Medioevo n. 326, Marzo 2024

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LE FO DA GI LIG NT OR N ES NA O CH TE E

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L’ESILIO DI DANTE UN AMICO REGGIANO DOSSIER DESIDERIO A MONTECASSINO TRECENTONOVELLE IL POTERE DEI SIGNORI

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MEDIOEVO n. 326 MARZO 2024

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 2 MARZO 2024



SOMMARIO

Marzo 2024 ANTEPRIMA LA RELIQUIA DEL MESE I chiodi della discordia di Federico Canaccini

IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Benedetta primavera

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di Stefano Mammini

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APPUNTAMENTI Medioevo Oggi L’Agenda del Mese

18 24

INCONTRI Divina Foligno

di Cristiana Brunelli

58 72

20

DESIDERIO La vita come un dialogo

STORIE L’INTERVISTA Chiara Mercuri

Una rivoluzionaria «cortese»

a cura di Andreas M. Steiner

L’ESILIO DI DANTE Sulle tracce di un esule illustre di Giuseppe Ligabue

di Paolo Garbini

34

46

34 COSTUME E SOCIETÀ IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/14 Quando signori si diventa di Corrado Occhipinti Confalonieri

72

CALEIDOSCOPIO

EVENTI Festival Federico II Stupor Mundi

Fu vero stupore?

di Fulvio Delle Donne

Dossier

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QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Mele e rose non fermano il martirio di Paolo Pinti 108 LIBRI Lo Scaffale

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L O DAE GIOLIG NT R N ES NA O CH TE E

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MEDIOEVO n. 326 MARZO 2024

MEDIOEVO

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20/02/24 10:50

MEDIOEVO Anno XXVIII, n. 326 - marzo 2024 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Cristiana Brunelli è responsabile scientifica e curatrice delle Giornate dantesche per il Comune di Foligno. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Fulvio Delle Donne è professore ordinario di letteratura latina medievale e umanistica presso l’Università degli Studi della Basilicata. Paolo Garbini è professore ordinario di letteratura latina medievale e umanistica presso Sapienza Università di Roma. Giuseppe Ligabue è socio della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Province Modenesi. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Electa/ Sergio Anelli: copertina (e pp. 38/39); Erich Lessing/K&K Archive: p. 36; Album: p. 37; Album/Prisma: pp. 40-41, 43; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 44; Fototeca Gilardi: pp. 60 (alto), 105 (alto); AKG Images: pp. 74-75; Electa/Antonio Quattrone: p. 80 – Doc. red.: pp. 5, 34/35, 42, 49, 51 (alto), 58/59, 60 (basso), 62-65, 66 (alto), 66/67, 68-73, 76-79, 83, 86-103, 104, 105 (basso) – Stefano Mammini: pp. 8, 9 (basso), 10-11 – Cortesia Ufficio Stampa Fondazione Arezzo Intour: p. 9 (alto) – Cortesia Ufficio Stampa Museo Poldi Pezzoli: pp. 12-13 – Cortesia Festival del Medioevo: pp. 18-19 – Cortesia Comune di Foligno-Giornate dantesche: pp. 20-22 – Shutterstock: pp. 46/47, 84-85, 106-107 – Cortesia degli autori: pp. 48, 51 (basso), 52-54, 61, 108-110 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 66. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Impaginazione Alessia Pozzato

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina particolare delle Storie della Vita della Vergine affrescate da Giotto nella Cappella degli Scrovegni, a Padova. 1303-1305

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Prossimamente protagonisti

firenze

dossier

Lionello di Anversa

Riapre il complesso di Orsanmichele

Alle origini di Venezia


LA RELIQUIA DEL MESE

di Federico Canaccini

MARZO

I chiodi della discordia

T

ra le reliquie piú importanti della cristianità medievale, quelle relative alla Passione di Cristo occupano una menzione speciale: la corona di spine, i chiodi, la Veronica e la Sindone, il titulus e il legno della Vera Croce. I chiodi, in particolare, sarebbero stati rinvenuti da Elena, madre dell’imperatore Costantino, durante il suo viaggio in Terra Santa del 327. Giunta a Gerusalemme in pellegrinaggio, come racconta Eusebio di Cesarea, Elena avrebbe fatto scavare sul Golgota e lí sarebbero stati rinvenuti i legni delle croci di Cristo e dei ladroni, i chiodi e persino l’iscrizione recante il titolo di «Re dei Giudei». Elena, dunque, recuperò i tre chiodi con cui Gesú sarebbe stato appeso alla croce: Gregorio di Tours riporta che, in realtà, i chiodi furono quattro (due per le mani e due per i piedi), ma che Elena ne utilizzò uno per placare una tempesta sulla via del ritorno. La prima citazione dei chiodi si rinviene in un’orazione di sant’Ambrogio, databile al 395: Elena lasciò la Vera Croce a Costantinopoli, mentre portò a Roma i chiodi, che ebbero sorti diverse. Con uno avrebbe fatto realizzare un morso per il cavallo di Costantino, un altro sarebbe stato inserito nell’elmo dell’imperatore, cosí da garantirgli protezione in battaglia, un terzo sarebbe rimasto nel palazzo di Elena a Roma. Il primo sarebbe custodito a Milano, il secondo si vuole fuso a reggere la corona ferrea (oggi a Monza), il terzo è a Roma, nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme. Ma abbiamo prove storiche riguardo a tutto ciò? Nel 1968, a Givat ha-Mivtar, un quartiere di Gerusalemme, fu trovato un chiodo lungo circa 16 cm, conficcato nel piede di un uomo vissuto nel I secolo, attestando la pratica di quello che Cicerone definí «il supplizio piú crudele e piú tetro». Ciò non basta ad affermare che i chiodi portati a Roma da Elena fossero quelli della crocifissione, e tuttavia, poiché oggi si contano almeno 33 chiodi ritenuti autentici, distribuiti in 29 città europee – di cui solo 16

MEDIOEVO

marzo

Qui sopra l’osso del calcagno dell’uomo di Givat ha-Mivtar trafitto da un chiodo.

Cristo sulla Croce, olio su tela di Diego Velázquez. 1632 circa. Madrid, Museo del Prado. In basso i reliquiari contenenti il sacro chiodo e il titulus con l’iscrizione «Gesú Nazareno re dei Giudei». Roma, Santa Croce in Gerusalemme.

in Italia –, cercheremo di chiarire quali possano essere datati al tempo di Gesú. Tra il chiodo di Givat ha-Mivtar e quello conservato a Roma esiste un’affinità morfologica che non si ha con molti altri presunti sacri chiodi: il secondo, infatti, è quadrangolare ed è lungo 11,5 cm, ma, essendo privo della punta, doveva in origine misurare una quindicina di centimetri. Anche il chiodo conservato in S. Maria della Scala, a Siena, ha caratteristiche simili, misurando 15 cm, senza testa: giunse da Costantinopoli nel 1354, dove fu acquistato da un mercante veneziano, Pietro di Giunta Torrigani, che lo donò all’Ospedale senese. Ancor piú difficile da stabilire è l’eventuale autenticità degli altri chiodi: il morso del cavallo di Costantino di Milano – e il suo doppio conservato a Carpentras – è stato fuso e quindi non si può procedere ad alcuna comparazione. Quello inserito nella corona ferrea è da escludere, poiché è stato appurato trattarsi di argento; l’esemplare conservato a Parigi è troppo corto, mentre quello di Treviri è stato datato al X secolo. Il chiodo di Vienna misura solo 2 cm di larghezza e molti altri conservati a Cracovia, a Bamberga, a Colonia, a Venezia differiscono per un verso o l’altro da quelli, forse, recuperati da Elena a Gerusalemme (ma non per questo attribuibili «automaticamente» alla crocifissione di Gesú).

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VERCELLAE HOSPITALIS 20 E 21 APRILE 2024

Torna a rivivere il Medioevo nella capitale del riso italiano. Un salto epocale che ci rimanda a quel 1224, quando per volontà dell’allora cardinale Guala Bicchieri, venne posata la prima pietra di costruzione dell’Ospedale Maggiore nella contrada di Sant’Andrea a Vercelli. Un evento, quindi, che nasce proprio con l’intento celebrativo e commemorativo di ricordare quell’immenso edificio che, nel corso dei secoli, accolse e ospitò numerosi indigenti, infermi e, inizialmente, pellegrini. Proprio dai pellegrini e dal percorso che ancora oggi essi intraprendono sulla via Francigena, che attraversa Vercelli e i paesi limitrofi, trarrà spunto l’allestimento di un piccolo ricovero nei pressi del portico del salone Dugentesco, antica testimonianza dell’ex ospedale maggiore. Pellegrini, viandanti, monaci, ma anche donne, uomini e bambini di ogni rango e classe sociale popoleranno la piazza antistante la basilica di Sant’Andrea ricostruendo la vita di allora: quella seconda metà del XIII secolo che vide il fiorire della città di Vercelli, degli scambi culturali, del commercio, delle lotte tra le famiglie nobiliari che, a vario titolo, hanno segnato l’epoca feudale europea. Sarà un weekend ricco di vita: con i mercanti e i bottegai, interpretati dai gruppi di rievocazione storica provenienti da tutta Italia, che mostreranno i propri manufatti, produrranno dal vivo oggetti con le proprie mani facendo uso di tecniche ormai desuete. Ci saranno le ronde delle milizie comunali che, partendo dal grande campo attendato posto nei giardini laterali alla basilica di Sant’Andrea, controlleranno il regolare svolgimento delle attività cittadine, fermando eventuali stranieri, accompagnando un nobile signore o semplicemente esercitandosi all’arte militare nei pressi del campo storico. Ad arricchire e impreziosire ulteriormente la rievocazione storica verranno organizzati degli spettacoli e intrattenimenti, a tema, per tutti quanti: dai laboratori didattici per i piú piccoli, alle giullarate in piazza, piuttosto che alle esibizioni e dimostrazioni di volo e caccia dei falconieri, alla musica itinerante, allo spettacolo equestre nel parco Kennedy, senza tralasciare la simulazione di una battaglia campale con fanti, palvesari, cavalieri e armi d’assedio in grandezza naturale. Per il pubblico piú esigente e desideroso di vivere completamente una giornata nel Medioevo ci sarà spazio per degustare cibi e bevande di un tempo presso lo «street-food medievale» oppure di portare a casa un ricordo dell’evento facendo visita al mercatino degli artigiani e hobbisti. La giornata di domenica, che aprirà con la messa cantata da una corale gregoriana in basilica, si concluderà all’imbrunire con uno spettacolo teatrale di ambientazione medievale, interamente eseguito sui trampoli, facendo uso di luci, suoni e costumi scenografici. A corollario della manifestazione saranno anche organizzate visite guidate in città a tema medievale, visite alle torri cittadine, conferenze con illustri storici, laboratori educativi per i piú piccoli, mostre di documenti antichi e sabato 20 aprile alle ore 21.00 presso la Basilica di Sant’Andrea, un suggestivo concerto del maestro Angelo Branduardi. Per informazioni www.comune.vercelli.it

PROGRAMMA

Sabato 20 aprile ·14.30: Ritrovo in Piazza Cavour e preparazione corteo 15.00/15.30: Corteo da Piazza Cavour alla Basilica di Sant’Andrea 15.30/15.40: Intervento autorità 15.40/16.00: Inizio attività rievocative Animazioni sul sagrato della Basilica di Sant’Andrea 16.00/16.30: Sbandieratori 17.00/17.30: Falconieri 17.40/18.10: Musici 18.30/19.00: Giullarate Attività collaterali 14.00/18.00: apertura delle mostre presso i locali della Biblioteca Civica e della Galleria dei Benefattori 14.00/18.00: visite guidate in città e alle torri Basilica di Sant’Andrea 21.00/23.00: concerto del maestro Angelo Branduardi

Domenica 20 aprile ·Mattino 10.00/11.00: Santa Messa in Sant’Andrea con corale gregoriana Animazioni al Parco Kennedy 10.30/11.00: Esibizione dei cavalieri 11.30/12.00: Falconeria Animazioni sul sagrato della Basilica di Sant’Andrea 11.00/11.30: Giullarate 12.30/13.00: Musici Pomeriggio Animazioni al Parco Kennedy 15.00/16.00: Spettacolo equestre 17.30/18.10: Battaglia campale Animazioni sul sagrato 16.30/17.00: Giullarate 18.30/19.00: Musici 19.30/20.30: spettacolo conclusivo teatral-pirotecnico sul sagrato della Basilica di Sant’Andrea Attività collaterali 14.00/18.00: apertura delle mostre presso i locali della Biblioteca Civica e della Galleria dei Benefattori 14.00/18.00: visite guidate in città e alle torri



il medioevo in

rima

agina

Benedetta primavera PROTAGONISTI • Piero della Francesca domina l’arrivo della nuova stagione:

ad Arezzo, nella basilica di S. Francesco, torna a farsi ammirare la Leggenda della Vera Croce, mentre il Museo Poldi Pezzoli di Milano propone la ricomposizione del polittico realizzato per la chiesa degli Agostiniani di Borgo San Sepolcro

È

prevista per il 21 marzo la riapertura della Cappella Bacci della basilica aretina di S. Francesco, sulle cui pareti si dispiega uno dei massimi capolavori dell’arte universale: il ciclo con la Leggenda della Vera Croce affrescato da Piero della Francesca fra il 1452 e il 1466. Mentre andiamo in stampa, infatti, le pitture sono ancora ingabbiate dal ponteggio montato per consentire l’esecuzione di vari interventi. In primo luogo, seguendo i protocolli stabiliti per simili contesti, si è proceduto alla revisione dello stato di conservazione del monumento e a una nuova verifica degli ultimi restauri di cui il ciclo affrescato è stato fatto oggetto, ultimati nel 2000. Da allora, i controlli si sono succeduti con regolarità e l’attuale è il terzo, a otto anni di distanza da quello del 2016. L’operazione consiste nella ripulitura delle pitture attraverso la rimozione della polvere e nel contestuale accertamento di eventuali problemi. Un restauro vero e proprio ha invece interessato il grande crocifisso ligneo che sormonta l’altare maggiore della basilica, realizzato nella seconda metà del XIII secolo e attribuito a un artista convenzionalmente indicato come Il presunto autoritratto di Piero della Francesca, particolare dell’Incontro tra la regina di Saba e Salomone, una delle scene del ciclo della Leggenda della Vera Croce, affrescato dall’artista tra il 1452 e il 1466. Arezzo, basilica di S. Francesco, Cappella Bacci. L’opera si basa sulla Legenda Aurea, una raccolta di vite di santi composta dal domenicano Iacopo da Varazze alla metà del XIII sec.

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Maestro di S. Francesco. La grande croce raffigura il Christus patiens, cioè il Cristo sofferente, ai piedi del quale è inginocchiato san Francesco, mentre nei riquadri superiori sono ritratti la Madonna, san Giovanni Evangelista, ancora Maria tra angeli e un’altra immagine del Cristo, questa volta redentore e benedicente. Vi è infine l’intervento piú importante ai fini della conservazione della cappella e della sua decorazione, ovvero la verifica della vetrata della finestra bifora che si apre nell’abisde, alla quale si è scelto di aggiungere una controvetrata esterna di nuova progettazione. Obiettivo dell’operazione è quello di assicurare un microclima piú stabile, tale da contribuire alla conservazione ottimale degli affreschi.

Visioni inedite A differenza dei controlli precedenti, la Direzione regionale dei Musei della Toscana, d’intesa con la Fondazione Arezzo Intour, ha voluto che l’opera dei restauratori e, di conseguenza, le pitture eseguite da Piero della Francesca, fossero rese accessibili al pubblico ed è nato cosí il progetto «All’altezza di Piero», un programma di visite guidate al cantiere che ha riscosso notevole successo, dal momento che i biglietti disponibili sono andati esauriti nel giro di pochi giorni. Chi abbia avuto l’opportunità di salire sui ponteggi avrà cosí avuto modo di ammirare da vicino le scene composte dal maestro di Sansepolcro: una visione inedita e certamente suggestiva, ma, di fatto, lontana dagli intenIn alto una veduta della Cappella Bacci (o Maggiore), con, in primo piano, il crocifisso ligneo dipinto attribuito a un artista convenzionalmente indicato come Maestro di S. Francesco. Sullo sfondo, la vetrata della finestra che si apre nell’abside, oggetto di uno degli interventi condotti nell’ambito del restauro in corso. A sinistra un’inedita visione del Sogno di Costantino, offerta dalla possibilità di accedere al ponteggio montato per consentire l’esecuzione degli interventi di restauro.

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In questa pagina due particolari dell’Incontro tra la regina di Saba e Salomone. Nella resa dei personaggi femminili appare evidente la scelta di Piero della Francesca di attribuire loro i tratti e l’abbigliamento che potevano caratterizzare le principesse e le nobildonne del suo tempo.

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dimenti dell’artista. La sua Leggenda della Vera Croce – al pari di analoghi cicli – era infatti pensata per la visione dal basso e ciò spiega alcuni accorgimenti adottati da Piero e dai suoi aiuti: in particolare, l’altezza dei tre registri in cui le pitture si articolano non è uniforme, ma cresce, leggermente, in senso ascendente, cosí da compensare la sproporzione che altrimenti sarebbe stata percepita dall’occhio dell’osservatore.

Un tema specificamente francescano Il racconto per immagini della Cappella Bacci, lo ricordiamo, si basa sulla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze e, trovandoci in una basilica officiata dai Francescani, fu scelto un tema, la Leggenda della Vera Croce, proprio del loro Ordine. Il ciclo comprende dieci episodi, che Piero della Francesca dispose, da sinistra verso destra, senza curarsi dell’andamento cronologico degli eventi. Eccone dunque la sequenza: Eraclio, imperatore d’Oriente, riporta la Croce a Gerusalemme; Elena, madre di Costantino fa scavare nel luogo svelatole da Giuda, e ritrova la Croce; si combatte la battaglia tra il re persiano Cosroe II ed Eraclio (615); Adamo, morente, manda il figlio Seth dall’arcangelo Michele per avere «l’olio della misericordia»; la regina di Saba incontra re Salomone, scena alla quale assiste un personaggio secondo alcuni identificabile con un autoritratto di Piero della Francesca; Massenzio e Costantino si scontrano nella battaglia di Ponte Milvio (312); Giuda, a conoscenza del luogo in cui è sepolta la Croce, viene fatto torturare dall’imperatrice Elena; Salomone, a cui la regina di Saba ha predetto che dall’albero nato dai semi messi nella bocca di Adamo al momento della sua sepoltura sarà ricavata la Croce, ordina di far sparire il legno nelle viscere della terra; l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria che concepirà il Figlio di Dio (un episodio estraneo alla Legenda Aurea e che Piero potrebbe aver inserito come semplice richiamo all’indulgenza concessa nel 1298 da papa Niccolò IV per chi avesse visitato la chiesa nel giorno della festa dell’Annunciazione); Costantino sogna la Croce la notte prima della battaglia contro Massenzio. Un racconto che dunque mescola fatti realmente accaduti con vicende leggendarie e che Piero della Francesca interpreta con eccezionale maestria e originalità. Affiancando soluzioni di stampo classico a scelte che nascono, per esempio, dalla sua frequentazione delle grandi corti del suo tempo, quali Urbino o Ferrara: si

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In alto e al centro particolari della Battaglia fra Eraclio e Cosroe, scontro combattuto nel 628 e conclusosi con la vittoria dell’imperatore d’Oriente, a seguito della quale il re persiano restituí la Vera Croce alla cristianità. A sinistra due personaggi della scena con l’Adorazione della Vera Croce.

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possono, al riguardo, citare le figure della regina di Saba e del suo corteo, che hanno i tratti di vere e proprie principesse del Quattrocento.

Di nuovo insieme All’imminente primavera si lega un altro importante appuntamento che ha per protagonista l’arte di Piero della Francesca: nello stesso giorno in cui Arezzo ritrova la Leggenda della Vera Croce, al Museo Poldi Pezzoli si apre la mostra che, per la prima volta, riunisce gli otto elementi superstiti del grande polittico che il pittore eseguí per l’altare maggiore della chiesa degli Agostiniani di Borgo San Sepolcro. Si tratta di un’opportunità eccezionale, resa posIn alto Crocifissione, pannello facente parte della predella del polittico dipinto da Piero della Francesca per la chiesa degli Agostiniani a Borgo San Sepolcro (Arezzo). 1454-1469. New York, Frick Collection. A sinistra la proposta di ricostruzione provvisoria del Polittico Agostiniano di Piero della Francesca elaborata sulla base degli elementi superstiti a oggi identificati (ricostruzione di Andrea Santacesaria, Nathaniel Silver e Machtelt Brüggen Israëls).

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DOVE E QUANDO

Leggenda della Vera Croce Arezzo, basilica di S. Francesco, Cappella Bacci Orario lu–ma–gio–ve-sa, 9,00–18,00; do e festivi, 13,00-17,30 Info https://museiarezzo.it/, https://museitoscana.cultura.gov.it «Piero della Francesca. Il polittico agostiniano riunito» Milano, Museo Poldi Pezzoli fino al 24 giugno (dal 20 marzo) Orario lu e me-do, 10,00-18,00; chiuso il martedí Info https://museopoldipezzoli.it

sibile dai prestiti concessi dai musei europei e statunitensi che oggi custodiscono quanto sopravvive dell’opera originaria, della quale, a oggi, non sono state rintracciate la tavola centrale e gran parte della predella. L’operazione era stata già tentata in passato, ma si era risolta in ricomposizioni solo virtuali, mentre questa volta il San Nicola da Tolentino del Poldi Pezzoli è affiancato dalle tavole originali riconosciute come parti del polittico. Piero lavorò alla pala tra il 1454 e il 1469, consegnando agli Agostiniani un’opera di levatura altissima, che, tuttavia, già alla fine del XVI secolo risultava essere stata smembrata e dispersa. L’esposizione milanese ne propone dunque la ricostruzione considerata piú attendibile sulla scorta degli studi condotti su questo capolavoro. Dal 21 marzo in poi, dunque, non resta che fissare in agenda l’incontro con una delle massime personalità dell’arte italiana. Stefano Mammini

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Da sinistra, in senso orario elementi del Polittico Agostiniano di Piero della Francesca: Sant’Agostino (Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga), Santa Monica e San Leonardo (New York, Frick Collection), Sant’Apollonia (Washington, National Gallery of Art).

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ANTE PRIMA

Rievocare il passato guardando al futuro

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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i avvicina il traguardo del ventennale per «Armi&Bagagli», il mercato internazionale della Rievocazione Storica che, il 16 e 17 marzo, riempirà i padiglioni di Piacenza Expo di uomini e donne provenienti da tutte le epoche passate e da un po’ tutti i Paesi d’Europa. Un giubileo che si preannuncia già ora ricco di novità e iniziative straordinarie: anche in questa ventesima edizione i visitatori si potranno trovare immersi in un vero e proprio viaggio nel tempo, alla scoperta di abiti, armature, attrezzi da lavoro, antichi mestieri e sapori, suoni, divertimenti dall’antichità all’epoca moderna. «Stiamo ancora vivendo un momento di ansia e di incertezza – esordisce Cesare Rusalen di Estrela Fiere, co-organizzatore dell’evento – dove passato prossimo e remoto si fondono con un presente dove abbiamo ancora i conflitti in essere, non solo in Ucraina, tant’è che alcuni nostri espositori sono ancora bloccati all’interno dei rispettivi confini e non possono partecipare alla fiera». «Nonostante questo – ha proseguito Massimo Andreoli di Wavents, altro co-organizzatore – siamo e rimaniamo comunque entusiasti, anche grazie ai numeri registrati nel 2023 nelle nostre fiere e manifestazioni storiche, dove forte è stato il segnale di rinascita e la volontà di guardare al futuro, pur immergendosi nel passato, con grande ottimismo». A rimarcare la sensazione di entusiasmo che aleggia tra gli espositori di «Armi&Bagagli» vi è anche la sempre maggiore partecipazione di professionisti dello spettacolo storico e itinerante, che danno vita a un vero e proprio festival coordinato dal Direttore Artistico di Wavents Gabriele Bonvicini, andandosi ad aggiungere agli oltre 350 espositori italiani e stranieri pronti a soddisfare la domanda di appassionati e professionisti verso l’artigianato storico, l’arcieria, il collezionismo militare, l’enogastronomia tradizionale. In contemporanea, infatti, al mercato vero e proprio della rievocazione storica, con artigiani per tutte le epoche, si uniranno giullari, musici, teatranti, giocolieri, trampolieri nonché un’intera area riservata all’enogastronomia storica e tradizionale. Sono ovviamente confermate tutte le fiere in contemporanea: «Expo Arc», fiera dedicata al mondo

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Un’immagine di repertorio di «Armi&Bagagli», la cui edizione 2024 è in programma a Piacenza il 16 e il 17 marzo.

dell’arco in tutte le sue espressioni e declinazioni sportive, culturali, artigianali, didattiche, storiche e venatorie; «Softair Fair», una grande manifestazione dedicata al mondo del Soft Air in tutte le sue componenti; «Piacenza Militaria», storica mostra mercato di collezionismo militare; «I Coltelli», mostra mercato di coltelleria artigianale e tecnica. «Armi&Bagagli», in programma presso Piacenza Expo (Piacenza, località Le Mose, SS 10 per Cremona), osserva il seguente orario: sabato, 10,00-19,00; domenica, 10,00-18,00. Non è necessaria alcuna prenotazione e i biglietti si acquistano direttamente alle biglietterie dell’ente fiera o presso la biglietteria on line (prevendita solo per i biglietti interi). Si consiglia comunque lo scarico dal sito del coupon per l’ingresso ridotto con registrazione personale (un biglietto ridotto per ogni visitatore). Info per «Armi&Bagagli», tel. 345 7583298 oppure 333 5856448, e-mail: info@armiebagagli.org; per «ExpoArc»: tel. 333 5856448, e-mail: info@expoarc.it; per «Softair Fair»: tel. 333 5856448, e-mail: softair@estrela.it; per «Piacenza Militaria» e «I Coltelli»: tel. 333 5856448, e-mail: info@estrela.it marzo

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ANTE PRIMA

INFORMAZIONE REDAZIONALE

LA FAMIGLIA AGRICOLA

Da Vienna al Gargano 16

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essuna nazione europea vanta il numero sterminato di casate gentilizie che punteggiano la memoria e la geografia del nostro Paese. Talvolta basta una traccia per ripercorrere un passato ricco di blasoni e inoltrarsi fino ai secoli del Medioevo. È il caso della ricerca compiuta dall’imprenditore e aristocratico Christian Agricola, che ha ricostruito, grazie a una corposa documentazione, la propria genealogia familiare e nobiliare dai giorni nostri fino al Quattrocento, partendo dal fondo del notaio Carmine Agricola di Ischitella (1643-1713) e da depositi presso autorevoli archivi di Stato italiani e non, archivi diocesani, notarili e universitari. Ne è emersa una biografia collettiva prestigiosa, che affonda le radici nel Sacro Romano Impero. «Ogni famiglia ha il suo marzo

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Nella pagina accanto la Capitanata in una mappa acquerellata realizzata dai cartografi olandesi Willem e Joan Blaeu. 1644. È evidenziata la località di San Nicandro (indicata come S. Licandro), nella quale si insediò uno dei rami della famiglia Agricola. In un atto del 1583, uno dei suoi membri, Marco Nico, risultava essere proprietario di due fortificazioni. In basso lo stemma degli Agricola, nel quale compare anche l’aquila bicipite, simbolo del Sacro Romano Impero, di cui i membri della famiglia furono nominati principi. punto zero» – osserva – sottolineando che l’indagine genealogica si configura come una sorta di «campo archeologico», per la complessità dello studio e la propensione a inseguire nuove scoperte. Nell’Archivio di Stato di Vienna è conservato uno dei fondi Agricola, nel quale si rintracciano documenti relativi al professore e medico viennese Philipp Agricola, vissuto nel XV secolo, in possesso di un titolo principesco (Reichsfürst) con tutta probabilità ottenuto per i servizi resi al governo imperiale. Maggiori informazioni si ricavano dal profilo del figlio, Leonardo, nato nel 1480 e studente universitario a Vienna presso l’Alma Mater Rudolphina Vindobonensis, anch’egli insignito del titolo di principe del Sacro Romano Impero (m.p.r.).

Ambasciatore del patriarca

località Marco Nico, figlio di secondo letto di Camillo, in base a quanto riportato da un atto notarile del 1583, risultava proprietario di due fortificazioni, che si presume corrispondano alla Torre Calarossa, le cui rovine dominano ancora le coste del Gargano. In età moderna, nella potente famiglia ormai radicata nel Meridione emergono altre figure di spicco, tra le quali feudatari, notai, medici, speziali, decurioni, cancellieri del Regno, ufficiali della Marina. Tale rinnovato prestigio trova riscontro nel documento del battesimo del principe Ambrogio Leonardo Gaspare Agricola che venne celebrato il 6 gennaio 1688: come padrino è indicato il principe di Ischitella e barone di Peschici Luigi Emanuele Pinto y Mendoza. Un decreto del 1840, inoltre, che porta la firma del sovrano del Regno delle Due Sicilie Ferdinando II, cita il principe Michele Vincenzo Agricola, inviato a Venezia per incarichi diplomatici. Successivamente, alcuni discendenti della famiglia si stabiliranno in territorio molisano. Con la morte di Giovanni Agricola avvenuta nel 1956 e di Giulio Silvio nel 1958, seguendo il fondo del Torso ed il fondo Joppi, si è estinto ufficialmente il ramo di Udine e Risano ed il titolo di Comitale dell’Impero d’Austria (m.) è passato de facto al ramo collaterale e ai soli figli maschi. Il titolo, cosí, è passato nel 1958 a Rocco Agricola di San Nicandro, nonno di Christian Agricola.

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INFORMAZIONE REDAZIONALE

Le strade della famiglia Agricola, a questo punto, conducono in Friuli, per la precisioneErrata a Udine, corrige con riferimento al Dossier dove Leonardo svolge la professione di notaio. In seguito Una L’umanista che andò alleprerogativa crociate (vediprestigiosa lo troviamo ad Aquileia, con la carica di cancelliere dinastia deidesideriamo Principi Agricola in Ischitella, oggi ramo «Medioevo» n. 220,La aprile 2015) e, soprattutto, ambasciatore del patriarca Marino di Ischitella, Sanriprodotta Severo, Guardialfiera gode della precisare che la medaglia in bronzo a Grimani. Tra le missioni diplomatiche piú ardue prerogativa della Fons Honorum ratificata anche da p. 93si(in basso) ritrae Malatesta Novello (al annota l’incontro con l’arciduca d’Austria Ferdinando istituzioni1418-1465) straniere sovrane secolo Domenico Malatesta, signore e internazionali. Recente I, nell’intento di far cessare le vessazioni di alcuni suoi e non Sigismondo è il riconoscimento titolo nobiliare, dello Stemma di Cesena, Malatesta,del come ministri nei riguardi del patriarcato aquileiano. Le e della Fons Honorum da indicato in didascalia. Dell’errore ci scusiamoparte con della Suprema Corte rimostranze furono accolte, ma non produssero gli effetti Regno Unito. Tre sono gli Ordini Dinastici di Casa l’autore dell’articolodel e con i nostri lettori. sperati: le molestie dei ministri proseguirono, in quanto Agricola beneficiari di Decreto di protezione perpetua – secondo la ricostruzione dello storico Girolamo de della Chiesa Cattolica come Ordini Dinastici Famigliari Renaldis – gli Austriaci erano determinati nel conservare Nobilitanti secondo il diritto canonico: Sacro Militare una forma di dominio su Aquileia. A raccogliere l’eredità Ordine del Santissimo Sacramento dell’Annunciazione professionale e politica di Leonardo fu il figlio Camillo di Nazareth (S.M.O.S.S.A.N.); Ordine della Legio (1509-1562), anch’egli notaio e cancelliere patriarcale. Linteata (O.L.L.) e l’Ordine dei Santi Ermacora e Negli anni la pluriblasonata famiglia Agricola si divise Fortunato (O.S.E.F.). «Vantiamo maggiori attestati in due rami: uno si stanziò a Udine, discendente da internazionali rispetto ai riconoscimenti italiani – Gaspare Piccolo, mentre l’altro prese dimora nel conclude il principe Christian Agricola – Ma ciò che Foggiano, in particolare nei centri di Ischitella e di San conta è l’attendibilità storica del nostro patrimonio Nicandro (oggi San Nicandro Garganico). In quest’ultima documentale, destinato a essere arricchito».


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arà «Secoli di luce» il tema della decima edizione del Festival del Medioevo, in programma a Gubbio dal 25 al 29 settembre. Piú di cento i protagonisti: storici, scrittori, scienziati, filosofi, architetti e giornalisti impegnati a fare finalmente luce sui «secoli bui» evocati per la prima volta da Francesco Petrarca e rilanciati alla fine del Novecento grazie a una fulminea sintesi giornalistica di Indro Montanelli. Per provare a sfatare il piú persistente dei pregiudizi: quello di un’età di Mezzo raccontata ancora come oscura, maligna e barbarica. Un’epoca cosí calunniata da non meritare nemmeno un nome: il «Medio Evo» che i manuali di storia e il dibattito pubblico confinano ancora fra gli inarrivabili splendori dell’antichità e le «magnifiche sorti e progressive» di un mondo moderno costretto invece, come è sempre avvenuto in ogni vicenda dell’uomo, a fare i conti anche con le guerre, le epidemie, le violenze quotidiane e i pregiudizi di ogni genere. Le lezioni di storia del Festival del Medioevo seguiranno il filo della celebre metafora attribuita al filosofo Bernardo di Chartres, che, agli inizi del XII secolo, esortava i suoi allievi allo studio attento del passato: «Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, cosí che possiamo vedere un maggior numero di cose e piú lontano di loro, tuttavia non per l’acutezza della vista o la possanza del corpo, ma perché sediamo piú in alto e ci eleviamo proprio grazie alla grandezza dei giganti».

In questa pagina immagini di repertorio del Festival del Medioevo, lo storico Franco Cardini (a destra) e Federico Fioravanti (in basso), ideatore e direttore della rassegna.

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Un Medioevo lontano dalla banalità degli stereotipi, visto attraverso il racconto dei grandi uomini e delle grandi donne che hanno segnato dieci secoli della nostra storia. Un lungo tempo di innovazioni e trasformazioni. E di continui «rinascimenti», in tutti i campi del sapere, dall’arte alla politica, dalle istituzioni pubbliche alla vita quotidiana. Mille e piú anni di grandi viaggi, pellegrinaggi e commerci fra mondi lontani e diversi, caratterizzati da una miriade di innovazioni e scoperte. Secoli nei quali sono nate anche le lingue d’Europa, le nazioni, le banche e le università e nei quali straordinari pensatori hanno sviluppato le basi della moderna cultura scientifica.

Appuntamenti speciali Mostre, mercati, spettacoli, rievocazioni, focus tematici e attività didattiche arricchiscono i cinque giorni del Festival del Medioevo insieme ad alcuni speciali appuntamenti: la Fiera del libro medievale, i grandi classici e le novità editoriali, con tutto quello che c’è da leggere sul Medioevo; Scriptoria, dedicato all’arte della miniatura e della calligrafia con i laboratori e le dimostrazioni pratiche dei principali miniaturisti e calligrafi italiani e stranieri; Medievalismi, l’esplorazione dell’età di Mezzo nella cultura contemporanea: cinema e letteratura, fumetti e canzoni, abiti e architetture, illustrazioni grafiche e giochi di ruolo; un Medioevo immaginario, reinventato, ricostruito e a volte anche sconvolto attraverso i nuovi linguaggi della politica, del costume e delle mode; la scuola dei rievocatori, un evento pensato per valorizzare, attraverso l’analisi e la ricostruzione delle fonti storiche, l’appassionato lavoro di centinaia di associazioni e di migliaia di rievocatori impegnati in ogni regione d’Italia nel far rivivere la storia e le tradizioni del loro territorio; il Medioevo dei ragazzi, giochi, letture, animazioni, laboratori d’arte e corsi di disegno riservati agli alunni delle scuole secondarie di primo grado. Dalla prima edizione, il Festival del Medioevo ha affrontato i seguenti temi: «La nascita dell’Europa» (2015), «Europa e Islam» (2016), «La città» (2017), «Barbari. La scoperta degli altri» (2018), «Donne. L’altro volto della Storia» (2019), «Mediterraneo. Il mare della Storia» (2020), «Il tempo di Dante» (2021), «Dinastie. Famiglie e potere» (2022) e «Oriente-Occidente. Le

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frontiere mobili della Storia» (2023). Ideato e diretto dal giornalista Federico Fioravanti, il Festival del Medioevo è organizzato ogni anno in modo congiunto dalla Associazione di Promozione Sociale Festival del Medioevo e dal Comune di Gubbio.

Partners e sostenitori La manifestazione gode del patrocinio scientifico dell’Istituto storico italiano per il Medioevo (ISIME), della Società italiana degli storici medievisti (SISMED), della Società degli Archeologi Medievisti Italiani (SAMI) e della Associazione Italiana di Public History (AIPH). Assicurano il loro patrocinio istituzionale la Regione Umbria, la Camera di Commercio dell’Umbria e la Fondazione Giancarlo Pallavicini Onlus Umanitaria e Culturale. Partners per il settore didattico sono la Fondazione Giuseppe Mazzatinti di Gubbio e l’Università Santissima Maria Assunta (Lumsa). Grazie alla loro collaborazione, il Festival del Medioevo rilascia attestati di partecipazione a studenti e docenti. La RAI, con RAI Cultura e il canale RAI Storia è stato per tutte le edizioni il principale media partner della manifestazione, insieme alle riviste di divulgazione storica «MedioEvo» e «Archeo». Collaborano in modo stabile con il Festival del Medioevo anche Italia Medievale, portale web impegnato da molti anni nella promozione del patrimonio storico e artistico del Medioevo italiano, MediaEvi, pagina Facebook specializzata nell’analisi dei cosiddetti medievalismi, Feudalesimo e Libertà, fenomeno social di goliardia e satira politica e l’Enciclopedia delle donne, un’opera collettiva sul web che raccoglie biografie di donne di ogni tempo e paese. Sostengono la manifestazione il Comune di Gubbio, la Regione Umbria, il Gruppo Azione Locale Alta Umbria (GAL), la Fondazione Perugia e la Camera di Commercio dell’Umbria. Gli sponsor principali sono il Gruppo Financo, con Colacem, Colabeton, Park Hotel ai Cappuccini e CVR – dal 1980 l’edilizia in buone mani. Sostengono il Festival anche la Fondazione Giancarlo Pallavicini Onlus umanitaria e culturale, Metalprogetti e Tecla. Il sito della rassegna www.festivaldelmedioevo.it e la relativa pagina Facebook @FestivalDelMedioevo sono gli indirizzi on line dedicati alla divulgazione storica del Medioevo piú visitati in Italia.

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Divina Foligno INCONTRI • La città

umbra vanta un legame antico con Dante, la cui Commedia venne qui stampata per la prima volta. Evento che fa da motore al tradizionale appuntamento con le Giornate dantesche

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oligno è la città dalle cui botteghe tipografiche vide la luce, nell’aprile del 1472, la prima edizione a stampa della Commedia. La storia di questa edizione non si comprende appieno se non si considera la vocazione commerciale che la cittadina umbra poteva vantare sin da quell’epoca, e se non si considera in particolare il fenomeno delle fiere commerciali, che per la penisola italiana rappresentarono un momento determinante di crescita. Al tempo, erano tre i piú importanti eventi fieristici: Lanciano, Recanati

e per l’appunto Foligno, capace di diventare uno dei primi centri di riferimento per la stampa dei libri, e non solo un dinamico luogo di commerci. Tra i protagonisti di tali eventi fieristici c’erano ovviamente i ricchi imprenditori folignati, come gli Orfini. Proprio l’orafo Emiliano Orfini recita una parte non irrilevante nella storia della princeps della Commedia. Dal 1464 gestore della zecca di Roma, città all’avanguardia nella produzione libraria, riuscí a intuire le potenzialità della nuova tecnica ormai da qualche anno giunta in In alto Foligno, piazza della Repubblica, con il palazzo comunale e palazzo Orfini, sede del Museo della stampa. A sinistra caratteri mobili per la stampa. Foligno, Museo della stampa.

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Italia grazie ai Tedeschi. Alcuni di essi, erano a Foligno già dal 1463, e conoscevano la straordinaria invenzione di Gutenberg. Tra di loro c’era Johann Neumeister, con il quale Orfini entrò in società: era il 1469. Nel palazzo di famiglia Orfini approntò un laboratorio che, nel 1470, stampò la traduzione latina della Guerra gotica di Procopio messa a punto da Leonardo Bruni.

La Commedia, un successo garantito Spinti dal successo di questa prima edizione, Orfini e Neumeister decisero di dare un seguito alla loro attività e, nel 1471, stamparono anche le Familiares di Cicerone. Quest’ultima opera, però, conosceva già numerose edizioni (non meno di otto) e i risultati delle vendite non furono quelli sperati, tanto da convincere Orfini ad abbandonare bruscamente la sua esperienza tipografica. A quel punto Neumeister fu costretto a trovare un nuovo socio, che si materializzò nel notaio trevano Evangelista Angelini. E Angelini marzo

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ebbe probabilmente un ruolo non secondario nella decisione di puntare sui testi in volgare abbandonando quelli in latino: a quell’altezza le opere di Petrarca e Boccaccio non erano ignote alla stampa, ma altrettanto non si poteva dire per quelle di Dante. Per questo si puntò sulla Commedia, il cui testo peraltro non risultava poi cosí difficile da reperire in considerazione del grande successo che aveva incontrato in Umbria nel secolo precedente. Occasione propizia per smerciarla sarebbe stata proprio la fiera dell’Annunciazione, che per tradizione cominciava tre giorni prima dell’Annunciazione del 25 marzo e finiva tre giorni dopo. È cosí che l’11 aprile 1472 (o tra il 5 e il 6, come ha recentemente e argutamente suggerito Natale Vacalebre) vide la luce la prima edizione della Commedia. Divina, secondo Boccaccio. Questa vicenda, rocambolesca e avvincente piú di quanto questa rapida ricostruzione non

Dall’anteprima al gran finale Le Giornate dantesche 2024 si svolgono dal 2 al 10 aprile e vivranno una importante anteprima in occasione del Dantedí, che vedrà protagonista la scrittrice Melania G. Mazzucco. Come da tradizione, un artista di rilievo – quest’anno Ugo La Pietra – sarà incaricato di «illustrare» la copia anastatica della editio princeps che verrà presentata alla città il 2 aprile, nel corso di un evento animato dal critico d’arte Italo Tomassoni e dallo stesso artista. Ci saranno conferenze di noti dantisti, quali Alberto Casadei, Lino Pertile, Natascia Tonelli e Natale Vacalebre; presentazioni di libri con personaggi del calibro di Maria Grazia Calandrone (che presenterà Dove non mi hai portata) e Alessandro Masi (con Vita maledetta di Benvenuto Cellini); incontri con grandi nomi della scena culturale nazionale come Ferruccio de Bortoli. Centrali saranno le iniziative rivolte alle scuole: alle Medie saranno dedicate due giornate laboratoriali a tema dantesco, mentre le Superiori si sfideranno nel concorso «Commediando», che le vedrà impegnate a proporre una loro personale interpretazione di un canto della Commedia. Le Dantesche 2024 si concluderanno la sera del 10 aprile, quando a Giulio Rapetti, in arte Mogol, sarà consegnato un premio speciale, dopo che avrà ripercorso la sua straordinaria carriera attraverso musica e parole.

A destra documenti esposti nel Museo della stampa di Foligno. In basso Marinella Senatore, Inferno. 2021. Foligno, Biblioteca comunale «Dante Alighieri».

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ANTE PRIMA della Guerra gotica di Procopio realizzata da Leonardo Bruni, le Familiares di Cicerone e la Commedia di Dante) e offre un’ampia documentazione sull’attività delle cartiere della vicina Valle del Menotre e sulla produzione editoriale a Foligno tra il XV e il XIX secolo. Dal 2020 le Giornate dantesche hanno conosciuto una nuova fase e un sensibile balzo in avanti che ha visto moltiplicarsi gli eventi e salire costantemente il loro livello, con un sempre maggiore coinvolgimento della città (anche impreziosita da installazioni che hanno restituito alcune delle piú celebri terzine dantesche) e una crescente partecipazione delle scuole, possa lasciare intuire, e con essa l’interesse per l’antica tradizione tipografica folignate, è tornata prepotentemente alla ribalta in occasione della mostra «Pagine di Dante. La Divina Commedia dal torchio al computer», che si è svolta nel 1989 a Foligno, dopo il successo alla Buchmesse di Francoforte che l’aveva accolta l’anno precedente.

In alto riproduzione di un torchio per la stampa a caratteri mobili. Foligno, Museo della stampa. A destra la corte interna di palazzo Trinci a Foligno.

Una tradizione consolidata A quel periodo risale la costituzione in città di un «Comitato di Coordinamento per lo Studio e la Promozione della Prima Edizione a Stampa della Commedia», a cui aderiscono il Comune di Foligno, la Cassa di Risparmio di Foligno, il Lyons’ Club, la Pro Foligno, con lo scopo di realizzare iniziative culturali legate all’evento. Cosí dal 1991 ogni anno Foligno organizza celebrazioni (le Giornate dantesche) che prevedono incontri, approfondimenti, conferenze e, a partire dal 2006, commissiona a un artista di chiara fama opere grafiche ispirate alle tre cantiche dantesche da inserire nella ristampa anastatica dell’editio princeps che si rinnova annualmente. Grazie al

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contributo di artisti dello spessore di Mimmo Paladino, Omar Galliani, Ivan Theimer, si è quindi andata componendo una collezione di arte contemporanea ispirata alla Commedia unica nel suo genere, che è conservata dalla Biblioteca Comunale, non a caso intitolata a Dante Alighieri. L’11 aprile del 2012 è stato invece inaugurato il Museo della Stampa di Foligno nelle sale di Palazzo Orfini, il palazzo nel quale era sorta la prototipografia Orfini Neumeister. Il nucleo centrale del Museo vede protagoniste le tre opere stampate da questa tipografia (la traduzione latina

destinatarie di numerose iniziative. Nel 2022, a 550 anni dalla prima edizione della Commedia, e con la prestigiosa collaborazione della Società Dante Alighieri, è stato inoltre realizzato il film 1472-2022. La Comedia di Foligno, che ripercorre le vicende che portarono alla stampa del poema. Cristiana Brunelli DOVE E QUANDO

Giornate dantesche 2024 Foligno 2-10 aprile Info www. giornatedanteschefoligno.it marzo

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AGENDA DEL MESE

Mostre FIRENZE PIER FRANCESCO FOSCHI (1502-1567) PITTORE FIORENTINO Galleria dell’Accademia fino al 10 marzo

La fortunata carriera di Pier Francesco Foschi (1502-1567) – allievo di Andrea del Sarto, che collaborò anche con

a cura di Stefano Mammini

dell’Accademia di Firenze, un dipinto cruciale per capire la sua produzione giovanile e come ha fatto propri gli insegnamenti di Andrea del Sarto. Il percorso espositivo si articola in cinque sezioni, che approfondiscono i principali aspetti della sua prolifica attività, a partire proprio dalla formazione presso Andrea del Sarto fino alle commissioni di grandi pale d’altare e ai

dipinti destinati alla devozione privata di soggetto mariano, insieme a rare e preziose opere legate ai temi del Vecchio Testamento, in cui si evidenzia l’influenza del Pontormo. Per l’occasione saranno finanziati importanti restauri di alcuni dipinti del pittore fiorentino come quelli nella basilica di Santo Spirito a Firenze e nella Propositura dei Ss. Antonio e Jacopo a Fivizzano. info www.galleriaaccademiafirenze.

Organizzata in occasione dei

Saggiatore fu offerto come dono augurale al neoeletto pontefice Urbano VIII e nella dedica degli accademici al pontefice si legge: «[Galileo Galilei] scopritore, non di nuove Terre; ma di non piú vedute parti del Cielo (...) di quegli splendori celesti, che maggior maraviglia sogliono apportare». Il libro nacque dalla disputa sull’origine delle comete tra Galileo e il gesuita Orazio Grassi: nell’opera venivano confutati radicalmente, in pagine destinate a rimanere memorabili, i fondamenti della filosofia scolastica sui quali poggiavano le argomentazioni del gesuita, a cui Galileo contrappose la propria concezione di una natura organizzata sulla base di rigorosi princípi matematici che non ammettono eccezioni.

400 anni dalla pubblicazione del Saggiatore di Galileo – opera che ha posto i fondamenti del moderno concetto di scienza, basato sull’osservazione e sulla sperimentazione – la mostra illustra le scoperte dello scienziato toscano e le nuove frontiere della ricerca astronomica. Sostenuto e pubblicato nel 1623 dall’Accademia dei Lincei, il

Gli «splendori celesti» sono le comete e, per estensione, i nuovi mondi che il cannocchiale di Galileo permise di vedere per la prima volta nella storia dell’umanità: le montagne della Luna, le macchie solari, le fasi di Venere, i satelliti di Giove e le infinite stelle della Via Lattea. Un nuovo sguardo sull’universo destinato a cambiare radicalmente la

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FIRENZE SPLENDORI CELESTI. L’OSSERVAZIONE DEL CIELO DA GALILEO ALLE ONDE GRAVITAZIONALI Complesso di S. Maria Novella, ex dormitorio fino al 17 marzo

Pontormo – si svolse nei decenni centrali del Cinquecento e viene ora ripercorsa dalla prima rassegna monografica dedicata all’artista. L’esposizione riunisce una quarantina di opere autografe, tra dipinti e disegni, tra cui la pala d’altare, la Sacra Famiglia con San Giovannino (1526-1530), già presente nelle collezioni della Galleria

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numerosi ritratti, genere in cui ottenne notevole successo. Troviamo un importante nucleo di studi giovanili tratti da modelli del maestro, insieme ad accostamenti tra alcuni originali di Andrea del Sarto e le repliche che Foschi realizzò, confronti che fanno comprendere meglio la sua personalissima declinazione della maniera sartesca. L’esposizione propone anche

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concezione cosmologica geocentrica a favore dell’ipotesi copernicana. info tel. 055 2989851; www.museogalileo.it; Facebook: @museogalileo; Instagram: @museogalileo BOLOGNA LIPPO DI DALMASIO E LE ARTI A BOLOGNA TRA TRE E QUATTROCENTO Museo Civico Medievale, Sale del Lapidario fino al 17 marzo

Il piú celebrato dei pittori bolognesi del tardo Medioevo, Lippo di Dalmasio viene per la prima volta scelto come protagonista di una rassegna monografica. Figlio del pittore Dalmasio (1315 circa-1374 circa) e nipote del noto artista Simone di Filippo Benvenuti, detto Simone dei Crocifissi (1330 circa–1399), Lippo appartenne alla prestigiosa famiglia ghibellina degli Scannabecchi. Come il padre, fu a lungo attivo in Toscana, a Pistoia, dove è probabile abbia intrapreso la sua attività, ottenendo le prime importanti commissioni. Attraverso l’esposizione di una quarantina di opere, tra dipinti, sculture e manoscritti miniati, la mostra intende ripercorrere, facendo riferimento al contesto artistico cittadino, l’attività di questo

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maestro su cui «grava» lo stereotipo di «pittore cristiano e devoto della Madre di Dio» nato in età di Controriforma, in parte giustificato dalla sopravvivenza di molte sue opere raffiguranti la Madonna con il Bambino. La mostra si articola in tre sezioni: Tra Bologna e Pistoia: i rapporti con l’arte toscana, Bologna 1390 e Un pittore per la città 1400-1410 verso il tardogotico. Oltre ai dipinti e agli affreschi di Lippo di Dalmasio (alcuni inediti) sono esposte in mostra anche opere di alcuni degli artisti piú rinomati a lui contemporanei – Simone dei Crocifissi, Jacopo di Paolo, Nicolò di Giacomo, Giovanni di Fra Silvestro, Don Simone Camaldolese, Lorenzo Monaco, Jacobello e Pierpaolo Dalle Masegne –, prestati per l’occasione da vari musei, biblioteche, chiese italiane e collezioni private. info tel. 051 2193923; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it/ arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Instagram: @ museiarteanticabologna; Twitter: @MuseiCiviciBolo CUNEO LORENZO LOTTO E PELLEGRINO TIBALDI. CAPOLAVORI DALLA SANTA CASA DI LORETO Complesso Monumentale di S. Francesco fino al 17 marzo

Il progetto espositivo è imperniato sui sette dipinti di Lorenzo Lotto che costituiscono il cosiddetto «ciclo lauretano» del pittore, disposti quando egli era ancora in vita presso la Cappella del Coro della chiesa di S. Maria di Loreto, e su due affreschi strappati e portati su tela di Pellegrino Tibaldi, originariamente realizzati per la Cappella di S. Giovanni

della stessa chiesa lauretana. Tutte le nove opere provengono dal Museo Pontificio Santa Casa di Loreto. La mostra intende proporsi come occasione per indicare nuovi percorsi di ricerca in merito alle possibili reciproche influenze tra Lotto e Tibaldi, due artisti di

differente cultura, visto il pur breve periodo condiviso dai due nel cantiere lauretano, indagato solo di recente. Se il rapporto Lotto-Tibaldi dà modo di raccontare un momento fondamentale della storia del Santuario di Loreto e insieme della storia dell’arte italiana, all’interno della mostra è altrettanto importante il richiamo alla presenza ancora oggi rilevante in Piemonte di manufatti testimonianti una diffusa, secolare e, in certi casi, artisticamente rilevante devozione mariano-lauretana. Una sezione propone infatti una mappatura territoriale dei manufatti piú significativi con l’indicazione di un itinerario utile per i visitatori che vorranno integrare e approfondire l’esperienza vissuta in mostra. info www.fondazionecrc.it BERGAMO LE MURA NELLA STORIA. TESORI DI UNA CITTÀ-FORTEZZA

DEL RINASCIMENTO Museo del Cinquecento, Palazzo del Podestà fino al 17 marzo

Allestita in Palazzo del Podestà come ideale prosecuzione del Museo del Cinquecento, la mostra ripercorre in quattro sezioni la storia della progettazione e realizzazione

della fortezza di Bergamo. Il percorso permette non solo di comprendere la storia della fortezza nella geografia piú ampia del sistema difensivo territoriale della Repubblica di Venezia, ma anche di leggere le Mura come espressione della cultura architettonica rinascimentale delle «fortezze alla moderna» e ancora di conoscere l’organizzazione militare della città e del suo territorio, avamposto occidentale della terraferma veneziana. L’ultima sezione conduce il visitatore nel cantiere delle Mura: qui i

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protagonisti sono ingegneri e architetti militari, tagliapietre e spezzamonti, marangoni e ferlinanti, maestranze piú o meno professionalizzate, uomini e donne che con opera e ingegno, scienza e prassi, tecnologia e lavoro hanno dato vita in poco meno di trent’anni (1561-1588) a questo gioiello dell’architettura militare rinascimentale. info https://museodellestorie. bergamo.it LEIDA L’ANNO MILLE Rijksmuseum van Oudheden fino al 17 marzo

la residenza imperiale di Nimega o la cattedrale di Utrecht – e materiali di pregio, come i manufatti preziosi provenienti da Maastricht. La selezione degli oggetti esposti comprende oltre quattrocento reperti archeologici, manufatti e manoscritti provenienti da collezioni olandesi e straniere. info www.rmo.nl.

costruzione che cambiò indelebilmente il volto di Roma. Reso possibile grazie alla competenza dell’architetto Domenico Fontana e di una folta schiera di pittori, scultori, stuccatori, richiamati a Roma da tutte le città d’Italia, il progetto interessò la costruzione di alcuni capisaldi della centralità

FELTRE DI LAME E DI SPADE. MAESTRI SPADAI A FELTRE TRA IL XV ED IL XVII SECOLO Museo Civico Archeologico fino al 31 marzo

Il periodo compreso tra il 900 e il 1100 è spesso percepito

come un’epoca in cui non si registrarono eventi di particolare importanza, ma cosí non fu per il territorio che oggi è conosciuto come Paesi Bassi: per quelle regioni, infatti, fu una stagione di grandi cambiamenti nel paesaggio, nell’architettura, nel clima, nella lingua e nella società. La mostra allestita a Leida propone dunque un viaggio nel tempo attraverso il paesaggio di questo mondo medievale, con l’anno 1000 come destinazione finale. Un percorso che permette di scoprire lo svolgersi della vita quotidiana attraverso contesti di grande importanza – come

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La mostra offre uno spaccato sul mondo degli spadai feltrini e sull’eccellenza di produzioni che li resero celebri in tutta Europa. L’esposizione rende visibili al pubblico una decina di pezzi di assoluto interesse – da una trecentesca basilarda a lame, spade, stiletti ed armi in asta – il cui valore e la cui importanza sono stati riportati alla luce proprio grazie agli studi condotti in occasione dell’evento. info www.visitfeltre.com MONTALTO DELLE MARCHE (AP) LA NASCITA DI UNA METROPOLI: ROMA AL TEMPO DI SISTO V Palazzo Paradisi fino al 31 marzo

Il progetto espositivo ripercorre la complessa operazione di renovatio urbis sviluppata dal papa marchigiano Sisto V in soli cinque anni di pontificato, operazione che elesse la Città Eterna a modello di riferimento per il rinnovamento urbanistico attuato nei secoli successivi in varie capitali europee. Dal 1585 al 1590, infatti, fu avviata un’intensa attività di

direttiva – Villa Montalto, il Palazzo Lateranense, il Palazzo del Quirinale, il Palazzo Nuovo Vaticano, la Biblioteca Vaticana – e dell’idea religiosa del pontefice – Cappella Sistina, Cupola di San Pietro, San Girolamo degli Schiavoni –, oltre che vie di passaggio, come la via Felice e la strada di San Giovanni, e spazi urbani articolati intorno agli obelischi, alle colonne, alle fontane. Infine, le decorazioni pittoriche delle decine di migliaia di metri quadrati delle nuove pareti e delle nuove volte in cui trascrivere le pagine mirabolanti della «Bibbia sistina». info tel. 0736 828015; @visitmontaltomarche

LIVORNO LEONARDO DA VINCI. BELLEZZA E INVENZIONE Museo della Città fino al 1° aprile

Negli spazi del Museo della Città sono riuniti per l’occasione 15 disegni autografi di Leonardo da Vinci del Codice Atlantico dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano e il Codice sul Volo degli Uccelli dalla Biblioteca Reale di Torino. Opere affiancate da disegni e dipinti leonardeschi che testimoniano la ricezione e la diffusione di temi del genio vinciano. Nella mente di Leonardo bellezza e invenzione costituiscono un binomio indissolubile, cosí come l’intento della rappresentazione è inscindibile dal processo della conoscenza. La mostra vuole offrire quindi l’occasione di immergersi nella mente dell’artista approfondendo il suo rapporto tra il disegno e la pittura, che considera una scienza naturale. Rispetto ai suoi contemporanei, infatti, il

costante e minuzioso studio del vero non si limita a esercizi teorici di riproduzione, ma è il risultato diretto di una miracolosa investigazione della natura. info tel. 0586 824551; e-mail: museodellacitta@comune.livorno.it; www.museodellacittalivorno.it VENEZIA RESTITUZIONI. LA MADONNA SORLINI DI GIOVANNI BELLINI IN

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MEDIOEVO


venne istituita la Fondazione Luciano Sorlini, ente predisposto a custodire la propria straordinaria collezione. info tel. 041 5222247 oppure 2413942; e-mail: ga-ave@cultura.gov.it; https://gallerieaccademia.it PADOVA LO SCATTO DI GIOTTO. LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI NELLA FOTOGRAFIA TRA ‘800 E ‘900 Museo Eremitani fino al 7 aprile

La Cappella degli Scrovegni è stata fra i primi monumenti italiani riprodotti in fotografia in modo sistematico e puntuale. Carlo Naya, uno dei pionieri italiani della fotografia, immortala gli affreschi in alcuni scatti già nell’estate del 1863, a meno di venticinque anni MOSTRA PRIMA DEL RESTAURO Gallerie dell’Accademia fino al 7 aprile

Opera icona della prima maturità artistica di Giovanni Bellini e proprietà della Fondazione Luciano Sorlini di Calvagese della Riviera (Brescia), la Madonna in adorazione del Bambino dormiente sarà oggetto di un intervento di restauro affidato a Giulio Bono e patrocinato da Banca Intesa Sanpaolo nell’ambito del programma Restituzioni. E prima dell’inizio dei lavori viene eccezionalmente esposta nelle Gallerie dell’Accademia, che conservano numerose opere del pittore veneziano. La «Madonna Sorlini» è indicata dalla storiografia critica come centrale all’interno del catalogo dell’autore, sempre presente nei principali cataloghi ragionati dell’opera belliniana del 1974, 1992 e 1997. Il soggetto è quello

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maggiormente affrontato dall’autore, considerato tra i maggiori interpreti del tema della Madonna con il Bambino. La figura appare saldamente ancorata nella composizione, mentre lo sguardo rivolto all’Infante tradisce la consapevolezza della Passione futura, confermata dagli elementi iconografici a corollario della composizione: il panneggio in cui è avvolto il bambino, trattato come un sudario, e il manto rosso, all’epoca colore del lutto. L’originalità del dipinto è stata sancita da Roberto Longhi, che ne parla nel suo Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946) citandola per la prima volta come «Madonna in rosso». Venne poi chiamata «Madonna Sorlini» dopo che, nel 2004, l’imprenditore e collezionista bresciano Luciano Sorlini la acquisí. Contestualmente alla scelta,

Biblioteca Civica di Padova. La mostra si affaccia poi al Novecento attraverso le campagne fotografiche Alinari e di Domenico Anderson, il cui valore si intreccia con quello dell’editoria d’arte e di divulgazione. Proprio grazie alle campagne della Casa Editrice Alinari di Firenze le immagini della Cappella degli Scrovegni vengono inserite nei cataloghi d’arte a partire dal 1906. Qui il capolavoro di Giotto viene presentato nella sua straordinarietà per la prima volta quale ciclo narrativo completo, ma non solo: da questo momento in poi si sorpassa l’idea dell’esclusività nella riproduzione degli affreschi della Cappella e viene esplicitamente specificato nei verbali delle adunanze della città di Padova che lasciar circolare l’opera di Giotto attraverso la fotografia avrebbe consentito di diffondere nel mondo il valore della sua arte e non avrebbe mai potuto provocare una riduzione dei visitatori. Da quel momento in poi, grazie ai cataloghi Alinari, la Cappella degli Scrovegni sarà conosciuta in tutto il mondo, giacché le pubblicazioni avevano edizioni anche in lingua francese e inglese. info tel. 049 8204551 FANO

dall’invenzione ufficiale di questa tecnologia, e piú avanti realizza una intera campagna fotografica del monumento a scopo conservativo prima dei restauri di Guglielmo Botti, realizzati fra il 1869 e il 1871. Il percorso espositivo de «Lo scatto di Giotto» parte da riproduzioni di grande fascino e si apre in uno scenario in bianco e nero creato dalle lastre fotografiche realizzate da Luigi Borlinetto a partire dal 1883 e conservate dalla

PIETRO PERUGINO A FANO. PRIMUS PICTOR IN ORBE Museo del Palazzo Malatestiano fino al 7 aprile

Torna a Fano, dopo un importante intervento di restauro, la Pala di Durante dipinta da Pietro Perugino, opera identitaria per la città marchigiana, tanto da essere conosciuta anche come Pala di Fano. «Primus pictor in orbe» («Primo pittore al mondo»): cosí viene definito Perugino nel contratto del

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AGENDA DEL MESE

1488 che lo portava a lavorare a Fano dove avrebbe realizzato due opere eminenti: la Madonna con il bambino in trono e i santi Giovanni Battista, Ludovico di Tolosa, Francesco, Pietro, Paolo e la Maddalena, detta Pala di Durante, e l’Annunciazione. La Pala di Durante, dipinta a olio su tavola, fu eseguita per l’altare maggiore della chiesa di S. Maria Nuova di San Lazzaro e fu realizzata a piú riprese, tra il 1488 e il 1497. È cosí definita dal nome che compare nell’iscrizione sul piedistallo ai piedi della Vergine: Durante di Giovanni Vianuti, che nel 1485 fece un lascito ai frati Minori Osservanti, il cui convento venne piú tardi trasferito nell’attuale sede della chiesa di S. Maria Nuova. Il pannello principale raffigura la Madonna con il Bambino seduta su un alto trono con ai lati i santi. Il gruppo è disposto all’ombra di un chiostro rinascimentale, aperto sullo sfondo verso un luminoso paesaggio collinare. A completamento della pala, una lunetta con Cristo in Pietà tra i dolenti e santi Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea e una predella con cinque Storie della vita della Vergine, alla cui realizzazione o perlomeno progettazione grafica, alcuni storici dell’arte ritengono che

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abbia collaborato il piú geniale allievo di Perugino e futuro protagonista della scena artistica, Raffaello Sanzio, allora appena quattordicenne. info tel. 0721 887.845-847; e-mail: museocivico@ comune.fano.pu.it; museocivico.comune.fano.pu.it NANTES GENGIS KHAN. COME I MONGOLI HANNO CAMBIATO IL MONDO Château des ducs de BretagneMusée d’histoire de Nantes fino al 5 maggio

Dalle steppe della Mongolia all’estremo Sud della Cina, dall’Oceano Pacifico ai confini del Medio Oriente, Gengis Khan e il suo esercito hanno dato vita, nel corso del XIII

secolo, a un vasto impero. Al culmine del loro potere, i Mongoli controllavano oltre il 22% delle terre del pianeta, e il nipote di Gengis Khan, Kubilaï, gran khan dei Mongoli, divenne anche imperatore della Cina. Fondò la dinastia Yuan e stabilí la

sua capitale a Dadu (l’attuale Pechino). Dopo anni di conquiste violente per dare vita a questo impero, l’istituzione della Pax Mongolica permise lo sviluppo di relazioni commerciali, scientifiche e artistiche tra Oriente e Occidente. L’esposizione si propone di far scoprire la storia dell’impero di Gengis Khan, attraverso la presentazione di oggetti provenienti dalle collezioni nazionali della Mongolia, a cui fanno da contorno manufatti concessi in prestiti da musei francesi ed europei. Fra i temi del progetto espositivo spicca l’attenzione rivolta alle interazioni dell’impero mongolo con le altre potenze dell’epoca, in particolare con il regno di Francia. Ed è stato un europeo, Marco Polo, a riassumere con efficacia che cosa abbia significato l’incontro con i Mongoli: il suo Milione, infatti, ebbe una diffusione straordinaria e conserva intatto il suo eccezionale valore documentario. info www.chateaunantes.fr BOLOGNA STREGHERIE. ICONOGRAFIA, FATTI E SCANDALI SULLE SOVVERSIVE DELLA STORIA Palazzo Pallavicini fino al 16 giugno

Dopo essere stata proposta con successo a Monza, «Stregherie» giunge a Bologna, in una nuova e piú ricca edizione. Alla collezione di stampe e incisioni di Guglielmo Invernizzi, famoso “collezionista dell’occulto”, si aggiungono nuove opere d’arte, provenienti da collezioni private, italiane ed estere, e oggetti legati al mondo della stregoneria, concessi in prestito dal Museum of Witchcraft and Magic in Cornovaglia, e dal Museo delle

Civiltà di Roma, che per la prima volta presenta la sua straordinaria collezione di amuleti in argento ottocenteschi, veri e propri gioielli, utilizzati dalle donne definite streghe o, piú spesso, contro di loro. Accanto alle opere d’arte, sono stati riuniti per l’occasione preziosi manuali di esorcismo e trattati storici imprescindibili in un percorso dedicato alla stregoneria. Fra tutti, spicca il Malleus Maleficiarum, il manuale sulla caccia alle streghe piú utilizzato dalla Chiesa, che indicava, caso per caso, i supplizi e le pene da infliggere a chi era accusato di stregoneria, del quale si può ammirare la seconda edizione, stampata nel 1520. Il progetto espositivo mira a ricostruire una cultura dispersa e oppressa, ma che risorge continuamente, partendo dalle sue origini e raccontandone la storia attraverso una ricerca iconografica rigorosa, che ne attesta tutti gli aspetti. info www.stregherie.it FORLÍ PRERAFFAELLITI. RINASCIMENTO MODERNO Musei San Domenico fino al 30 giugno

Tra gli anni Quaranta dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, l’arte storica marzo

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italiana, dal Medioevo al Rinascimento, ha un forte impatto sulla cultura visiva britannica, in particolare sui preraffaelliti. Questo movimento artistico, nato nell’Inghilterra vittoriana di metà Ottocento a opera di alcuni artisti ribelli – William Holman Hunt, John Everett Millais e Dante Gabriel Rossetti – aveva lo scopo di rinnovare la pittura inglese, considerata in declino a causa

delle norme eccessivamente formali e severe imposte dalla Royal Academy. Attraverso circa 300 opere – dipinti, sculture, disegni, stampe, fotografie, mobili, ceramiche, opere in vetro e metallo, tessuti, medaglie, libri illustrati, manoscritti e gioielli – l’eposizione forlivese racconta questa storia, affiancando per la prima volta, grazie ai generosi prestiti concessi dai musei europei, in particolare inglesi e italiani, nonché americani, una consistente rappresentanza di modelli italiani, tra cui opere di antichi maestri, alle opere britanniche; ma anche opere di artisti italiani della fine dell’Ottocento ispirate ai precursori britannici. info www.mostremuseisandomenico.it

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MASSA MARITTIMA IL SASSETTA E IL SUO TEMPO. UNO SGUARDO ALL’ARTE SENESE DEL PRIMO QUATTROCENTO Musei di San Pietro all’Orto fino al 14 luglio (dal 14 marzo)

Dopo Ambrogio Lorenzetti, il Museo di San Pietro all’Orto, a Massa Marittima, propone un altro grande appuntamento con l’arte senese, questa volta con Stefano di Giovanni, meglio noto come il Sassetta (attivo a Siena dal 1423 al 1450),

l’artista che immise i fermenti del Rinascimento nella grande tradizione trecentesca senese. Come per Lorenzetti, anche questa mostra prende spunto da un’opera facente parte della collezione permanente del Museo di San Pietro all’Orto: l’Arcangelo Gabriele, piccola tavola del Sassetta un tempo collocata fra le cuspidi di una pala d’altare. La Vergine Annunciata, protagonista della stessa pala, non ha potuto fare ritorno, sia pur temporaneamente per ritrovare il suo Angelo Annunciante, essendo oggi patrimonio della Yale University Art Gallery a New Haven. Accompagnano l’Angelo una cinquantina di opere, ventisei delle quali firmate dal maestro senese e le altre da artisti attivi in quegli anni nel

medesimo contesto. Fra di loro vi sono il Maestro dell’Osservanza, Sano di Pietro, Giovanni di Paolo, Pietro Giovanni Ambrosi e Domenico di Niccolò dei Cori. Si può inoltre ammirare una importantissima «prima», scoperta dal curatore della mostra, Alessandro Bagnoli: una Madonna con Bambino, proveniente dalla pieve di S. Giovanni Battista a Molli (Sovicille), ma originariamente realizzata per una chiesa senese, probabilmente S. Francesco. info tel. 0566 906525; e-mail: accoglienzamuseimassa@gmail.com; www.museidimaremma.it TORINO TRAD U/I ZIONI D’EURASIA MAO Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre

Oggetto della mostra, terzo esito del ciclo espositivo «Frontiere liquide e mondi in connessione», sono i concetti di traduzione, trasposizione e interpretazione culturale, illustrati attraverso oggetti provenienti dall’Asia occidentale, centrale e orientale che permettono di interrogarsi su fenomeni quali la circolazione materiale e immateriale, le modalità di trasformazione del significato e la fruizione avvenute tra Asia ed Europa nel corso di

duemila anni di storia. Fra i materiali riuniti per l’occasione si possono ammirare splendide sete della Sogdiana, ceramiche bianche e blu prodotte tra il Golfo Persico e la Cina, una raffinata selezione di «panni tartarici» – preziose stoffe d’oro e di seta del XIII secolo prodotte tra Iran e Cina durante la dominazione mongola, ammirate dall’aristocrazia medievale e dall’alto clero d’Europa –, rari esemplari di tiraz (Egitto, X secolo), tessuti con iscrizioni ricamate che evidenziano l’importanza della calligrafia in ambito islamico, nonché

una serie di bruciaprofumi zoomorfi in metallo (Iran, IX-XIII secolo), a ribadire la centralità delle essenze nelle società islamiche medievali. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it FIRENZE PULCHERRIMA TESTIMONIA. TESORI NASCOSTI NELL’ARCIDIOCESI DI FIRENZE Basilica di S. Lorenzo, Salone di Donatello fino all’8 settembre

Le oltre duecento opere selezionate per la mostra sono una significativa sintesi dell’immenso patrimonio artistico conservato e custodito nel territorio della

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AGENDA DEL MESE

diocesi che si estende dalle pendici dell’Appennino toscoemiliano fino a lambire la provincia di Siena. Il progetto espositivo è nato da un importante lavoro di inventariazione e catalogazione avviato nell’ottobre del 2009 che si è concluso dopo dieci anni, nel dicembre del 2019. La ricognizione, che ha portato alla compilazione di oltre 271 000 schede, è stata possibile grazie a una parte dei fondi 8xmille che la diocesi ha destinato a questo scopo. Si possono dunque ammirare autentici capolavori, provenienti dalla città, frutto di ricche committenze, ma anche di oggetti piú semplici, realizzati per piccole parrocchie di campagna. Opere quindi molto diverse fra loro, non solo per qualità artistica, ma anche per tecniche di esecuzione e materiali utilizzati: dipinti su tavola e su tela, crocifissi, statue, oreficerie, reliquari, arredi e paramenti, tabernacoli, libri e codici, fino a umili rosari. info www.diocesifirenze.it ALESSANDRIA ALESSANDRIA PREZIOSA. UN LABORATORIO INTERNAZIONALE AL TRAMONTO DEL CINQUECENTO Palazzo del Monferrato fino al 6 ottobre (dal 21 marzo)

Dopo «Alessandria scolpita» (2019), esposizione dedicata al contesto artistico

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alessandrino tra Gotico e Rinascimento, questa nuova mostra racconta la civiltà creativa della città piemontese tra Cinque e primo Seicento, focalizzandosi in particolare sulle arti suntuarie, a ridosso dell’avvento del manierismo internazionale negli anni della Controriforma cattolica. «Alessandria preziosa» si articola in sette sezioni composte da circa ottanta opere, in cui protagoniste sono le sculture in metallo prezioso, evidenziando il ruolo determinante svolto dalle arti suntuarie, dall’oreficeria alla toreutica, dall’arte degli

armorari all’intaglio delle pietre dure. L’obiettivo della mostra è duplice: da un lato delineare l’avvento del manierismo internazionale foriero di un nuovo senso della realtà e della forma, attraverso una selezione di oreficerie e oggetti in metallo, ma anche dipinti su tela e tavola e sculture in legno e marmo che meglio dialogano con le arti preziose; il secondo focus del progetto è quello di mostrare e dimostrare come l’attuale territorio della provincia di Alessandria fosse luogo di convergenza di forze e culture diverse, che non sfiguravano al

confronto di altre piú gloriose città padane, ma anzi rappresentava una felice eccezione, in cui influenze nordiche si misuravano con quelle provenienti da Firenze e Roma. Alessandria e il suo territorio fungevano da cerniera tra Milano e Pavia da un lato e Genova dall’altro, mentre proprio alle porte della città era sorto il convento di Santa Croce a Bosco Marengo, voluto da papa Pio V, che racchiudeva in sé il clima artistico di provenienza tosco-romana. info e prenotazioni e-mail: info@palazzomonferrato.it; www.palazzomonferrato.it

APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia. X edizione Roma – Teatro Argentina

fino al 14 aprile info www.teatrodiroma.net

«L

uce sull’Archeologia» torna per la decima edizione sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma. Dal 14 gennaio al 14 aprile l’appuntamento con la rassegna di storia e arte si rinnova con sette incontri la domenica mattina alle ore 11,00, introdotti da Massimiliano Ghilardi e riuniti dal titolo «La “villeggiatura” nell’antica Roma: l’otium come sentimento sublime di bellezza ed esperienza di civiltà». Sette appuntamenti per approfondire il rapporto dei Romani con la terra e la natura, quando, alla fine dell’età repubblicana, ragioni storico-politiche e culturali determinano la trasformazione della mentalità e del costume delle élites, che prediligono sempre piú una vita lontano dalla città e dal centro del potere. «Luce sull’Archeologia» è un progetto del Teatro di Roma a cura di Catia Fauci, in collaborazione con la Direzione generale Musei del Ministero della Cultura, con il contributo dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, di «Archeo» e della società Dialogues Raccontare L’arte, arricchito dagli interventi di storia dell’arte di Claudio Strinati e dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner. Questa decima edizione aggiunge ai sette incontri un nuovo contributo per una prospettiva multifocale, dal titolo «La parola oltre il sipario», un momento di riflessione e approfondimento del tema da un punto di vista letterario, teatrale, giornalistico e con rimandi al tempo presente. Ecco il calendario dei prossimi appuntamenti. 3 marzo Filippo Demma, direttore della Direzione Regionale Musei Calabria e del Parco Archeologico di Sibari, Eno/oìno. E dove non è vino non è amore, né alcun altro diletto hanno i mortali; Francesca Romana Berno, Sapienza Università di Roma, Le smanie per la villeggiatura. Seneca in vacanza, tra ville al mare e riflessione filosofica; Maurizio Bettini, Università degli Studi di Siena, Il tempo lento dei romani; Ritanna Armeni, scrittrice, La rivoluzione dell’ozio femminile. 10 marzo Francesca Ceci, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Bellezza e otium attraverso i capolavori dei Musei Capitolini; Emanuele Papi, Università degli Studi di Siena e Direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene, Erode Attico e le ville di un milionario in Grecia; Matteo Nucci, scrittore, Perdere tempo per vivere il tempo: la scholè che vince la morte. marzo

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

LA GRANDE AVVENTURA

IOEVO MED Dossier

art. 1, c.1, LO/MI.

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I

l 9 gennaio del 1324, dopo aver dettato le ultime volontà al sacerdote Giovanni Giustinian, Marco Polo si spegneva a Venezia, nella casa di famiglia. Si chiudeva cosí la vicenda terrena di uno dei massimi protagonisti dell’età di Mezzo e della storia di ogni tempo, al quale, nel 700° anniversario della scomparsa, dedichiamo il nuovo Dossier di «Medioevo». Oltre cinquant’anni prima, poco piú che diciottenne, Marco era partito con il padre Niccolò e lo zio Matteo per un viaggio alla volta dell’Oriente, destinato a trasformarsi in un’esperienza straordinaria: il giovane Veneziano, infatti, si spinse fino al Catai LA GRANDE AVVENTURA (l’odierna Cina) e il suo soggiorno in quelle terre si protrasse ben piú a lungo di quanto aveva probabilmente immaginato, concludendosi solo nel 1295, con il ritorno nella natía Venezia. Qualche tempo dopo, cadde prigioniero dei Genovesi – probabilmente GLI ARGOMENTI all’indomani della sconfitta patita dalla Serenissima a Curzola, nel 1298 – e, rinchiuso in Palazzo San Giorgio, decise di dettare il resoconto del suo viaggio • Venezia, in Asia a Rustichello da Pisa, che con lui divideva la cella. L’esito di quell’impresa si trasformò in uno dei primi bestseller della storia, Il Milione, padrona del un’opera che ancora oggi affascina e sorprende per la sua modernità, soprattutto grazie mondo alle molteplici notazioni di carattere etnografico. Dell’intera vicenda dà dunque conto • Marco, mercante, questo nuovo Dossier, che ricostruisce la biografia del grande viaggiatore ed esploratore, esploratore e inserendola nel contesto politico, sociale ed economico del tempo, con ampi richiami, naturalmente, alle peculiarità della cultura mongola e di quella cinese. scrittore

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• L’incontro con Gregorio X • Alla scoperta del Catai • Gli animali del Milione • I grandi viaggiatori

Miniatura raffigurante navi mercantili simili a quelle descritte da Marco Polo, da un’edizione de Li Livres du Graunt Caam, traduzione in antico francese del Milione. 1400 circa. Oxford, Bodleian Library.

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l’intervista chiara mercuri

Una rivoluzionaria «cortese» a cura di Andreas M. Steiner

Nel 1145 nacque Maria di Francia, figlia di Luigi VII. Fu scrittrice e, soprattutto, intellettuale in grado di affidare ad altri autori la diffusione delle proprie idee sull’amore, sulla sessualità, sui rapporti coniugali, sulla vita di coppia. Idee che avrebbero potuto, mille anni prima della rivoluzione sessuale del Novecento, segnare un nuovo corso della storia. Ma la «rivoluzione» di Maria fallí e la stessa memoria del personaggio si perse. Eppure, il suo pensiero fece emergere una visione tutta femminile del mondo, libera dall’immagine deformata dominante nell’Alto Medioevo, quando la donna era considerata una calamità dominata da pulsioni sessuali e sentimentali. Ne abbiamo parlato con Chiara Mercuri, che alla riscoperta del personaggio di Maria di Francia ha dedicato un’affascinante indagine, appena pubblicata dall’editore Einaudi Chiara Mercuri (Roma, 1969) è storica, saggista e traduttrice. Insegna Esegesi delle fonti medievali all’Istituto Teologico di Assisi, Pontificia Università Lateranense. Si è specializzata in Francia in Storia medievale. Ha lavorato con prestigiosi enti di ricerca italiani e francesi, tra cui l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di Parigi, che le ha conferito, nel 2012, il premio per la monografia Saint Louis et la couronne d’épines. Tra le sue pubblicazioni: La Vera Croce. Storia e leggenda dal Golgota a Roma (Laterza 2014), Francesco d’Assisi. La storia negata (Laterza 2016) e Dante. Una vita in esilio (Laterza 2018).

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C C

ominciamo subito dalla parola che impieghi nel titolo del tuo nuovo libro: «femminismo». Si può davvero parlare di femminismo nel Medioevo? «Si può. E si deve parlare di “femminismo” nel Medioevo. Non nel senso, chiaramente, in cui la sociolinguistica lo intende oggi, riferito cioè al movimento storico che nell’Ottocento si organizzò per ottenere parità po-

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Miniatura raffigurante Marie de France che lavora alla sua raccolta di favole, l’Ysopet (una compilazione di traduzioni dei racconti di Esopo da lei stessa eseguite), da un’edizione in francese antico delle opere della poetessa. 1285-1292. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

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l’intervista chiara mercuri litica e sociale per le donne. Nel Medioevo, come sappiamo, neppure gli uomini godevano di diritti politici e sociali, “i diritti” erano per pochi, sostanzialmente solo di quelli che avevano armi e potere. Dobbiamo però ricordare che il primo passo verso l’emancipazione delle donne è la conquista del diritto a gestire il proprio corpo. Sembra una questione banale, ma non lo è se prendiamo atto del fatto che, nel Medioevo, il corpo delle donne apparteneva – per legge – al padre, al marito, allo zio, al promesso sposo. In tale contesto, alzare la voce per contestare la pratica dei matrimoni combinati, rivendicare il diritto ad amare e cercare il piacere sessuale senza essere punite, pretendere modi “cortesi e leali” quando si era avvicinate dall’altro sesso equivaleva a essere “femministe”. Maria di Francia, vissuta nel XII secolo, rifiuta il principio secondo cui una donna appartiene a un uomo e quindi debba chiedere a lui persino il permesso per amare e intrattenere rapporti sessuali. Per Maria – e si tratta di un’affermazione forte considerata l’epoca – neppure Dio punisce le donne che hanno perso la verginità o le adultere o le vedove che hanno nuove relazioni fuori da ogni vincolo, mentre punisce quelle che – pur desiderandolo – non amano». Chi è Maria di Francia? «Maria è una donna privilegiata. Nasce nel 1145 da due genitori d’eccezione: Luigi VII, re di Francia, ed Eleonora, duchessa d’Aquitania. Per la loro enorme fama i suoi genitori potrebbero essere paragonati a Kate Middleton e il principe William… Anche il bisnonno di Maria era una personalità di notevole calibro: Guglielmo il Trovatore, secondo cui a corte non si dovevano piú stipendiare buffoni e giullari, ma intellettuali capaci d’intuire nuove visioni del mondo. Soprattutto, Guglielmo fa studiare tanto i figli quanto le figlie. Sua nipote Eleonora farà lo stesso con le sue figlie femmine, una delle quali è, appunto, la nostra Maria, che diventerà scrittrice e prima intellettuale dell’epoca».

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Nella pagina accanto il Minnesänger (cantore d’amore) noto come Herr Rubin in una miniatura del Codice Manesse, una collezione di ballate e componimenti poetici redatta a Zurigo tra il 1300 e il 1340. Heidelberg, Biblioteca dell’Università. La scena ritrae il personaggio mentre invia il suo messaggio amoroso affidandolo alla freccia della sua balestra. In basso valva di specchio in avorio con scene d’amor cortese. Produzione francese, 1310-1320. Parigi, Museo del Louvre.

aria è la prima protagonista donna della letM teratura francese, eppure le indicazioni circa la sua identità sono pressoché inesistenti. Nel tuo libro affermi che Maria di Francia è da identificare con Maria di Champagne e non con le altre donne che la critica ha proposto come possibili identificazioni, tra cui, per esempio, Maria di Compiègne, Maria de Beaumont de Meulan, Maria la badessa del monastero di Romsey o Maria badessa del monastero di Shaftesbury… «Nel tempo è stato dimostrato che la maggior parte di queste ipotesi d’identificazione non è plausibile, sia per motivi cronologici sia per i contenuti dell’opera. Se, del resto, Maria di Francia non coincidesse con la nostra Maria di Champagne dovremmo ipotizzare che due intellettuali donne, entrambe di nome Maria, entrambe francesi, operarono negli stessi anni alla corte d’Inghilterra di Enrico II Plantageneto, una in veste di scrittrice, l’altra di committente. E che entrambe esprimessero un’identica avversione per la reclusione delle donne, per il vincolo matrimoniale, per il divieto di avere una vita sessuale. Ora, in un’epoca come il Medioevo, rivendicare in questo modo la libertà sessuale era impensabile per una monaca come lo erano Marie di Romsey e Marie di Shaftesbury. Temi tanto “scabrosi” come quelli affrontati da Maria di Francia potevano essere rivendicati solo da una laica che, per giunta, doveva ricoprire una posizione sociale elevata, tale da poter beneficiare della protezione, per esempio, di marzo

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l’intervista chiara mercuri

un padre che era il re di Francia e di una madre che era la regina dell’Inghilterra». ual è l’opera piú nota scritta da Maria di FranQ cia? «Sono i famosi Lais, una dozzina di componimenti a tematica amorosa da taluni ancora oggi considerati alla stregua di storie sentimentali di poco conto. Il loro intento, però, era eminentemente politico: contestare le relazioni sessuali imposte dalla società feudale e affermare un nuovo paradigma erotico-affettivo. I Lais

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denunciavano l’atroce condizione delle donne dell’epoca: costrette a vivere segregate, a non parlare con nessuno, spinte di continuo a partorire, preferibilmente figli maschi, per giunta; diffamate, punite, violate, oltraggiate, impossibilitate ad accedere alle cure mediche perché si temeva che scoprissero “i segreti” del loro corpo e imparassero, cosí, a “gestirlo”. Non dobbiamo, poi, dimenticare anche le altre opere di Maria: da donna coltissima e poliglotta, aveva anche tradotto alcune favole di Esopo nonché una – all’epoca famosissima – visione dell’aldilà: il Purgatorio di San marzo

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I volti delle fanciulle che compongono il corteo nuziale di Maria, particolare delle Storie della Vita della Vergine affrescate da Giotto nella Cappella degli Scrovegni, a Padova. 1303-1305.

volte candidato al premio Nobel, nonché membro dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di Parigi. Fu Gaston Paris a inventare la formula dell’“amore cortese”, che nel Medioevo veniva espressa piuttosto nell’endiadi “amore e cortesia”. Paris sosteneva che “l’amore cortese” era nato con il romanzo Lancelot. E qui vale la pena soffermarsi su una dichiarazione dell’anonimo autore del Lancelot nel prologo del suo romanzo...». Ovvero? «…che il soggetto e la trama del libro gli erano stati dettati da Maria»! unque, secondo te «l’amore cortese» coincide D con la rivendicazione delle donne a non essere piú amate «alla maniera germanica» quale era in uso nell’Alto Medioevo? «Esattamente. Se Gaston Paris immaginava che l’“amore cortese” fosse un’espressione simbolica, platonica, di quel sentimento, un gioco giocato al rovescio tra dame e cavalieri, con la dama in alto e il cavaliere in basso, io sostengo che Maria intendesse molto di piú. Maria voleva la libertà sessuale e sentimentale per tutte le donne».

F Ecco quindi un brano tratto dal nuovo libro di Chiara Mercuri, La nascita del femminismo medievale. Maria di Francia e la rivolta dell’amore cortese.

La vergine

Patrizio. Inoltre, quasi certamente – anche se la questione è ancora sotto esame – Maria è anche l’autrice della Vie sainte Audree, un’agiografia in anglo-normanno della badessa sassone Eteldreda di Ely, che riuscí a sventare lo stupro – come sant’Agnese – e a sottrarsi ai “doveri coniugali”, come santa Cecilia». el libro affermi che Maria di Francia fu, addiritN tura, l’inventrice dell’«amore cortese»… «Non sono io a sostenerlo bensí Gaston Paris, l’iniziatore, nell’Ottocento, della filologia francese, piú

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«La donna è infida, non si sa mai cosa attendersi da lei». Questo, nel Medioevo, i monaci insegnano ai novizi, che, ancora giovanissimi abbracciano la vita religiosa. L’uomo deve tenere alta la guardia, perché la donna è rancorosa, inquieta e cova nell’ombra la propria congenita infelicità. Per sua natura è loquace, può pronunciare il doppio delle parole di un uomo e nella metà del tempo. Per questo le donne amano i consessi per sole donne, perché quando sono tra di loro, possono abusare delle parole e scambiarsi i loro segreti, che da secoli sono sempre gli stessi: come non restare incinte, come lenire i dolori mestruali, come sopravvivere al parto, come ricucire una verginità perduta, come abortire in caso di stupro, come sbarazzarsi di una figlia femmina ... «Maledetta donna!», che non vuole essere casta, che non vuole accogliere con gioia ogni seme che le venga piantato nel ventre, che non vuole rassegnarsi a partorire con dolore, che non vuole allattare figli, che un giorno serviranno come carne da cannone e bassa

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l’intervista chiara mercuri manovalanza servile. «Dannata Eva!», che non si rassegna ad attendere benigna, in un angolo del focolare, le percosse che per la fragilità della sua corporatura non potranno che esserle destinate dalla nascita. Nel lai «Milon», Maria racconta la brutalità della società medievale, in cui la donna è prigioniera di codici tribali, che non rispettano la sacralità dei suoi sentimenti, che le strappa dalle braccia i figli ancora neonati o, al contrario, gliene attaccano al seno piú di quanti è in grado di allattare. Milon è un giovane cavaliere gallese, la cui leggenda s’è sparsa in molte regioni europee, dalla Norvegia alla Svezia, dall’Inghilterra alla Scozia. La figlia di un nobile feudatario s’innamora di lui per fama, impressionata dalla voce del suo proverbiale coraggio sui campi di battaglia, del suo altruismo e della sua incrollabile fedeltà al proprio re. Decide allora di fargli recapitare un messaggio: vuole amarlo.

figli dipende dall’esclusiva volontà o meno dei padri di prenderli in carico, come ancora oggi accade dove manca il lavoro femminile e le strutture per l’infanzia sono inesistenti. Milon è un uomo coscienzioso, accetta di allevare il figlio, anche se deve poi affidarlo ad una balia, per poter continuare ad esercitare il suo mestiere di soldato. La ragazza di Milon, ancora provata dal trauma del parto, non ha tempo di metabolizzare l’innaturale separazione dal suo bambino, perché si trova subito costretta a passare attraverso un altro collo di bottiglia: deve trovare il modo di ricucire la propria verginità perduta. Il padre infatti, senza chiedere il suo consenso, l’ha promessa in sposa fissando anche la data delle nozze. Se non sarà trovata vergine la sera del matrimonio, verrà cacciata di casa, forse uccisa o anche venduta. Una donna non piú vergine non ha piú valore e quindi nessuna punizione o cupo destino a suo riguardo è giudicato disumano. È a questo punto del racconto infatti che la ragazza intona il suo requiem sull’amore: Non sono piú vergine, sarò ridotta in servitú per sempre; Non sapevo che fosse cosí, anzi credevo di riuscire a mantenere il mio amico; di gestire la cosa tra di noi, di nascosto, senza che altri ne fossero informati. Meglio sarebbe per me morire che vivere! Ma non sono libera, anzi, su di me vegliano molti guardiani, vecchi e giovani, i miei ciambellani, che hanno in odio l’amore sincero e godono del dolore altrui.

I due ragazzi s’incontrano, e di nascosto iniziano a frequentarsi, allietando per molti mesi l’uno le notti dell’altra. Quando un giorno, però, la ragazza resta incinta, la sua attitudine verso l’amato cambia di colpo e la sua tenerezza si volge in rabbioso risentimento. Frastornato per quell’inaspettato mutamento, Milon si allontana. Giunta al termine della gestazione, la ragazza partorisce di nascosto dai genitori. A quel tempo infatti – spiega Maria – se un padre scopriva che la figlia non era piú vergine, poteva risolvere di venderla come schiava in un paese straniero, in modo da nasconderne la colpa ed evitare il disonore a tutta la famiglia. La ragazza affida il suo neonato a una serva, perché lo porti dal padre. Nel Medioevo, infatti, una donna può solo dare la vita, ma non garantirla, cosí la sopravvivenza dei

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Forse i monaci e gli inquisitori medievali hanno ragione. Forse la donna è davvero malvagia e, come leggiamo negli atti dei processi inquisitoriali, è anche una cercatrice di erbe infauste, nonché una rappezzatrice di «onestà» perdute. È cosí – sospettano – che le donne si prendono gioco dell’«onore» dei maschi. La ragazza di Milon è tra queste. Essa trova infatti il modo di farsi «riparare» l’«onore» e di passare indenne attraverso la strettoia della prima notte di matrimonio. Milon, che non l’ha dimenticata, continua a scriverle, anche se sa che, dopo le nozze, sarà piú sorvegliata di prima, perché l’onore di un marito vale di piú di quello di un padre. Senza piú rivedersi, i ragazzi si faranno comunque compagnia per venti lunghi anni, con una lettera che va e un’altra che torna. Un giorno, il marito della donna muore, e allora la disgraziata «famiglia» di Milon, che non ha mai potuto ricevere una benedizione, trova modo di rimettere insieme le sue membra disperse. I «Lamenti» di Maria sono tutt’altro che ameni. Solo in apparenza essi hanno l’andamento di una fiaba. Nella marzo

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Miniatura raffigurante l’uso dei semi di coriandolo per accelerare il parto, da una raccolta di opere di medicina attribuite allo Pseudo Apuleio e ad altri autori. XIII sec. Londra, Wellcome Collection. Nella pagina accanto miniatura raffigurante una donna che allatta, da un’edizione del Régime du Corps di Aldobrandino da Siena. 1356. Lisbona, Biblioteca da Ajuda.

sostanza, però, denunciano la triste condizione femminile dell’epoca rielaborando crudi fatti di cronaca. Tali dovevano essere in origine – fatti di cronaca – gli infanticidi, gli uxoricidi e gli stupri coniugali che essi raccontano. Le donne di Maria sono costrette ad aderire a un codice societario di cui sono perfettamente in grado di misurare la disumanità. Vivono il matrimonio come una tortura, si sentono condannate a una maternità non sostenibile, reiterata e rischiosa per loro e per le loro creature. Per necessità e per istinto di sopravvivenza, sono costrette a improvvisarsi ostetriche, ginecologhe, farmaciste, chirurghe, sciamane e guaritrici. Nel giudizio dell’epoca sono «streghe», in quanto osano indagare il funzionamento e la conformazione del corpo femminile, con lo scopo delittuoso di provocare aborti, di favorire parti clandestini, di somministrare farmaci antidolorifici, anche di natura oppiacea, laddove nel Genesi si dice con chiarezza che la donna deve partorire invece con dolore.

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Sono malvagie? Qualcuna forse lo è. Piú che altro sono incompetenti, cioè digiune di medicina, ma è comunque piú forte in loro l’istinto di sopravvivere al sesso che le opprime. Educate fin da bambine a servare la verginità e la castità, esse si trovano spesso confrontate a insanabili contraddizioni, come quando vengono abusate. In quel caso, sono consapevoli che la società le condannerà comunque: se si sbarazzeranno del «frutto» dello stupro subito saranno punite come omicide, ma se non se ne sbarazzeranno, allora verranno allontanate dal focolare e dal villaggio come «disonorate». Non resta quindi che affidarsi a mammane e guaritrici improvvisate, anche quando i predicatori medievali tuonano dagli amboni delle chiese e sui sagrati delle piazze che tanto le une e quanto le altre sono infide collaboratrici del demonio, frequentatrici di albe e dirupi, di pleniluni e foreste, piú di una volta sorprese mentre si procacciavano acacie e metalli, succo di limone e sterco d’animale, amanite e bicarbonati.

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l’intervista chiara mercuri Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

A sinistra miniatura forse raffigurante Trotula, la donna medico che la tradizione indica attiva a Salerno alla fine del XII sec., da una raccolta di trattati di medicina (Miscellanea Medica XVIII). Inizi del XIV sec. Londra, Wellcome Collection. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la vendetta di un amante tradito. XVI sec. Chantilly, Musée Condé.

Qui sopra capolettera miniato raffigurante una coppia a letto, da un’edizione del Le Régime du corps de maître Aldobrandin de Sienne. Fine del XIII sec. Londra, British Library.

In molti casi, esse impastano per davvero veleni abortivi o polveri mortifere da far ingerire di nascosto a padri e mariti violenti diluiti nel vino o nella minestra. Altre volte, si tratta di poltiglie e decotti innocui, che servono solo ad arginare le emorragie da parto, i disturbi mestruali e la montata lattea. Ma il biasimo non si appunta solo su erboriste, ginecologhe e ostetriche, accusate di manipolare la natura con sperimentazioni illecite, sotto accusa c’è l’intera natura femminile, che si mostra caparbia nello sforzo di ottenere l’autogestione del proprio corpo. Ribelle è considerata l’insistenza con la quale respingono il seme creato apposta per entrare nel loro corpo. In troppe, senza alcun pudore, chiedono ai mariti di gettarlo a terra prima che l’atto sessuale sia concluso, o d’indossare cappucci di pelle d’interiora, che esse stesse hanno imparato a confezionare per evitare il naturale concepimento. Tutti le vorrebbero piú sante e piú immacolate, quando, però, chiedono di poter entrare in monastero, le porte per loro, a differenza che per i maschi, restano serrate. Sono troppo

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necessarie all’azienda familiare e da ogni parte si richiedono loro figli e figlie, perché le braccia da lavoro sono necessarie e – come quando i germani conducevano ancora vita nomadica – servono unità per accrescere la comunità. Non importa se la comunità ormai non si chiama piú clan, ma feudo, contea, marca o nazione. Dei loro nati poi, però, la società non si occupa. Accade cosí che lo schiavo di sesso maschile che riesca a spezzare le proprie catene diventi finalmente libero, ma la schiava invece riesca a spezzare la sue mentre è incinta o ha da poco partorito, non chieda che di tornare in ceppi. Non per malvagità, dunque, ma per banale solidarietà di genere, le donne piú esperte consigliano alle piú giovani di uccidere le loro creature, quando si accorgono che la loro maternità non è sostenibile. La piú parte, infatti, ha già provato l’esperienza dolorosa di dover abbandonarne il proprio figlio in mani sconosciute o presso la rota di un convento. Un danno di cui la società medievale non riesce a tenere la contabilità, occupata nell’esclusivo sforzo di caricarne il peso sulle sole spalle delle donne. marzo

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l’intervista chiara mercuri Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Nella pagina accanto personificazione dell’Ira, riquadro facente parte della serie dei Vizi affrescati da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova. 1303-1305.

La vita abbassata alla sola dimensione organica non è vita. Un’esistenza cui è impedito l’esercizio del libero arbitrio non ha nulla a che vedere con la vita. Persino nel lontano XII secolo, il diritto canonico considerava il libero arbitrio come prerogativa concessa all’uomo direttamente da Dio al momento della nascita e non piú contrastabile neppure da Dio stesso fino al momento della morte. Il punto, però, è che l’uomo che nel Medioevo decida di non sposarsi, di non procreare o di commettere adulterio, sta esercitando il suo libero arbitrio, di cui è ritenuto responsabile solo di fronte a Dio. Una donna, invece, che faccia lo stesso sta disobbedendo al padre o al marito, e quindi deve essere condannata perché non è pensabile demandare a Dio e, per giunta solo nell’Aldilà, la sua punizione. Dal momento che Maria vuole mostrare tutto questo, dobbiamo considerarla a tutti gli effetti una femminista ante litteram. Solo una protofemminista, del resto, poteva pronunciare, all’interno dei suoi scritti, il nome della medichessa salernitana, che era per il mondo femminile dell’epoca una vera e propria bandiera: Trotula. Trotula fu la prima a sottrarre il corpo femminile alle confuse nozioni che ne avevano gli uomini, i quali, per giunta, non allattano e non partoriscono, non sanno cosa sia una mestruazione o una gravidanza, ma si arrogano sempre il diritto di decidere come debbano farlo le donne. Trotula prova a contrastare questa pericolosa stortura attraverso la composizione di un manuale atto a dissipare le false credenze e i pregiudizi. Il manuale è il piú altruista dei libri. Ma un manuale di ginecologia lo è di piú, perché la prima libertà di una donna passa attraverso la gestione del proprio corpo, per sua natura condizionato dalla piú difficile delle funzioni biologiche: la generazione di un’altra vita. A Trotula viene concesso di praticare l’arte medica, solo perché ha la buona sorte di operare in una delle aree piú avanzate dell’Europa medievale, la provincia di Salerno. Crocevia di diverse culture, figlia di molte dominazioni – la greca, la romana, la bizantina, la longobarda, la normanna -, in dialogo costante con la Sicilia araba ed ebraica, essa è il crogiolo di istanze che sono in ogni campo all’avanguardia nell’XI secolo. Persino sotto gli angioini, tale area continuerà ad essere la piú avanzata d’Europa in campo medico, la sola in cui continuerà ad essere concessa alle donne licenza di curare. Altrove, le cose andranno diversamente. A Parigi, Jacqueline Felicie – conosciuta in Italia come donna Jacoba – sarà condannata nel 1322, per aver tentato le stesse cose compiute da Trotula. La sua sentenza di condanna segnerà un triste punto di non ritorno. Da quel momento, in Europa, per visitare le donne,

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Da leggere Chiara Mercuri, La nascita del femminismo medievale. Maria di Francia e la rivolta dell’amore cortese, Einaudi, Torino 2024

per prescrivere loro farmaci o anche solo consigliare una terapia, si dovrà dimostrare di aver ottenuto la laurea in medicina e la licenza all’esercizio della professione. In altre parole si dovrà dimostrare di essere maschi. Inizierà cosí una campagna di persecuzione delle donne, sospettate di coltivare e diffondere quelli che – negli atti del processo contro donna Jacoba – sono definiti «i segreti delle donne»: sistemi contraccettivi, rituali di fertilità, pratiche propiziatorie per la nascita di un figlio maschio, antidolorifici da assumere durante il parto, stratagemmi per riparare la verginità perduta. La dignità delle donne, che coincide sempre con la possibilità o meno di gestire il proprio corpo, sarà da quel momento sistematicamente negata. Non sarà piú concessa alle donne neppure la possibilità di esprimersi in merito a ciò che le riguarda. La penuria d’istituzioni e di strutture centralizzate, nell’Alto Medioevo, aveva permesso alle donne di acquisire una certa libertà in merito al perfezionamento e alla condivisione di quei tradizionali «segreti». A partire dal XIII secolo, quando la macchina dell’inquisizione entrò in funzione, questo non fu piú concesso, perché il controllo del corpo era un potere troppo grande che non s’intese piú lasciare nelle loro mani. Ostetriche, farmaciste, e guaritrici, da questo momento saranno sistematicamente additate come streghe e omicide. Parlare del corpo femminile, fornire rimedi contro il dolore mestruale, consigliare sistemi contraccettivi, sarà considerata una prova sufficiente per una condanna al rogo o alla prigione perpetua. La poca scienza medica femminile, che era stata messa insieme con grande sforzo e pericolo nei secoli precedenti, sarà a partire da questo momento messa al bando. Le richieste insistenti da parte delle donne di poter essere visitate solo da donne, di salvaguardare il proprio pudore, di far praticare il coitus interruptus, di usare i cappucci d’interiora durante l’accoppiamento, verranno sistematicamente ignorate e punite. Nei secoli finali del Medioevo, quelli che coincisero con la piena affermazione dell’Inquisizione, il semplice mostrarsi capaci di leggere o scrivere, di distinguere le erbe, di applicare le loro proprietà curative, sarà considerato un indizio sufficiente per essere sottoposte a processo. Fingersi stupide e ignoranti, mostrarsi attaccate ai soli specchi, alle forme del corpo e alla vanità «femminile» sarà per loro il solo modo per sopravvivere.

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storie l’esilio di dante

Sulle tracce di un esule illustre di Giuseppe Ligabue

Bandito per sempre dalla sua Firenze, Dante Alighieri trascorse quasi vent’anni in esilio, soggiornando in varie località, prima di stabilirsi a Ravenna, sua ultima dimora. Una sorte triste e amara, almeno in parte alleviata dalla solidarietà mostrata da importanti personaggi del tempo, come il reggiano Guido da Castello, omaggiato dal poeta nel Convivio e poi nella Commedia

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I

l 19 maggio 1315 il Comune di Firenze approvava un’amnistia per tutti i Fiorentini condannati all’esilio negli anni addietro. Il ritorno in patria era subordinato al pagamento di un’ammenda, oltre che a un umiliante rito di offerta a san Giovanni. Sebbene afflitto dalla nostalgia amara del suo «bell’ovile», che lo accompagnerà fino alla morte (cfr. Par. XXV, vv. 1-6; Ecl. I, vv. 42-44), Dante, «exul immeritus» – che era stato incluso nella lista dei condonabili –, considerò che le condizioni imposte per rientrare in patria erano per lui umilianti e

indegne. Cosí si affrettò a scrivere una lunga lettera (Epistula XII) all’amico fiorentino che lo aveva informato, esprimendogli tutto il suo sdegno verso quella proposta di amnistia che lo avrebbe costretto a dichiararsi pentito di colpe che non aveva commesso. Tuttavia, sapendo che la mancata accettazione di quelle condizioni lo avrebbe portato a una sentenza di morte, per sé e per i figli maggiorenni, il poeta decise con amarezza di rinunciare definitivamente alle speranze di un possibile rientro nella sua amata Fiorenza.

D’altra parte, la sua permanenza in Toscana si era già fatta difficile dopo che il trattato del 27 febbraio 1314 del re Roberto d’Angiò, vicario di papa Clemente V nelle terre italiane dell’impero, vincolava Lucca e i guelfi della Lunigiana, tra cui i Malaspina, a negare ospitalità ai Guelfi [Bianchi] «sbanditi» e ai Ghibellini, minacciando pesanti ritorsioni per chiunque non avesse ottemperato. Dante, dunque, non aveva alternative: doveva abbandonare in fretta tutti i territori controllati dalla Repubblica Fiorentina direttamente o tramite i suoi alleati, né poteva continuare a godere dell’ospitalità del ghibellino Uguccione della Faggiola, signore di Pisa e di Lucca, che in quel momento non era piú in grado di garantire sufficiente protezione e incolumità ai suoi accoliti a causa del crescente malumore contro il suo governo autoritario. Si risolse quindi a lasciare Pisa, dove probabilmente in quei giorni si

La Pietra di Bismantova (Reggio Emilia), vista da chi arriva dai passi appenninici. «Questo monte di Bismantova sembra avere grande somiglianza col monte del Purgatorio, dato che è monte altissimo, che si eleva alle stelle, fortissimo, di sasso vivo» (Benvenuto da Imola, Comentum). Dante vi passò nel suo viaggio da Pisa verso Verona e dovette trattarsi della prima volta in cui vide questa montagna. Lo si intuisce dai versi «“Or chi sa da qual man la costa cala” disse ‘il maestro mio, fermando il passo, “si che possa salir chi va senz’ala?”» (Purg. III, 52-54). Non avrebbe scritto cosí se fosse arrivato da nord, dove in effetti la montagna «cala» e si presenta meno ripida e piú facile da scalare.

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storie l’esilio di dante prio a Campolungo di Bismantova, il 4 giugno 1198, i Malaspina, nella persona del marchese Guglielmo (forse rappresentato da Rodolfino di Bismantova), avevano giurato fedeltà al Comune di Reggio. Erano quelli gli anni in cui il libero Comune iniziava a chiedere alle comunità della montagna di allearsi alla città, costituendo comuni rurali con consoli autorizzati da Reggio. Mediante quel posto avanzato di frontiera, poiché tale era Campolungo – interposto fra i territori che avevano da poco giurato fedeltrovava, per tornare dagli Scaligeri a Verona, un porto sicuro, una corte che già conosceva per esservi stato ospite di Bartolomeo della Scala dieci anni prima. E la strada piú breve per raggiungere Verona risaliva la Lunigiana, valicava l’Appennino attraverso il passo dell’Ospedalaccio (oggi Cerreto), per scendere poi a Reggio, dove Dante poteva contare sull’ospitalità dell’amico Guido da Castello, prima di proseguire verso Mantova e Verona.

In alto particolare della carta Vandelli del 1746 in cui, a fianco della Pietra di Bismantova, è rappresentata la località «Campo Longo». Il borgo antico ora è denominato «La Noce».

Come un’isola nel verde

Superato il crinale appenninico al poeta sarà apparsa subito, in lontananza verso la pianura, la Pietra di Bismantova, che si ergeva maestosa verso il cielo come un’isola circondata da un mare verde. Pensò che quella strana montagna poteva offrirgli la scenografia ideale per il suo Purgatorio che da poco aveva iniziato. Decise allora di salirci in cima, fin sul cacume. Giunto ai piedi della Pietra che ormai era sera, Dante con tutta probabilità trovò alloggio nel borgo di Campolungo. Ai tempi del poeta, scendendo dal Cerreto per quell’unica via che portava verso Reggio, la tappa a Campolungo era pressoché obbligata, essendo questa, certamente, la località piú importante e abitata di tutta la zona. Qui si incrociavano diverse vie: quella del fiume Secchia

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che veniva dal valico delle Radici; quella che veniva da Reggio o da Modena; quella che veniva da Canossa o da Parma; la «Verabolense», proveniente dalla «Claudia». Inoltre, da Campolungo si raggiungevano con facilità il Passo di Pradarena (e quindi la Lucchesia e Roma) e il Passo del Cerreto (quindi la Lunigiana e il mare). Campolungo era anche luogo di antiche alleanze e relazioni con i Malaspina, la «gente onrata» (Purg. VIII, 128) che lungamente aveva ospitato Dante in Lunigiana. Pro-

tà al Comune cittadino e le comunità dell’alta montagna non ancora completamente assoggettate e comunque sottoposte a una nobiltà locale poco incline all’obbedienza – il Comune di Reggio poteva altresí tenere sotto controllo gli spostamenti di merci e di persone provenienti dai passi appenninici. Campolungo rappresentava dunque una stazione lungo una delle piú importanti vie «internazionali» dell’Alto Medioevo e allora costituiva senza dubbio la meta piú sicura dove trovare rifumarzo

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A destra miniatura raffigurante Dante, nel Purgatorio, che discorre con Nino Visconti e Corrado Malaspina, mentre gli angeli scacciano i serpenti, da un’edizione della Commedia con commenti in latino. Prima metà del XIV sec. Londra, The British Library. Nella pagina accanto, in basso particolare da un’antica mappa reggiana in cui è segnata la casa di Guido da Castello che sorgeva nelle immediate vicinanze di piazza del Duomo proprio a ridosso dell’antico «castello del Vescovo». Benvenuto da Imola, celebre esegeta dantesco del XIV sec., noto non solo per la precisione di molte notizie storiche, nel suo Comentum al canto IV del Pugatorio afferma che il «Poeta noster» venne «receptus et honoratus (...) in domo sua» da Guido da Castello.

gio per la notte, prima di superare gli Appennini o, nella direzione opposta, prima di raggiungere Reggio, distante ancora quasi una giornata di cavallo. È quindi ragionevole supporre che i Malaspina stessi mantenessero proprio lí, a Campolungo, direttamente o tramite un suddito fedele, una «mansio», un luogo insomma dove trovare ristoro, cambio di cavalli, rifornimento e rifugio, soprattutto d’inverno o in caso di maltempo, durante i loro frequenti viaggi di trasferimento da e verso le città di Reggio e Verona, con le quali mantenevano antichi e costanti legami. Nel 1311 Spinetta Malaspina era podestà di Reggio, città nella quale in seguito tornerà piú volte e dove inoltre il cugino Obizzo gli succederà nel ruolo di podestà nel 1312. I fratelli di Spinetta, Isnardo e Azzolino, erano legati a Verona, avendo sposato donne veronesi. Nei primi decenni del Trecento i rapporti di amicizia, di interesse e di parte politica fra i Malaspina e gli Scaligeri erano talmente forti da portare le due dinastie ghibel-

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line a una vera e propria alleanza. Spinetta Malaspina considerava Verona come sua seconda patria e l’amò al punto che, nel 1352, nei pressi della chiesa di S. Giovanni in Sacco, fece costruire un ospedale per i poveri e un ospizio per nobili decaduti. Lo stesso Spinetta possedeva a Verona diverse case e consistenti possessi entro e fuori la città, e gli Scaligeri gli conferivano spesso incarichi come rappresentante del governo veronese.

Percorsi obbligati

Il mantenimento di tali rapporti richiedeva continui viaggi di trasferimento dalla Lunigiana verso la Pianura Padana; viaggi che non potevano che svolgersi attraverso il valico del Cerreto, passando quindi per le terre di Bismantova. Anche gli uomini fedeli ai Malaspina dovevano ovviamente conoscere e praticare quei percorsi e possiamo supporre che Dante, noto per l’annosa amicizia con i loro domini, abbia trovato a Campolungo un luogo amico e sicuro in cui passare la notte. Con ogni probabilità il poeta sostò a Bismantova solo una o

due notti. Il tempo di salire sulla Pietra e di prendere appunti su ciò che aveva visto e, forse, proprio in quel luogo, prima di riprendere il cammino verso Reggio, avrà potuto comporre o rielaborare diversi canti del suo Purgatorio, che da poco aveva iniziato a scrivere. Nei primi dieci canti riconosciamo le tracce della sua salita sulla montagna: i riscontri tra versi e realtà sono davvero sorprendenti. Nell’ultimo tratto del facile sentiero che ancor oggi percorriamo per salire in cima alla Pietra di Bismantova troviamo, fra i tanti, il riscontro forse piú indubitabile: una fenditura della roccia, stretta come la cruna di un ago, che taglia verticalmente la roccia dell’orlo superiore della Pietra: «come un fesso che muro diparte» (Purg. IX, 75). La giusta scenografia per collocarvi la porta del Purgatorio. Lasciata Bismantova di buon mattino, Dante riprese il suo cammino verso Reggio; vi giunse quasi certamente verso sera ed entrò in città attraverso la Porta Montanara. Non avrà avuto difficoltà a trovare l’abitazione di Guido da Castello, es-

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FATTI STORICI

NOTIZIE SU DANTE 1265 Dante nasce, probabilmente il 29 maggio, in una famiglia di

Le sconfitte delle forze imperiali a Benevento (1266) e Tagliacozzo (1268) costringono i ghibellini all’esilio da Firenze.

Nella battaglia di Campaldino, i guelfi, come Dante, provenienti da Firenze e Lucca sconfiggono i ghibellini, provenienti da Arezzo.

GLI ANNI DI DANTE

Bonifacio VIII proclama il Giubileo. Carlo di Valois, che cerca di favorire i guelfi neri, si avvicina con le sue truppe a Firenze. I neri prendono il potere a Firenze. Nascita di Francesco Petrarca.

Enrico VII, conte di Lussemburgo, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero scende in Italia, nel tentativo di restaurare i fasti dell’impero. Morte dell’imperatore Enrico VII.Nascita di Giovanni Boccaccio.

piccola nobiltà cittadina.

1266 1268 1274 Incontra per la prima volta Beatrice Portinari e se ne innamora,

come racconta egli stesso nella Vita Nova: si scambiano solo un saluto. 1283 Muore il padre. Il poeta sposa, con un matrimonio concordato da tempo, Gemma Donati, dalla quale ha tre figli (Jacopo, Pietro e Antonia). 1289 Partecipa come «feditore», cavaliere della prima linea, alla battaglia di Campaldino l’11 giugno. Dante riferisce della battaglia in Purgatorio V, 85-129. 1290 Beatrice muore all’età di 24 anni circa. 1292 Dante scrive la Vita Nova. 1294 Incontra a Firenze Carlo Martello d’Angiò, re di Ungheria ed erede

al trono di Napoli e della contea di Provenza. Dante racconta il loro incontro in Paradiso VIII, 31-148, e IX, 1-12. 1295 Si iscrive alla corporazione degli Speziali, con l’intento di entrare in politica. 1300 È priore di Firenze per due mesi (15 giugno-15 agosto), uno dei sei piú alti magistrati della città. Il viaggio della Commedia viene fatto risalire alla settimana di Pasqua di questo anno. 1301 Dante si reca come ambasciatore dal papa Bonifacio VIII.

1302 Dante è bandito dalla città per due anni ed escluso per sempre

dai pubblici uffici; piú tardi, il bando diventerà perpetuo, con la condanna al rogo se ritrovato nel territorio della repubblica fiorentina. 1304 Dante scrive il De vulgari eloquentia, saggio che cerca di spiegare come il volgare può assurgere a lingua letteraria. Dei quattro libri annunciati, scrive solo il primo e quattordici capitoli del secondo. Nello stesso periodo si accinge a scrivere il Convivio. Vengono completati solo quattro dei quindici libri progettati. 1306 È probabilmente l’anno in cui, abbandonato il Convivio, comincia la scrittura della Commedia. 1310 Dante indirizza una Epistola a Enrico VII. Possibile inizio della scrittura del De Monarchia (1310-1313). 1313 1314 Pubblicazione dell’Inferno. 1315 Dante si trasferisce a Verona, ospite di Cangrande della Scala.

Lavora al Purgatorio e al Paradiso, e scrive anche la Questio de aqua et terra. 1319 Si trasferisce a Ravenna, dove viene ospitato da Guido Novello da Polenta, signore della città. 1321 Di ritorno da un’ambasceria presso il doge di Venezia per conto di Guido da Polenta, si ammala, probabilmente di malaria, e muore il 13 (o il 14) settembre, a 56 anni.


cementata nella ghibellina e liberale Verona, dove per lunghi periodi furono entrambi ospiti di Cangrande della Scala.

Un’amicizia antica

Già nel Convivio, composto nei primi anni dell’esilio, ovvero tra il 1304 e il 1307, Dante dà prova di conoscere bene e di stimare molto Guido da Castello, citandolo come esempio di nobiltà d’animo (Cv. IV, XVI). Successivamente, nel Purgatorio, lo ricorda – forse grato per l’ospitalità ricevuta – insieme a Corrado da Palazzo di Brescia e Gherardo da Camino di Treviso, fra i soli tre personaggi in Italia che ancora incarnavano le virtú cavalleresche e cittadine: «Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna // l’antica età la nova, e par lor tardo // che Dio a miglior vita li ripogna: // Currrado da Palazzo e ‘l buon Gherardo // e Guido da Castello, che mei si noma, // francescamente, il semplice Lombardo». Secondo gli antichi commentatori la frase «che mei si noma, francescamente, il semplice Lombardo» (Purg. XVI, 126), allude alla fama che Guisendo il nobile reggiano assai noto nella vita pubblica della città. Probabilmente i due si erano conosciuti e frequentati una prima volta fra il 1284 e il 1286, nella guelfa e dotta Bologna quando Dante, poco piú che ventenne, era studente come uditore dei corsi di retorica (Artes dictaminis) presso quella Università. Negli stessi anni, anche Guido da Castello si trovava «in esilio» a Bologna. Il non piú giovane aristocratico reggiano, che aveva trent’anni di piú Dante, aveva infatti trovato riparo nella città felsinea insieme ai Guelfi di parte Nera, perché cacciato da Reggio dal partito guelfo popolare democratico (i Guelfi Bianchi). Piú tardi, nel primo decennio del Trecento, la loro amicizia, nonostante la rispettiva appartenenza ad avverse fazioni guelfe, si sarebbe

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In alto il ritratto di Dante realizzato ad affresco da Luca Signorelli nella Cappella Nova (o di S. Brizio) del Duomo di Orvieto. 1499-1502. A destra una veduta della città di Reggio inserita nel frontespizio dell’opera Officia Sanctorum Patronorum et Protectorum alme urbis Regiensis. 1515.

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storie l’esilio di dante do si era conquistata per la sua liberalità verso i Francesi che tornando in patria per la via Francigena, passavano da Reggio. Nel commento chiamato l’Ottimo (attribuito al notaio fiorentino Andrea Lancia, pressoché coevo di Dante), si legge che «messer Guido si studiò di onorare li valenti uomini che passavano per lo cammino francesco e molti ne rimise in cavalli ed armi, che di Francia erano passati di qua; onorevolmente consumate loro facultadi (...) a tutti diede senza speranza di merito, cavalli, arme e denari». Reggio di Lombardia, cosí come si chiamava fino all’annessione al Regno d’Italia, occupava un posto significativo nel panorama trecentesco dei liberi comuni italiani. Ancora risentiva del ruolo di preminenza conseguito due secoli prima, nel tempo in cui vi regnavano gli Attonidi e Canossa era diventata il centro di un vasto dominio. Quello era anche il momento in cui il vescovo di Reggio era il vicario del papa nel Nord

Italia. La contemporanea presenza della qualificata cancelleria di Matilde di Canossa e dell’importante cattedra vescovile reggiana, avevano necessariamente favorito il crescere del numero di notai, amanuensi, miniatori di codici, preti e frati, orefici e artigiani di ogni sorta; insomma, di un ambiente culturale elevato, bisognoso di avere continui rudimenti di studio. Benvenuto da Imola, nel suo Comentum ci dice che «la città era in grande floridezza, abitata da una grande moltitudine di popolo, ricca di molte residenze nobiliari».

Una fonte preziosa

Possiamo dunque pensare che nel suo non brevissimo soggiorno reggiano, ospite di Guido da Castello, l’esule Alighieri, sempre alla ricerca di libri ovunque si trovasse, abbia potuto accedere alle ricche biblioteche reggiane e, in particolare, abbia potuto prendere visione del Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore dal quale – come affermano gli studiosi – avrebbe poi tratto ispi-

In alto la lastra tombale del vescovo Enrico Casalorci da Cremona (1265 circa1312). Reggio Emilia, Museo Diocesano. Casalorci fu insigne decretalista e fido collaboratore di Bonifacio VIII, il papa che Dante definisce come colui che ha trasformato la tomba di Pietro in una «cloaca del sangue e de la puzza» (Par. XXVII, 25-26) e che colloca nell’Inferno, tra i simoniaci (XIX, 53 ss.). A destra la faccia rovescia della pietra tombale di Enrico Casalorci. Conserva un pregevole bassorilievo antelamico del XIII sec., con due dei tre Re Magi che osservano la stella di Betlemme. La lastra originariamente era inserita nella facciata esterna della cattedrale. Il duomo di Reggio, fra i piú antichi dell’Emilia, ai tempi di Dante, era ricco di straordinarie opere d’arte medievali andate in buona parte disperse e distrutte nei secoli successivi in seguito a vari rifacimenti.

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razione per alcune visioni descritte da Dante nel Paradiso. Quando Dante arrivò a Reggio, nella primavera del 1315, era da poco morto un suo coetaneo, il vescovo Enrico Casalorci, da taluni individuato nel decretalista e dotto giureconsulto contro il quale il poeta si scagliò nel De Monarchia (III, 111, 10) al tempo in cui il prelato di Cremona venne chiamato a Roma al fianco di Bonifacio VIII, divenendone fido e strettissimo collaboratore, al punto che il pontefice lo nominò legato e ambasciatore a Parigi per invitare Filippo il Bello al sinodo che si sarebbe dovuto radunare in Roma il 1º novembre 1302. Di antica nobiltà guelfa, il Casalorci, con un suo trattatello, databile intorno al 1300, intitolato De potestate papae, difendeva e sosteneva vigorosamente la dottrina della superiorità del pontefice non solo nella sfera spirituale, ma anche in quella temporale «per totum mundum». Vere bestemmie per Dante, che si sarebbe confrontato con lui per affermare, invece le sue tesi filoimperiali.

Le trame del vescovo

E forse proprio l’astuto Casalorci, nell’ottobre del 1301, suggerí al papa di trattenere a Roma l’avverso ambasciatore del Comune di Firenze, Dante Alighieri, per impedire che l’influente personaggio, appena rientrato a Firenze, potesse adoperarsi per far fallire il piano affidato a Carlo di Valois di impadronirsi della città e favorire l’ascesa al potere dei Neri. Il 27 gennaio 1302, mentre Dante è sulla via del ritorno da Roma, viene a conoscenza di essere stato condannato dal nuovo potere con l’accusa di baratteria a due anni di confino, all’interdizione a vita dai pubblici uffici e al pagamento di cinquemila fiorini. Il 10 marzo, non essendosi presentato a pagare la penale e a difendersi, la pena venne inasprita nella condanna al rogo con altri quattordici imputati.

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Dieci anni piú tardi, Enrico Casalorci, divenuto vescovo di Reggio e morto Bonifacio VIII – quello stesso Casalorci che fu l’accanito sostenitore del potere temporale del papa – fu tra i presenti alle prime cerimonie che seguirono all’arrivo di Enrico VII a Milano. Il 4 gennaio 1311, insieme con altri cinque vescovi, e con giuristi e delegati di diversi Comuni italiani, fu testimone al giuramento di fedeltà di Cremona al re; il giorno seguente, al giuramento di Pavia, e infine, il 6 gennaio, fu tra coloro che assistettero in S. Ambrogio di Milano all’incoronazione del sovrano a re d’Italia. E quel giorno a Milano, a rendere omaggio personale a Enrico VII, c’era anche Dante. È possibile che

Il drago apocalittico a sette teste, da un’edizione del Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore. Reggio Emilia, Biblioteca Capitolare. Il Liber figurarum è un rarissimo codice miniato ed è la summa illustrata del pensiero di Gioacchino da Fiore, un teologo del XII sec. di enorme importanza nel pensiero medievale. Di questo codice esistono solo tre copie al mondo (le altre sono a Oxford e Dresda). Ma è proprio dalla copia reggiana che gli studiosi affermano che Dante abbia tratto ispirazione per descrivere alcune affascinanti visioni del Paradiso. Il poeta colloca Gioacchino da Fiore, abate calabrese in odore di santità, nel suo Paradiso fra gli spiriti sapienti e carismatici della Chiesa: «E lucemi da lato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato» (XIII, 139–141).

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storie l’esilio di dante il nuovo libero Comune. Venne poi nominato una seconda volta Capitano del Popolo di Reggio nel 1314, cosí come risulta dalla delibera del Consiglio trascritta nel Libro delle Provisioni del Comune di Reggio, in data 18 marzo 1314.

Un signore illuminato

Reggio di Lombardia in una carta del XVII sec. La città assunse la denominazione di Reggio nell’Emilia solo dopo l’annessione al Regno d’Italia.

in quell’occasione – entrambi divenuti nel frattempo aperti sostenitori del nuovo imperatore – si siano rivisti e forse anche riappacificati. Pochi giorni dopo, il 12 gennaio l’imperatore interveniva in favore del Casalorci e definendolo «venerabilis Heinricus episcopus Reginus princeps noster dilectus», ordinava che gli fosse immediatamente restituito il possesso di Novi («castrum de Novis»– ora nella diocesi di Modena), che dipendeva direttamente dal vescovo, occupato da Rainaldo Bonacolsi, dai suoi alleati Scaligeri e dagli esuli reggiani. Nonostante i molti sovvertimenti politici locali, il Casalorci conservò la cattedra vescovile fino alla sua morte, sopravvenuta nell’aprile del 1312. Venne sepolto nella cattedrale di Reggio.

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Non possiamo conoscere per quanto tempo Dante restò a Reggio ospite di Guido da Castello, ma possiamo supporre che, con l’aiuto dell’amico reggiano, sia stato presentato ai notabili e abbia potuto conoscere la realtà cittadina. Né si può escludere che proprio a Reggio abbia potuto incontrare un altro Guido che tanto importante diverrà negli ultimi anni della sua vita: Guido Novello da Polenta (1275 circa-1339), anch’egli di parte guelfa. Il da Polenta venne nominato Capitano del Popolo di Reggio dal Consiglio Generale del Comune nel 1307 «dalle calende di agosto fino a quelle di febbraio», cioè l’anno dopo che i Guelfi reggiani si erano liberati della tirannia estense (Gennaio 1306) e avevano rifondato

Per questo, Guido Novello doveva necessariamente essere ben conosciuto e introdotto nella società reggiana del tempo e, in quanto tale, sicuramente avrà conosciuto Guido da Castello, che era figura di rilievo nella vita cittadina. Di qui l’ipotesi che il da Polenta potrebbe aver avuto l’occasione di incontrare Dante in città o mentre era ospite di Guido da Castello. Divenuto in seguito signore di Ravenna, Guido Novello, che amava le lettere, la cultura e la pace, intorno al 1318-19 – quando a Verona i rapporti fra Dante e Cangrande della Scala si erano fatti difficili – accolse il poeta nella sua corte. Nella piccola città romagnola, dopo tante tribolazioni, Dante riuscí a mettere in salvo la sua famiglia e finalmente, trovata un po’ di serenità, a portare a termine la Commedía. Morí nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, stroncato dalla malaria nelle paludi di Comacchio, mentre tornava da un’ambasceria a Venezia per incarico dei signori da Polenta. Fortemente scosso per l’improvvisa scomparsa dell’illustre ospite, Guido Novello dispose che gli fosse reso omaggio celebrando per lui funerali solenni nella basilica ravennate di S. Francesco.

Da leggere Giuseppe Ligabue e Clementina Santi, Dante a Bismantova, Viaggio alla montagna del Purgatorio, Corsiero Editore, Reggio Emilia 2021 marzo

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eventi festival federico ii

Fu vero

di Fulvio Delle Donne

stupore?

Stupor mundi è l’enigmatico epiteto coniato da Matteo Paris per un personaggio eccezionale: Federico II di Svevia. Oggi le Marche celebrano il mito dell’imperatore svevo con un nuovo, grande evento culturale: la prima edizione del Festival Federico II Stupor Mundi, in programma ad aprile e maggio fra Ancona e Jesi

S S

tupor mundi è per antonomasia l’imperatore Federico II di Svevia (1194-1250). Non c’è dubbio: non c’è neanche bisogno di specificarlo, perché ormai sono davvero tanti i libri, gli oggetti o le manifestazioni pubbliche (compresi i musei e i Festival) che associano l’appellativo al personaggio. Generalmente, però, nessuno si chiede cosa significhi davvero, o da dove derivi questa definizione. L’epiteto è certamente coevo al personaggio a cui viene attribuito, ma solo in epoca recente ha acquisito la sua particolare connotazione. Si deve a un cronista della metà del XIII secolo, il monaco benedettino inglese Matteo Paris, che lo usò, aggiungendo sul margine del suo manoscritto autografo la notizia della morte di Federico II, avvenuta il 13 dicembre 1250. «Obiit (...) principum mundi maximus Frethericus, stupor mundi et immutator mirabilis», che traducendo in maniera letterale significa «è morto il piú grande tra i principi della terra, Federico, che fu anche stupore del mondo e suo meraviglioso modificatore» (vedi box a p. 61). La definizione completa, dunque, è «stupor mundi et immutator mirabilis» ed è sicuramente suggestiva. Del resto, Matteo Paris accompagna la notizia sulla morte dell’imperatore con il disegno dell’insegna della casata sveva, l’aquila imperiale bicipite, capovolta in segno di lutto come per un terremoto, a rappresentare anche icasticamente la fine di un’epoca terrena: gli sconvolgimenti legati al suo impero diventano nulla di fronte alla morte alla quale nessu-

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La corte di Federico II a Palermo, olio su tela di Arthur Georg von Ramberg. 1865. Monaco, Neue Pinakothek. Nel dipinto l’imperatore, accompagnato da Pier delle Vigne e da Hermann von Salza, gran maestro dell’Ordine Teutonico, riceve una delegazione di ambascatori orientali.

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eventi festival federico ii Miniatura raffigurante la nascita di Federico II a Jesi, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. In basso affresco che ritrae Innocenzo III. XIII sec. Subiaco, monastero del Sacro Speco, Chiesa Inferiore. Matteo Paris definí stupor mundi anche il pontefice, che fu tutore del piccolo Federico II.

no scampa. Si tende, però, ad astrarre e assolutizzare quella locuzione, senza pensare che per gli uomini del Medioevo – e in particolare per un monaco come Matteo Paris – l’ordine del mondo era espressione della volontà imperscrutabile di Dio, cosí che ogni innovazione era recepita come una sorta di empia ribellione alle disposizioni celesti.

Un precedente significativo

E si dimentica, poi, che il medesimo cronista, in un’altra opera (l’Historia Anglorum), l’aveva usata esattamente identica anche per il potentissimo pontefice Innocenzo III (1160-1216), colui che aveva fatto da tutore al piccolo Federico e che, pur papa, amava definirsi «verus imperator». Anche in questo caso, egli ne annota la morte, specificando che «vere stupor mundi erat et immutator seculi», cioè che «veramente era stupore del mondo e modificatore del secolo», e che era destinato all’assai terribile giudizio di Dio. Innocenzo III era stato chiamato cosí anche da altri autori inglesi, come il celebre maestro di retorica Goffredo di Vinsauf, il quale, dedicandogli l’opera, iniziava il primo verso della sua Poetria nova con le parole «Papa stupor mundi». L’accezione (attestata anche per altri personaggi illustri di ambito inglese, come Riccardo

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Cuor di Leone) potrebbe, fin qui, ancora essere interpretata in maniera certamente positiva, ma la nostra convinzione inizia a vacillare piú decisamente quando leggiamo il testo di una profezia diffusa nel 1241 e attribuita a Michele Scoto (pubblicata da O. Oswald Holder-Egger in un articolo del 1905 per il Neues Archiv; marzo

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Cronica maiora

Cosí parlò Matteo Ecco, qui di seguito, il testo originale e la traduzione curata da Fulvio Delle Donne del brano nel quale Matteo Paris coniò per Federico II il celebre epiteto: «De morte Fretherici. Obiit autem circa eadem tempora principum mundi maximus Frethericus, stupor quoque mundi et immutator mirabilis, absolutus a sententia qua innodabatur, assumpto, ut dicitur, habitu Cisterciensium, et mirifice compunctus et humiliatus. Obiit autem die sancte Lucie, ut non videretur ea die terremotus sine significacione et inaniter evenisse». «Morte di Federico. All’incirca in quel tempo, il piú grande tra i principi della terra, Federico, che fu anche stupore del mondo e suo meraviglioso modificatore, morí sciolto dalla sentenza di scomunica da cui era stretto, dopo aver indossato, a quanto dicono, l’abito dei cistercensi, mirabilmente compunto e umiliato. Morí nella festa di santa Lucia, perché non si vedesse quel giorno che un terremoto era avvenuto senza ragione e invano» (Matteo Paris [Matheus Parisiensis], Cronica maiora, ed. F. Liebermann, Hahn, Hannoverae 1888 [MGH, Scriptores, XXVIII], p. 319). Manoscritto autografo dei Cronica maiora di Matteo Paris (MS 016II, fol. 245r). Cambridge, Corpus Christi College. Nel particolare qui riprodotto compaiono l’annotazione marginale sulla morte di Federico II e lo scudo rovesciato con l’insegna sveva dell’aquila bicipite.

p. 364): il «papa, stupor mundi», campione di simonia, «rimarrà stupito (stupebit) quando capirà di non poter arraffare niente secondo il suo costume». È possibile che l’autore conoscesse il trattato di Goffredo di Vinsauf e che lo citasse in chiave parodica, tuttavia, facciamo un ulteriore passo e leggiamo una definizione contenuta in uno dei piú importanti lessici enciclopedici dell’epoca. Nelle Derivationes di Uguccione da Pisa (morto nel 1210) troviamo: «Pape, interiectio admirantis; unde papa, id est admirabilis», cioè «Pape, interiezione di ammirazione; da cui viene papa, cioè degno di ammirazione». Il lessico di Papía, pure diffuso e risalente al secolo precedente, offre la stessa definizione. Anche gli antichi commentatori della Commedia di Dante, dal canto loro, spiegano allo stesso modo la prima parola dell’oscuro verso di apertura del canto VII dell’Inferno: «Pape Satàn, pape Satàn aleppe», pronunciato da Pluto «con la voce chioccia». (segue a p. 65)

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eventi festival federico ii Nella pagina accanto, in basso lettera autografa inviata da Federico II ai Siciliani nel 1246. Parigi, Musée d’Histoire de la France. L’imperatore sollecita i suoi sudditi siciliani a fornire a un prezzo ragionevole cavalli, armi e viveri al re di Francia Luigi IX in occasione della settima crociata. È visibile la bolla d’oro con effigie di Federico. Sulle due pagine miniatura raffigurante l’incontro tra Federico II e il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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l’accordo con il sultano d’egitto

Uno scomunicato a difesa della cristianità Stupor mundi è l’attributo solitamente usato per identificare Federico II di Svevia, destinato alla guida del mondo per stirpe familiare e attese. Fu l’ultimo sovrano del Medioevo a dare un senso universale alla funzione imperiale, ma fu anche potente signore di un regno collocato al centro del Mediterraneo. Convergevano in lui tradizioni germaniche e normanne, modelli culturali e scientifici occidentali e orientali, aspirazioni mistiche e pulsioni terrene: la sua azione politica rappresentò pienamente la splendida eterogeneità congenita nelle sue origini. Nel 1228-1229, partendo dalla costa adriatica, portò a compimento un’impresa davvero straordinaria. Senza battaglie né morti, ma solo tramite accordi diplomatici col sultano d’Egitto, al-Malik al-Kamil, permise ai pellegrini cristiani di tornare a venerare il Santo Sepolcro di Gerusalemme. E lo fece da scomunicato: l’impresa che rappresentava la militanza cristiana piú alta fu compiuta proprio da chi, nel 1227, era stato escluso dalla comunità dei credenti da papa Gregorio IX, proprio perché tardava la spedizione d’Oltremare; scomunica che non gli fu revocata neppure dopo aver portato a termine il suo capolavoro politico. I due uomini piú potenti della terra, un imperatore e un sultano, decisero di fare un passo indietro per percorrere la strada della pace. Scopo del Festival Federico II Stupor Mundi è aiutare a ricordare. E provare a fornire un modello culturale laico di comportamento politico utile anche al mondo contemporaneo, dilaniato da guerre e conflitti permanenti. (red.)

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eventi festival federico ii A destra miniatura raffigurante le nozze tra Enrico VI di Germania e Costanza d’Altavilla, celebrate a Milano il 27 gennaio del 1186, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Qui accanto Jesi. Particolare del monumento a Federico II inaugurato nel 1995.

Ascendenti illustri HOHENSTAUFEN

ALTAVILLA

Federico I Barbarossa

Ruggero II

= 1190

Enrico VI

Filippo

1165-1197

Guglielmo I

=1208

imperatore nel 1191; sposa Costanza d’Altavilla nel 1186; re di Sicilia nel 1194

(1) Enrico (VII) 1220-1242

1095-1154 =1166

Guglielmo II =1189

FEDERICO II 1194-1250

(1) Costanza d’Aragona =1222 (2) Iolanda (o Isabella) di Brienne =1228 (3) Isabella d’Inghilterra =1241

(2) Corrado IV re di Sicilia 1250

Qui sotto augustale di Federico II. 12311250. Cambridge, Fitzwilliam Museum. Gli augustali sono monete in oro coniate dall’imperatore Federico II presso le zecche di Messina e Brindisi dopo il 1231, e ispirate agli aurei imperiali romani. Sul dritto, le monete ne presentano il busto con corona d’alloro, mentre sul rovescio è raffigurata l’aquila imperiale ad ali spiegate, simbolo della dinastia sveva.

(3) Margherita sposa Alberto langravio di Turingia

Corradino

(1252-1268)

(3) Enrico II (Carlotto)

Federico «de Stuffa» = 1323

DISCENDENTI ILLEGITTIMI (Bianca Lancia d’Agliano) Manfredi = 1266

(?)

(Adelaide d’Urslingen)

Enzo Violante = 1272 sposa Riccardo sposa conte di Adelasia di Caserta Sardegna

A destra spada con fodero utilizzata per l’incoronazione di Federico II, proclamato imperatore del Sacro Romano Impero da papa Onorio III, nella basilica di S. Pietro a Roma, il 22 novembre 1220. XIII sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Sulla spada è raffigurato lo stemma della casata sveva: l’aquila nera spiegata. Sul pomo dell’impugnatura l’aquila si staglia su campo d’argento, mentre sul fodero è in campo d’oro su fondo quadrato.

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Costanza

1154-1198

(?)

(Maria/Matilda d’Antiochia)

Federico di Pettorano

Federico d’Antiochia sposa Margherita di Poli


Pagina miniata del De arte venandi cum avibus (L’arte di cacciare con gli uccelli), il trattato composto da Federico II. XIII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Qui l’associazione con Satana riveste indubitabilmente d’orrore il termine. Insomma, poniamo un primo punto fermo: la locuzione «stupor mundi et immutator mirabilis», attestata in diverse occasioni, è usata innanzitutto per il papa Innocenzo III e non per Federico II. Inoltre, sembra giocare sul significato stesso del termine «papa», che rimanda a una interiezione di stupore. Ma torniamo a Federico II. Nel «manifesto» (o atto destinato alla lettura pubblica) elaborato nel 1245 per conto di papa Gregorio IX da Ranieri di Viterbo, un fanatico seguace di Gioacchino da Fiore, si legge che Federico fu «immutator seculi»: certamente non col senso positivo di «innovatore», quanto piuttosto con quello di «turbatore del mondo», in quanto è «distruttore dell’orbe e martello di tutta la terra» («immutator seculi, dissipator orbis et terre malleus universe»: il testo è negli Acta imperii inedita pubblicati da Eduard Winkelmann nel 1880; p. 709). Ecco, dunque, che l’altro elemento della locuzione, quello legato al mutamento, acquista un senso ben definito e non proprio rassicurante.

Rendere le cose per come sono

Federico II ha compiuto grandi imprese, come la «crociata della pace» condotta nel 1228-1229. Ed è il promotore di straordinarie innovazioni culturali: si pensi alla Scuola poetica siciliana e alla nascita della letteratura italiana; alle traduzioni dall’arabo e dal greco delle opere di Aristotele; alla fondazione della prima università «statale» della storia, istituita a Napoli nel 1224. Per non parlare della composizione del De arte venandi cum avibus (L’arte di cacciare con gli uccelli), il trattato di ornitologia che Federico scrisse con approccio sperimentale e con l’obiettivo di «rendere manifeste le cose che sono, cosí come sono». Per noi uomini del presente, educati ai principî del pensiero illuministico, l’interesse per i problemi del sapere scientifico, filosofico e letterario è indubbiamente connesso con la modernità, che ha sempre connotazione positiva. Dunque, se ci limitiamo a osservare le cose dalla nostra prospettiva, Federico appare un eccezionale precorritore dei tempi. Ma per gli uomini del XIII secolo la sua ricerca di conoscenza non fu sempre apprezzata. Ciò risulta con evidenza dalla Vita Gregorii IX, cioè dalla biografia di colui che fu acerrimo nemico dello Svevo, scritta da un autore di cui non ci è dato conoscere il nome. Lí si afferma, senza mezzi termini, che Federico fu traviato dalla frequentazione dei Greci e degli Arabi, i quali lo indussero a bestemmie terribili, come la negazione

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del dogma della verginità della Madonna o la riprovevole dichiarazione che Cristo era un truffatore, al pari di Mosè e Maometto. Dunque, era la sete di sapere che conduceva Federico II all’eresia, e soprattutto era la lettura delle opere filosofiche da lui fatte tradurre dal greco e dall’arabo – e che deviavano dalla tranquillizzante conoscenza ortodossa – a renderlo degno di violenta riprovazione. Gli uomini, a quei tempi, dovevano essere innanzitutto buoni cristiani e star «contenti al quia», per dirla con Dante. Il desiderio di conoscenza di Federico, invece, a qualcuno apparve senz’altro eccessivo, tale da travalicare i limiti di ciò che è consentito da Dio. Cosí, il francescano Salimbene de Adam, suo contemporaneo, delineò la figura di Federico in maniera ancora piú ambigua di Matteo Paris. L’imperatore fu dotato di eccezionali virtú naturali: conosceva molte lingue e sapeva leggere, scrivere e comporre canti e poesie. Perciò fu uomo valente e cortese. Di certo, nel mondo, in pochi l’avrebbero eguagliato, se solo – ed ecco l’affondo finale – egli fosse stato «cristiano e avesse amato Dio, la Chiesa e l’anima sua».

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IMPERATORE E UOMO DI PACE

L

e Marche celebrano il mito di Federico II di Svevia con un grande evento culturale. La prima edizione del Festival Federico II Stupor Mundi, si terrà fra Ancona e Jesi ad aprile e maggio. Due distinti appuntamenti di grande valore scientifico. «Cercare la pace e stupire il mondo» è il tema della prima parte della manifestazione, prevista ad Ancona dall’11 al 14 aprile. Chiuderà il festival una due giorni di lezioni di storia, «Condividere i saperi tra Oriente e Occidente». Appuntamento l’11 e il 12 maggio, a Jesi, la città dove l’imperatore svevo nacque il 26 dicembre del 1194.

Partecipazioni di prestigio

Curatore scientifico del festival è Fulvio Delle Donne, ordinario all’Università della Basilicata, fra i massimi studiosi di Federico II di Svevia. Protagonisti delle lezioni di storia, gratuite e aperte al pubblico, saranno altri storici di grande valore. A partire da Franco Cardini, principe dei medievisti europei, e da altri docenti di (segue a p. 70) EMILIA ROMAGNA

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Lago Trasimeno

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Spoleto

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ANO

Foligno

Civitanova Marche Fermo

Visso Offida

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Osimo Loreto

In alto l’emblema della città di Jesi posto sulla facciata del Palazzo della Signoria. XV sec. A destra, sulle due pagine L’ingresso di Federico II a Jesi, sipario dipinto da Luigi Mancini per il Teatro Pergolesi di Jesi (Ancona). 1855 circa. L’opera è ispirata alla tradizione storica locale, che attestava una trionfale visita del sovrano nella città marchigiana nel 1216.

Ascoli Piceno

ABRUZZO

Teramo

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eventi festival federico ii UNA PARABOLA STRAORDINARIA FEDERICO II

JESI

1184, 29 ottobre Viene reso pubblico il fidanzamento tra Enrico VI e Costanza d’Altavilla. 1186, 27 gennaio Nella basilica milanese di S. Ambrogio si celebra il matrimonio tra Enrico e Costanza. Federico Barbarossa nomina Enrico suo erede e coreggente. 1186, dicembre Enrico VI è presente a Jesi, dove sottoscrive due diplomi. 1190, 10 giugno Muore Federico Barbarossa. 1190, 18 novembre Tancredi di Lecce, nipote naturale di Costanza, viene incoronato re di Sicilia. 1191, 15 aprile A Roma si tiene l’incoronazione imperiale di Enrico e di Costanza. 1192, giugno Dopo essere stata presa in ostaggio da Tancredi, Costanza viene liberata. 1194, 20 febbraio Muore Tancredi di Lecce. Prima attestazione del Comune jesino 1194, maggio Il 12 maggio Enrico e Costanza partono da Trifels (Germania) alla volta della Sicilia. Dopo essere stati insieme a Milano diversificano il tragitto sul versante tirrenico (Enrico) e su quello adriatico (Costanza). 1194, 25 dicembre Enrico VI riceve a Palermo la corona di re di Sicilia. (Natale) 1194, 26 dicembre Costanza d’Altavilla si trova a Jesi e partorisce Federico II. (Santo Stefano) 1195, fine marzo Enrico e Costanza si ricongiungono a Bari. 1195, Pasqua La Curia regia si riunisce a Bari. Nell’occasione Costanza cinge la corona di Sicilia. 1197, 28 settembre Enrico VI muore a Messina in presenza della consorte. 1198, 17 maggio Federico II è incoronato re di Sicilia. 1198, 27 novembre Muore Costanza d’Altavilla. 1220, 22 novembre Federico II è incoronato imperatore. 1227, 10 ottobre Papa Gregorio IX scomunica lo Svevo per la prima volta. 1229, 18 marzo Federico II si incorona re di Gerusalemme. 1233, novembre Federico II dispone solenni festeggiamenti in tutto il Regno nel giorno di Santo Stefano per commemorare la propria nascita. 1234

Gregorio IX scomunica il podestà e il Consiglio cittadino di Jesi Giorgio da Como è all’opera sulla facciata della cattedrale.

1237 A novembre Federico II vince la battaglia di Cortenuova contro la Lega lombarda. 1239, 20 marzo Gregorio IX scomunica lo Svevo per la seconda volta. (Pentecoste) 1239, agosto Federico II indirizza una lettera alla città di Jesi.

Re Enzo conferisce un privilegio alla città di Jesi. 1239, ottobre 1245, 17 luglio Al concilio di Lione, papa Innocenzo IV scomunica e depone Federico II. 1247, dicembre Jesi è nello schieramento filosvevo durante la battaglia di Civitanova, che

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1248, febbraio Il 18 febbraio Federico II subisce la disfatta di Parma.

1250, 11 marzo 1250, autunno 1250, dicembre Il 13 dicembre Federico muore a Castel Fiorentino (Torremaggiore, in provincia di Foggia). 1258, ottobre

vede la sconfitta delle forze papali, nonché la cattura e l’uccisione del vescovo Marcellino Pete, legato pontificio. Il 13 febbraio il cardinale Raniero conferisce un privilegio alla città di Jesi, per premiare il suo ritorno all’obbedienza papale. Jesi conclude un’alleanza in funzione antisveva con le città di Ancona, Arcevia e Fabriano. Tornata su posizione filosveva, Jesi riceve su nomina federiciana il podestà Pietro di Aversa. Il federiciano Pietro di Aversa risulta ancora in carica in un atto stipulato a Jesi il 2 dicembre.

Durante la sua campagna militare nella Marca di Ancona, Manfredi ottiene l’appoggio della città di Jesi e ne conferma tutte le prerogative sul territorio. 1266, 13 gennaio 1266, 26 febbraio

Manfredi muore nella battaglia di Benevento.

Jesi compie atto di sottomissione nei riguardi del cardinale Simone, legato pontificio.

Sulle due pagine Jesi, Museo Federico II Stupor Mundi. Alcune immagini degli allestimenti e delle installazioni multimediali realizzate nelle sale di Palazzo Ghislieri.

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eventi festival federico ii Gestire i conflitti senza ricorrere alle armi Il Festival Federico II Stupor Mundi vuole riflettere proprio sugli argomenti connessi con la «crociata della pace» o, meglio, piú in generale con la cultura di condivisione che può portare a vincere una guerra con una scelta pacifista. Un’occasione per riflettere e discutere sulle modalità di gestione dei conflitti senza l’uso delle armi. Ma anche sulla rappresentazione del nemico, sulle strategie della diplomazia e di controllo del territorio, nonché della complessa rete mediterranea dei rapporti politici, interreligiosi, interetnici e interculturali per i quali Federico II, unendo Occidente e Oriente, rappresentò un punto di riferimento ineludibile. riconosciuta fama fra cui Agostino Paravicini Bagliani, Umberto Longo, Marina Montesano, Ortensio Zecchino, Amedeo Feniello, Alessandro Vanoli, Francesco Panarelli, Laura Minervini, Annick Peters-Custot, Oleg Voskoboynikov, Giuseppe Perta, Antonio Musarra, Giancarlo Lacerenza, Giuseppe Mandalà, Emmanuele Francesco Maria Emanuele, Francesco Pirani, Andrea Mazzucchi, Pietro Colletta, Stefano D’Ovidio, Francesco Cotticelli, Nicoletta Rozza, Stefano Rapisarda, Luisa Derosa e Teofilo De Angelis.

Felici sinergie

Organizzato dall’Associazione culturale Sulvic (www. sulvic.it), il festival è frutto di un accordo quadro finalizzato alla valorizzazione della figura di Federico II di Svevia siglato da Regione Marche, Regione Campania, Università degli Studi di Napoli Federico II e Università Politecnica delle Marche. La manifestazione rientra fra le celebrazioni degli 800 anni dell’Università Federico

II, il piú antico ateneo statale del mondo, fondato a Napoli nel 1224 dall’imperatore svevo. La manifestazione nasce da un progetto di William Graziosi, a lungo amministratore della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, già sovrintendente della Fondazione Teatro Regio di Torino e promotore anche della realizzazione, proprio a Jesi, del Museo multimediale «Stupor mundi (www.federicosecondostupormundi.it) che rievoca l’irripetibile vita dell’imperatore svevo. La Regione Marche sostiene l’evento grazie a una apposita legge firmata dal consigliere Carlo Ciccioli. La manifestazione è finanziata in modo congiunto anche dal Comune di Ancona e dal Comune di Jesi. Hanno assicurato il loro patrocinio: Università degli Studi di Napoli Federico II; Università Politecnica delle Marche; CESN (Centro Europeo di Studi Normanni); CESURA (Centro Europeo di Studi su Umanesimo e Rinascimento Aragonese); ISIME (Istituto storico italiano per il Medioevo italiano); SISMEL (Società InIn alto particolare di un allestimento multimediale del Museo Federico II Stupor Mundi di Jesi che rappresenta il sovrano nel paludamento imperiale. A sinistra Palazzo Ghislieri, sede del Museo Federico II di Jesi.

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In alto Jesi. Piazza Federico II (l’antica Platea Sancti Floriani). A sinistra plastico di Castel del Monte. Jesi, Museo Federico II Stupor Mundi.

Dove e quando Festival Federico II Stupor Mundi Ancona, 11-14 aprile Jesi, 11-12 maggio Info Associazione culturale Sulvic, Tel. 071 55165; e-mail info@festival-stupormundi.it, ufficiostampa@florabant.com www.festival-stupormundi.it Note ingresso alla manifestazione è libero, ma è richiesta la prenotazione on line ternazionale per il Medioevo Latino); Associazione del Centro Studi Normanno Svevi; Festival del Medioevo e Museo Federico II Stupor Mundi-Jesi. Il comitato scientifico, coordinato e diretto da Fulvio Delle Donne, è composto da Franco Cardini, Oronzo Cilli, Edoardo D’Angelo, Teofilo De Angelis, Umberto Longo, Andrea Mazzucchi, Antonio Musarra, Francesco

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Panarelli, Agostino Paravicini Bagliani, Giuseppe Perta, Francesco Pirani, Victor Rivera Magos, Francesco Santi e Ortensio Zecchino. Nel comitato d’onore figurano il consigliere della Regione Marche Carlo Ciccioli, il musicista Riccardo Muti, il rettore dell’Università di Napoli Federico II Matteo Lorito e Gian Luca Gregori, rettore del Politecnico delle Marche.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/14

Quando signori si diventa

di Corrado Occhipinti Confalonieri

L N

ella prima metà del XIII secolo, una parte dei comuni italiani – soprattutto del Centro-Nord – sperimenta una nuova forma di governo: la signoria. Si afferma un uomo forte che, sostenuto da larghi strati sociali della cittadinanza, pone la parola fine alla democrazia, considerata fonte di litigi e conflitti, ma soprattutto incapace di decidere. Non si tratta però di una rottura con le istituzioni comunali: il potere del signore era spesso una sorta di delega, legittimata attraverso il conferimento delle principali cariche esecutive, come quella di capitano del popolo, mantenuta dai primi Visconti a Milano, o di gonfaloniere, come nel caso dei Medici a Firenze. Per restare al potere anche in senso dinastico, i signori cercano anche una legittimazione dall’alto, facendosi nominare vicari imperiali o pontifici. Le signorie di maggiore importanza creano cosí veri e propri principati territoriali, alla base delle attuali regioni, come accade a Milano, dove il dominio visconteo, nel 1395, ottiene dall’imperatore Venceslao il definitivo riconoscimento giuridico con il titolo di Dux Mediolani. I contemporanei, in particolare quelli delle città in grado di autogovernarsi, condannano questa forma di governo, vista come un’involuzione autoritaria. Fra Tre e Quattrocento, la polemica coinvolge i Visconti, considerati come

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Particolare della Chiesa militante e trionfante, affresco realizzato da Andrea di Bonaiuto nel Cappellone degli Spagnoli, denominazione con cui è meglio nota la Sala del Capitolo di S. Maria Novella, a Firenze. 1366-1368. Le figure vengono tradizionalmente interpretate come personificazioni di alcuni vizi: da destra, l’avarizia (l’uomo vestito di verde); la Lussuria (la donna con la scimmia); la Superbia (l’uomo con il falco). Meno certa è l’identificazione della donna che suona lo strumento ad arco.

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Oltre che brillante scrittore, Franco Sacchetti fu un lucido osservatore delle vicende politiche del suo tempo. In piú d’uno dei suoi racconti si può individuare quali fossero, a suo giudizio, i requisiti indispensabili per esercitare il potere con autorevolezza ed equità: «istruzioni per l’uso» come sempre dispensate in forma quasi giocosa e spesso ironica, ma non per questo meno nette ed evidenti

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il trecentonovelle di franco sacchetti/14

tiranni, e l’oligarchico governo comunale di Firenze. Da uomo che occupa cariche politiche, anche il fiorentino Franco Sacchetti nel Trecentonovelle prende posizione su come gestire il potere.

La pietas di Bernabò

Nella (incompleta) novella LIX, Bernabò Visconti, signore di Milano dal 1354 al 1385, compie nello stesso giorno tre azioni molto diverse tra loro. Dopo un gesto di carità a noi non pervenuto, Visconti si trova in campagna, quando nota una fossa scavata da alcuni contadini e chiede loro spiegazioni: «Signor nostro, egli è morto qui un pellegrino, il quale alcuna cosa non troviamo ch’egli abbia di che si possa sotterrare [alcun bene con cui pagare la sua tumulazione]. Noi per meritare a Dio, abiamo fatta la fossa; pregjiamo il prete rechi la croce e’ doppieri [candelabri], acciò che lo sotterriamo; e’ dice che vuol denari, e mai non lo farà altramente; e ‘l cherico dice peggio di lui e hacci voluto quasi dare [picchiare]». Bernabò convoca il prete e il chierico: «Venite cià [qua] o messer

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Sulle due pagine Pistoia, Ospedale del Ceppo. Pannelli del fregio in terracotta dipinta e invetriata con le Sette Opere di Misericordia. 1526-1528. In alto, Seppellire i morti; a destra, Visitare i carcerati. L’opera fu commissionata a Giovanni Della Robbia, ma vi parteciparono anche Santi Buglioni e, per l’ultima formella, Filippo Lorenzo Paladini.

lo prete, e voi messer lo cherico; è vero quello che costoro dicono?». Entrambi rispondono: «Signore, noi dobbiamo avere ’l debito nostro [onorario]». Bernabò ribatte: «E chi vel de’ dare? Il morto che non ha di che?». I due religiosi ribadiscono: «Noi dobbiamo pur avere il debito nostro, chi che [chiunque] ce lo dia». Visconti conclude: «E io vel darò io: debito vostro è la morte; dov’è il morto? Adugelo [Portatelo] qua; mettel ne la fossa: pigliate ’l prete; cacciatel giú: dov’è il cherico? Mettetel su; mo tirà giú la terra [coprite la fossa]». Qualche giorno dopo, il signore torna a Milano e passa davanti a una delle sue carceri. I detenuti hanno saputo del gesto di magnanimità del primo episodio, compiumarzo

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to a beneficio dei condannati per insolvenza, e vorrebbero anch’essi ottenere la grazia: «Misericordia, misericordia» invocano al passaggio di Bernabò, che chiede spiegazioni al guardiano: «Signore, sono li prigionieri, che vi domandono misericordia». Visconti commenta: «Sí [Cosí] hanno apparato [imparato] dagli altri», riferendosi al primo atto di carità, a noi non pervenuto.

Un ordine perentorio

Il signore teme che quel gesto magnanimo possa diventare una consuetudine che mina la sua autorità nel gestire il potere, chiama un servitore al suo cospetto e gli ordina: «Va’ metti in prigione questo guardiano con gli altri e guarda la prigione tu, e fa’ che tu non déi [dia] né mangiare né bere ad alcuno di loro, se io [finché] non torno da Chiaravalle [abbazia a

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il trecentonovelle di franco sacchetti/14 Miniatura raffigurante il cardinale Egidio di Albornoz che riceve le chiavi delle città italiane sottomesse. XIV sec.

dodici chilometri da Milano], là dove io andrò com’io avrò desinato; e guarda che tu faccia ciò che io dico, altrimenti io t’impiccherò per la gola». Bernabò si trova da due giorni all’abbazia, quando lo raggiunge la notizia che la moglie rimasta a Milano è stata male e torna precipitosamente in città: pensa che il malore di Regina sia un segnale inviato da Dio affinché i prigionieri «non morissono, ch’erano già stati quarantadue ore sanza mangiare e sanza bere, avendovi quelli già che cominciavono a balenare [vacillare allo stremo delle forze]. Tornato che fu, ebbono tutti mangiare e bere, come poteano, ringraziando tutti il loro Creatore». Il comportamento discontinuo e ondivago di Bernabò, tipico del tiranno, porta Sacchetti a commentare sconsolato: «Or queste tre cose avvennono, si può dire, in un piccol viaggio; la prima fu di gran carità, e volle che fosse sí valida che la valesse eziandio [altresí] a chi v’era per debito [ai prigionieri per debiti]; la seconda fu mossa da iustizia e fu seguita [eseguita] con gran crudeltà; la terza su sdegno, e tòr materia che ogni dí non avessi avvenire [che quell’atto di benevolenza non diventasse una regola per tutti]». Per questo motivo, lo scrittore conclude che i comuni non imparano nulla dai

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loro signori divenuti tiranni, perché pensano solo a lottare l’uno contro l’altro, minando cosí la libertà «il bene che Dio ha dato loro».

Un signore suavissimo...

Da uomo pragmatico qual è, Sacchetti individua in Rodolfo da Camerino († 1384) il signore dotato di quell’equilibrio necessario a garantire non solo la libertà, ma anche la collaborazione fra comuni ostili. Ma chi è Rodolfo da Camerino? Si tratta di Rodolfo II da Varano (non vi è certezza sul fatto che fosse effettivamente nato a Camerino, n.d.r.), un piccolo signore feudale marchigiano, soldato di ventura, prima capo della milizia fiorentina durante la guerra degli Otto Santi contro il papa (1375/1378), poi suo alleato e infine tornato in buone relazioni con Firenze. Nella novella VII Rodolfo «savissimo signore» durante la guerra del 1358, condotta dal cardinale Egidio di Albornoz per restaurare lo stato della Chiesa a Forlí, si trova a dirimere una questione fra i nobili cavalieri che stringono d’assedio la città: «Tra loro essendo messer Unghero da Sassoferrato, il quale avea l’insegna del Crocifisso, la quale è quella insegna che è piú degna che alcun’altra; ed essendo gran contesa tra loro,

però che [poiché] quello che avea l’insegna dicea aver caro [stimare] quel beneficio fiorini duemila, altri diceano: “Io vorrei inanzi fiorini duecento”, e tali diceano fiorini cento e tali fiorini trecento, e chi dicea di meno e chi di piú; passando per quel luogo a messer Ridolfo da Camerino che andava proveggendo il campo, s’accostò a loro domandando di quello che contendeano; di che per loro gli fu detto la cagione pregandolo ancora che la loro questione diffinisse [risolvesse] e quello che si dovea prezzare [valutare economicamente] detta insegna». Rodolfo risponde che chi stima questa insegna duecento, trecento, mille, duemila fiorini non ha ragione: Cristo è stato venduto per trenta denari e «ora ch’egli è dipinto nella pezza e morto e in croce, che si possa o debba ragionevolmente stimar piú è cosa vana, e per la ragione allegata non potere iustamente seguire [non è logico]». Tranne Unghero da Sassoferrato, la decisione di Rodolfo soddisfa tutti i litigiosi cavalieri. Sacchetti è ammirato da come il comandante ha risolto la situazione che poteva degenerare in un litigio fra alleati: «Notabile detto e strano [particolare] fu quello di messer Ridolfo; e come che paresse ostico, raccontando come disse del nostro signore, a ragione il giudicio fu giusto». Lo scrittore sottolinea come Rodolfo dimostra senza dirlo apertamente che «son molti che fanno maggiore stima delle viste che de’ fatti. E quanti ne sono già stati che hanno procacciato d’essere Gonfalonieri o Capitani e d’avere l’insegna e reale e dell’altre solo per vanagloria, ma dell’opere non si sono curati! E di questi apparenti ne sono stati e tutto dí sono piú che degli operanti. E non pur [solo] nelle cose dell’arme, ma eziandio [anche] di quelli che in teologia si fanno ammaestrare [ottengono la laurea] non per altro se non per essere marzo

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detto maestro; dottore di leggi per essere chiamato dottore; e cosí in filosofia e medicina, e di tutte l’altre; e Dio il sa quello che li piú di loro sanno!».

In difesa di Bologna

Nella novella XXXVIII, assistiamo a come Rodolfo si fa beffe dei suoi avversari. Durante la guerra degli Otto Santi, il nostro capitano di ventura, al soldo di Firenze, difende Bologna. Sacchetti ne è testimone: «Però che [Poiché] io scrittore, trovandomi in Bologna buon tempo con lui, quando era generale capitano di guerra de’ Fiorentini e di tutta l’altra lega per la guerra della Chiesa, quando il cardinale di Geneva, che poi ebbe nome papa Clemente in Avignone, era venuto con li Brettoni alle porte della detta terra [città], e uno nipote del detto messer Ridolfo, nato di sua sorella, chiamato Gentile da Spoleto, andando per guadagnare, come fanno gli uomini d’arme, facendo scaramucce con detti Brettoni, fu preso da loro. E sapiendo gli Brettoni ch’egli era nipote di messer Ridolfo con disprezzamento gli diceano: “Noi aspettiamo il capitano vostro: perché non esc’elli fuori? Noi sentiamo che si sta pur [sempre] nel letto: venga fuori, venga”». Gli assedianti mettono una taglia di cinquanta ducati su Gentile e lo mandano a Bologna a riscuoterla dallo zio che quando viene a conoscenza della provocazione dei nemici dice al nipote di rispondere: «Se ti dicono piú [ancora] “Perché non esce fuori messer Ridolfo?”, e tu rispondi: “Perché voi non c’entriate dentro”». Sacchetti mostra tutta la sua ammirazione per la risposta di Rodolfo: «Or non fu bella parola questa a [per] uno capitano di guerra? Per certo bella e notabile, come se l’avesse detta Scipione o Anibale: e troppo maggiore prova fu a’ nimici questa risposta (...) di mostrare loro chi messer Ridolfo era (...) Altri poco sperti [esperti] e pratichi nella maestria de l’arme si serebbono andati incastagnando [avvolgendosi] di parole; e quante piú ne avessono dette, da meno

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serebbono stati reputati». Rodolfo si prende gioco anche del diritto che nella sua epoca viene calpestato dalla prepotenza (XL). Un suo nipote aveva studiato legge per dieci anni a Bologna, sede della piú antica e prestigiosa università europea. Tornato a Camerino il giovane avvocato si reca a visitare lo zio che gli chiede: «E che ci hai fatto a Bologna?». Il nipote risponde: «Signor mio, ho apparato ragione [diritto]». Rodolfo appare scettico: «Mal

Ritratto di Rodolfo II da Varano, olio su tavola di Giuseppe Antonio Ghedini. 1730-1790. Camerino, Pinacoteca Civica.

ci hai speso il tempo tuo». Al neolaureato la risposta appare bizzarra, gli chiede spiegazioni. Rodolfo gli dice: «Perché ci dovei apparare [dovevi imparare] la forza, che valea l’un due [il doppio]». Il giovane sorride amaramente, l’opinione dello zio è corretta per i tempi che corrono. Anche Sacchetti concor-

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il trecentonovelle di franco sacchetti/14

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

da con Rodolfo e il giovane laureato: cosa serve studiare il diritto se poi non si usa? Anzi: «Si vede oggi che sopra poveri e impotenti tosto si dà iudizio e corporale e pecuniale; contra i ricchi e potenti rade volte, perché tristo chi poco ci puote [poiché infelice chi non ha potere]».

Un capitano avveduto

L’autore del Trecentonovelle cita anche altri aneddoti che vedono protagonista Rodolfo, segno che lo segue molto da vicino e dimostra come le positive impressioni ricevute erano confermate da un comportamento coerente e costante, rispetto a quello umora-

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le di altri uomini di potere come Bernabò Visconti (XLI): «Essendo il detto messer Ridolfo al servizio dello re Luigi di Cicilia [Luigi I d’Angiò morto nel 1384] andando con certa gente d’arme fu assalito; di che convenne che tutti ti fuggissono a sproni battuti, e camporono [sopravvissero]. Tornato poi Ridolfo nel cospetto del re, e lo re gli disse: “Ridolfo, per quanto aresti dato quelli sproni [speroni]?”. E quelli rispose: “Di cotesto non saccio: ma ben saccio per quanto ci sarei rattenuto a fare lo patto [per quanto non mi sarei fermato a trattarne la vendita]”». In questo brano notiamo il senso di responsabilità di Rodolfo come

condottiero, che decide di battere in ritirata per salvare i suoi uomini, senza sacrificarli inutilmente. Il saggio signore è caustico anche nei confronti della Chiesa: gli viene riferito che mentre è sotto assedio a Bologna, il papa ha impegnato Avignone, residenza pontificia per gran parte del Trecento, per pagare le milizie; il condottiero assediato commenta: «Molto c’è savio lo papa nostro; vuol vendere quello ch’egli ha, per acquistare quello che non sa». Quando Rodolfo subisce l’umiliazione di essere dipinto a testa in giú come gli infami dai Fiorentini, scontenti dell’andamento della guerra degli Otto Santi, per marzo

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La Rocca Varano, eretta all’inizio del XII sec. sullo sperone roccioso a picco fra le valli del Chienti e del suo affluente, il torrente San Luca, a sud di Camerino. Fu una delle piú importanti fortificazioni dei signori della città marchigiana. In basso lo stemma dei da Varano di Camerino.

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nulla turbato commenta: «E’ si dipingano [Cosí si dipingono] li santi: sonci fatto santo». Tempo dopo, il comune di Firenze si pente della decisione e vuole instaurare nuovi rapporti con Rodolfo: fa cancellare la pittura infamante e gli invia degli ambasciatori a Camerino. Il signore decide di prendersi una rivincita a modo suo: «La prima che, essendo a tavola del mese di luglio da lui convitati, era di drieto a loro a uno camino acceso un gran fuoco, come se fosse stato del mese di gennaio. Gli ambasciatori, sentendo alle spalle il fuoco penace [che dà pena] per lo sollione, domandarono messer Ridolfo che cagione era il perché di luglio tenesse il fuoco acceso alla mensa. Messer Ridolfo rispose che ciò facea perché quando i fiorentini l’aveano dipinto, l’aveano dipinto sanza calze in gamba [senza calzamaglia, utilizzata all’epoca al posto dei pantaloni]; di che per quello avea sí frigidite le gambe, che mai da là in qua non l’avea possute riscaldare, e però [per questo] gli convenía tenere il fuoco presso per riscaldarle». «Gli ambasciatori sorrisono un poco, ma quasi ammutolorono [ammutolirono]. Poi seguendo alle vivande vennono capponi lessi e le lasagne, le quali messer Ridolfo ordinò che la sua scodella fosse minestrata tanto innanzi ch’ella fosse tiepida, e quelle dell’ambasciadori venissono bollenti e caldissime in tavola. E cosí alla tavola gionte, messer Ridolfo comincia sicuramente pigliarne pieno il cusoliere [cucchiaio]. Gli ambasciadori, cosí veggendo, ebbero per fermo [la sicurezza di] poterle pigliare altresí sicuramente; onde al primo boccone tutto il palato si cossono, sí che l’uno cominciò a lagrimare, e l’altro cominciò a guatare [fissare] il tetto e a singhiozzare».

Rodolfo si è accorto degli sguardi rivolti al soffitto e chiede all’ambasciatore cosa stesse fissando: «Guardo questo tetto, che fu cosí ben fatto: chi lo fece?». La risposta dell’ospite è dall’ironia tagliente: «Fecelo maestro Soffiaci; nol conosci tu?». Gli ambasciatori capiscono il doppio senso, lasciano raffreddare le lasagne e, al termine del pranzo, commentano fra di loro: «E’ ci sta molto bene, che corriamo subito a dipignere gli signori come se fossono portatori [ persone di nessuna importanza] ed elli ci ha ben dimostrato quel che ben ci sta». Questi aneddoti dimostrano a Sacchetti la libertà di pensiero di Rodolfo che non si fa remore a criticare le istituzioni comunali con l’ironia cara allo scrittore.

La giusta freddezza

Rodolfo dimostra la sua capacità di tenere saldo il governo del suo feudo di San Ginesio, nelle Marche (XC) con il consueto spirito mordace. Quando il signore viene a sapere che «uno calzolaio (...) fu una volta sí presuntuoso che cominciò a parlare e a trattare per via di stato contro al detto messer Ridolfo [contro il governo di Rodolfo per impadronirsi dello Stato]», reagisce in modo non convenzionale per l’epoca. Sacchetti sottolinea: «Non corse a furia, come molti stolti fanno; e non volle che queste cose paressino, se non come da calzolaio». In questo passaggio Sacchetti mette in luce la caratteristica del principe, quella di non farsi prendere dall’ira e dall’orgoglio in questioni di governo, ma di ragionare a mente fredda per trovare la migliore soluzione volta al mantenimento dello Stato. «E ancora non volendo mostrare viltà ma piú tosto magnanimità, mostrò di andare a sollazzo per la terra [la città]; e andando dove questo calzolaio stava con la sua stazzone [bottega]». Quando Rodolfo incontra il calzolaio, gli chiede perché svolga questo mestiere: «Signor mio

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il trecentonovelle di franco sacchetti/14 La bottega di un calzolaio, particolare dell’Allegoria ed Effetti del Cattivo Governo, affresco realizzato da Ambrogio Lorenzetti e dalla sua bottega nel Palazzo Pubblico di Siena tra il 1338 e il 1339.

per poter vivere». La risposta non lo soddisfa: «Non ci puoi vivere con essa, non è tua arte e non è tuo mestiero, e non lo sai fare» e gli porta via le forme in legno su cui si modellano le scarpe. Il calzolaio rimane senza parole, si reca piú volte da Rodolfo a palazzo per chiedere indietro le sue forme, ma senza successo: «Alla per fine v’andò una volta, e trovò messer Ridolfo con una brigata di valenti uomeni; e avisandosi, se chiedesse le forme dinanzi a tanti, gli verrebbe meglio fatto di riaverle, considerando il detto messer Ridolfo per vergogna piú tosto gliene rendesse». Il calzolaio insiste col principe davanti ai notabili del posto: «Signore mio, io vi priego mi rendiate le mia forme, ché io non posso lavorare, né far l’arte mia». Rodolfo ribatte: «Io c’ho detto che non è l’arte tua di cucire ciabatte e fare calzari». L’origine del termine calzari nasce dalla moda dell’epoca di cucire le suole alla calzamaglia. Il calzolaio risponde: «O se questa non è l’arte mia, che sempre ce l’ho fatta, qual è la mia?». La risposta di Rodolfo è peggio di una sciabolata: «Ben ci hai domandato: l’arte tua è di stare per questo bello palazzo e darti alle cose piú alte; ed io voglio tener quelle forme per

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imprender [imparare] di cucire e di fare le scarpe e calzari, se mi bisognassi». Gli altri gentiluomini sono stupiti della curiosa discussione, non capiscono dove vuole arrivare Rodolfo che precisa: «Questo ciabattino che voi vedete qui ha trattato di tormi la signoria; e io, sapiendo ciò, e veggendo che l’animo suo de’ esser grandissimo e non tirare li cuoi con li denti [all’epoca i calzolai masticavano il cuoio per renderlo piú morbido e lavorabile], ma piú tosto da essere signore in questi palazzi, gli ho tolto le forme, però che [poiché], se cerca questo mestiere e parli che questo debba essere il suo, di quello non ha a fare alcuna cosa, però che [in quanto] non è suo mestiere, ma è molto vile [di scarsa importanza] e basso al suo grand’animo».

Ai piedi del capitano

A queste parole il calzolaio comincia a tremare dalla paura, quando vede apparire le sue forme di legno, pensa che Rodolfo lo voglia uccidere con quelle. In realtà la decisione del signore è ben piú sottile: «Da poi che ci hai detto inanzi a costoro che questo è il tuo mestiero, e io ti voglio credere e rendendoti le forme; ma lascia stare il mio mestiero che non è da te, né da tuo pari, e torna a tagliare e a cuci-

re le scarpe nella tua mal’ora; e va’ e fammi lo peggio che puoi». A queste parole l’artigiano pentito si inginocchia e ringrazia Rodolfo della sua magnanimità: «E cosí si partí in quell’ora, che mai non pensò, né in detto né in fatto, se non ad essaltazione del suo signore. E ’l detto messer Ridolfo per questo ne divenne dal suo populo sí amato che tutti parve che soccorressono [si offrissero] con un fervente amore ad ogni suo bisogno». Sacchetti conclude mostrando tutta la sua ammirazione per Rodolfo: «Oh, quanto egli è da commendare uno signore quando per uno vile uomo gli è fatto simile offensa, che egli se ne curi come curò costui, mostrando la sua magnanimità e l’animo liberale, il quale il fa grande e [fa] montare fino alle stelle, per aver annullate e fatto poca stima di quelle cose le quali molti vili fanno maggiori [che molti cattivi signori accrescono, rappresentano piú gravi di quello che sono], temendo che ogni mosca non gli offenda». In questa novella, notiamo come Rodolfo non solo ha dimostrato la sua magnanimità nei confronti di un suddito, ma soprattutto ha capito come farsi amare dal suo popolo e mantenere saldo il suo stato. Non siamo ancora di fronte al principe di Machiavelli, ma il modello comportamentale di Rodolfo fa pensare a Sacchetti di trovarsi di fronte a un avveduto politico, dotato di quel cinismo necessario a irridere i formalismi, il diritto e la religione, tanto necessario per dare un nuovo impulso alla confusa società comunale di fine Trecento, attanagliata dalla paura verso il futuro. (fine – le puntate precedenti della serie sono state pubblicate, ogni mese, a partire dal n. 313, febbraio 2023) marzo

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di Paolo Garbini

LA VITA COME UN

DIALOGO

Il 15 marzo del 1944, Cassino e l’abbazia di Montecassino furono colpite dal piú massiccio e devastante bombardamento effettuato dalle truppe alleate nel corso della lunga battaglia contro le forze tedesche. Il grande complesso religioso sarebbe stato poi ricostruito «com’era, dov’era». Sulle prime, però, sembrò che fosse giunta al termine una storia plurisecolare, segnata dalla figura di un personaggio straordinario, l’abate Desiderio. Figlio di Longobardi, resse le sorti del monastero per un trentennio, prima d’essere eletto papa, nel 1087. Morí pochi mesi dopo, lasciando, a testimonianza del suo sentire religioso e politico, un testo agiografico dai profondi risvolti interiori Particolare di una miniatura raffigurante l’abate Desiderio che dona simbolicamente codici e possedimenti dell’abbazia di Montecassino a san Benedetto. 1058-1087. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana (vedi immagine completa a p. 93).


Dossier

«I

o desidero morire fintantoché egli è abate e voglio che sopravviva alla mia morte e che nell’ultimo giorno della mia vita mi assolva dai peccati». Con questo appello al destino, il monaco cassinese Amato conclude, nella Storia dei Normanni, il ritratto dell’abate Desiderio, figura chiave del Medioevo. Longobardo, figlio di Landolfo V principe di Benevento, dove nacque nel 1027, Dauferio entrò a tredici anni nel monastero di Montecassino, mutando il suo nome in Desiderio. Divenuto abate nel 1058, l’anno dopo fu nominato vescovo da papa Niccolò II e resse il suo monastero per ben trent’anni. Nel 1087, dopo la drammatica morte di Gregorio VII a Salerno il 25 maggio del 1085, e dopo quasi due anni di tormentatissime trattative intercorse tra la parte riformatrice e i suoi avversari per la scelta del successore, fu proprio Desiderio, malato e dapprima reticente, a essere chiamato a succedere al grande papa riformatore. Fu l’e-

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stremo gesto di dedizione alla causa della sua tenace vocazione religiosa e politica. Desiderio accettò, assumendo il nome di Vittore III, ma poté governare la Chiesa solo per quattro mesi, gli ultimi della sua vita, che si spense nella sua Montecassino, dove si era ritirato, il 16 settembre 1087.

Una stagione d’oro

Durante il suo trentennale regno cassinese, Desiderio portò la fioritura del monastero a livelli mai raggiunti, né prima né dopo, cosí che Montecassino poté rivendicare a buon diritto un primato di onore e di antichità tra i maggiori monasteri dell’Occidente. Triplice fu l’eccezionale operato di Desiderio nella vita del monastero: fece innalzare con magnificenza la basilica, arricchendola con affreschi

e mosaici eseguiti da maestranze chiamate da Bisanzio; favorí l’attività dello scriptorium, facendo del monastero un prestigioso centro di studi teologici, grammaticali e retorici, testimoniato da molti, preziosi manoscritti; infine rese Montecassino una roccaforte di strategica gestione del potere, la piú importante dell’Italia meridionale. Ma l’orizzonte delle iniziative di Desiderio si estese ben al di là di Montecassino. Dall’alto della rocca cassinese l’abate contribuí infatti in prima persona – mettendo a disposizione del papato le ingenti risorse di uomini e mezzi di cui era dotato il monastero – a due imprese di portata fondamentale per tutto l’Occidente: la complessa riforma della Chie-

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sa voluta da papa Gregorio VII e la difficile mediazione politica tra la Chiesa e i Normanni, che andavano stanziandosi nell’Italia meridionale. Di questa molteplice attività religiosa, politica e culturale di Desiderio abbiamo notizie da varie fonti, tutte cassinesi, almeno le piú importanti: cronache, documenti d’archivio, manoscritti. Ma nemmeno una parola, di tanto operoso e spesso faticato agire, ci rimane scritta da Desiderio, non un racconto, né un commento. Almeno cosí sembra a prima vista, dato che sono sopravvissuti solo i Dialoghi dei miracoli di San Benedetto, dunque un’opera di agiografia. Abbiamo anche la notizia che l’abate avrebbe composto un carme – forse conservato – su san Mauro, allievo prediletto di san Benedetto. Su questa esigua attività di Desiderio come scrittore ci riferisce con qualche attenzione lo storiografo Amato: alla fine del sintetico racconto della vicenda biografica, il monaco ne esalta le virtú e scri-

In alto la statua settecentesca di san Benedetto scolpita da Paolo Campi, miracolosamente sopravvissuta al bombardamento del 1944. Cassino, abbazia di Montecassino. Sulle due pagine una veduta dell’abbazia di Montecassino.

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Miniatura raffigurante il principe normanno di Capua, Giordano I, che fa una donazione all’abate Desiderio, dal Regesto di Sant’Angelo in Formis. 1137-1166. Cassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

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Le fonti

Testimoni eccellenti Tre sono le fonti principali per ricostruire la storia del periodo piú glorioso di Montecassino, che coincide in pieno con l’epoca di Desiderio (1058-87), ma che si può estendere anche a quelle degli abati Oderisio (1087-1105), Bruno di Segni (1107-11), Gerardo (1111-23). La prima è la Cronaca di Montecassino, in latino: fu iniziata per volere dell’abate Oderisio dal monaco Leone († 1115), che la interruppe al 1075; fu continuata a quanto pare dal monaco Guido e quindi dal suo allievo Pietro Diacono. Pietro è anche autore della seconda fonte, il Registro di Pietro Diacono, redatto in latino tra il 1131 e il 1133 come completamento della Cronaca. La terza fonte è la Storia dei Normanni del monaco Amato, pervenutaci solo in una traduzione-parafrasi in francese e che narra gli avvenimenti tra il 1078 e il 1080. Molti documenti originali (soprattutto concessioni), anch’essi preziosi per la storia dell’abbazia, sono conservati negli archivi di Montecassino. ve che l’abate apprese pienamente grammatica e retorica a quaranta anni, ma in modo tale da superare tutti coloro che avevano imparato queste discipline in gioventú.

Un giudizio parziale

Chi voglia rendersene conto, esorta Amato, guardi al carme scritto in onore di san Mauro e al libro dei Dialoghi, cosí ricco delle armoniose prelibatezze dell’arte grammaticale e retorica. È questo oltretutto un giudizio forse sovraccaricato dalla devozione verso la figura dell’abate, ma è anche stato, per secoli, l’unico giudizio sui Dialoghi che abbia tenuto conto esclusivamente della scrittura di quel testo piuttosto che del suo contenuto storico-agiografico. Dunque i Dialoghi sono l’unico scritto di Desiderio che possiamo interrogare. Peccato – dirà qualcuno – che non siano una cronaca o un’autobiografia, ma un dialogo tra Desiderio e il levita Teofilo sui miracoli compiuti da san Benedetto – dopo

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In alto pagina miniata da una volgarizzazione francese della Storia dei Normanni scritta dal monaco di Montecassino e cronista Amato. XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra iniziale miniata, da un omiliario realizzato nello scriptorium dell’abbazia di Montecassino al tempo di Desiderio. 1072. Cassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

la sua morte –, grosso modo all’epoca di Desiderio. Per nostra fortuna però nella letteratura latina medievale accade di frequente che un testo sia altro da quello che sembra a prima vista. Cosí un’opera catalogabile sotto un dato genere può scartare nascostamente verso un altro genere. In questa deformazione entra in gioco anche la quasi assoluta mancanza di libertà ideologica, che aveva comunque un rovescio positivo: costringeva a ricercare l’efficacia e anche – piú di quanto non si creda comunemente – l’originalità, nell’assoluta libertà formale.

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Dossier la basilica

Un’opera grandiosa Davvero regale fu l’azione di Desiderio nella progettazione e nella realizzazione della nuova basilica di Montecassino. Preziosissima è la testimonianza fornitaci al riguardo da Leone nella Cronaca di Montecassino, da cui apprendiamo che il grande abate investí notevoli capitali e impiegò forze cospicue per la ricostruzione della basilica e dell’intero complesso abbaziale. I lavori durarono solo cinque anni, dal 1066 al 1071: il 1° ottobre del 1071, davanti a una smisurata folla di personalità politiche e religiose, la basilica fu consacrata da papa Alessandro II, e fu uno dei grandi avvenimenti dell’XI secolo. L’Italia meridionale, da Roma in giú, era dominata da un nuovo, impressionante faro. Al centro di tutto era lo splendido altare d’oro, decorato con scene del Vangelo e della vita di san Benedetto, alla cui realizzazione sovrintese lo stesso imperatore di Bisanzio. Ogni cosa, in quel maestoso edificio che misurava 48, 40 m di lunghezza e 21,07 di larghezza, proclamava la potenza e la ricchezza di Montecassino nel suo periodo aureo: la costruzione, per cui furono impiegati materiali lapidei provenienti da Roma, la decorazione e gli arredi, si devono, invece, ad artisti e maestranze giunte da Bisanzio e da Alessandria, che fecero rinascere l’arte del mosaico. Il ricorso a mosaicisti bizantini era motivato, come leggiamo nella Cronaca, poiché, come scrive Leone, «da piú di cinquecento anni i maestri latini avevano tralasciato la pratica di tali arti e per l’impegno di quest’uomo ispirato e aiutato da Dio esse furono rimesse in vigore in questo nostro tempo»; inoltre, «affinché la loro conoscenza non cadesse ancora oltre in oblio in Italia, quell’uomo pieno di sapienza decise che molti giovani del monastero fossero con ogni diligenza iniziati in tali arti. Tuttavia non solo in questo campo, ma anche per tutti i lavori artistici che si possono compiere con oro, argento, bronzo, ferro, vetro, avorio, legno, gesso o pietra, fece venire i migliori artisti selezionati dai suoi monaci». Leone descrive tutta la sua estasiata meraviglia davanti a quei mosaici che riproducevano fiori e figure a grandezza naturale. Di quella basilica, semidistrutta dal terremoto del 1349 e poi rasa al suolo dalle bombe alleate nel 1944, non rimane nulla, ma un’idea dei preziosissimi affreschi e mosaici che la adornavano può forse ricavarsi da quelli che lo stesso Desiderio fece realizzare a Sant’Angelo in Formis. Delle immagini che adornavano l’abbazia si conoscono almeno alcuni soggetti, come le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento nell’atrio, di cui ci sono pervenuti i tituli, cioè le iscrizioni che vi erano dipinte, scritti dall’arcivescovo di Salerno Alfano.

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Affresco raffigurante il Cristo in trono fra due apostoli e, nel registro mediano, tre tondi con i ritratti a mezzobusto, da sinistra, dei santi Mauro, Benedetto e Scolastica. Inizi del XIII sec. Il dipinto faceva parte della decorazione della chiesa del Crocifisso e fu riscoperto dopo i bombardamenti subiti dall’edificio nella seconda guerra mondiale. Venne allora staccato e trasferito nella cappella di S. Anna della chiesa dell’abbazia di Montecassino.

Ma molti scrittori per esprimersi non si contentarono di poter disporre a piacimento di schemi e strutture e cosí nascosero qualcosa di sé, piú sottilmente, in certi punti strategici del testo, ai confini tra la parola scritta e i margini bianchi del non detto. Le maglie fitte della (auto)censura medievale ci costringono oggi a utilizzare il microscopio, eppure si riescono ancora a leggere le parole non scritte però presentissime, i palinsesti dell’anima, i messaggi nella bottiglia di chi ha cercato almeno una liberazione postuma. Fermarsi ai dati di superficie è insomma raccogliere sassi senza avvedersi che sotto uno strato di poca terra brilla la pepita aurea di una intuizione, o giace il fossile solcato da un personalissimo dolore. Che sia questo anche il caso di Desiderio? marzo

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MIRACOLI E POLITICA

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quanto risulta dagli indizi cronologici contenuti nell’opera, Desiderio compose i suoi Dialoghi certamente in un periodo compreso tra la fine del 1076 e l’estate del 1079, ma forse vi pose mano fin dai primi anni Sessanta. Come si legge nel prologo all’opera e in quello al terzo libro, il piano prevedeva quattro libri, ma il testo che noi conosciamo si ferma alla fine del terzo, dove, forse, si è arrestato lo stesso autore. Ciascun libro costituisce il resoconto di una giornata di conversazione tra Desiderio e il levita Teofilo (da identificarsi con il monaco e maestro di retorica Alberico). Sempre nel prologo, l’abate dichiara di avere raccolto nelle sue pagine,

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In alto il ritratto dell’arcangelo Michele nell’affresco absidale della basilica benedettina di Sant’Angelo in Formis (Capua). 1072-1086.

prima che essi scivolassero via dalla sua memoria, molti dei miracoli avvenuti nel monastero di Montecassino (nei primi due libri) e in altre zone d’Italia (ultimi due libri), dei quali sia stato testimone o abbia avuto notizia. Il patto di onestà con il lettore, luogo comune quanto inevitabile dell’agiografia, è tempestivo: per sgombrare qualsiasi ipotesi di dubbio, Desiderio afferma che avvertirà, per ciascun prodigio, da quale persona ha ottenuto la testimonianza, convinto che è meglio

Qui sopra vignetta raffigurante una disputa sulla composizione del Vecchio e del Nuovo Testamento, da un’edizione del De universo di Rabano Mauro. 1023. Cassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

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Dossier

In questa pagina altri particolari degli affreschi della basilica di Sant’Angelo in Formis. 1072-1086. In alto, particolare del Giudizio Universale raffigurante due giovani, membri del popolo di Dio, che raccolgono datteri; a sinistra, l’abate Desiderio, con il modellino della chiesa, di cui promosse la rifondazione.

tacere del tutto piuttosto che raccontare falsità o inesattezze. Dopo i primi due libri dedicati a miracoli monastici ambientati tra il cenobio cassinese e le sue terre, nel terzo libro Desiderio alza lo sguardo sull’Italia, in particolare su Roma e Firenze contagiate dalla peste della simonia (la pratica del commercio delle cariche ecclesiastiche), e mette in scena gli interpreti principali della riforma, Leo-

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ne IX e Gregorio VII, e quelli delle minacce alla Chiesa, come Cadalo di Parma, l’antipapa Onorio II. Sul finire del terzo libro, l’attenzione torna sui monaci e le monache del Sud dell’Italia: Cava dei Tirreni, Salerno, Benevento (monasteri di S. Pietro e di S. Sofia). Il dialogo tra Desiderio e Teofilo – pacato ma con momenti di partecipazione – è la cornice in cui sono inscritti e articolati i racconti dell’abate.

Racconti edificanti

Se si legge con attenzione questa specie di collana di perle miracolistiche, si scorgono qua e là punti segreti, nevralgie e piccole estasi che affiorando chiedono di essere comprese. Mettiamo dunque per un poco da parte l’evidente finalità marzo

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didattica dei Dialoghi, dichiarata sin dal prologo e che consiste nell’edificazione degli ascoltatori ottenuta mediante il racconto dei prodigi e le conseguenti riflessioni teologiche proposte da Desiderio nello spazio dialogato con Teofilo. Il sospetto è che questa, che è un’opera agiografica, possa essere anche un luogo di sfoghi, un agone dove si gioca un accanito corpo a corpo tra lo scrittore e il mondo. In uno dei libri dell’opera Desiderio racconta un breve miracolo, modesto se letto in prospettiva prodigiosa; interessante, se interpretato in prospettiva storiografica con la messa a fuoco sui Normanni; ma addirittura improvvisamente rivelatore se inteso in prospettiva letteraria, con la messa a fuoco sull’au-

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tore: «Un’altra volta, alcuni pescatori avevano gettato le reti in mare per catturare il pesce necessario alla refezione dei confratelli, quando sopraggiunse un Normanno, pieno di sé e gonfio di superbia, con furiosa tracotanza. E, come sono i Normanni, avidi di rapine e inspiegabilmente ansiosi di appropriarsi dei beni degli altri, afferrò uno dei pescatori, gli sfilò il vestito e subito lo indossò. Poi, salito sulla barchetta, costrinse un pescatore a ritirare dall’acqua le reti, per portarsi via i pesci che vi avrebbe trovato. Ma siccome il pescatore si rifiutò, dicendo che stava catturando quei pesci per la refezione dei monaci, non dei Normanni, quello lo colpí e lo scaraventò in acqua con tutta la forza. E cosí il Normanno, bramoso del bottino dei pesci, cominciò a tirar su da solo le reti dal mare e a

Miniatura raffigurante Ildebrando, vescovo di Capua, che permuta le chiese di Sant’Angelo in Formis e di San Giovanni de Landepaldi con il principe di Capua Riccardo I, dal Regesto di Sant’Angelo in Formis. 1137-1166. Cassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

raccogliere i pesci, quando all’improvviso cadde dalla barchetta nell’acqua e sommerso dai flutti spirò. Ma, meraviglia, dopo che un’onda ebbe gettato il cadavere del Normanno sulla spiaggia, quel pescatore che era stato precipitato in acqua arrivò a nuoto sano e salvo» (Dialoghi I, 11). L’episodio è collocato in un passato non definito precisamente. Invece si dice con tutta chiarezza quale è la natura dei Normanni,

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Dossier La Terra di san Benedetto

Dalle corti all’università dei cittadini La storia dei territori legati all’abbazia benedettina (Terra Sancti Benedicti) è scandita in tre fasi principali, a cui corrispondono tre diverse impostazioni del controllo del territorio: si ha prima l’epoca della curtis («corte»), poi quella del castrum («castello»), infine quella dell’universitas civium («università dei cittadini»). Nella prima fase, che va dal 774, anno della donazione di terre da parte del longobardo Gisulfo II, fino all’883, anno della distruzione a opera dei Saraceni, i monaci gestirono in piena autonomia il controllo della loro proprietà, attuando una riorganizzazione rurale, bonifiche, costruzioni di piccoli monasteri detti cellae. In seguito alla distruzione dei Saraceni i monaci si ritirarono a Capua e la successiva instabilità, durata una quarantina d’anni, ebbe conseguenze disastrose per le aree coltivate. Durante la fase del castrum (secoli X-XI), la vittoria nell’agosto 915 della Lega cristiana di papa Giovanni X nella battaglia del Garigliano segnò la ripresa da parte della nobiltà locale del controllo della terra. I monaci tornarono a Montecassino nel 949. Nel periodo che segue si ripopolò il territorio, si realizzarono opere di bonifica, si misero a coltura nuove

aree e si edificarono, appunto, i castra – insediamenti fortificati sulle alture –, che divennero per secoli i centri di controllo e amministrazione del territorio: con le acquisizioni di Desiderio i castra divennero una trentina, e i loro nomi furono incisi sulle porte di bronzo della basilica di Desiderio fatte venire da Bisanzio. Nella terza fase (secoli XII-XIII) i castra sono ormai consolidati: la popolazione dei castelli acquista consapevolezza e inizia a organizzarsi in universitas civium, per far valere i propri diritti nei confronti dell’abbazia, che concesse Chartae libertatis («Carte di libertà»), con cui si stabilivano i reciproci rapporti. Limiti al potere dell’abbazia giunsero dall’iniziativa dei Normanni e poi dagli Svevi. Nei secoli XIII-XVI si registra la progressiva perdita del potere dell’abbazia e il dissolvimento del territorio da essa dominato per secoli. Il terremoto del 1349 pose anche idealmente fine a quel potere: nel XIV secolo, il papato cercò di svilire l’abbazia ponendo un vescovo a San Germano (l’odierna Cassino), ma gli abati riuscirono comunque a mantenere molte prerogative. Tuttavia, dopo la battaglia del Garigliano del 1503, che sancí l’inizio del dominio aragonese nel Sud, la Terra di San Benedetto divenne parte del Regno di Napoli.

sempre, dunque anche oggi: «E, come sono i Normanni, avidi di rapine e inspiegabilmente ansiosi di appropriarsi dei beni degli altri».

Un mediatore instancabile

Oggi: cioè, attenendoci alla cronologia certa, tra il 1076 e il 1079, quando dunque sono ormai diversi anni che Desiderio – come gli storiografi dell’epoca sua e nostra hanno detto e dimostrato – opera instancabilmente per favorire l’unità tra i Normanni e garantirsi il loro appoggio e per mediare tra i Normanni e il papato. In particolare, Desiderio fu sollecito in questa duplice direzione proprio tra il 1076 e il 1078, nel periodo cioè in cui Roberto il Guiscardo e Riccardo di Capua tramarono e concretizzarono una spedizione all’interno delle terre papali, che

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nel 1077 li portò a conquistare Salerno e Amalfi e ad assediare Napoli. Alla vigilia di questa campagna, Desiderio accolse con tutti gli onori

Transenna con leoni affrontati, dalla chiesa di S. Giovanni a Corte di Capua. XI sec. Capua, Museo Campano. marzo

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Miniatura raffigurante l’abate Desiderio che dona simbolicamente codici e possedimenti dell’abbazia di Montecassino (comprendenti i terreni raffigurati in basso), a san Benedetto, dal lezionario di Montecassino noto anche come Codex Benedictus, un grandioso codice commissionato dallo stesso Desiderio. 1058-1087. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

i capi normanni verso i quali, invece, la risposta di Gregorio VII fu dura: nel concilio di Quaresima del 1078, il papa lanciò infatti la sua scomunica contro tutti i Normanni che stavano invadendo la terra di S. Pietro (la marca di Fermo, il ducato di Spoleto, Benevento, la Campagna Romana, la Marittima, la Sabina), e che avessero tentato di conquistare la stessa città di Roma; nella medesima sede il pontefice minacciò inoltre di sospendere dall’ufficio sacerdotale qualsiasi vescovo o prete avesse celebrato il servizio divino per i Normanni, finché questi fossero sotto scomunica. Un tale gesto non dovette essere senza significato per Montecassino.

In difesa dell’abbazia

Ancora nel 1078, nel novembre, Gregorio prese posizione per proteggere l’abbazia, intanto insidiata anch’essa dai Normanni, con un decreto nel quale si avvertiva che l’abbazia doveva essere difesa da costoro e che chiunque avesse invaso o depredato Montecassino o le sue terre sarebbe incorso nella scomunica. Il provvedimento fu confermato di nuovo nel gennaio del 1080. Successivamente fu possibile ritrovare le intese e cosí papato e Normanni rinnovarono quell’alleanza che, prima di tutti questi fatti, avevano stipulato a Melfi nel 1059. Desiderio era dunque all’opera con i suoi Dialoghi durante un triennio che vide Gregorio VII e i Normanni attuare attacchi e difese, e che fu pesante di minacce

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Dossier anche per la stessa Montecassino. Alla ricerca di un arduo bilico diplomatico tra le due parti, almeno in un primo momento Desiderio fu tuttavia decisamente propenso a sostenere i Normanni e in seguito, comunque, la sua politica consistette nell’avvicinare le due parti; sempre, in ogni caso, mantenne una posizione spiccatamente filonormanna. In tutto ciò, come si spiega quel giudizio, ostinato come una condanna, sulla natura rapinosa dei Normanni? Potrebbe essere conseguente all’irrigidimento di Gregorio VII nei confronti degli ecclesiastici che intrattenevano rapporti con i Normanni, oppure al minacciato attacco di questi ultimi a Montecassino. Ma Desiderio, che pure scrive con gli occhi alla storia, non fa propaganda, o semmai la fa quando volge lo sguardo ai problemi della riforma ecclesiastica, attaccando senza riserve i due grandi mali che all’epoca affliggevano la

Incisione raffigurante papa Gregorio VII (al secolo, Ildebrando di Soana).

Chiesa, e cioè il concubinaggio dei preti e la simonia. Sugli eventi politici al di fuori dell’orizzonte ecclesiastico l’abate non si pronuncia. Si deve d’altronde ricordare che proprio in quegli anni Amato, lo storiografo ufficiale di Montecassino, scrive la sua Storia dei Normanni per consacrare

l’integrazione normanna nell’Italia meridionale. Le vicende recenti e, segnatamente, il pericolo di un attacco normanno parato dalla scomunica di Gregorio VII del novembre 1078 potrebbero piuttosto avere provocato l’inserzione di un altro episodio dei Dialoghi (II, 22), ben piú articolato, nel quale Desiderio racconta il bifido atteggiarsi di uno stanziamento di Normanni. Chiamati dall’abate Atenolfo a difendere l’abbazia, essi, per la loro barbarica avidità, divennero a loro volta predatori, fino a che occuparono, nel 1045, la rocca di Sant’Andrea. Quando i Normanni entrarono nella città di Cassino, gli abitanti si ribellarono, cacciarono gli invasori, li inseguirono fino alla rocca e li attaccarono. Per tutto il cielo volarono lance ma,

Distruzioni e rinascite

Quasi come un’araba fenice Quella di Montecassino è una storia di distruzioni e ricostruzioni, ed entrambi i gesti risalgono a san Benedetto, che sembra cosí averne avviato e insieme orientato la vicenda: nel 529, infatti, Benedetto distrusse un preesistente tempio dedicato a Giove e al suo posto fondò il monastero, che pochi decenni dopo, tuttavia, nel 581, fu distrutto dai Longobardi; venne ricostruito ex novo dall’abate Petronace nel 718 e, fra VIII e IX secolo, vi fiorí una scuola che ospitò Paolo Diacono. Ma nell’883 fu nuovamente distrutto dai Saraceni e conseguentemente abbandonato dai monaci, che si rifugiarono prima a Teano, poi a Capua. Nel 949, guidati dall’abate Aligerno, i monaci tornano e il monastero conosce quella fase di grande sviluppo che vedrà il suo glorioso apice nell’XI secolo con gli abati Teobaldo (102235), Richerio (1038-55) e, soprattutto, con Desiderio. Dopo un periodo di fioritura economica e culturale, nel XII secolo inizia un periodo di decadenza che si protrae nel XIII. La basilica di Desiderio, insieme agli altri edifici del complesso abbaziale anch’essi dovuti alla sua iniziativa, è semidistrutta dal terremoto del 9 settembre 1349. All’inizio del XVI secolo il monastero passa ai Benedettini di S. Giustina di Padova, con i quali torna a fiorire. Nel 1944 è stato di nuovo distrutto, e quindi finalmente ricostruito.

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Il monastero di Montecassino, raffigurato in una xilografia tedesca del 1493. marzo

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Miniatura raffigurante l’abate Giovanni che offre a san Benedetto il Commentarius in Regulam sancti Benedicti, dall’edizione manoscritta originale dell’opera stessa. 914-934 circa. Cassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

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Dossier protagonisti

Intellighenzia cassinese Nell’XI secolo Montecassino fu un attivissimo centro culturale, nel quale, oltre a Desiderio, si formarono o furono attivi diversi intellettuali di spicco nel panorama europeo. Una personalità di primo piano è quella di Alberico († 1088), monaco di Benevento, amico di Desiderio nonché autore di alcuni brevi trattati di epistolografia – tra i primi del Medioevo – e anche di alcune Vite di Santi. Un’altra figura di eccellente rilievo culturale è quella di Alfano di Salerno († 1085), monaco a Benevento e poi a Montecassino, dal 1058 vescovo di Salerno; attivo collaboratore di Gregorio VII nell’attività riformista, fu raffinato poeta latino (in una lirica di ispirazione oraziana celebra la ricostruzione dell’abbazia di Montecassino voluta da Desiderio), autore di agiografie e anche di opere di medicina, arte che aveva appreso nella celebre Scuola Salernitana. Ricordiamo infine Guaiferio di Montecassino (metà dell’XI secolo), agiografo particolarmente curioso delle leggende troiane. miracolo, quelle dei Normanni, come respinte da un vento contrario, ricaddero colpendo quelli stessi che le avevano scagliate. Questa vicenda, avvenuta trent’anni prima, e quindi ricomposta col trattato di Melfi del 1059, potrebbe ben essere una prefigurazione, nella mente di Desiderio, di quel che si minaccia nel 1077-78: l’attacco a Montecassino da parte di ex alleati. Che questo episodio sia stato dettato, nel corso della stesura,

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In alto miniatura raffigurante monaci che ripongono i volumi nella biblioteca del convento, da un’edizione del De universo di Rabano Mauro. 1023. Cassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino. A sinistra pagina miniata con episodi delle vite dei santi Benedetto, Mauro e Scolatica, dal Codex Benedictus, commissionato da Desiderio. 1058-1087. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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da una situazione contingente, fa sospettare d’altra parte il fatto che Desiderio lo include, incongruentemente, nel secondo libro, dichiarando di essersi dimenticato di annoverarlo nel primo, laddove cioè aveva raccontato di come Dio avesse protetto Montecassino dalle mire dei tiranni. Desiderio qui non giudica, ma spera, esorta alla fiducia: forse i Normanni attaccheranno, tuttavia, come è già accaduto, Dio provvederà. E infatti sui Normanni cade la scomunica. In questo secondo racconto la cattiveria dei Normanni abita nel passato o tutt’al piú nell’ipotesi e ciò non contrasta con la posizione di Desiderio, che può rimanere filonormanno anche in un momento di paura. Contro la posizione filonormanna stride invece irrimediabilmente il giudizio su come sono – sempre – quei Normanni, ai quali dedica tante delle sue energie politiche. Questo giudizio globale, cosí superfluo ai fini del racconto agiografico, dice insomma, con la fulminea evidenza di un lapsus, il profondo disprezzo e il fastidio di Desiderio nei confronti del popolo che sta occupando il posto dei Longobardi e con il quale l’abate – che è un politico sagace e comprende che i Normanni sono il futuro – deve venire a patti e a una amicizia che è nelle cerimonie ma non nell’animo.

Un dolore muto

È vero che nei Dialoghi Desiderio non ha riguardi nemmeno per i Longobardi, cosicché Pandolfo IV principe di Capua è malamente torturato nell’Aldilà, eppure l’abate non formula giudizi negativi sulla natura dell’intero popolo longobardo. Questo è il popolo che sta uscendo definitivamente dalla storia, ma è anche quello della nobilissima famiglia dei principi di Benevento a cui apparteneva lo stesso Desiderio, che nel 1047

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Capolettera miniato da un’edizione manoscritta dei Dialoghi di Desiderio. XI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

ebbe il padre ucciso proprio dai Normanni. Il dolore per questo assassinio rimase sotterraneo e muto in Desiderio, tuttavia non si fatica a immaginare quali fossero i suoi sentimenti al momento di dover scendere a patti con i Normanni per cogenti motivi diplomatici.

La desolata e interrogativa riflessione dell’abate sui nuovi arrivati conduce nelle regioni dell’ambiguità di Desiderio, dove insieme con le piú ragionate e lungimiranti valutazioni politiche convive uno sbigottito e doloroso risentimento personale. In una prospettiva orientata sull’opera, l’accenno alla malvagia natura dei Normanni è solo un sospiro, che soffia, però, su tutto il paesaggio interiore dei Dialoghi: la fatica di vivere un presente incomprensibile, sovrabbondante come è di malattie, di infestazioni normanne e indigene, di ostilità naturali, di diavolerie e diavoli neri sempre pronti a insidiare il cammino degli innocenti e a occuparne corpi e tetti. Perché tutto questo accada è un mistero; di qui l’esigenza di una consolazione, che in chiave agiografica – la piú immediata – è il pronto soccorso divino, è l’operosità miracolistica sempre viva di san Benedetto.

L’elezione al soglio di Pietro

Vittore III, pontefice riluttante Il 25 maggio del 1085, sul letto di morte, papa Gregorio VII indicò il suo successore in Desiderio, che gli aveva reso molti e importanti servigi. Ma l’estrema volontà di Gregorio non si realizzò senza problemi. Le consultazioni e le trattative si trascinarono per un anno e Desiderio venne eletto il 24 maggio 1086. Era però malato e la bagarre che si era creata intorno alla sua elezione lo rese incerto e cosí trascorsero mesi, finché accettò, di fatto, solo il 21 marzo del 1087, Domenica delle Palme. Celebrata la Pasqua a Montecassino il 28 marzo, Desiderio si diresse a Roma, dove però poté prendere possesso di S. Pietro, che era nelle mani dei seguaci dell’antipapa Clemente III (Guiberto di Ravenna), solo con l’aiuto dei Normanni, e dove, il 9 maggio, venne definitivamente consacrato pontefice, assumendo il nome di Vittore III. Desiderio governò la Chiesa solo per quattro mesi: ben presto, a metà luglio, la turbolenza della situazione romana lo costrinse a ritirarsi a Montecassino; alla fine di agosto tenne un concilio a Benevento, dove si ammalò; tornato in fretta nella sua abbazia, vi morí il 16 settembre.

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Dossier

UNA VIA DI SALVEZZA

L’

impegno di Desiderio non fu soltanto cassinese, come attesta la vivace partecipazione dell’abate alla Riforma ecclesiastica. Per questo nei Dialoghi il paesaggio degli interventi miracolistici di san Benedetto si estende fino a Roma e Firenze, in quei racconti estesi e partecipati del terzo libro: storie di miracoli davvero spettacolari, relativi specialmente al problema della simonia, che sanciscono quanto la riforma gregoriana fosse già operativa e quanto Desiderio ne fosse protagonista. Carico, insomma, di impegni politici e nel momento di massima responsabilità nel governo dell’abbazia, assordato dal clamore del mondo di fuori, Desiderio

In alto Gregorio Magno in una miniatura da un’edizione dei Dialoghi. XIV sec. A sinistra miniatura raffigurante Gregorio Magno che dialoga con il diacono Pietro, da un’edizione del Commento di san Gregorio Magno al Libro di Giobbe, noto come Moralia in Job. 1022-1035. Cassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

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scrive i Dialoghi per vincere l’amnesia di dentro, per ricordarsi che ci furono miracoli e per annunciare con stupore che essi si verificano ancora nei suoi tempi mediocri. Con il nero seme della penna Desiderio ripopola il deserto. Allo stesso modo era stata la concitazione disordinata del mondo a provocare dolore e a spingere Gregorio Magno a rifugiarsi nel ricordo di miracoli italici e recenti e a rigenerare la speranza di vederne di nuovi; allo stesso modo, ancora, era stata la pressione dell’attività organizzativa a far abbandonare a Pier Damiani la carica episcopale e a soffermarsi, si è visto, su esempi e miracoli. Nella stretta di un presente che rende alieni a se stessi, angustia il dubbio che Dio non operi piú e punge il ricordo del vero miracolo, che è quella vita solitaria e quieta marzo

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Miniatura raffigurante Gregorio Magno in cattedra, ispirato dalla colomba celeste, che detta allo scrittore Pietro, dal Sacramentario del vescovo Warmondo. Fine del X sec. Ivrea, Biblioteca Capitolare.

dove è facile scorgere gli interventi di Dio. Per questo nelle parole di Teofilo il miracolo dell’oggi è un pensiero dominante fin dal prologo: «Io veramente vorrei conoscere non solo i miracoli che accaddero per dono di Dio nel nostro monastero di Cassino, ma anche quelli che Cristo Signore si è degnato di operare per mezzo dei suoi servi in altre zone, di questi tempi»; e cosí, in I, 1: «Mi rendo conto, certo, e rimango davvero stupito del fatto che dunque Dio onnipotente si è degnato di fare miracoli anche ai nostri giorni...»; in II, 13, dove Desiderio annuncia la replica ennesima del miracolo: mentre un operaio lavora alla costruzione di una chiesa su una sommità a picco sul mare, il martello si spezza e il ferro precipita in mare; i monaci salpano con una barchetta, immergono il manico nell’acqua e il ferro, con sorprendente emersione, si rinsalda al manico.

Nuovi e meravigliosi

Lo stesso miracolo era stato raccontato nel Vecchio Testamento a proposito di Eliseo, poi nei Dialoghi di Gregorio Magno a proposito di Benedetto, e ora Teofilo si stupisce che sia capitato anche a umili monaci: «Devo confessare che nel mio animo nutro una maggiore ammirazione per il miracolo avvenuto ai nostri tempi»; in III, 3: «Questi miracoli mi piacciono perché sono meravigliosi ma soprattutto perché sono nuovi». Ancora, l’apprezzamento per la ripetizione di un miracolo narrato da Gregorio Magno in III, 4, dopo il racconto di Paolo, discepolo di san Giovanni Gualberto, uscito illeso dal fuoco della prova di Dio: «Rallegrandomi ammiro e ammirando mi rallegro, perché vedo rinnovarsi in questi tempi mediocri quell’antico e

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glorioso miracolo dei tre fanciulli, che riuscirono a venir fuori sani e salvi da una fornace crepitante di fuoco». Teofilo ha l’animo stanco, e il racconto dei miracoli riesce a sollevarlo (II, 3), e lui è curioso, e fa domande ma Desiderio deve zittirlo, perché per capire è necessario un raccoglimento silenzioso (III, 2). Provocati dal rumore del mondo, i Dialoghi di Desiderio sono il riverbero del silenzio monastico.

Nel monastero si scrive perché non si parla. «La lingua impari, tacendo, ciò che in seguito, parlando, esprimerà con gravità»: è un precetto di Pier Damiani e sembra la didascalia di una modalità che potrebbe chiamarsi oralità negativa, un silenzio pieno di parole non dette, nell’attesa di esprimersi graviter, anche dunque – e forse soprattutto – per iscritto. L’alternativa a questa incomu-

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Dossier La tradizione francese

Reliquie miracolose L’efficacia del sepolcro di san Benedetto, «scoperto» da Desiderio probabilmente nel 1068, è ribadita in chiave cassinese forse come contraltare della tradizione francese, che voleva i resti del santo trafugati dopo la distruzione longobarda e conservati nel monastero di Fleury-sur-Loire; qui, a partire dal IX secolo e fino al XII, i monaci floriacensi misero per iscritto una serie di Miracula operati dalle reliquie di san Benedetto in suolo francese.

nicabilità coatta è allora lo scambio delle lettere, trama di inchiostro, parole e idee che ricopre l’Europa, mettendo in risonanza le vite taciturne di monasteri isolati. In questa cultura del silenzio il dialogo monastico pare procedere dall’uso epistolare; con un perfetto gesto ricompostivo dello scrittore che si finge simultaneamente mittente e destinatario per potersi fermare, per obiettare, per rispondere, per confessarsi, insomma, proprio come Agostino, che per le sue Confessioni aveva scelto la forma del dialogo. Ma per Desiderio il modello principale è costituito dai Dialoghi di Gregorio Magno. E questi sono non solo un sia pur capiente serbatoio donde attingere temi narrativi o esegetici, ma costituiscono un vero e proprio archetipo da doversi riattivare, in un cruciale momento storico e privato, per salAffresco raffigurante san Benedetto che ordina a un corvo di portar via il pane avvelenato che gli era stato inviato in dono dal prete Fiorenzo. XIII sec. Subiaco, Sacro Speco, Chiesa Inferiore.


letteratura agiografica

Biografie che diventano elogi Dopo i Dialoghi di Gregorio, nell’Alto Medioevo l’agiografia in forma di dialogo sembra tacere. In epoca carolingia e poi in quella ottoniana si scrivono alcune biografie dialogate, come La vita del venerabile Wala scritta da Pascasio Radberto fra l’836 e l’852 per difendere l’operato di Wala, abate di Gorbie, suo predecessore; come il Dialogo sulla morte di Santa Hatumoda in distici elegiaci, composto intorno all’875 dal monaco Agio in memoria della sorella; come le Gesta di Witigowo, anch’esse in versi, in esametri leonini, composte verso il 994-995 da Purcardo, monaco dell’abbazia di Reichenau per celebrare il decimo anniversario dell’abbaziato di Witigovo. Si tratta di elogi, dunque, nei quali la tensione è fornita dall’attaccamento degli autori ai destinatari. Il modello di Gregorio Magno è del tutto inerte. Quasi cinquecento anni dopo, invece, i Dialoghi di Desiderio sono il primo testo in cui si coglie il riflesso lucidissimo dell’opera agiografica di Gregorio. varne la luce o, meglio, il dispositivo di illuminazione. La fortuna dei Dialoghi gregoriani, legata in particolare all’Ordine benedettino, non si era certo eclissata, ma a Desiderio premeva constatare la riproducibilità di un meccanismo in grado di mostrare e motivare i miracoli del presente. Nei testi di Gregorio e di Desiderio circola la stessa preoccupazione della verificabilità del soprannaturale, e ciò risulta evidente, oltre che per quanto viene programmaticamente affermato, anche a livello di stile. In Desiderio affiora infatti la stessa propensione di Gregorio a una scrittma esatta, di tipo notarile, dove a conferire la garanzia della certificazione soccorre tutto un reticolato di richiami interni al testo del tipo «il predetto», «di cui ho fatto menzione», di ripetizioni ed esplicitazioni. Non ci sono prove, ma è indubitabile che Desiderio abbia potuto riconoscere in Gregorio almeno tratti comuni di attività politica e di sofferenza. Pontefice in minore della piú

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potente abbazia del Centro-Sud d’Italia, Desiderio, longobardo, dovette affrontare e fronteggiare la presenza di scomodi e violenti sopraggiunti, i Normanni, cosí come papa Gregorio, romano, aveva dovuto fare aspri conti con i Longobardi. In Desiderio, la stessa compresenza di repulsione e diplomazia che poteva leggere in Gregorio: anche il grande papa aveva scritto pagine antilongobarde nei suoi Dialoghi, ma era stato costretto, per motivi diplomatici, a inviare civilissime lettere mediatrici ai sovrani Teodolinda, Agilulfo e Arechi.

In alto miniatura raffigurante san Benedetto, da un’edizione manoscritta trecentesca dei Dialoghi e, in basso, una pagina dello stesso codice.

Vite parallele

Due vite parallele, quelle di Gregorio e Desiderio, nel nome di una insofferente tolleranza imposta dalla storia e nel nome, forse, della speranza che grazie alla sua mediazione anche i nuovi invasori, come i Longobardi, si potessero infine radicare cristianamente nelle terre occupate. L’abate cassinese, in definitiva, è riuscito nel tentativo di dialogare con l’opera

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Dossier Affresco raffigurante san Benedetto che guarisce un lebbroso. L’opera viene variamente datata al X o all’XI sec. Roma, chiesa di S. Crisogono.

Il racconto dei miracoli

Dalla parola alla cronaca La maggior parte dei 55 miracoli raccontati da Desiderio nei Dialoghi può collocarsi nell’XI secolo: 39 sicuri piú 5 probabili, per un totale di 44; 7 possono datarsi al IX o X secolo; ne rimangono 4 indatabili. Di ben 37 dei 44 miracoli dell’XI secolo, Desiderio indica la fonte, esplicita o implicita. Molti di questi miracoli però Nella pagina accanto Benedetto resuscita un monaco ucciso dal crollo di un muro, scena dal ciclo delle Storie di San Benedetto affrescato da Spinello Aretino nella basilica di S. Miniato al Monte, a Firenze. 1386-1390.

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ricalcano nella struttura episodi già raccontati da Gregorio Magno. E allora si affaccia il problema di come conciliare la fonte con i fatti nuovi, i miracoli del VI secolo con quelli dell’XI. Ma soprattutto si deve credere che, se la prospettiva di Desiderio fosse stata solo locale, egli non avrebbe avuto alcun bisogno di riprodurre fedelmente anche la struttura dei Dialoghi del papa. Per Desiderio invece l’opera di Gregorio è una «macchina agiografica» da rimettere in moto, un mulino da restaurare per tirare quell’acqua santa che i tempi mediocri stanno prosciugando. di Gregorio Magno. Per Desiderio il problema non è quello (o solo quello) di trovare in Gregorio qualche suggerimento formale o magari anche narrativo, ma di mostrare la riproducibilità del meccanismo agiografico. L’aveva già fatto lo stesso Gregorio, accorgendosi che alcuni miracoli da lui narrati ricalcavano miracoli della Sacra Scrittura. Desiderio prosegue il percorso, e non manca di segnalarlo. Per lui infatti mirabile non è tanto il fatto che oggi accada un miracolo, ma il fatto che oggi si ripeta un miracolo di ieri e dell’altroieri. Miracolo del bis, miracolo del ter. Questa la notizia: non ci crediamo nuovi perché immemori, ma siamo rinnovati proprio perché ricordiamo.

Se si accetta che questi miracoli siano giunti a Desiderio già confezionati nei loro contenuti, e che dunque egli non abbia inventato nulla, si deve necessariamente concludere che il modello gregoriano aveva già operato al livello delle fonti di Desiderio, e cioè che i Dialoghi di Gregorio hanno ispirato i racconti creati nell’XI secolo. Il che è un bell’esempio di quella dinamica tra oralità e scrittura su cui ha scritto pagine chiare Massimo Oldoni: racconti si travasano nelle pagine di Gregorio, che modellano racconti che si travasano nelle pagine di Desiderio.

il dialogo dei miracoli di cesario di heisterbach

Non per grazia, ma per letteratura Piú di cento anni dopo Desiderio, tra il 1188 e il 1198, il cistercense Cesario di Heisterbach scrive il suo Dialogo dei miracoli, una mirabile girandola di quasi 750 racconti brevi. Benché sia di ispirazione dottrinale, l’opera esce risolutamente dal recinto del monastero e si allarga sull’intero teatro del mondo medievale, con la sua ricca e varia umanità, i suoi diavoli, le sue favole. Con Cesario, il percorso sul quale Desiderio aveva mosso i suoi passi è ormai compiuto fino in fondo e il Dialogo dei miracoli reca persino esplicita la qualificazione in senso letterario dell’agiografia. Nel prologo all’opera infatti, ispirato all’espressione del Vangelo di Giovanni (6, 12) «raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto», Cesario afferma di aver lasciato ad altri il compito di spezzare pani interi, cioè di occuparsi delle questioni esegetiche relative alla Sacra Scrittura, o di scrivere le gesta piú eccellenti che accadono al presente: per parte sua, egli si è limitato a raccogliere le briciole cadute dalla mensa a riempire dodici sporte (i dodici libri del Dialogo dei miracoli) per distribuirle ai poveri, non gratia, sed literatura: «non per grazia, ma per letteratura».

Opera di Dio

Desiderio ha acceso la sua candela alla fiaccola di Gregorio e cosí ha potuto vedere i miracoli nel suo difficile tempo. Eppure, dopo aver letto i Dialoghi di Desiderio, rimane la sensazione che quel sollievo consolatorio tanto auspicato non sia ancora soddisfatto del tutto dall’agiografia. Perché nei miracoli l’uomo è assente: essi sono infatti opera di Dio, avverte continuamente Desiderio, sia pure mediata, nel caso dei Dialoghi, da san Benedetto. E allora all’uomo, inerme nella storia, cosa rimane da fare? Il negotium, cioè la politica, non paga in termini di quiete e anzi, oltre all’affanno, comporta smemoratezza di

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La battaglia di Cassino

L’ora piú buia Nel 1944 Montecassino fu teatro di una rovinosa quanto inutile vicenda di guerra. In concomitanza con lo sbarco anglo-americano ad Anzio, tra il 20 e il 31 gennaio vi si svolse una prima battaglia, che non ebbe esito positivo per gli Alleati. Erroneamente convinti che nel monastero si fosse insediato un caposaldo tedesco, gli Anglo-Americani ripresero l’offensiva il 10 febbraio. E, pochi giorni piú tardi, tra il 15 e il18 febbraio, fecero piovere su Montecassino tonnellate di bombe, con un esito devastante: l’abbazia fu ridotta a un cumulo di pietre. Ma

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subito dopo il bombardamento i paracadutisti tedeschi riuscirono a occuparne le macerie e respinsero i successivi attacchi delle truppe neozelandesi del generale Freyberg. Si fece fuoco ancora per tre mesi: gli attacchi degli Alleati ripresero il15 marzo e, dopo due giorni di battaglia, la città fu quasi completamente occupata dalle truppe neozelandesi, ma l’area dell’abbazia rimase in mano ai Tedeschi e perciò il 23 marzo furono sospesi gli attacchi, che ripresero nella notte dell’11 maggio con un’intensa preparazione d’artiglieria.

La resistenza dei Tedeschi fu infine vinta da un attacco condotto nella notte tra il 17 e il 18 maggio dal XIII corpo britannico, dal Il corpo canadese e dal Il corpo polacco; l’intera città di Cassino venne distrutta, insieme con altri centri circostanti, come Piedimonte San Germano e Cervaro. Gli Alleati riuscirono cosí a spezzare la linea Gustav e a garantirsi la via di accesso a Roma; il 25 maggio, infatti, le truppe provenienti da Cassino si incontrarono presso Littoria (Latina) con quelle sbarcate ad Anzio e, il 4 giugno, fecero il loro ingresso nella capitale.

In alto l’abbazia di Montecassino distrutta dai bombardamenti subiti nel 1944. Nella pagina accanto, in basso Cassino, aprile 1944. Soldati neozelandesi si accingono a fare irruzione in un edificio nel quale è nascosto un cecchino tedesco.

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sé. Per conoscere la risposta di Desiderio a questa domanda ci vengono in aiuto altri di quei luoghi segreti dei Dialoghi a cui si è accennato: le piccole estasi della scrittura. Desiderio ha una sicura propensione narrativa, che risulta evidente sia nell’organizzazione dei racconti piú estesi che in dettagli del tutto superflui dal punto di vista della funzionalità agiografica, ma proprio per questo tanto piú significativi dal punto di vista letterario. Particolarmente efficace, per esempio, è la resa di vorticose e ipnotiche atmosfere incantate, come nel racconto dei cavalieri che avendo deciso di conquistare col favore del buio Conca – un castello del monastero –, spronano a sangue i cavalli per una notte intera e all’alba si rendono conto di avere vanamente cavalcato in tondo (I, 10); o in quello, in II, 18, dove si narrano le ossessionanti visioni occorse a un bambino che disubbidendo al padre si era inol-

In alto una cartolina postale, ricavata da una fotografia del 1954, che mostra l’abbazia di Montecassino in ricostruzione.

trato nei campi: un uccello nerissimo gli si fa incontro, poi si trasforma in un ragazzino anch’egli nerissimo, coi capelli ispidi e l’estremità del vestito rossa; quindi cerca di convincere il bambino a seguirlo per annegarlo nel fiume, ma il bambino prega e con due legnetti simula una croce e quello prosegue con una spaventosa performance sonora: si immerge nelle acque ed emette sibili di serpente, ragli d’asino, muggiti di toro, ruggiti di leone e quel poveretto si spaventa a tal punto che gli sembra che tutto il bosco gli rotei intorno, e cade a terra mezzo morto.

Emersione prodigiosa

Nel racconto piú volte ricordato, in II, 13, cimentandosi in una doppia emulazione con la Bibbia e i Dialoghi di Gregorio Magno, Desiderio raggiunge una mirabilissima compostezza narrativa, giocando con i piani del dettaglio e dello sfondo. Un solo punto, il pezzo di ferro del martello, coinvolge tutto il voluminoso paesaggio costiero: nell’altezza, con la caduta a precipizio in acqua, nella frastagliata larghezza, con il cabotaggio dei monaci che oltrepassano l’insenatura per andare a

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Dossier cercarlo, nella profondità marina, con l’emersione miracolosa. Per venire ai dettagli, Desiderio esibisce tutta la sua capacità di guardare, di inquadrare e di soffermarsi, per esempio, in I, 6, dove si racconta del gesto del monaco Gennaro, deriso da un fabbro che lo vede troppo pingue e rubicondo per essere uno che vive a pane e acqua; prima di dire come Gennaro riesca ad agguantare un ferro infuocato con la mano nuda suscitando meraviglia nei presenti, Desiderio trova il tempo per notare le scintille, che sprigionate dal ferro mentre il fabbro lavora, volteggiano qua e là illuminando tutta la stanza. Infine, tra gli ultimi prodigi, in III, 6, dove si narra della rovinosa caduta dell’abate Alferio che stava cavalcando su un precipizio alto piú di cinquanta passi; in lacrime, i monaci che lo accompagnavano scendono a piedi fino alla riva del mare, dove affondano i passi svelti sulla sabbia morbida, e trovano l’abate sano e salvo: ancora, Desiderio scrittore non ha fretta di trovare subito la soluzione miracolistica, ma indugia su un particolare, la soffice resistenza della sabbia. Allo stesso modo, Desiderio corre con passi affannati sul terreno del presente alla ricerca di un miracolo, ma intanto sente sotto i

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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In questa pagina il Chiostro Superiore (o dei Benefattori) dell’abbazia di Montecassino, costruito nel 1513 su disegno attribuito ad Antonio da Sangallo il Giovane. Nella pagina accanto, in alto altorilievo

piedi la sabbia morbida. Qui come altrove, egli congiunge l’ansia di trovare il miracolo con il piacere di soffermarsi nella scrittura.

Le ambizioni di Desiderio

È dunque il piacere creativo di guardare e di dare vita, scrivendo, a quel che si guarda, a costituire un’altra consolazione oltre quella agiografica, ed è l’unica cui Desiderio, nella cella della sua mente, può ricorrere in proprio soccorso, mentre investiga i miracoli di Dio negli angoli del tempo. Diverse dunque furono le spin-

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in bronzo raffigurante san Placido, fra due angeli, nella cappella della cripta della chiesa abbaziale di Montecassino intitolata al santo. Nella pagina accanto, in basso l’abbazia di Montecassino cosí come si presenta oggi.

te che mossero Desiderio a scrivere i suoi Dialoghi. Il sogno, da letterato cristiano, di innescare di nuovo il meccanismo dell’agiografia italica di Gregorio Magno, con messa a fuoco proprio sul protagonista dei Dialoghi dell’antico papa, san Benedetto; l’ambizione, quale protagonista della politica ecclesiastica, di sancire da un lato il potere dell’abbazia cassinese esaltandone le gesta miracolistiche dei tempi recenti, e di indicare dall’altro quanto la riforma gregoriana fosse già operativa con miracoli davvero spettacolari; la rivalsa, come uomo politico longobardo costretto dalla storia

a operare per lo stanziamento dei Normanni nell’Italia meridionale, contro la baldanza usurpatrice dei barbari del Nord, assassini di suo padre; la scoperta, da scrittore, che certe segrete meraviglie narrative sono come pertugi che fendono il testo e portano via. Per tutto questo i Dialoghi, sia pure nella loro incompiutezza, rivelano un’anima doppia, data dal loro essere – insieme – una basilica agiografica che si protende dialogicamente verso il mondo, e la cripta sotterranea di chi cerca nel monologo della scrittura una umana via di salvezza.

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CALEIDO SCOPIO

Quando i santi prendevano le armi

Mele e rose non fermano il martirio di Paolo Pinti

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ata a Cesarea di Cappadocia (l’odierna Kayseri, in Turchia), in epoca imprecisata – forse intorno al 290 –, Dorotea morí nella stessa città anatolica nel 311. Nel Martirologio Geronimiano la sua vita è trattata in un’antica passio, nella quale viene descritta come «caritatevole, pura e sapiente». Secondo un copione piuttosto abusato, in quanto cristiana, il preside Sapricio o Saprizio (nell’amministrazione delle province imperali romane, l’appellativo praeses designava la categoria meno elevata in grado dei governatori, n.d.r.) – per altre fonti, si trattava di Fabrizio, governatore del luogo –, che stava portando avanti una campagna contro i cristiani in Cappadocia, le chiese di sacrificare agli dèi: cosa che Dorotea rifiutò di fare. Fu perciò sottoposta a varie torture, che non riuscirono a smuoverla dal suo proposito.

Conversione fatale Sapricio decise allora di cambiare tattica e affidò Dorotea a due sorelle apostate (cioè che avevano abbandonato la religione cristiana), Crista e Callista, perché la convincessero ad abbandonare il cristianesimo; tuttavia, di fronte all’atteggiamento della stessa e alle sue argomentazioni, furono loro a convertirsi, finendo, quindi, bruciate vive, e Dorotea fu condannata alla decapitazione. Mentre si avviava verso il luogo

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Martirio di Santa Dorotea, olio su tavola di Josse van der Baren. 1594-1595. Lovanio, Museum Leuven. Qui il cesto di fiori e frutta (in verità, si vedono solo fiori) è ben evidenziato, come lo è la spada che ha appena reciso il collo della martire: la forte lama, sporca di sangue, sembra dotata di una nervatura centrale. In basso, vicino al cagnolino, è raffigurato il fodero dell’arma, che, essendo in primo piano, sarebbe dovuto essere un po’ piú grande. Nella pagina accanto Martirio di santa Dorotea, olio su tela di Jacopo Ligozzi. 1595. Pescia, chiesa di S. Francesco. La spada ha la lama a sezione rombica, con elso dritto e grosso anello al centro.

Lukas Paumgartner come Sant’Eustachio, scomparto laterale dell’Altare Paumgartner, dipinto su tavola di Albrecht Dürer. 1500 circa. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek. Nella pagina accanto La Visione di Sant’Eustachio, tempera su tavola del Pisanello (al secolo, Antonio di Puccio Pisano). 1438-1442. Londra, National Gallery.

dell’esecuzione, si fece avanti un tale Teofilo – che era stato il giudice che l’aveva condannata a morte, mentre altre fonti parlano di «un giovane dottore di nome Teofilo» – che le chiese per scherno: «Sposa di

Cristo, mandami delle mele e delle rose dal giardino del tuo sposo». Dorotea accettò e, prima della decapitazione, durante una preghiera, un bambino le portò tre rose e tre mele, che lei disse di portare a Teofilo, il

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quale, visto il prodigio, si convertí al cristianesimo e fu anch’egli denunciato a Sapricio, che lo fece torturare e decapitare. Per questo la Chiesa lo onora come santo assieme a Dorotea il 6 febbraio.

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CALEIDO SCOPIO Santa Dorotea, olio su tela di Felice FIcherelli, detto il Riposo. Arezzo, Museo Diocesano di Arte Sacra. La «storta» in primo piano è protagonista della scena. Purtroppo il dipinto è oggi molto scuro e non si distinguono bene i particolari. Si vedono bene, però, la forte lama, l’elso a bracci dritti, molto pronunciati, e l’anello saliente dal massello.

Una versione leggermente diversa vuole che il cesto fosse portato a Teofilo da un angelo e non da un bambino: un fatto non irrilevante, ma in pittura troviamo sempre un bambino e non un angelo con le ali. In ogni caso il miracolo ebbe luogo mentre Teodora era ancora viva. Con il dovuto rispetto, osserviamo che la richiesta/sfida di Teofilo andava intesa come invio di frutta e fiori post mortem, raccolti in paradiso. Invece, il bambino (o l’angelo) intervenne quando la martire era in vita, portando mele e rose raccolte in un orto o in un giardino nelle vicinanze. Di miracoloso, quindi, ci fu solo la coincidenza di tale particolare dono, che rispecchia quanto voluto dal futuro cristiano e martire.

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In un’altra variante, in verità, troviamo: «Appena morta fu presentato da un angelo un canestrino al beffardo». A dar retta a quest’ultima versione, gli artisti che hanno raffigurato il martirio della santa avrebbero dovuto dipingere un angelo con il cesto di fiori e frutta, e Dorotea già decapitata: particolare, quest’ultimo, che si rileva nel Martirio di Santa Dorotea di Josse van der Baren, nel Museo Leuven di Lovanio, in Belgio (vedi foto a p. 109).

Un cesto di frutta e di fiori La giovane di Cesarea è oggi patrona dei fioristi e della città di Pescia e le sue reliquie sono conservate a Roma, nella chiesa trasteverina di S. Dorotea e ha come attributo iconografico (simbolo) un cesto di

frutta e fiori. Che questo simbolo la caratterizzi è comprensibile, costituendo, peraltro, una particolarità rara, ma non si spiega la mancanza della spada nei quadri con la santa, a differenza di numerose altre sante decapitate come lei, dopo varie torture. Una eccezione è costituita dal dipinto di Felice Ficherelli, detto il Riposo (1605-1660), conservato nel Museo Diocesano di Arte Sacra di Arezzo (vedi foto in questa pagina), in cui la spada è ritratta in primo piano. A un esame piú attento, si vede che l’arma è piuttosto una «storta», con elso a bracci dritti e grosso anello al massello. Sappiamo che quando un santo martire viene rappresentato con un’arma in mano ovvero vicino a lui, significa che tale arma aveva caratterizzato la sua esistenza, o la prima parte di essa, come accade, per esempio, per un militare o per un cavaliere, oppure che la stessa rappresenta quella utilizzata per il martirio: una spada, quindi, risulterebbe perfettamente consona in un quadro che raffigura santa Dorotea, decapitata, appunto, con quest’arma. Ovviamente, una santa solo con una spada accanto è difficilmente identificabile, essendo troppo frequente tale simbologia, ma insieme a un cesto di mele e rose, l’identificazione diventa facile. Comunque, poiché per la gran parte dei casi la scena riguarda il martirio, la spada c’è sempre, seppur in mano al carnefice, e, quindi, possiamo legare, iconograficamente, questa santa all’arma del suo martirio. marzo

MEDIOEVO



CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Sara Agnoletto, Monica Centanni La Calunnia di Botticelli Politica, vizi e virtù civili a Firenze nel Rinascimento

Officina Libraria, Roma, 294 pp., ill. col.

60,00 euro ISBN 9788833671758 www.officinalibraria.net

Oggetto dell’ampio e approfondito studio condotto da Sara Agnoletto e Monica Centanni è un dipinto su tavola, la Calunnia di Apelle, che Sandro Botticelli realizzò intorno al 1495, molto probabilmente

destinandolo a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, cugino di Lorenzo il Magnifico (e ora custodito nella Galleria degli Uffizi). Un’opera che,

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pur nelle sue dimensioni contenute – 62 x 91 cm – racchiude un vero e proprio mondo, animato da un raffinato gioco di citazioni dotte,

allusioni e sottintesi politici. All’origine della composizione c’è il trattato scritto da Luciano di Samosata intitolato Non bisogna credere alla Calunnia, nel quale l’autore – che visse nel II secolo d.C. –, seguendo uno schema da lui piú volte adottato, si serve della descrizione di un’opera d’arte per «rafforzare la veridicità di quello che va raccontando»: si tratta, in questo caso, di un dipinto eseguito dal celebre Apelle – artista attivo nel IV secolo a.C. –, che, peraltro, come è stato da piú autori ipotizzato, forse non esistette realmente. La composizione, vibrante e dinamica,

è ambientata in una quinta classicheggiante, con un portico affacciato sul mare e ornato da statue e rilievi, e ha per protagonista la personificazione della Calunnia, che trascina la sua vittima al cospetto del re Mida. Tutt’intorno, si succedono altri personaggi, identificati con altrettanti ritratti allegorici: Ignoranza, Sospetto, Livore, Frode, Insidia e Penitenza. Nelle varie sezioni del volume, supportato da un impeccabile corredo iconografico, le autrici offrono dunque l’analisi dettagliata delle valenze estetiche e stilistiche del dipinto, alla quale si affianca

Calunnia di Apelle, tempera su tavola di Sandro Botticelli. 1495 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

un’altrettanto vasta disamina del contesto in cui essa venne concepita da Botticelli, dei molteplici legami con la coeva produzione letteraria e dell’importanza assunta dalla diffusione delle traduzioni e delle editiones degli scritti – di Luciano e non solo – che dovettero certamente guidare l’artista nell’ideazione della sua versione di un tema che godette di grande fortuna per oltre un secolo. Stefano Mammini marzo

MEDIOEVO



LA GRANDE RAZZIA L’avventurosa storia dei furti d’arte dall’antichità ai giorni nostri

Secondo recenti stime dell’UNESCO, il traffico clandestino di opere d’arte e reperti archeologici è uno dei piú fiorenti business illegali praticati nel mondo e l’attività dei molti attori che alimentano la filiera è ben lontana dalla visione un po’ romantica e avventurosa dei cacciatori di tesori sette/ottocenteschi. D’altro canto, il desiderio di impossessarsi – anche con soprusi e violenze – delle piú felici espressioni dell’ingegno e della creatività di pittori, scultori e maestri artigiani ha radici antiche e proprio da questa considerazione prende spunto la nuova Monografia di «Archeo», che ripercorre la storia millenaria di una passione per l’antico che non ha esitato a trasformarsi in autentica razzia.

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Potrà forse sorprendere, ma le prime testimonianze a oggi note di simili pratiche si collocano nell’antica Mesopotamia, dove il principio secondo il quale «il bottino spetta al vincitore» fu a piú riprese applicato da tutte le grandi civiltà che si succedettero in quelle terre. Una logica alla quale non si sottrassero, piú tardi, gli eserciti di Roma e poi, per esempio, i Veneziani impegnati nella quarta crociata, responsabili, nel 1204, di uno dei piú colossali saccheggi della storia: quello perpetrato ai danni di Costantinopoli. Pagine poco gloriose di una vicenda destinata ad avere una folta schiera di epigoni anche in epoche piú vicine alla nostra, come provano le spoliazioni napoleoniche ai danni del patrimonio italiano o la sistematica caccia al tesoro scatenata dal regime nazionalsocialista, solo in parte risarcita dopo la caduta del Terzo Reich e la fine del secondo conflitto mondiale. Una storia, dunque, assai lunga, che la Monografia ripercorre con ritmo avvincente, forte di un ricco e spesso inedito corredo iconografico.




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