, implorava il giovane Inuit di fronte al cadavere esposto in un museo di storia naturale di New York. E di corpi squartati sono pieni i musei, che siano naturalistici o d’arte ormai non fa più differenza. Questa fatale indistinzione ha portato Peter Sloterdijk all’espressione “infarto del senso”, suggerendo che la bellezza ha un valore retroattivo. “I musei”, notava Adorno, “sono come tombe di famiglia delle opere d’arte”, cioè mausolei; anche questa è un’espressione forte, di fronte alla quale Paul Valéry non sarebbe stato del tutto d’accordo.

Se le opere potessero parlare, molte di esse inveirebbero contro i loro “conservatori” per averle messe nello stesso pianerottolo con altre di cui non condividono idee, forme e apparenza estetica.

L’orror sacroche colpì Valéry al Louvre, di fronte ad allegorie, scene di decapitazioni e di morte, lo portò a classificare il museo come un luogo che ci fa diventare superficiali. Il prodotto di migliaia di ore che tanti maestri hanno consumato disegnando e dipingendo è percepito nella disinvoltura di pochi istanti. Una natura morta diventa un “documento” e lotta per farsi notare di fianco a una irresistibile Venere seducente. Come in un condominio, elementi inconciliabili si contendono lo stesso spazio, e le “tombe di famiglia” si fanno guerra l’un l’altra per intercettare lo sguardo del visitatore. L’esigenza di plasmare una massa eterogenea di materiali secondo una legge formale ugualmente valida per ogni elemento comporta una riduzione della ricezione culturale di essi, ammassati come in un magazzino e “offerti” al consumo culturale.

André Malraux diceva che i musei ratificano la conquista del passato e lo consegnano all’ordine del presente; e per il fatto che la loro esistenza si nutre del bottino di guerra, sono per questo anche un documento di barbarie. E se il presente è colonizzato dalla religione edonista, allora l’urna del museo accoglie coffee-shop, self-service, punti-vendita, libri, oggettistica, borsette firmate, magliette e chincaglieria varia. E sul modello americano questi luoghi, sempre più indefinibili, si affittano per costosi matrimoni e per “eventi”. Da molti anni i musei si sono adeguati all’imperativo dell’assolo edonistico, assurto a

In ordine di apparizione

PETER SLOTERDIJK (Karlsruhe, 1947) filosofo

ANDRÉ MALRAUX (Parigi, 1901 – Créteil, 1976) scrittore e politico THEODOR W. ADORNO (Francoforte, 1903 – Visp, 1969) filosofo e musicologo PAUL VALÉRY (Sète, 1871 – Parigi, 1945) poeta e filosofo

JORGE GLUSBERG (Buenos Aires, 1932-2012) curatore, critico, artista ADOLF LOOS (Brno, 1870 – Kalksburg, 1933) architetto e saggista

KARL KRAUS (Jičín, 1874 – Vienna, 1936) scrittore MARCEL DUCHAMP (Blainville-Crevon, 1887 – Neuilly-sur-Seine, 1968) artista e scacchista

simbolo di vita sociale. In mancanza di una vita sociale reale, il museo supplisce con un’offerta di godimento culturale, di cui l’arte diventa un arredo indispensabile. Siamo ben lontani dalle utopie di Jorge Glusberg che, sulla scia di Malraux, anelava a musei immaginari, dove ciascun fruitore

Se la gestione politicoculturale dei musei è in mano ad analfabeti, cioè a mercanti di cultura con i loro emissari politici, allora per essi c’è un solo destino: il cesso.

diventava parte attiva (non consumatore) della vita del museo. Come non dar ragione ad Adolf Loos e Karl Kraus, i quali erano d’accordo sul fatto che la differenza tra

un’urna e un vaso da notte stabiliva lo

spazio della civiltà. Se il museo è come un’urna che conserva i resti (anche viventi) di un’epoca, allora questa differenza tra urna e vaso da notte ha trovato da oltre un secolo un’ironica risposta in un banale oggetto quotidiano. C’è chi usa l’urna come vaso da notte e chi usa il vaso da notte come urna. Entrambe le posizioni coesistono in una patafisica conciliazione nell’orinatoio di Duchamp, divenuto feticcio indiscusso dell’arte contemporanea.

La risposta di Duchamp è ironica e politica a un tempo. Se la gestione politico-culturale dei musei è in mano ad analfabeti, cioè a mercanti di cultura con i loro emissari politici, allora per essi c’è un solo destino: il cesso.

SUL POP SOTTERRANEO

Da alcuni mesi, fin dall’ultimo lockdown, periodicamente ritorno su un pezzo che FrancescoPacifico ha pubblicato a febbraio su CheFare, dedicato al mainstreamcome “bolla culturale”. La sua idea è che lo scrittore / autore / intellettuale / artista oggi non sia mediamente impegnato nella sperimentazione, quanto piuttosto nello strano lavoro di condurre il suo pubblico verso il Centro, il cuore della cultura mainstream nazionale e internazionale: “Che c’entra con la bolla e con il mainstream? È un avvertimento, per dire che chi sta parlando del rapporto tra piccole cerchie e opinione pubblica è uno che a monte si copre la bocca dalla tensione ogni volta che ha conferma che la vita pubblica è fatta soprattutto della quantità di desiderio investito da alcuni nel proporre le proprie visioni a numerosi altri. Da gente che studia come porsi e poi ripete sempre la stessa formula perché funzioni, perché solo così può crearsi un pubblico: rimanendo sempre uguale e lasciandosi riconoscere e voler bene” (Lettera di Notte #1, come la cultura mainstream è diventata una bolla insignificante, “CheFare”, 12 febbraio 2021).

Cosa c’è di più contraddittorio di una canzone o di un disco che si muove tra sperimentazione e mainstream, tra luminosità popolare e oscurità creativa?

Trovo interessante e affascinante questa idea dell’Autore come “pastore” che ha il compito di radunare e guidare i lettori / spettatori verso una dimensione assolutamente media, mentre il suo ruolo sarebbe quello di esplorare territori sconosciuti, di compiere – ogni volta per la prima volta – un percorso avventuroso, pericoloso.

Un modo laterale di affrontare l’argomento è quello di approfondire qualcosa che nasce tra fine Anni Settanta e inizio Anni Ottanta – in campo musicale – e fiorisce negli Anni Novanta, per appassire definitivamente all’inizio degli Anni Zero: il pop sotterraneo. La musica, del resto, è sempre stata la cartina di tornasole perfetta per indagare ciò che si muove parallelamente negli altri territori artistici, in maniera forse meno evidente. Il pop sotterraneo (subterranean pop) emerge come idea

6 dischi da ascoltare

PINK FLOYD The Wall 1979

THE CURE Pornography 1982

THE CURE Disintegration 1989

DEPECHE MODE Songs of Faith & Devotion 1993

NINE INCH NAILS The Fragile 1999

NINE INCH NAILS The Downward Spiral 1994

con l’ondata post-punk / new wave / synth pop / gothic, costituita da band innovative e sperimentali, venute fuori dalle zone più impervie della sottocultura appena nata e attrezzate con i suoni più caustici in circolazione all’epoca, che però gradualmente – con l’ingresso nel nuovo scintillante decennio – si dedicano a inventare una forma estremamente raffinata di musica pop, leggera ma al tempo stesso radicale, e vanno così incontro a uno sfolgorante successo, in molti casi planetario.

Ogni elenco può essere solo parziale, per ovvie ragioni: U2, Depeche Mode, New Order, Ultravox, The Cure, Siouxsie & the Banshees, Orchestral Manoeuvres in the Dark, Simple Minds, Spandau Ballet, The Sound, Japan, Wire, Talking Heads, The Human League, Talk Talk, Modern English, Pet Shop Boys, Tears for Fears, Icehouse ecc. Qualche volta, la natura volutamente ambigua del pop sotterraneo viene dichiarata esplicitamente e orgogliosamente esibita come intenzione: è il caso di RobertSmith dei Cure, che, a proposito di The Lovecats (1983), dichiarò che la canzone era “il più vicino possibile alla perfetta canzone pop cui possiamo arrivare”. Negli Anni Novanta questo processo – anche, e soprattutto, grazie alla nascita del grunge: non a caso, la SUB POP di Seattle è la casa discografica che articola l’intero movimento – si sviluppa e si complica ulteriormente, con gruppi nati di nicchia che accedono improvvisamente a un successo di massa e globale.

Il pop sotterraneo è, tecnicamente, un errore. Un’aporia. Nasce con una pervicace attitudine all’ambiguità e all’ambivalenza: che cosa c’è infatti di più contraddittorio di una canzone o di un disco che si muove tra sperimentazione e mainstream, tra luminosità popolare e oscurità creativa? Il pop

sotterraneo prende i risultati migliori di un certo tipo di innovazione e li condensa in una forma altamente riconosci-

bile – “classica”, per così dire. E l’aspetto più interessante forse è che, così facendo, il gruppo si inoltra quasi sempre in un territorio inesplorato. La logica non è infatti semplicemente quella della band “che si vende” (al mercato, ai fan, al sistema ecc.), quanto piuttosto quella della band che costruisce qualcosa che prima non esisteva, rendendo “commestibile” (= commerciabile) qualcosa che immediatamente prima risultava ostico, immangiabile, inaffrontabile ai più – e al tempo stesso trasformando in profondità quel qualcosa, attribuendogli cioè qualità che non appartengono a un’unica identità artistica.

Ovviamente, il pop sotterraneo – e i suoi autori – danno il meglio di sé nelle condizioni più catastrofiche (e apparentemente sfavorevoli), in un clima cioè di sfacelo esistenziale e di disintegrazione creativa: opere capitali, in questo senso, sono The Wall (1979) dei Pink Floyd, Pornography (1982) e Disintegration (1989) dei Cure, Songs of Faith & Devotion (1993) dei Depeche Mode, The Downward Spiral (1994) e The Fragile (1999) dei Nine Inch Nails. C’è una linea nascosta che collega, infatti, i risultati più alti del sub-pop con la “fine-di-tutte-lecose”: la sua ambiguità di fondo si attiva meravigliosamente, e misteriosamente, attraverso la nostalgia, non tanto e non solo di ciò che è stato, ma anche e soprattutto di ciò che non è stato – e che non sarà mai.

GIAN MARIA TOSATTI PIGLIATUTTO

In altro luogo ho già espresso tutta la meraviglia per due nomine alquanto singolari piovute sull’artista Gian Maria Tosatti, che magari sarà un genio, ma a insaputa mia e ritengo di molti altri colleghi. Eppure su di lui ha puntato secco il curatore del Padiglione Italia alla prossima Biennale. Forse meglio così che certe eccessivamente folte presenze in altre occasioni, ma anche la scelta monografica mi sembra eccessiva. Inoltre sullo stesso Tosatti è piovuta una nomina ancor più singolare, di unico direttore della prossima Quadriennale, anche in questo caso evento, credo, particolarmente improprio.

Delle tre istituzioni di casa nostra, la più anziana, la Biennale di Venezia, marcia a piene vele ed è divenuta un modello per la mole di sorelle nate in tanti altri Paesi. La periodicità biennale è risultata la più opportuna e favorevole. Negli Anni Venti le aveva fatto seguito un’altra Biennale, nata prima a Monza e poi trasferitasi a Milano, specializzandosi in architettura e design. Poi, nel dopoguerra direi che ha commesso, per dirla con Dante, “per viltà il gran rifiuto”. Ha ritenuto di non poter più presentare in architettura e design un panorama mondiale ogni due anni, e dunque è arretrata alla misura triennale, da cui il suo nome, ma la rivale Biennale di Venezia ha ringraziato e ha dimostrato di poter affiancare alle consorelle anche questo settore, con esito ottimo.

La terza delle istituzioni nazionali è la Quadriennale, nata negli Anni Trenta, il cui compito sarebbe di fornire per quel periodo una rassegna e valorizzazione dell’arte nostrana. Per qualche tempo ha

fatto abbastanza bene il suo dovere in

questo senso, ma poi è impazzita, allungando la periodicità, assumendo coorti di critici e storici dell’arte per lo più lottizzati dai vari partiti – io ne so qualcosa, in quanto ho partecipato più volte a questi raduni mal assortiti, che quasi sempre tradivano il loro compito. Per cui, diciamolo pure, fra le tre manifestazioni, la Quadriennale resta la grande malata, ma di sicuro il modo migliore per guarirla sarebbe di rispettarne i criteri di fondazione, del tutto contrari a una guida solitaria, lasciata al beneplacito di una singola personalità, fosse pure di eccezione, il che appunto non pare essere la statura del nostro Tosatti.

La Quadriennale dovrebbe rispettare il mandato che le è stato dato, di fornirci cioè ogni quadriennio una sintesi attendibile di quanto è successo tra di noi, quindi, poniamo, una retrospettiva di omaggio ai Maestri nel frattempo deceduti, un quadro degli “ismi” nati nel periodo, attraverso i loro migliori esponenti, il tutto allestito nello spazio del Palaexpo di Roma, che risulta il più efficiente come contenitore.

Storia della Quadriennale di Roma

1900

Nasce con deliberazione del Governatorato di Roma Viene istituita ufficialmente I edizione, diretta da Cipriano Efisio Oppo come le tre successive e allestita al Palazzo delle Esposizioni. II edizione, rivolta alle nuove generazioni

27

Diventa Ente Autonomo Quadriennale d’Arte

28 31

III edizione, con una personale di Giorgio Morandi IV edizione, che risente pesantemente del clima di guerra

32

V edizione, allestita alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e diretta da Francesco Coccia

37 39 43 48

Fortunato Bellonzi è nominato segretario generale VI edizione: la mostra torna al Palazzo delle Esposizioni e le opere esposte sono circa 3.500 VII edizione con una collettiva sugli artisti che hanno operato dagli Anni Dieci agli Anni Trenta VIII edizione: Gianni Bertini, invia in mostra tre quadri acquistati in un mercatino

50

IX edizione, l’unica negli Anni Sessanta

51 55 59

X edizione, articolata in cinque mostre allestite in sei anni. Da ora la partecipazione è su invito XI edizione, l’unica del decennio, allestita al Palazzo dei Congressi XII edizione, strutturata in due mostre: Italia 1950-1990 (1992), Ultime generazioni (1996), quest’ultima allestita, oltre al Palazzo delle Esposizioni, alla Stazione Termini

65 72 77 86

XIII edizione con una retrospettiva (Valori plastici) e una mostra dedicata alla più stretta contemporaneità

2000

XIV edizione, con Anteprima Napoli al Palazzo Reale; Anteprima Torino alla Promotrice delle Belle Arti; Fuori Tema/Italian feeling alla GNAM di Roma

92

La sede della Quadriennale, divenuta Fondazione, viene trasferita a Villa Carpegna XV edizione con cinque curatori, che omaggiano Luciano Fabro e propongono 99 artisti attivi dagli Anni Novanta

98 99 03

05 04 08

La XVI edizione viene annullata per mancanza di fondi. Alla direzione c’è Jas Gawronski Viene pubblicato, in collaborazione con Marsilio, il libro Terrazza. Artisti, storie, luoghi, negli anni Zero Franco Bernabè assume la direzione XVI edizione (Altri tempi, altri miti), che vede in campo dieci proposte curatoriali per altrettante mostre

12 14 15 16

Sarah Cosulich è nominata direttrice artistica. Lancia i progetti Q-Rated e Q-International Umberto Croppi succede a Franco Bernabè nel ruolo di presidente XVII edizione, dal titolo Fuori: curata da Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, vede in mostra 43 artisti con opere dagli Anni Sessanta a oggi Alla direzione artistica viene nominato Gian Maria Tosatti

18 19 20 21

Gian Maria Tosatti magari sarà un genio, ma a insaputa mia e ritengo di molti altri colleghi.

Mai procedere, invece, a permettere a qualcuno una selezione troppo personale, come fosse il curatore di una qualche mostra regionale.

Devo anche segnalare una circostanza singolare e incredibile. Il fine istituzionale della Quadriennale sarebbe la difesa della nostra arte anche all’estero, ma lo statuto

impedisce a chi la dirige temporanea-

mente di fare viaggi internazionali nel tentativo di portarvi queste antologie del nostro meglio. Un compito del genere è rimasto nelle mani del Ministero degli Esteri e dei relativi istituti di cultura, alcuni anche con spazi ragguardevoli, ma tentati di soddisfare le richieste degli ambasciatori e di ospitare magari i frutti non esaltanti di loro congiunti e congiunte.

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