Medioevo n. 324, Gennaio 2024

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LA NUO DE REL VA S L M IQ ERIE ES UIA E

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

MEDIOEVO NASCOSTO I MISTERI DI BASSANO IN TEVERINA VOLTERRA LA DEPOSIZIONE DI ROSSO FIORENTINO UMBRIA

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Mens. Anno 28 numero 324 Gennaio 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 324 GENNAIO 2024

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 4 GENNAIO 2024



SOMMARIO

Gennaio 2024 ANTEPRIMA LA RELIQUIA DEL MESE Quel che resta dei Magi IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Il senso di Ambrogio per il realismo

di Euro Puletti

RICORRENZE 850 anni in movimento APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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DIVORZIO Finché il giudice non vi separi di Anna Esposito

STORIE 26

IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/12 Si fa presto a dire buffone 38

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MEDIOEVO NASCOSTO Lazio C’è una torre nella torre di Franco Bruni

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Dossier 50

LA CHIAVE Combinazioni vincenti di Simone Ferrari

LUOGHI

COSTUME E SOCIETÀ

di Corrado Occhipinti Confalonieri

LIBRI E MUSICA Lo Scaffale La Discoteca

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a cura di Stefano Mammini

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Giustina, martire della vittoria di Paolo Pinti 106

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di Davide Rosso

RESTAURI Rosso e i suoi colori

STORIE, UOMINI E SAPORI Sesso, cibo e... castità di Sergio G. Grasso 96

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di Federico Canaccini

ITINERARI Templari al Monte Cucco

CALEIDOSCOPIO

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MEDIOEVO NASCOSTO I MISTERI DI BASSANO IN TEVERINA VOLTERRA LA DEPOSIZIONE DI ROSSO FIORENTINO

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MEDIOEVO n. 324 GENNAIO 2024

MEDIOEVO

IN EDICOLA IL 4 GENNAIO 2024

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Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Roberto Buda è restauratore. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Anna Esposito è stata professoressa associata di storia medievale presso Sapienza Università di Roma. Simone Ferrari è maestro d’arte e studioso di arti minori. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Andrea Muzzi è storico dell’arte. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Euro Puletti è docente di lingua e letteratura francese. Daniele Rossi è restauratore. Davide Rosso è direttore della Fondazione Centro culturale valdese. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

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MEDIOEVO Anno XXVIII, n. 324 - gennaio 2024 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e p. 42) e pp. 6-7, 36-37, 40, 43, 44-46, 52-53, 54, 55 (basso), 56-57, 63, 66-67, 68 (basso), 71 (alto), 95, 98, 100, 102/103 – Cortesia Ufficio Stampa Friends of Florence: Serge Dominge: pp. 8, 9 (alto), 10-11; Antonio Quattrone: pp. 26-29, 30/31 (basso), 31, 32-33, 36-37 – Cortesia degli autori: pp. 12-17, 106-108 – Cortesia Pinacoteca Civica di Volterra: pp. 34-35 – The Art Institute of Chicago: pp. 38/39 – Mondadori Portfolio: Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 39; Archivio Magliani/ Mauro Magliani & Barbara Piovan: p. 51; Zuma Press: p. 55 (alto); AKG Images: pp. 58/59, 62, 81, 96; Album/Prisma: p. 70 (basso); Electa/Sergio Anelli: p. 79; Album/Fine Art Images: p. 97; Fototeca Gilardi: p. 99; Album: p. 101; Fine Art Images/Heritage-Images: p. 104 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 41, 64, 71 (basso) – Cortesia Simone Ferrari pp. 61, 68/69, 69, 70 (centro), 71 (alto), 72-77, 78, 82-85 – The Cleveland Museum of Art: p. 65 – Shutterstock: pp. 80/81 – Franco Bruni: pp. 86-91, 92 (alto), 94 – Per gentile concessione del Comune di Bassano in Teverina: pp. 92 (basso), 93 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 89. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina Gonnella, buffone di corte ferrarese, in un ritratto dipinto su tavola da Jean Fouquet. 1445 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie.

Prossimamente viaggi

medioevo nascosto

dossier

Nelle città dell’Italia medievale

Itinerari in Val di Susa

Le due facce della mela

Errata corrige con riferimento all’articolo Il talento sovrumano del «santo pittore» (vedi «Medioevo» n. 323, dicembre 2023) desideriamo precisare che la mostra ««Lippo di Dalmasio e le arti a Bologna tra Tre e Quattrocento» (visitabile nel Museo Civico Medievale di Bologna fino al 17 marzo) è stata curata da Massimo Medica e Fabio Massaccesi. Dell’omissione ci scusiamo con gli interessati.



LA RELIQUIA DEL MESE di Federico Canaccini

Per l’anno appena iniziato, abbiamo scelto di aprire ciascun numero della rivista con alcune considerazioni su un fenomeno affascinante quanto caratterizzante la vita religiosa e quella quotidiana dell’età di Mezzo: le reliquie. Un fenomeno che riguarda la religiosità popolare di ieri come quella di oggi. Col termine reliquia, si intende ciò che rimane del corpo di un santo o di qualunque oggetto che abbia avuto una qualsiasi relazione con lui, sia in vita che dopo la sua morte. In origine, furono venerate le reliquie dei martiri per la dignità di cui erano circondati. Il culto delle reliquie si manifestava in particolare nel dies natalis, cioè l’anniversario della morte dei martiri. Dopo il successo di Costantino, però, tale prassi ebbe uno slancio formidabile e, da culto limitato, divenne sempre piú popolare: furono allora eretti sontuosi edifici in onore dei martiri e le celebrazioni divennero sempre piú elaborate. Nella Pars Orientis, ben presto, per circostanze storiche e culturali diverse, il fenomeno degenerò talvolta in abuso e nacque l’abitudine di traslare le reliquie, dividerle, moltiplicarle e perfino fabbricarle! Alcuni intellettuali e teologi, già nell’Alto Medioevo, presero le distanze da ciò che consideravano chiaramente falso e addirittura fuorviante dalla fede in Dio. Ciononostante, la religiosità popolare spesso si indirizzò verso devozioni a reliquie, a volte davvero improbabili...

GENNAIO

Quel che resta dei Magi In alto miniatura raffigurante pellegrini e infermi risanati per opera della reliquia del Chiodo della Santa Croce, da un’edizione manoscritta di scuola francese de Les Grandes chroniques de France. XIV sec. Londra, British Library. A destra il sarcofago romano decorato solo con una stella cometa e che reca la scritta «Sepulcrum Trium Magorum». Milano, basilica di S. Eustorgio, Cappella dei Magi.

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MEDIOEVO


I

l nostro viaggio fra le reliquie comincia nel 1271, al fianco di un grande esploratore di cui quest’anno ricorre il settecentenario della morte: Marco Polo. All’inizio del suo cammino, il giovane veneziano, dopo Baghdad, si inoltrò nell’antica Persia: Marco era un viaggiatore curioso, un esploratore, ma anche un cristiano e un pellegrino. In Terra Santa ebbe la fortuna di visitare il Santo Sepolcro, meta ambita da tutti i cristiani: giunto in Persia, non mancò di far visita alla città di Sabba, l’odierna Saveh, a un’ottantina di chilometri da Teheran, «dalla quale si partirono li tre re ch’andarono ad adorare Cristo quando nacque», come scrisse ne Il Milione. Ciò che interessa al giovane veneziano è «una bella sepoltura», dove «sono seppelliti gli tre Magi (...) e sonvi ancora tutti interi e co’capegli: l’uno ebbe nome Baltasar, l’altro Melchior e l’altro Guaspar». Marco «domandò piú volte in quella città di questi tre re», ma «niuno gliene seppe dire nulla, se non ch’erano tre re seppelliti anticamente». Il nostro cammino però non termina qui e, da Teheran, dobbiamo andare sino in Germania: a Colonia, infatti, fervevano allora i lavori per la ricostruzione del Duomo, distrutto da un incendio sei anni prima della nascita di Marco. Il 23 luglio 1164 Rinaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia e cancelliere di Federico I, aveva portato in Duomo le reliquie dei Magi, strappate da Federico Barbarossa ai Milanesi, che le custodivano. Ai primi del Duecento, poi, l’orafo Nicolas di Verdun realizzò un’urna d’oro che ancora conserva le ossa dei Magi che adorarono Gesú Bambino.

La stella a otto punte Sarà dunque il caso di continuare il viaggio e arrivare a Milano, dove, sulla cima del campanile di S. Eustorgio, svetta una stella a otto punte: è il segno che apparve ai Magi e li condusse sino a Betlemme. All’interno della chiesa è conservata una grande arca di granito recante la scritta «Sepulcrum Trium Magorum»: dal 1164 il sepolcro è, naturalmente, vuoto. Tuttavia, sopra l’altare magA destra il Dreikönigenschrein (Reliquiario dei tre re), la spettacolare arca voluta dal vescovo di Colonia Filippo di Heinsberg per accogliere i sacri resti dei Magi, portati da Rinaldo di Dassel da Milano nella città tedesca nel 1164 per volere di Federico Barbarossa. L’opera fu commissionata all’orafo francese Nicolas de Verdun e la sua lavorazione, piú volte interrotta, venne ultimata solo nel 1220. Colonia, Duomo.

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In alto Adorazione dei Magi, particolare della decorazione del monumento funebre di Gaspare Visconti, ascritto a un seguace dei Maestri Campionesi. XV sec. Milano, basilica di S. Eustorgio. giore, da poco piú di un secolo, un’urna di bronzo accoglie una tibia, una vertebra e due fibule, restituite dall’arcivescovo di Colonia all’arcivescovo di Milano, Andrea Carlo Ferrari. Questi, nel 1904, era riuscito a ottenerle dopo numerosi e inutili tentativi fatti, nel corso dei secoli, da illustri predecessori, quali Ludovico il Moro, papa Borgia e Filippo II, re di Spagna. In realtà, l’unica fonte antica riguardante l’episodio, il Vangelo di Matteo, riporta che «alcuni magi giunsero da Oriente a Gerusalemme»: non si menziona il numero di tre – che si ricava dai doni menzionati –, né, tantomeno, si forniscono i loro nomi. Non esiste alcuna prova storica che confermi l’evento della visita dei Magi, i quali, in principio, non sono detti neppure re. La tradizione, affermatasi nei secoli, si consolida alla metà del 1300, quando il teologo Giovanni di Hildesheim, sulla scorta di Origene e di altri, compone la Storia dei tre Re: è lui che racconta con dovizia di particolari il viaggio dei Magi e ne fornisce nomi e dettagli. Morti ultracentenari, i tre sarebbero stati sepolti in un’unica tomba, rinvenuta da Elena, madre di Costantino, che decise di traslarne le spoglie a Costantinopoli, per poi affidarle a Eustorgio, affinché le portasse a Milano. Poi giunse il Barbarossa e il resto lo sappiamo. Resta irrisolto un quesito: se in Persia i Magi «sonvi ancora tutti interi», che cosa c’è dentro le urne di Colonia e di Milano? Per sciogliere il dubbio – qualora ce ne fosse bisogno – può essere utile affidarsi alla Cronaca di Zuqnin, dell’VIII secolo, in cui si precisa che i Magi, in realtà, erano addirittura dodici!

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il medioevo in

rima

agina

Il senso di Ambrogio per il realismo RESTAURI • A coronamento di

un lungo e complesso intervento, la spettacolare Croce dipinta da Ambrogio Lorenzetti per il convento di S. Niccolò al Carmine torna a farsi ammirare nella Pinacoteca Nazionale di Siena

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ebbene non si conosca la sua data di nascita, Ambrogio Lorenzetti – la cui attività è documentata a partire dal 1319 – doveva essere un giovane emergente quando i Carmelitani del convento senese di S. Niccolò al Carmine gli commissionarono la realizzazione di una Croce dipinta. L’esito dell’incarico fu un’opera magnifica, che adesso, dopo un intervento di restauro condotto fra il 2020 e il 2023, è tornata fare bella mostra di sé nella Pinacoteca Nazionale di Siena. Se la paternità dell’opera è oggi indiscussa, va detto che, fino alla prima metà del Novecento, per via di uno stato di conservazione fortemente lacunoso, furono proposte varie attribuzioni: dal riferimento al primo Quattrocento, per analogia con la Croce di Taddeo di Bartolo per l’ospedale di S. Maria della Scala, che ha il medesimo impianto formale, all’accostamento a un generico ambiente lorenzettiano, poi al fratello dell’effettivo autore, Pietro. Fu per primo Carlo Volpe, nel 1951, ad accostare la Croce al nome di Ambrogio Lorenzetti, proposta accolta in modo unanime e rinforzata negli studi successivi. Le vicende relative alla storia del convento del Carmine suggeriscono che la Croce sia stata realizzata intorno al 1328-1330, anni nei quali sono documentati lavori di rifacimento della

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chiesa, finanziati anche grazie alla partecipazione del governo dei Nove. Nell’occasione, si provvide a un ammodernamento dell’arredo, con la realizzazione di opere come il grande Polittico dei Carmelitani firmato da Pietro Lorenzetti, anch’esso conservato ora in Pinacoteca.

La lezione di Giotto La datazione è confermata dallo stile: l’opera si inserisce facilmente nell’attività giovanile di Ambrogio, essendo ancora strettamente legata alla pittura giottesca, ma già mostrando gli interessi che caratterizzeranno la produzione piú matura del maestro e un gusto raf-

Il volto del Cristo dopo il restauro, particolare della Croce dipinta a tempera e oro su tavola da Ambrogio Lorenzetti per S. Niccolo al Carmine. 1328-1330 circa. Siena, Pinacoteca Nazionale.

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La Croce del Carmine, prima (qui sotto) e dopo l’intervento di restauro. In basso la piazza del Carmine, con la chiesa di S. Niccolò sulla sinistra, in una stampa settecentesca.

finato nell’elaborata decorazione a punzoni del tabellone e dell’aureola. La Croce propone una tipologia originale, che segna un’evoluzione rispetto ai modelli del Due e Trecento. Ambrogio dà risalto a una cornice elaborata, con doppia modanatura e una fascia esterna decorata ad archetti dipinti, che isola gli elementi terminali, purtroppo perduti; il profilo del tabellone centrale è interrotto da una rientranza poco sopra i piedi del Cristo. Soluzioni riprese in opere successive come la già citata Croce monumentale di Taddeo di Bartolo. L’interesse di Ambrogio per l’osservazione della realtà emerge già nella scelta di raffigurare le venature del legno della Croce, preferendo questo dettaglio realistico alla piú consueta campitura blu. Ma la suprema abilità del pittore nella resa degli elementi naturalistici si esprime con evidenza nella figura del Cristo. L’anatomia del corpo è studiata nel volume, un chiaroscuro dolcemente sfumato descrive con

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Altri particolari della Croce del Carmine di Ambrogio Lorenzetti prima (a sinistra) e dopo il restauro. 1328-1330 circa. Siena, Pinacoteca Nazionale.

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DOVE E QUANDO

Pinacoteca Nazionale Siena, via di San Pietro 29 Orario ma-sa, 9,00-19,00; do-lu e giorni festivi infrasettimanali, 9,00-13,30 Info tel. 0577 281161; e-mail: pin-si@cultura.gov.it; www.pinacotecanazionalesiena.it delicatezza le fasce muscolari, sottolineando con efficacia alcuni punti d’ombra (nell’addome e nell’incavo delle braccia) in contrasto con la colorazione chiara della carnagione su cui spicca con forza il rosso brillante del sangue. Con una pittura composta da sottili pennellate morbide Ambrogio descrive la barba e i capelli castani che ricadono incorniciando il volto, dalla cui espressione si percepisce l’ultimo momento di dolore prima di rassegnarsi alla morte. La testa è reclinata in avanti, con un effetto drammatico accentuato dall’aureola a rilievo, e dal basso si osservano le labbra carnose, ma già velate da un riflesso cianotico, e le palpebre socchiuse che donano alla figura uno sguardo di commovente umanità. Il restauro della grande Croce del Carmine, sagomata e dipinta da Ambrogio Lorenzetti a tempera e oro su tavola, è stato condotto da Muriel Vervat e diretto da Stefano Casciu. L’intervento è stato eseguito grazie al contributo di Friends of Florence, attraverso il dono di The Giorgi Family Foundation, che ha accolto la proposta della Direzione regionale musei della Toscana, all’epoca competente per la Pinacoteca di Siena, divenuta poi autonoma nel 2022.

L’aureola protettrice Il dipinto si trovava in antico nel convento di S. Niccolò del Carmine e venne depositata dal Comune di Siena presso il Regio Istituto di Belle Arti di Siena nel 1862, entrando cosí a far parte di quel nucleo originario di opere che compongono la collezione della Pinacoteca Nazionale. A causa dell’infiltrazione di acque piovane patite all’interno dell’edificio monastico, l’opera aveva subito numerose e gravi cadute di colore che hanno interessato il corpo del Cristo e la decorazione dorata del fondo, risparmiando il volto, protetto dall’aureola a rilievo. Un primo intervento di restauro venne eseguito tra il 1953 e il 1955 dall’Istituto Centrale del Restauro, allora diretto da Cesare

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Brandi: in tale occasione furono rimosse le ridipinture antiche che interessavano tutta la superficie e fu deciso, in coerenza con le teorie del tempo, di non integrare le grandi lacune, lasciando a vista il supporto ligneo e la tela di incamottatura grezza. La mostra monografica su Ambrogio Lorenzetti, svoltasi a Siena, presso il S. Maria della Scala, tra il 2017 e il 2018, ha fatto emergere la necessità di recuperare una lettura migliore della Croce: Cristina Gnoni, allora direttrice della Pinacoteca Nazionale, propose quindi a Friends of Florence di finanziare il nuovo intervento, progettato da Muriel Vervat. Il restauro attuale ha offerto quindi l’opportunità di riconsiderare criticamente la scelta di lasciare a vista il legno di supporto, soluzione legata al pensiero metodologico degli anni Cinquanta, allora innovativo, ma oggi penalizzante per un corretto apprezzamento dell’opera. Con questo restauro è stata rilevata l’eredità di quel pensiero teorico e pratico, nella consapevolezza che, per valorizzare un’opera d’arte, si deve sempre passare per nuovi atti di coraggio e di analisi critica, senza fare tabula rasa del passato, ma analizzando le situazioni conservative ed estetiche attuali dell’oggetto, e individuando nuove soluzioni per valorizzare l’originale (in questo caso la pittura di Ambrogio Lorenzetti), con una attenzione anche all’evoluzione nella percezione delle opere d’arte. (red.)

Un particolare della decorazione dorata della Croce del Carmine prima (a destra) e dopo il restauro. L’intervento, rivelatosi assai complesso, è stato condotto fra il maggio 2020 e il giugno 2023.

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ANTE PRIMA

Templari al Monte Cucco ITINERARI • La presenza

dei cavalieri del Tempio fu consistente e significativa anche nei territori oggi compresi nei limiti del Parco Naturale Regionale di Monte Cucco, nel Perugino. Ne è prova la fitta rete di insediamenti tuttora rintracciabili, filo conduttore ideale per un viaggio alla scoperta di questa splendida porzione del «cuore verde» d’Italia

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ue mansioni templari distanti, in linea d’aria, meno di dieci chilometri l’una dall’altra. Gli insediamenti storicamente accertati dei cavalieri del Tempio di Gerusalemme erano presenti nell’area dell’attuale Parco Naturale Regionale di Monte Cucco, in un territorio che, dal punto di vista amministrativo, oggi ricade all’interno dei comuni umbri di Scheggia e Pascelupo, Fossato di Vico, Sigillo e Costacciaro (Perugia). I monaci-guerrieri possedevano una precettoría (luogo di controllo viario, gestione dei beni e governo del territorio) a Perticano, oggi frazione del comune anconetano di Sassoferrato. Una vicina commenda agricola che sorgeva invece a Collina di Purello, In questa pagina, dall’alto una veduta dell’abbazia benedettina di S. Emiliano in Congiúntoli (Scheggia e Pascelupo, Perugia) e un rilievo con croce patente, datato 1286, inglobato nella muratura esterna dell’edificio.

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La facciata dell’edificio medievale di Montebollo (Scheggia e Pascelupo, Perugia) che sembra potersi identificare con la domus, cioè «la casa» principale dei cavalieri dell’Ordine del Tempio insediatisi nell’area del Monte Cucco. attuale frazione di Fossato di Vico, dipendeva in modo diretto dall’abbazia benedettino-templare di San Giustino d’Arna, situata nei pressi di Piccione, un paese a pochi chilometri da Perugia.

Un’abbazia influente La sede templare di «Rigo Petroso» o «Rivoretroso» (oggi Perticano), nel versante orientale del Massiccio di Cucco e bagnata dall’impetuoso torrente Rio Freddo, è stata, con ogni probabilità, quella di maggiore rilevanza storica. Posta tra la Marca e l’Umbria, a controllo dell’importante viabilità, appenninica e transappenninica, comprendeva tra le sue proprietà anche le originarie fondazioni monastiche benedettine dell’eremo di S. Girolamo di Monte Cucco e dell’abbazia dei Ss. Emiliano e Bartolomeo Apostolo in Congiúntoli. La sua influenza arrivava sino al territorio perugino intorno all’antica città di Arna, distante ben 80 chilometri. A partire dal 1310, con il processo ai «Templari del Monte Cucco», celebrato a Gubbio, nel palazzo della chiesa avellanita-camaldolese di Santa Croce del Mercato e in quello del vescovado, dal tribunale itinerante della Santa Inquisizione, che sospese e, praticamente, soppresse, localmente, l’Ordine della Milizia del Tempio, la precettoría, con le sue vaste proprietà fondiarie, venne definitivamente chiusa. I suoi membri, raggiunti da mandato di comparizione, furono processati in contumacia. Nel 1333 la struttura venne rilevata dagli Ospitalieri, allora guidati dal maestro giovannita Fra’ Angelo.

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Templari a Purello Storicamente accertata da inoppugnabili documenti d’archivio, la seconda sede templare del Cucco, situata a occidente del Massiccio di Monte Cucco e, piú precisamente, nei pressi dell’attuale Purello di Fossato di Vico, prendeva il nome di Santa Croce de Culiano («S. Crucis de Culiano» o, piú tardi, «S. Crucis Hierosolomit[anae]» e «S. Crucis de Culiano Cruciferorum») ed era una diretta emanazione dell’abbazia benedettino-templare di San Giustino d’Arna, edificio abbaziale ancora oggi presente nelle campagne di Piccione di Perugia. La dimora (il cui appellativo

toponimico deriva dal nome proprio di persona latino Julius), di fatto scomparve nel XVII secolo, quando nel luogo in cui sorgeva venne costruita la piccola chiesa rurale di Santa Croce di Collina. Le terre vennero affidate ai conti Santinelli di Pesaro, cavalieri di Malta. La chiesa scomparsa di Perticano, detta, dal luogo nel quale sorgeva, de «La Costaccia», s’elevava, qualche centinaio di metri a sudest della parrocchiale attuale, sopra una modesta altura, dove, qua e là, fra rovi e pietre, se ne ravvisano, tuttora, le esigue spoglie. Il luogo, che anche la tradizione orale oltreché un preciso scritto dell’ex

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ANTE PRIMA

In alto la strada verso il Monte Cucco. L’omonimo Parco Naturale Regionale, istituito nel 1995, comprende i quattro comuni di Fossato di Vico, Sigillo, Costacciaro e Scheggia Pascelupo. A sinistra acquasantiera con croce greca, patente e rossa, inscritta in un cerchio (in alto al centro), nonché due cosiddetti «fiori della vita» (in basso ai due lati contrapposti), dalla chiesa di S. Francesco di Costacciaro. parroco del paese, don Francesco Berardi, indica quale quello della chiesa originaria del centro pedeappenninico, dovette essere abbandonato non piú d’un secolo dopo la sua sottrazione ai Templari. Durante le periodiche lavorazioni agricole, i contadini trovarono, a piú riprese, resti di ossa umane, probabilmente identificabili con uomini inumati sotto al pavimento o lungo il perimetro murario esterno della chiesa. Nei campi circostanti emersero casualmente anche alcune monete d’epoca romana e medievale. Una striscia di terra («petiam terre») templare s’estendeva, poi, anche lungo il piano dell’antichissimo mulino di Perticano, lungo il Rio Freddo e

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la strada: «item unam aliam petiam terre positam (...) in plano Molini iusta flumen Pertecani et via».

La scoperta di una piscaria Un’altra proprietà fondiaria dei Templari di Perticano era ubicata «in Pescaria» e lungo la strada («iusta viam»). Il toponimo Piscaria indicava, e spesso, un invaso artificiale, realizzato per allevare i pesci. I monaci se ne cibavano in modo frequente, soprattutto per ragioni rituali e liturgiche. Nel 2010, seguendo le tracce di un microtoponimo dialettale-guida, «Le Pescàe», le indagini dello studioso Claudio Paterniani hanno permesso di localizzare, con buona probabilità, l’antico sbarramento templare delle acque lungo il torrente Rio Freddo e anche il relativo, piccolo invaso, destinato all’allevamento dei pesci.

descrive cosí Montebollo: «Terra sodiva, sterposa sodiva, nuda sodiva, vastagliata e poco selvata e rupinata e balzosa». Il centro del paese è ancora «gemmato», cioè suddiviso in due piccoli agglomerati. Il primo nucleo che si incontra lungo la strada dev’essere il piú antico, poiché mostra un bell’edificio, due-trecentesco, che si potrebbe anche far risalire, con una buona probabilità, al periodo nel quale Montebollo costituiva una possessione fondiaria dei

La vigna templare Da Perticano, oltrepassato il ponte sul Rio Freddo, si prende la strada per il suggestivo, e perfettamente restaurato Castello Rotondo di Pascelupo. Percorsi circa cinquecento metri, però, c’è la possibilità di deviare, a destra, per una strada, che, inerpicandosi, a serpentina, su per il fianco meridionale del Monte Aguzzo, conduce al nucleo abitato di Montebollo. La frazione di Scheggia in età medievale era conosciuta come Villa del Castel di Pascelupo. Un documento del Catasto «Tiroli», dell’anno 1764, conservato presso l’Archivio di Stato a Roma, che elenca il Catasto dei Beni della Parrocchia di Perticano,

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Rilievo con croce latina patente, scolpita sulla viva roccia calcarea della rupe sovrastante l’eremo di S. Girolamo di Monte Cucco (Scheggia e Pascelupo).

Templari di Perticano. Proprio qui nel Medioevo, c’era la Vigna dei Templari: esposta a meridione, riceveva il sole dall’alba sin quasi al tramonto. La proprietà, oggi ricordata dal toponimo Vigna dei Frati, viene citata in un documento giovannita del 1333: «item unam aliam petiam terre vineatam positam in dicto comitatu in villa Montis Bulli» («e ancora un altro pezzo di terra, con vigna, posta nel suddetto comitato, all’interno dei confini della villa di Monte Bollo»). Il nome del paese potrebbe riferirsi a una antica sorgente significativamente chiamata «Bol dell’Acqua» (bulla, «polla sorgiva») nel già citato Catasto Tiroli. Nel nucleo piú antico del borgo trovava posto una cisterna, che portava l’acqua sin dentro il fondo di una sottostante casa trecentesca che secondo il rigoroso storico camaldolese don Alberico Pagnani, la cui famiglia era originaria del posto, per le generali analogie nella muratura e nei leganti delle pietre in particolare, avrebbe avuto lo stesso artefice della badia di S. Emiliano. Non pare quindi azzardato ipotizzare come l’importante edificio medievale di Montebollo potesse essere stata la domus, cioè «la casa» principale dei Templari del Monte Cucco. Non a caso, sorgeva in un luogo elevato e panoramico, a dominio della antica viabilità, lungo la strada principale tra la splendida abbazia di Sant’Emiliano, Perticano e Pascelupo, l’affascinante villaggio di montagna costruito al crocevia degli antichi sentieri delle transumanze. Per informazioni: www.ilikegubbio.com www.tramontanaguide.com Euro Puletti

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ANTE PRIMA

850 anni in movimento RICORRENZE • Sta per

prendere il via un ricco calendario di iniziative destinate a celebrare l’avvento e la diffusione del valdismo. Un movimento che ha scritto pagine importanti della storia europea e non solo 16

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alla «conversione» di Valdo di Lione ci separano 850 anni. Fu tra il 1173 e il 1174, infatti, che un ricco mercante di Lione, di nome Valdo, leggendo la Bibbia, prese una decisione che cambiò non solo la sua esistenza (si spogliò di tutti i beni e cominciò una vita di povertà e predicazione), ma anche quella di molti altri che decisero di seguire il suo esempio. Fu l’inizio del movimento valdese che, con l’adesione alla Riforma nel 1532, diventerà quella che ancora oggi conosciamo come Chiesa valdese.

Un fatto storico che ha dato il via a un movimento che attraverso i secoli è riuscito, trasformandosi, a lasciare tracce fondative anche in quella che è oggi l’Europa. In diversi luoghi del mondo (dalla Francia all’America Latina, dalla Germania alla Svizzera) si stanno preparando per il 2024 momenti celebrativi. In Italia la Chiesa e la Fondazione Centro culturale valdese hanno in cantiere diversi progetti: un convegno; una mostra; tre appuntamenti «itineranti» con viaggi che porteranno in luoghi e gennaio

MEDIOEVO


Nella pagina accanto Torino, uno scorcio di piazza Castello, inserita nel percorso «Torino valdese», che mira a riscoprire luoghi oggi letti in una dimensione diversa, un tempo spazi di reclusione e di esecuzione degli eretici. A destra un’immagine elaborata per la Mostra « Valdo e i valdesi tra storia e mito», che verrà inaugurata il prossimo 10 febbraio presso il Museo valdese, a Torre Pellice (Torino), che è anche sede della Fondazione Centro culturale valdese. regioni caratterizzati nel periodo medievale dalla presenza valdese. Il programma della Fondazione Ccv per gli «850 anni» avrà inizio il 3 febbraio, dalle 15,30 alle 19,30, alla Casa valdese in via Beckwith 2 a Torre Pellice (Torino), con il convegno «Eresie di ieri, eresie di oggi». All’incontro, articolato in due sessioni, interverranno: Marina Benedetti (Università di Milano); Anna Benvenuti (Università di Firenze); Francesco Mores (Università di Milano); Pietro Polito (Centro studi Gobetti); Federico Vercellone (Università Torino); Stefano Tallia (Ordine giornalisti Torino). A moderare e curare le conclusioni Bruna Peyrot e Davide Rosso, Presidente e Direttore della Fondazione Ccv. L’appuntamento muoverà dal fatto che nella storia singoli e correnti filosofiche o teologiche, personalità e movimenti, sono stati definiti eretici (tra questi i valdesi), diventando eretici senza volerlo, nominati cosí da chi temeva uno sconvolgimento nell’ordine sociale. Il concetto ha assunto nel tempo significati diversi che si sono sovrapposti; eresia, ha affermato lo storico medievista Gioacchino Volpe, è un «moto di cultura» perché implica che ognuno impari a leggere i fatti mettendoli in relazione alla propria coscienza. La seconda tappa del programma per gli «850 anni» si terrà il 10 febbraio con l’inaugurazione, alle 16,00, negli spazi della Fondazione

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Ccv in via Beckwith 3 a Torre Pellice della mostra «Valdo e i valdesi tra storia e mito», visitabile poi fino al 30 settembre 2024.

La vita e l’opera del fondatore Curata da Marco Fratini e Samuele Tourn Boncoeur, l’esposizione illustrerà attraverso la figura del suo «fondatore» le tappe della costruzione della storia del movimento valdese. La mostra presenterà nella sua prima sezione una narrazione attraverso le testimonianze che di Valdo diedero i contemporanei; nella seconda sezione invece proporrà le testimonianze di circa duecento interpreti, dal XIII al XX secolo, del dibattito sulle origini dei valdesi, mostrando come solo in tempi recenti Valdo sia stato largamente accettato come fondatore del movimento valdese, mentre per anni sono state accreditate ipotesi secondo le quali la sua origine risalirebbe ai primi secoli del cristianesimo o sarebbe esito di una discendenza dagli apostoli. Il calendario prevede, infine, da parte della Fondazione Ccv anche alcune proposte di viaggio «sulle tracce dei valdesi tra il 1174 e il XVI secolo». Si andrà a Lione nel

maggio 2024, ma anche in Austria e in Cechia dal 24 al 29 settembre; e il 25 maggio 2024 a Torino. L’idea è percorrere alcune delle strade della diffusione del movimento e riscoprire luoghi come la cittadina di Steyr in Austria, testimone di repressioni e roghi contro i valdesi nel XIV secolo, o altri dove il valdismo ebbe origine come Lione, che portano con sé un significato che spesso è stato dimenticato o messo a tacere. Non si tratterà di viaggi della memoria, ma di percorsi di riscoperta e di approfondimento come il percorso nella «Torino valdese» che mira a riscoprire luoghi oggi letti in una dimensione diversa come il Palazzo Reale e la piazza Castello, un tempo spazi di reclusione e di esecuzione degli eretici. Infine un appuntamento dedicato all’arte: il 26 ottobre vi sarà a Torre Pellice, al Museo valdese, l’inaugurazione di un’istallazione dell’artista Thanchanok Belforte dedicata agli «850 anni di valdesi in movimento». Maggiori dettagli e aggiornamenti sul programma sono disponibili sul sito web fondazionevaldese.org, alla pagina «valdesi 850 anni». Davide Rosso

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AGENDA DEL MESE

Mostre PARIGI VIAGGIO NEL CRISTALLO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 14 gennaio

Da sempre e in tutte le civiltà, la trasparenza del cristallo di rocca esercita un fascino straordinario e nel millennio medievale, questo quarzo trasparente viene utilizzato nelle arti della tavola, dove è apprezzato per la posateria di lusso, e in oggetti decorativi o gioielli. Gli viene attribuita anche una forza simbolica che richiama la purezza, espressa nella produzione di oggetti liturgici o reliquiari. Articolata in sei sezioni, la mostra esplora tutte le sfaccettature di questo misterioso materiale e, lungo un percorso sia cronologico che tematico, documenta come sia stato variamente utilizzato. Opere dal potere spirituale e magico, come i reliquiari dove il cristallo di rocca funge da lente d’ingrandimento; opere per i re, come lo scettro del British Museum; oggetti di lusso e piacere, come l’acquasantiera del Louvre; strumenti scientifici come i misteriosi occhiali di Visby: la mostra presenta oltre 200 pezzi, di cui un centinaio del Medioevo. info www.musee-moyenage.fr

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a cura di Stefano Mammini

ROMA COPERNICO E LA RIVOLUZIONE DEL MONDO Foro Romano, Curia Iulia fino al 29 gennaio

Ospitata nella Curia Iulia nel Foro Romano, la mostra si inserisce nell’alveo delle celebrazioni per il 550° anniversario della nascita di

Niccolò Copernico (14731543), illustre astronomo e matematico polacco la cui rivoluzionaria visione dell’universo ha per sempre cambiato la nostra comprensione del cosmo. L’esposizione mira a esplorare il mondo immaginario creato dalla rivoluzione copernicana, le sue radici antiche, l’iconografia solare, il soggiorno di Copernico a Roma nel 1500 e l’ampia influenza della teoria eliocentrica. L’Italia svolse infatti un ruolo fondamentale nella formazione di Copernico, il quale, dopo aver ricevuto un’educazione a Cracovia, studiò in diverse città italiane, tra cui Bologna, Padova e Ferrara, e trascorse un periodo significativo a Roma, dove condusse studi e ricerche rilevanti. È a Roma che, nella notte tra il 5 e il 6 novembre del 1500, Copernico osservò

l’eclissi lunare descritta nel Libro IV della sua De revolutionibus. Nella stessa città Copernico tenne anche lezioni di matematica e astronomia, come raffigurato in incisioni e dipinti ottocenteschi, alcuni dei quali presentati in mostra. info https://colosseo.it/

collocandolo nel contesto della sua storia millenaria: dalle sue origini nel Medioevo alla sua rinascita nel XIX secolo e al suo apice con Viollet-le-Duc sotto il Secondo Impero. Risalendo alle origini del tesoro, la mostra ne svela la diversità e la ricchezza, in particolare attraverso i manoscritti pervenuti fino a noi. Se reliquiari e oreficerie liturgiche sono stati distrutti durante la Rivoluzione, dipinti, disegni e incisioni consentono di evocarli nella mostra. In vista dell’incoronazione di Napoleone I a Notre-Dame, il tesoro viene ricostituito e arricchito di reliquie insigni, in particolare quelle della Corona di spine e del Legno della Croce, provenienti dall’antico tesoro della Sainte-Chapelle (non presentato al Louvre), per le quali vengono commissionati nuovi reliquiari. Eugène Violletle-Duc, tra il 1845 e il 1865, è

PARIGI IL TESORO DI NOTRE-DAME DE PARIS DALLE ORIGINI A VIOLLET-LE-DUC Museo del Louvre, Galleria Richelieu fino al 29 gennaio

Mentre i lavori di restauro della cattedrale parigina entrano nella loro fase finale, il Louvre dedica una mostra unica al tesoro di Notre-Dame. Questo tesoro, che raccoglie gli oggetti e gli abiti liturgici necessari per la celebrazione del culto, reliquie e reliquiari, libri manoscritti e altri oggetti preziosi offerti per devozione, si trasferirà successivamente nella sacrestia neogotica, costruita da Jean-Baptiste Lassus ed Eugène Viollet-Le-Duc dal 1845 al 1850 per accoglierli, rinnovata in occasione della riapertura della cattedrale, prevista per l’anno in corso. Con oltre 120 opere, questa mostra offre un riassunto della storia di questo tesoro,

incaricato del restauro della cattedrale e della ricostruzione della sacrestia, scrigno del tesoro. Propone quindi di creare nuovi arredi liturgici e reliquiari in armonia con l’architettura gotica. info www.louvre.fr VIGOLENO (PIACENZA) MODA AL TEMPO DEGLI SCOTTI MOSTRA DI ABITI STORICI TRA IL 1346 E IL 1427

gennaio

MEDIOEVO


Simone di Filippo Benvenuti, detto Simone dei Crocifissi (1330 circa–1399), Lippo appartenne alla prestigiosa famiglia ghibellina degli Scannabecchi. Come il padre, fu a lungo attivo in Toscana, a Pistoia, dove è probabile abbia intrapreso la sua attività, ottenendo le prime importanti commissioni. Attraverso l’esposizione di una quarantina di opere, tra dipinti, sculture e manoscritti miniati, la mostra intende ripercorrere, facendo riferimento al contesto artistico

Oratorio della Beata Vergine delle Grazie fino al 4 febbraio

La mostra inaugura una serie che nei prossimi mesi interesserà altre località italiane, in particolare legate al circuito dei Castelli del Ducato di Parma e Piacenza. Protagonisti del progetto espositivo sono gli abiti storici realizzati da Michela Renzi, fondatrice di Vestioevo, ma non solo: ad accompagnarli accessori e apparati didattici che informano il visitatore sulle fonti utilizzate, dando fondamentale importanza a quelle locali, utili a valorizzare il territorio. Visitando la mostra si risale nel tempo fino a uno dei periodi di dominazione della famiglia Scotti, signori del borgo medievale di Vigoleno in piú momenti: in particolare, è stato scelto il periodo compreso tra il 1346 e il 1427, grazie alla moda desumibile da fonti che vanno dalle cronache di Giovanni de Mussis fino all’affresco conservato nella pieve di S. Giorgio, sita a pochi passi dalla sede della mostra. info tel. 329 7503774; e-mail: info@visitvigoleno.it; https://visitvigoleno.it VERBANIA VERONESE SUL LAGO MAGGIORE. STORIA DI UNA COLLEZIONE Museo del Paesaggio fino al 25 febbraio

Sono riuniti nel Palazzo Viani Dugnani di Verbania due capolavori cinquecenteschi di Paolo Veronese – una coppia di importanti Allegorie –, arricchiti dalla storia del loro ritrovamento e dalla descrizione del loro luogo di provenienza: Villa San Remigio, di proprietà del Marchese Silvio della Valle di Casanova e di sua moglie Sophie Browne. Il complesso

MEDIOEVO

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comprende un ampio giardino disposto su terrazze e una villa su due piani. Il piano rialzato dell’abitazione richiama una dimora signorile del Cinquecento: gli ambienti interni, gli arredi e le opere d’arte alle pareti sono caratterizzati da un forte gusto neorinascimentale. Nel 1977 la Villa viene destinata alla Regione Piemonte. Cristina Moro nel 2014 ritrova due opere di soggetto allegorico attribuite alla «Scuola di Veronese» che a un piú attento esame si mostrano riconducibili alla mano del maestro stesso. E proprio da qui parte la mostra. info tel. 0323 502254; e-mail: segreteria@museodelpaesaggio.it; www.museodelpaesaggio.it BOLOGNA LIPPO DI DALMASIO E LE ARTI A BOLOGNA TRA TRE E QUATTROCENTO Museo Civico Medievale, Sale del Lapidario fino al 17 marzo

Il piú celebrato dei pittori bolognesi del tardo Medioevo, Lippo di Dalmasio viene per la prima volta scelto come protagonista di una rassegna monografica. Figlio del pittore Dalmasio (1315 circa-1374 circa) e nipote del noto artista

cittadino, l’attività di questo maestro su cui «grava» lo stereotipo di «pittore cristiano e devoto della Madre di Dio» nato in età di Controriforma, in parte giustificato dalla sopravvivenza di molte sue opere raffiguranti la Madonna con il Bambino. La mostra si articola in tre sezioni: Tra Bologna e Pistoia: i rapporti con l’arte toscana, Bologna 1390 e Un pittore per la città 1400-1410 verso il tardogotico. Oltre ai dipinti e agli affreschi di Lippo di Dalmasio (alcuni inediti) sono esposte in mostra anche opere di alcuni degli artisti piú rinomati a lui contemporanei – Simone dei Crocifissi, Jacopo di Paolo, Nicolò di Giacomo, Giovanni di Fra Silvestro, Don Simone Camaldolese, Lorenzo

Monaco, Jacobello e Pierpaolo Dalle Masegne –, prestati per l’occasione da vari musei, biblioteche, chiese italiane e collezioni private. info tel. 051 2193923; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it/ arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Instagram: @ museiarteanticabologna; Twitter: @MuseiCiviciBolo FIRENZE PIER FRANCESCO FOSCHI (1502-1567) PITTORE FIORENTINO Galleria dell’Accademia fino al 10 marzo

La cui e fortunata carriera di Pier Francesco Foschi (15021567) – allievo di Andrea del Sarto, che ha collaborato anche con Pontormo – si svolse nei decenni centrali del Cinquecento e viene ora ripercorsa dalla prima rassegna monografica dedicata all’artista. L’esposizione riunisce una quarantina di opere autografe, tra dipinti e disegni, tra cui la pala d’altare, la Sacra Famiglia con San Giovannino (1526-1530), già presente nelle collezioni della Galleria dell’Accademia di Firenze, un dipinto cruciale per capire la sua produzione giovanile e come ha fatto propri gli insegnamenti di Andrea del Sarto. Il percorso espositivo si

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articola in cinque sezioni, che approfondiscono i principali aspetti della sua prolifica attività, a partire proprio dalla formazione presso Andrea del Sarto fino alle commissioni di grandi pale d’altare e ai numerosi ritratti, genere in cui ottenne notevole successo. Troviamo un importante nucleo di studi giovanili tratti da modelli del maestro, insieme ad accostamenti tra alcuni originali di Andrea del Sarto e le repliche che Foschi realizzò, confronti che serviranno per comprendere meglio la sua personalissima declinazione della maniera sartesca. L’esposizione propone anche una selezione di dipinti destinati alla devozione privata di soggetto mariano, insieme a rare e preziose opere legate ai temi del Vecchio Testamento, in cui si evidenzia l’influenza che il Pontormo ebbe sul suo stile. Per l’occasione saranno finanziati importanti restauri di alcuni dipinti del pittore fiorentino come quelli nella basilica di Santo Spirito a Firenze e nella Propositura dei Ss. Antonio e Jacopo a Fivizzano. info www.galleriaaccademiafirenze. it

CUNEO LORENZO LOTTO E PELLEGRINO TIBALDI. CAPOLAVORI DALLA SANTA CASA DI LORETO Complesso Monumentale di S. Francesco fino al 17 marzo

Il progetto espositivo è imperniato sui sette dipinti di Lorenzo Lotto che costituiscono il cosiddetto “ciclo lauretano” del pittore, disposti quando egli era ancora in vita presso la Cappella del Coro della chiesa di S. Maria di Loreto, e su due affreschi strappati e portati su tela di Pellegrino Tibaldi,

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dell’architettura militare rinascimentale. info https://museodellestorie. bergamo.it LEIDA L’ANNO MILLE Rijksmuseum van Oudheden fino al 17 marzo

originariamente realizzati per la Cappella di S. Giovanni della stessa chiesa lauretana. Tutte le nove opere provengono dal Museo Pontificio Santa Casa di Loreto. La mostra intende proporsi come occasione per indicare nuovi percorsi di ricerca in merito alle possibili reciproche influenze tra Lotto e Tibaldi, due artisti di differente cultura, visto il pur breve periodo condiviso dai due nel cantiere lauretano, indagato solo di recente. Se il rapporto Lotto-Tibaldi dà modo di raccontare un momento fondamentale della storia del Santuario di Loreto e insieme della storia dell’arte italiana, all’interno della mostra è altrettanto importante il richiamo alla presenza ancora oggi rilevante in Piemonte di manufatti testimonianti una diffusa, secolare e, in certi casi, artisticamente rilevante devozione mariano-lauretana. Una sezione propone infatti una mappatura territoriale dei manufatti piú significativi con l’indicazione di un itinerario utile per i visitatori che vorranno integrare e approfondire l’esperienza vissuta in mostra. info www.fondazionecrc.it BERGAMO LE MURA NELLA STORIA. TESORI DI UNA CITTÀ-FORTEZZA DEL RINASCIMENTO Museo del Cinquecento, Palazzo del Podestà fino al 17 marzo

Allestita in Palazzo del Podestà

come ideale prosecuzione del Museo del Cinquecento, la mostra ripercorre in quattro sezioni la storia della progettazione e realizzazione della fortezza di Bergamo. Il percorso permette non solo di comprendere la storia della fortezza nella geografia piú ampia del sistema difensivo territoriale della Repubblica di Venezia, ma anche di leggere le Mura come espressione della cultura architettonica rinascimentale delle “fortezze alla moderna” e ancora di conoscere l’organizzazione militare della città e del suo territorio, avamposto occidentale della terraferma

Il periodo compreso tra il 900 e il 1100 è spesso percepito come un’epoca in cui non si registrarono eventi di particolare importanza, ma cosí non fu per il territorio che oggi è conosciuto come Paesi Bassi: per quelle regioni, infatti, fu una stagione di grandi cambiamenti nel paesaggio, nell’architettura, nel clima, nella lingua e nella società. La mostra allestita a Leida propone dunque un viaggio nel tempo attraverso il paesaggio di questo mondo medievale, con l’anno 1000 come destinazione finale. Un percorso che permette di scoprire lo svolgersi della vita quotidiana attraverso contesti di grande importanza – come la residenza imperiale di Nimega o la cattedrale di Utrecht – e materiali di pregio, come i manufatti preziosi provenienti da Maastricht. La selezione degli oggetti esposti comprende oltre quattrocento reperti archeologici, manufatti e manoscritti provenienti da collezioni olandesi e straniere. info www.rmo.nl.

veneziana. L’ultima sezione conduce il visitatore nel cantiere delle Mura: qui i protagonisti sono ingegneri e architetti militari, tagliapietre e spezzamonti, marangoni e ferlinanti, maestranze piú o meno professionalizzate, uomini e donne che con opera e ingegno, scienza e prassi, tecnologia e lavoro hanno dato vita in poco meno di trent’anni (1561-1588) a questo gioiello gennaio

MEDIOEVO


MOSTRE • Pietro Perugino a Fano. Primus pictor in orbe Fano – Museo del Palazzo Malatestiano

fino al 7 aprile info tel. 0721 887.845-847; e-mail: museocivico@comune.fano. pu.it; museocivico.comune.fano.pu.it

T

orna a Fano, dopo un importante intervento di restauro, la Pala di Durante dipinta da Pietro Perugino, opera identitaria per la città marchigiana, tanto da essere conosciuta anche come Pala di Fano. «Primus pictor in orbe» («primo pittore al mondo»): cosí viene definito Perugino nel contratto del 1488 che lo portava a lavorare a Fano dove avrebbe realizzato due opere eminenti: la Madonna con il bambino in trono e i santi Giovanni Battista, Ludovico di Tolosa, Francesco, Pietro, Paolo e la Maddalena, detta Pala di Durante, e l’Annunciazione. La Pala di Durante, dipinta a olio su tavola, fu eseguita per l’altare maggiore della chiesa di S. Maria Nuova di San Lazzaro e fu realizzata a piú riprese, tra il 1488 e il 1497. È cosí definita dal nome che compare nell’iscrizione sul piedistallo ai piedi della Vergine: Durante di Giovanni Vianuti, che nel 1485 fece un lascito ai frati Minori Osservanti, il cui convento venne piú tardi trasferito nell’attuale sede della chiesa di

S. Maria Nuova. Il pannello principale raffigura la Madonna con il Bambino seduta su un alto trono con ai lati i santi. Il gruppo è disposto all’ombra di un chiostro rinascimentale, aperto sullo sfondo verso un luminoso paesaggio collinare. A completamento della pala, una lunetta con Cristo in Pietà tra i dolenti e santi Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea e una predella con cinque Storie della vita della Vergine, alla cui realizzazione o perlomeno progettazione grafica, alcuni storici dell’arte ritengono che abbia collaborato il piú geniale allievo di Perugino e futuro protagonista della scena artistica, Raffaello Sanzio, allora appena quattordicenne. La mostra consente di vedere come mai prima la Pala e ogni sua sezione, attorno a cui sono disposti resoconti dell’eccezionale restauro e confronti fondamentali, grazie a riproduzioni digitali. In particolare, quello con la cosiddetta «pala gemella», realizzata per

FELTRE

PADOVA

DI LAME E DI SPADE. MAESTRI SPADAI A FELTRE TRA IL XV ED IL XVII SECOLO Museo Civico Archeologico fino al 31 marzo

LO SCATTO DI GIOTTO. LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI NELLA FOTOGRAFIA TRA ‘800 E ‘900 Museo Eremitani fino al 7 aprile

La mostra offre uno spaccato sul mondo degli spadai feltrini e sull’eccellenza di produzioni che li resero celebri in tutta Europa. L’esposizione rende visibili al pubblico una decina di pezzi di assoluto interesse – da una trecentesca basilarda a lame, spade, stiletti ed armi in asta – il cui valore e la cui importanza sono stati riportati alla luce proprio grazie agli studi condotti in occasione dell’evento. info www.visitfeltre.com

MEDIOEVO

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La Cappella degli Scrovegni è nota per essere il capolavoro assoluto affrescato da Giotto, ma pochi sanno che essa è stata fra i primi monumenti italiani riprodotti in fotografia in modo sistematico e puntuale. Carlo Naya, uno dei pionieri italiani della fotografia, immortala gli affreschi in alcuni scatti già nell’estate del 1863, a meno di venticinque anni dall’invenzione ufficiale di questa tecnologia, e piú avanti

l’altare maggiore della chiesa degli Osservanti di Senigallia. Il percorso espositivo, e le sue ricostruzioni virtuali e riproduzioni, raccontano i momenti che comprendono l’attività fanese, dallo scorcio degli anni Ottanta per arrivare alla conclusione della Pala di Durante nel 1497, quando Perugino era all’apice della carriera e, dopo il successo della direzione del cantiere sistino in Vaticano, lavorava a un ritmo vorticoso che imponeva il riutilizzo di invenzioni fortunate, con variazioni piú e meno significative e con l’aiuto di collaboratori.

realizza una intera campagna fotografica del monumento a scopo conservativo prima dei restauri di Guglielmo Botti, realizzati fra il 1869 e il 1871. Il percorso espositivo de «Lo scatto di Giotto» parte da riproduzioni di grande fascino e si apre in uno scenario in bianco e nero creato dalle lastre fotografiche realizzate da Luigi Borlinetto a partire dal 1883 e conservate dalla Biblioteca Civica di Padova. Queste portano a scoprire dettagli poco noti e punti di vista inconsueti, restituendo all’osservatore contemporaneo l’esperienza di un visitatore della seconda metà dell’Ottocento. La mostra si affaccia poi al Novecento attraverso le campagne

fotografiche Alinari e di Domenico Anderson, il cui valore si intreccia con quello dell’editoria d’arte e di divulgazione. Proprio grazie alle campagne fotografiche della Casa Editrice Alinari di Firenze le immagini della Cappella degli Scrovegni vengono inserite nei cataloghi d’arte a partire dal 1906. Qui il capolavoro di Giotto viene presentato nella sua straordinarietà per la prima volta quale ciclo narrativo completo, ma non solo: da questo momento in poi si sorpassa l’idea dell’esclusività nella riproduzione degli affreschi della Cappella e viene esplicitamente specificato nei verbali delle adunanze della città di Padova che lasciar circolare l’opera di Giotto

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AGENDA DEL MESE attraverso la fotografia avrebbe consentito di diffondere nel mondo il valore della sua arte e non avrebbe mai potuto provocare una riduzione dei visitatori. Da quel momento in poi, grazie ai cataloghi Alinari, la Cappella degli Scrovegni sarà conosciuta in tutto il mondo, giacché le pubblicazioni avevano edizioni anche in lingua francese e inglese. info tel. 049 8204551 NANTES GENGIS KHAN. COME I MONGOLI HANNO CAMBIATO IL MONDO Château des ducs de BretagneMusée d’histoire de Nantes fino al 5 maggio

Dalle steppe della Mongolia all’estremo Sud della Cina, dall’Oceano Pacifico ai confini del Medio Oriente, Gengis Khan e il suo esercito hanno dato vita, nel corso del XIII secolo, a un vasto impero. Al culmine del loro potere, i Mongoli controllavano oltre il 22% delle terre del pianeta, e il nipote di Gengis Khan, Kubilaï, gran khan dei Mongoli, divenne anche imperatore della Cina. Fondò la dinastia Yuan e stabilí la sua capitale a Dadu (l’attuale Pechino). Dopo anni di conquiste violente per dare vita a questo impero, l’istituzione della Pax Mongolica permise lo sviluppo di relazioni commerciali, scientifiche e artistiche tra Oriente e Occidente. L’esposizione si propone di far scoprire la storia dell’impero di Gengis Khan, attraverso la presentazione di oggetti provenienti dalle collezioni nazionali della Mongolia, a cui fanno da contorno manufatti concessi in prestiti da musei francesi ed europei. Fra i temi del progetto espositivo spicca l’attenzione rivolta alle interazioni dell’impero mongolo

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con le altre potenze dell’epoca, in particolare con il regno di Francia. Ed è stato un europeo, Marco Polo, a riassumere con efficacia che cosa abbia significato l’incontro con i Mongoli: il suo Milione, infatti, ebbe una diffusione straordinaria e conserva intatto il suo eccezionale valore documentario. info www.chateaunantes.fr

provenienti dall’Asia occidentale, centrale e orientale che permettono di interrogarsi su fenomeni quali la circolazione materiale e immateriale, le modalità di trasformazione del significato e la fruizione avvenute tra Asia ed Europa nel corso di duemila anni di storia. Fra i materiali riuniti per l’occasione si possono

TORINO TRAD U/I ZIONI D’EURASIA MAO Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre

Oggetto della mostra, terzo esito del ciclo espositivo «Frontiere liquide e mondi in connessione», sono i concetti di traduzione, trasposizione e interpretazione culturale, illustrati attraverso oggetti

ammirare splendide sete della Sogdiana, ceramiche bianche e blu prodotte tra il Golfo Persico e la Cina, una raffinata selezione di «panni tartarici» – preziose stoffe d’oro e di seta del XIII secolo prodotte tra Iran e Cina durante la dominazione mongola, ammirate dall’aristocrazia medievale e dall’alto clero d’Europa –, rari esemplari di tiraz (Egitto, X secolo), tessuti con iscrizioni ricamate che evidenziano l’importanza della calligrafia in ambito islamico, nonché una serie di bruciaprofumi zoomorfi in metallo (Iran, IX-XIII secolo), a ribadire la centralità delle essenze nelle società islamiche medievali. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it

APPUNTAMENTI • Luce sull’archeologia. X edizione Roma – Teatro Argentina

fino al 14 aprile info www.teatrodiroma.net

«L

uce sull’Archeologia» torna per la decima edizione sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma. Dal 14 gennaio al 14 aprile l’appuntamento con la rassegna di storia e arte si rinnova con sette incontri la domenica mattina alle ore 11,00 – 14 e 21 gennaio, 11 e 25 febbraio, 3 e 10 marzo, 14 aprile – introdotti da Massimiliano Ghilardi e riuniti dal titolo «La “villeggiatura” nell’antica Roma: l’otium come sentimento sublime di bellezza ed esperienza di civiltà». Sette appuntamenti per approfondire il rapporto dei Romani con la terra e la natura, quando, alla fine dell’età repubblicana, ragioni storico-politiche e culturali determinano la trasformazione della mentalità e del costume delle élites, che prediligono sempre piú una vita lontano dalla città e dal centro del potere. Si desidera vivere una vita agiata e i piaceri del paesaggio in contesti extraurbani: «otium cum dignitatem», tempo libero da dedicare alle attività intellettuali, ma anche al disbrigo degli affari. Regali dimore si arricchiscono di nuovi spazi, destinati non solo al piacere del corpo, ma anche dello spirito. «Luce sull’Archeologia» è un progetto del Teatro di Roma a cura di Catia Fauci, in collaborazione con la Direzione generale Musei del Ministero della Cultura, con il contributo dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, di «Archeo» e della società Dialogues Raccontare L’arte, arricchito dagli interventi di storia dell’arte di Claudio Strinati e dalle Anteprime del passato di Andreas M. Steiner. Come per le precedenti edizioni, ogni incontro si comporrà come un viaggio di testimonianze, ricerche, riflessioni e immagini con il contributo di storici, archeologi e studiosi d’arte, che guideranno il pubblico sul terreno di una passione comune, quella per la civiltà romana e lo sviluppo delle arti e della storia. La decima edizione aggiunge ai sette incontri un nuovo contributo per una prospettiva multifocale, dal titolo «La parola oltre il sipario», un momento di riflessione e approfondimento del tema da un punto di vista letterario, teatrale, giornalistico e con rimandi al tempo presente. gennaio

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LA STORIA OLTRE IL MITO art. 1, c.1, LO/MI.

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Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004,

MEDIOEVO DOSSIER

a tradizione storiografica circoscrive LA A RE NT RA SA il fenomeno delle crociate a un E LIB RRA periodo relativamente breve, compreso TE tra il 1096 e il 1270, nel quale furono otto le spedizioni organizzate dalla cristianità con l’obiettivo di acquisire (o riprendere) il controllo della Terra Santa. In realtà, vuoi per molte altre LA STORIA imprese concettualmente affini OLTRE IL MITO succedutesi nel corso dei secoli, vuoi per l’uso – mai come adesso frequente – del termine «crociata» anche in contesti geopolitici e culturali ben diversi, si può dire che l’epopea dei cruce signati, o almeno la loro evocazione, non si è mai conclusa davvero. di Franco Cardini con contributi di Riccardo Facchini, Davide Iacono, Antonio Musarra e Franco Suitner È questo uno dei fili conduttori del nuovo Dossier di «Medioevo», nel quale la lunga parabola avviata dal vibrante appello lanciato da papa Urbano II nel concilio di Clermont (in occasione del quale, tuttavia, il celebre «Dio lo vuole!» non sarebbe GLI ARGOMENTI stato mai effettivamente gridato...) viene magistralmente ripercorsa da Franco Cardini • Il concetto di guerra santa e dagli altri studiosi che firmano i contributi riuniti nel fascicolo. Quello che nacque • L’appello di Urbano II come un «pellegrinaggio armato» produsse • La conquista assedi, battaglie, fiumi di sangue e indicibili atrocità, ma consentí anche un proficuo di Gerusalemme contatto tra Islam e mondo cristiano, le cui • Vecchie e nuove tracce furono evidenti nell’evoluzione delle arti e delle scienze. Un fenomeno, dunque, interpretazioni dalle molteplici sfaccettature, descritte e • Medievalismo e crociate analizzate in maniera sistematica nelle pagine del Dossier. A conferma di quanto • I canti delle crociate lo studio sulle crociate continui a essere un cantiere aperto e siano ancora molte le questioni interpretative da sciogliere.

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LE CROCIATE

LE CROCIATE

N°59 Novembre/Dicembre 2023 Rivista Bimestrale

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La battaglia di Ascalona, 18 novembre 1177 (particolare), olio su tela di Charles-PhilippeAuguste de Larivière. 1842 circa. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

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Rosso e i suoi colori 26

a cura di Stefano Mammini gennaio

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Si è concluso il restauro della spettacolare Deposizione dalla Croce dipinta da Rosso Fiorentino nel 1521 a Volterra. L’intervento ha restituito al dipinto le cromie originarie e ne ha risanato il supporto ligneo, ma, soprattutto, ha portato a scoperte inaspettate sulla tecnica di esecuzione e sugli accorgimenti adottati dal suo autore. Fra ripensamenti in corso d’opera e «promemoria» sulle tinte da adottare...

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e la potenza espressiva di un’opera d’arte si potesse misurare, la Deposizione dalla Croce di Rosso Fiorentino farebbe senza dubbio registrare uno dei piú alti valori possibili. Si tratta, naturalmente, di un gioco ed è altrettanto ovvio quanto possa essere soggettiva l’impressione suscitata da un quadro, una scultura o qualsiasi altra espressione della creatività e dell’ingegno. Resta tuttavia il fatto che, di fronte al monumentale dipinto realizzato a Volterra da Giovanni Battista di Iacopo – era questo il nome di battesimo del pittore fiorentino – per la cappella della Compagnia della Croce di Giorno, è difficile, crediamo, rimanere indifferenti. L’impaginazione della scena, i movimenti e le espressioni dei personaggi e, soprattutto, la scelta dei colori fanno della Deposizione un’opera magnetica, che sembra quasi esigere quell’osservazione attenta e prolungata che è condizione indispensabile per cogliere i molteplici contenuti e messaggi della composizione.

Come un tableau vivant

Non è un caso, del resto, che, fra i molti estimatori dalla tavola, vi sia stato un intellettuale del calibro di Pier Paolo Pasolini, il quale, nel 1963, la trasformò in un tableau vivant per La ricotta, uno dei quattro episodi che componevano il film collettivo Ro.Go.Pa.G. (titolo, lo ricordiamo, tratto dalle prime lettere dei cognomi dei registi coinvolti: oltre a Pasolini, vi parteciparono Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard e Ugo Gregoretti). La storia del dipinto ebbe inizio nel 1521, anno in cui Rosso Fiorentino firmò il contratto con il quale la Compagnia della Croce di Giorno gliene affidava la reIl restauratore Daniele Rossi durante il ritocco pittorico sulla Deposizione dalla Croce (1521-1522) di Rosso Fiorentino.

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restauri rosso fiorentino Scheda storico-artistica

Ma Maria non può perdere i sensi... La Deposizione dalla Croce di Rosso Fiorentino (1494-1540) è firmata e datata 1521. La scena si svolge sullo sfondo di un cielo pressoché astratto, memore della pittura di cultura trecentesca quale quella di Cenni di Francesco di Ser Cenni che decora, ora come allora, le pareti della cappella della Croce. Vista la sede alla quale era dedicata, particolare risalto ha il legno della croce, intorno al quale si impegnano Giuseppe di Arimatea (il vecchio con la barba in alto), Nicodemo e tre aiutanti. In basso, sul primo piano, abbiamo a sinistra la Madonna, sorretta dalle due Marie, e con davanti la Maddalena inginocchiata, mentre sulla destra la figura di Giovanni si stringe il volto fra le mani, in un gesto antico che ricorda l’intenso Adamo cacciato dal Paradiso terrestre dipinto da Masaccio nella Cappella Brancacci al Carmine di Firenze circa cento anni prima. La figura della Maddalena, con la sua veste rossa resa con pieghe definite con angoli vivi, è centrata sulla base della croce, ma con il suo gesto si rivolge sulla Madonna, altro centro devoto della dolorosa narrazione e del culto della cappella nella chiesa di S. Francesco. Le indagini diagnostiche condotte prima dei lavori di restauro hanno messo in evidenza, oltre il nome dei colori che l’artista ha scritto sulla tavola prima di dipingere, parti del disegno sotto lo strato del colore che documentano il modo in cui Rosso aveva progettato in un primo momento le figure delle Marie: in questa fase della composizione del dipinto noi vediamo il braccio della Madonna intorno al collo della Maria di sinistra che con la mano la sorreggeva completamente in aiuto al gesto dell’altra Maria. In tal modo la Madre di Dio risultava svenuta, mentre ora il suo forte dolore la sconvolge ma senza l’abbandono dei sensi. Questo cambiamento nella redazione finale dell’opera testimonia la sensibilità del Rosso ai problemi spirituali sollevati anche dai teologi: secondo molti infatti non era corretto rappresentare lo svenimento di Maria ai piedi della Croce, perché cosí si minimizzava il fatto che la sua natura divina, anche se poteva essere comprensibile dal punto di vista umano. Il Rosso qui inventa la rappresentazione di un momento psicologico della Madonna sottilmente sospeso fra sofferenza e un difficile controllo delle emozioni. Andrea Muzzi

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alizzazione. Una data che peraltro lo stesso pittore appose sulla tavola, anche se si ipotizza che la lavorazione si sia protratta fino agli inizi del 1522, periodo nel quale portò a termine anche la Pala di Villamagna, conservata anch’essa a Volterra, ma nel Museo Diocesano. La Deposizione venne collocata nella cappella della Compagnia della Croce di Giorno, presso la chiesa di S. Francesco a Volterra, nella quale rimase fino a tutto il Settecento. Fu poi sistemata nella cappella di S. Carlo all’interno della Cattedrale volterrana e nel 1905 passò alla Pinacoteca Civica, dove oggi è esposta. L’importante intervento di restauro del capolavoro ha dunque preso le mosse a cinquecento anni di distanza, nel settembre 2021, traducendo in concreto le riflessioni sul suo stato di conservazione, avviate all’indomani della mostra sul Cinquecento fiorentino allestita in Palazzo Strozzi a cavallo fra il 2017 e il 2018. In quell’occasione, lo storico dell’arte Andrea Muzzi, il restauratore Daniele Rossi, la Diocesi e il Comune di Volterra e Friends of Florence concordarono sulla necessità di mettere mano alla Deposizione e da questa gennaio

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La Deposizione dalla Croce di Rosso Fiorentino cosí come si presenta dopo il restauro. 1521-1522. Volterra, Pinacoteca Civica. Nella pagina accanto il dipinto prima dell’intervento.

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restauri rosso fiorentino Qui accanto la Deposizione dalla Croce di Rosso Fiorentino trasformata in tableau vivant da Pier Paolo Pasolini ne La ricotta, uno degli episodi del film collettivo Ro.Go.Pa.G. (1963).

comunità di intenti è scaturito il progetto di restauro appena portato a compimento. Un’operazione che, oltre a restituire all’opera uno stato di conservazione ottimale, ha portato a vere e proprie scoperte, arricchendo considerevolmente il bagaglio delle conoscenze sulla Deposizione. Novità riassunte dagli stessi Muzzi e Rossi nei contributi che pubblichiamo in queste pagine. Elementi che ci auguriamo siano di ulteriore stimolo a vedere da vicino la grande pala, per la quale è stato realizzato un pregevole allestimento ad hoc nella Sala 11 della Pinacoteca Civica di Volterra. A raccontare il restauro della Deposizione dalla Croce di Rosso Fiorentino e illustrarne gli aspetti tecnici piú importanti è Daniele Rossi, che, insieme a Roberto Buda, ha elaborato il progetto dell’intervento e lo ha quindi eseguito... «Partirei da una considerazione: nel 1521 Rosso Fiorentino è a Volterra e firma il contratto con la Compagnia della Croce di Giorno, che aveva la sua sede accanto alla chiesa di S. Francesco, la quale gli commissiona la realizzazione dell’opera. È probabile che abbia impiegato meno tempo l’artista a dipingerla che noi a restaurarla... L’intervento, infatti, si è rivelato molto complesso, non tanto per le problematiche di carattere tecnico, ma per tutte le vicissitudini e i problemi affrontati in questi due anni. Erano stati previsti tempi piú brevi, ma è stato necessario andare di pari passo con tutto quello che il dipinto andava rivelando. A cominciare dal risanamento del supporto ligneo, curato da Roberto Buda, che è stato essenziale per la salvaguardia e per aver aumentato la sua struttura vitale nel tempo (vedi box a p. 32)». P rima del vostro intervento, il dipinto era già stato oggetto di restauri, non è vero? «Sí, negli anni il dipinto ha subíto almeno quattro interventi: un restauro antico è documentato nella seconda metà dell’Ottocento, mentre nel 1935, in occasione dell’intervento di Italo dal Mas, l’opera fu trasportata a Siena, a bordo di un autotreno, adagiata su un letto “morbido” collocato sul mezzo. Di lí, a restauro concluso, partí in direzione di Parigi (insieme alla Deposizione di Pontormo in S. Felicita a Firenze) per la grande mostra voluta da Mussolini al Petit Palais. Nel 1947 fu eseguito un ulteriore intervento, a Firenze, dai restauratori Lumini e Sokoloff esclusivamente alla superficie pittorica. Gli ultimi due restauri sono registrati nel 1974, a opera di Nicola Carusi, e nel 1978, per mano di Fausto Giannitrapa-

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ni, in occasione del quale il supporto ligneo è stato oggetto di un importante intervento». Nel condurre l’intervento, quali indicazioni avete potuto ricavare sul modus operandi di Rosso Fiorentino? «Quando Rosso Fiorentino arriva a Volterra, è probabile che abbia trovato la tavola preparata, formata da gennaio

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A destra Nicodemo, uno dei personaggi che si incaricarono di staccare Cristo dalla Croce, prima del restauro.

A sinistra Maddalena, inginocchiata davanti a Maria (qui non visibile), prima del restauro.

assi di pioppo, sulla quale stende uno strato di gesso e colla. Su questo strato realizza i disegni preparatori, scoperti grazie alla riflettografia infrarossa – un’indagine eseguita da Thierry Radelet che ci permette di oltrepassare il colore e scoprire disegni e pentimenti sottostanti –, partendo probabilmente dall’alto. Usa un carboncino molto secco e uno piú morbido per dise-

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gnare a mano libera l’intera composizione. Ciò vuol dire che l’idea che aveva in mente o disegnata su fogli di carta purtroppo mai ritrovati viene ingrandita sul supporto. Dal punto di vista tecnico, abbiamo scoperto diversi elementi nuovi: Rosso usa un olio di lino crudo come legante con il quale miscela tutti i preziosissimi e sfolgoranti colori utilizzati per il dipinto; la sua tavolozza, apparentemente semplice, è in realtà piena di colori complementari, che “si odiano”, ma che qui si sovrappongono e si incrociano. Fa ampio uso della lacca di Robbia, del verderame, del giallo orpimento; di quest’ultimo si serve soprattutto per le vesti della pia donna e di san Giovanni. Le analisi chimiche, condotte da Mirella Baldan di R&C Art, hanno anche rivelato l’uso di un sale, l’allume di rocca – probabilmente pro-

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restauri rosso fiorentino il restauro del supporto

Legno di pioppo e viti d’acciaio Le attuali misure del tavolato sono 200 x 340 cm circa, lo spessore è di circa 5 cm. L’opera non ha subito alcun ridimensionamento. In origine il tavolato era stato preparato con cinque assi in legno di pioppo unite a spigolo vivo con colla a freddo a base di caseina e sostenute da quattro traverse a coda di rondine. La scelta delle assi e i tagli eseguiti con dovizia anche nello spessore perché non si imbarcassero, inclusero anche un grande nodo in una delle assi, che col tempo ha provocato una piccola apertura. Nell’intervento di restauro attuale sono state rimosse le traverse di alluminio (non idonee) e i relativi ponticelli di ancoraggio. I cunei di restauro in legno di cirmolo (non idonei) e alcuni inserti a farfalla in legno di noce (non idonei) sono stati sostituiti con cunei e tasselli in legno di pioppo lungo le linee di giunzione delle assi, di modo da ottenere, dove possibile, un corretto allineamento della superficie pittorica. Ciascuna traversa in legno di castagno inserita attualmente è stata vincolata al supporto mediante l’incollaggio di tasselli cilindrici preparati in legno di castagno, recanti una vite in acciaio inox e molle coniche per accompagnare i naturali movimenti del tavolato e per garantire un certo grado di elasticità. Una volta concluso il risanamento è stato eseguito l’intervento di disinfestazione anossica e il successivo trattamento con biocida antitarlo. Roberto Buda veniente da cave circostanti Volterra –, utilizzato per fissare le stoffe che Rosso mette negli impasti dei colori, e della polvere di vetro, che veniva usata soprattutto dai pittori veneziani, ma di cui l’artista toscano si serve per dare maggiore lucentezza ai colori». R ispetto alla composizione che oggi possiamo ammirare, sono emersi pentimenti o modifiche in corso d’opera? «Sí, l’esame del disegno preparatorio a carboncino ha svelato molte sorprese. Si notano alcuni pentimenti in corso d’opera, come le gambe di Gesú Cristo o il braccio del ragazzo che sorregge la scala, ma il piú sorprendente mai rivelato fino a oggi è apparso sul braccio e la mano di Maria ancora presenti e disegnati sulla spalla della Pia donna ma coperti definitivamente dalle pieghe bianche e ocra della veste. In questa fase della composizione del dipinto noi notiamo il braccio della Madonna intorno al collo della Maria di sinistra che con la mano la sorreggeva completamente in aiuto al gesto dell’altra Maria. In tal modo la Madre di Dio risultava svenuta, mentre ora il suo forte dolore la sconvolge, ma senza l’abbandono dei sensi». C’è poi la questione degli «appunti» sui colori...

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«Sí, in varie zone del dipinto abbiamo scoperto parole scritte a mo’ di appunti. Sebbene si conoscessero alcune scritte sotto al colore del nastro sulla testa della Maddalena (“azurra”) o sulla veste della pia donna (“coloso”), usate come promemoria per il pittore stesso, altre parole sono emerse durante la pulitura. In particolare la scritta “biffo” sulla veste del ragazzo che tiene la scala, che si riferisce al colore viola descritto da Cennino Cennini nel suo trattato; e “biffo ciara” sul perizoma di Cristo. Altre sono state riscontrate sul panneggio dell’uomo che si sporge come “azurro” e “giallo”. Rosso Fiorentino si mantiene in parte fedele ai suoi appunti ma su alcuni colori mostra di aver cambiato idea totalmente, sostituendo all’ultimo il suo pensiero iniziale. Le scritte ritrovate risultano a base di un inchiostro ferrogallico usato soprattutto nei disegni su carta». Quali metodologie sono state applicate nel corso dell’intervento sul dipinto? «La pulitura della superficie pittorica ha impiegato solventi e supportanti diversi per consentire un graduale alleggerimento delle vernici di restauro stese in precedenza sulle policromie. In particolare, sulle lacche organiche rosse e verdi ma anche sui manti giallo arancio a base di orpimento l’intervento è stato calibrato e alcuni residui di vernici piú antiche, ma non originali, si sono mantenute; mentre i ritocchi sulle (segue a p. 36) Nella pagina accanto e in questa pagina, in alto il supporto ligneo della Deposizione prima e dopo il restauro, che ha comportato, fra l’altro, la rimozione delle traverse in alluminio, rivelatesi non idonee. A sinistra, sulle due pagine il disegno preparatorio di Giuseppe d’Arimatea rivelato dalla riflettografia.

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restauri rosso fiorentino La Pinacoteca Civica di Volterra

Gli illustri «coinquilini» della Deposizione La Pinacoteca di Volterra è una delle istituzioni culturali piú antiche della città toscana: costituita nel 1869 e allestita in alcune sale del Palazzo dei Priori, fu poi riorganizzata nel 1905 con un progetto di Corrado Ricci che vi aggiunse numerose opere d’arte di proprietà di vari enti pubblici ed ecclesiastici, con un accordo fra i proprietari e il Comune di Volterra, creando cosí un museo di nuova concezione, totalmente legato alla città. Nel 1982 fu trasferita nel Palazzo Minucci Solaini, uno degli edifici rinascimentali meglio conservati di Volterra, costruito alla fine del Quattrocento, probabilmente da Antonio da Sangallo il Vecchio. L’edificio è costituito da due piani le cui stanze ruotano intorno a un elegante chiostro centrale, circondato da un porticato al piano terreno e da un’altana al secondo piano. Dal chiostro si

Madonna col Bambino fra santi, tempera su tavola di Luca Signorelli. 1491. In basso Madonna in trono col Bambino fra santi, tempera su tavola di Cenni di Francesco di Ser Cenni (notizie dal 1369 al 1415).

accede al giardino dove sono visibili le duecentesche case torri Minucci, la prima residenza della famiglia proprietaria del palazzo. Fra il 1983 e il 1985 si aggiunsero i materiali medievali del Museo Guarnacci e altre collezioni rinascimentali e moderne fino ad allora conservate in depositi di enti e chiese. L’esposizione è costituita soprattutto da tavole lignee che coprono un periodo che va dal Medioevo al Cinquecento, affiancate da sculture, monete, ceramiche, medaglie e altri oggetti che illustrano l’arte e la cultura di Volterra fino al secolo scorso. Fra le opere di rilievo conservate in questo museo possiamo elencare il grande Polittico, opera di Taddeo di Bartolo nel 1411, che è interamente conservato sia nella

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A sinistra Adorazione dei pastori, olio su tavola di Pieter de Witte. 1580-1585. Qui sotto, a destra Annunciazione, tecnica mista su tavola di Luca Signorelli.

A destra Croce dipinta, tempera su tavola di un anonimo maestro toscano (forse identificabile con il Maestro della Bibbia di Baltimora). XIII sec.

pittura che nella decorazione lignea. A esso è possibile affiancare la Pietà di Francesco Neri da Volterra (1360 circa) e varie opere rinascimentali che precedono la grande tavola rappresentante Cristo in gloria tra santi, opera di Domenico Bigordi, detto Il Ghirlandaio, dipinta nel 1492 per la badia di S. Giusto. Notevoli sono anche le due pale di Luca Signorelli da Cortona: la Madonna col Bambino e l’Annunciazione, entrambe dipinte

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nel 1491. Fanno parte della raccolta anche le due opere dell’artista fiammingo Pieter de Witte: il Compianto e l’Adorazione dei pastori, dipinte fra il 1580 e il 1585, l’affresco staccato della Giustizia di Daniele Ricciarelli, della metà del Cinquecento, la Natività della Vergine di Donato Mascagni, dipinta nel 1599 e varie opere di Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano, fra cui spicca la grande tela della Madonna in trono. Il quadro piú significativo della collezione è la Deposizione dalla Croce di Giovan Battista di Jacopo detto il Rosso Fiorentino, dipinto per la Cappella della Croce di Giorno della chiesa di S. Francesco nel 1521, uno dei capolavori dell’arte italiana. (red.)

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In alto e a sinistra scritte con l’indicazione dei colori da impiegare scoperte durante il restauro: «biffo ciara» (in alto) e «biffo». In basso la firma apposta sul quadro da Rosso Fiorentino (Rubeus Flo) seguita dalla data 1521.

lacune e sulle spaccature sono stati rimossi puntualmente con l’uso del microscopio ottico. Sul cielo, la rimozione delle verniciature alterate ha consentito il recupero del colore celeste, a base di azzurrite e biacca, ancora pienamente apprezzabile, evidenziando però la presenza di macchie diffuse simili all’effetto di schizzi, probabilmente attribuibili a vecchi fissativi alterati e inglobati nello strato pittorico in maniera tale da rendere preferibile il loro mantenimento per non rischiare di intaccare il colore originale. La rimozione delle stuccature di restauro presenti sulle mancanze e dentro i fori dei tarli è stata eseguita principalmente con mezzi meccanici e in parte con solvent gel sulle fenditure, compatibilmente con la conservazione dell’originale. Si è scelto invece di mantenere le stuccature di colore grigio apposte in precedenti restauri per evitare l’indebolimento del colore circostante la lacuna. I successivi fissaggi a base di resina acrilica sono stati eseguiti in prossimità delle spaccature, al cui interno erano presenti riempimenti con colla e segatura di

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Il vertice della pala, con Giuseppe d’Arimatea che guida le operazioni di distacco del corpo di Cristo dalla croce, dopo il restauro.

legno rimossi totalmente durante l’operazione di allineamento delle assi dove possibile. Gran parte della superficie e dei fori di tarlo sono stati liberati e ripuliti con benzina rettificata, poi stuccati nuovamente con stucco sintetico. Le stuccature finali, eseguite a gesso e colla, sono state trattate in superficie in modo da imitare il ductus delle pennellate in rilievo ed è stata eseguita una brunitura con pietra d’agata limitatamente alle lacune piú ampie. La reintegrazione pittorica è stata eseguita con acquarelli a base di pigmenti stabili e gomma arabica col metodo “a tratteggio” sulle lacune interpretabili già colmate in precedenza a tratti grossolani ma seguendo la medesima tecnica, e su alcune abrasioni con abbassamento di tono. Molte micro-lacune e fori di tarlo sono stati ritoccati con tempere coprenti stabili a base di gomma arabica. La verniciatura finale a pennello è stata condotta con pennellesse ovali di pelo semisintetico e vernice sintetica a elevata stabilità. La reintegrazione finale dopo la verniciatura è stata condotta con pigmenti in polvere

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Dove e quando Pinacoteca Civica Volterra, Palazzo Minucci Solaini, via dei Sarti 1 Orario invernale: fino alla seconda domenica di marzo, tutti i giorni, 10,00-16,30; estivo, dal secondo lunedí di marzo alla prima domenica di novembre, tutti i giorni, 9,00-19,00 Info tel: 0588 87580; e-mail: prenotazionemusei@ comune.volterra.pi.it; www.comune.volterra.pi.it naturali e sintetici stabili previa ulteriore macinatura manuale con l’ausilio della medesima vernice e con White Spirit. La verniciatura finale è stata eseguita con la medesima vernice per nebulizzazione». Il restauro della Deposizione dalla Croce di Rosso Fiorentino è stato reso possibile grazie al sostegno di Friends of Florence attraverso il dono di John e Kathe Dyson e della Alexander Bodini Foundation.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/12

Si fa presto a dire buffone

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Già il poeta latino Orazio aveva sostenuto che la verità poteva essere detta ridendo e, da allora, quel concetto è stato variamente declinato. Una tradizione nella quale si possono ben inserire Franco Sacchetti e le sue novelle, i cui intenti moraleggianti sono, a piú riprese, dispensati attraverso le gesta di personaggi scanzonati però buoni, inventori di burle perfide fino alla spietatezza, ma anche raccontando le imprese di personaggi considerati, soltanto, «quasi giullari»...

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a categoria sociale che gode di maggior libertà di pensiero e di azione nel Trecentonovelle è quella dei buffoni. Una libertà che si manifesta esonerando i giullari dagli obblighi sociali, come il lavoro, e dalle formalità ossequiose verso il potere, rappresentato dai signori e dal clero. Come scrive lo studioso Valerio Marucci: «Il mondo dei giullari e dei loro assimilati è quello dell’ingegno pronto e vivace, dell’astuzia vincente, della beffa efficace, dell’affermazione libera di sé fosse pure

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per ottenere a tutti i costi il dono desiderato, la veste, il cavallo, oppure semplicemente per divertire e stupire gli astanti». Eppure su queste considerazioni, che nascono dall’origine stessa dell’opera, basata sul divertissement, Franco Sacchetti innesta sempre la sua valutazione morale, che riguarda il senso della misura e il giudizio di valore sulle azioni dei suoi giullari. Lo scrittore fiorentino distingue perciò tre categorie di buffoni: esempi umani positivi, come Dolcibene dei Tori, totalmente

Miniatura raffigurante un giullare che indossa il tipico copricapo a piú punte e porta la sua marotte (lo «scettro» tipico di questi personaggi) in una mano e un falco nell’altra, dalla Bible Historiale. Inizi del XV sec. Londra, The British Library. Nella pagina accanto Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore. Un suonatore di doppio flauto vestito con gli abiti tipici del giullare, particolare dell’Investitura di San Martino di Tours, scena del ciclo affrescato nel 1313-1318 da Simone Martini nella cappella intitolata al santo. gennaio

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il trecentonovelle di franco sacchetti/12

negativi, come Pietro Gonnella, e i «quasi giullari», che insegnano «il ben vivere». Nella novella X, Dolcibene, incoronato scherzosamente dall’imperatore Carlo IV di Boemia «re dei buffoni», si reca con messer Galeotto e messer Unghero in pellegrinaggio al Santo Sepolcro. I due compagni vanno identificati con

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Galeotto Malatesta, signore di Rimini dal 1302 al 1385, e con suo nipote Malatesta Malatesta, chiamato Unghero perché nominato cavaliere da re Luigi d’Ungheria.

Nella valle del giudizio

Il pellegrinaggio si svolge nel 1349, forse per adempiere a un voto fatto al Signore affinché ponesse fine

all’epidemia di peste del 1348 che aveva sterminato un terzo della popolazione mondiale. Giunti nella valle di Giosafat, Galeotto esclama: «O Dolcibene, in questa valle dobbiamo tutti venire al dioiudicio [giudizio divino] a ricevere l’ultima sentenza». Il giullare si guarda intorno: «O come potrà tutta l’umana generazione stare in sí picgennaio

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A sinistra, sulle due pagine un giullare e una giullaressa, in un’incisione di Hans Sebald Beham. 1520-1550. Chicago, Art Institute. In basso allegoria della Stoltezza, affresco eseguito da Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova. 1303-1305. L’artista fa impersonare il vizio a un personaggio maschile, vestito in abiti da giullare.

cola valle?». Galeotto gli risponde: «Serà per potenza divina». Il giullare smonta da cavallo, «corre nel mezzo d’un campo della detta valle e, calati giuso i panni di gamba [le brache], lasciò andare il mestiere del corpo [le necessità fisiologiche] dicendo: “Io voglio pigliare il luogo [prenotare il posto], acciò che quando sarà quel tempo, io truovi e ’l segno e

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il trecentonovelle di franco sacchetti/12

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Il buffone di corte ferrarese Gonnella nel ritratto dipinto su tavola da Jean Fouquet. 1445 circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie. Nella pagina accanto un giullare al servizio del diavolo e un uomo virtuoso, xilografia realizzata da Hans Schäufelein per un’edizione dell’opera Hymmelwagen auff dem, wer wol lebt... di Hans von Leonrodt. 1517. New York, The Metropolitan Museum of Art.


non affoghi nella calca”». Galeotto e Unghero si mettono a ridere, gli chiedono spiegazioni: «Signori, io ve l’ho detto e’ non si può essere savio, se l’uomo non s’argomenta [si ingegna] per lo tempo che dee venire». Galeotto sta allo scherzo: «O Dolcibene, lasciavi la parte del nibbio [specie di uccello predatore], che sarà maggiore segnale». Il nobile si riferisce alla teoria che questi rapaci divorassero per prima cosa le budella nei cadaveri di cui si cibavano. Il buffone ribatte: «Signore, se io ci lasciassi il segnale che voi mi dite, e’ non sarebbe buono per due cagioni: la prima ch’e’ ne serebbe portato da’ nibbi [le budella sarebbero portate via dai nibbi] e ’luogo rimarrebbe senza segno; e l’altra, che voi perdereste la mia compagnia». I cavalieri ribattono: «Per certo, Dolcibene, tu

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sai bene dire gli argomenti a ogni cosa; sali a cavallo, ché per certo tu vi hai ben provveduto».

Il senso della misura

Di buon umore, i tre compagni riprendono il loro viaggio spirituale. Sacchetti trae una morale da questo episodio: «O questi son li trastulli de’ buffoni e diletti che hanno li signori! Per altro non sono detti buffoni, se non che sempre dicono buffe [battute]; e detti giucolari [giullari], ché continuo giuocono con nuovi giuochi. E’ non fu però questo messer Dolcibene sí scelerato che non componesse in questa andata del Sepolcro in versi vulgari una orazione alla nostra Donna [Madonna] che gli facesse grazia, raccontando tutti i luoghi santi che oltre mare avea visitato». In questo modo Sacchetti mette in luce il senso della misu-

ra di Dolcibene, che sa quando è il momento di scherzare – anche sulla religione –, ma è in grado anche di essere serio, tanto da scrivere un’orazione alla madre di Dio. In un’altra novella (XXXIII) il buffone fiorentino probabilmente l’ha fatta grossa, perché riceve la scomunica da un certo vescovo Marino mentre si trova in Romagna, nelle terre dei suoi benefattori Malatesta: «E di ciò avendone piú di que’ signori gran diletto, questo vescovo, non volendolo ricomunicare, il tenea accannato [teso come un cane che punta, estremamente desideroso], ed elli avea bisogno di ritornare a Firenze, e cercava la ricomunica». Uno dei Malatesta riesce a ottenere la revoca della censura ecclesiastica, dicendo però al vescovo di dare anche un po’ di botte al suo giullare per scherzo. La mattina seguente, Dolcibene si reca dal prelato per ottenere il beneficio e «ponendosi inginocchione, e ’l vescovo, che avea un buono camato [bastone] in mano, fatta che gli ebbe la confessione» lo prende a bastonate mentre lo assolve. Dolcibene si difende, prende il sacerdote a pugni, poi scappa dal Malatesta per sfuggire alla sua ira. Il signore «diede a intendere al vescovo che gli avea fatto dare tanta colla che forse mai non serebbe sano delle braccia; e feceli mettere uno sciugatoio al collo, e alenzare [bloccare con bende] il braccio; e ’l vescovo per questo parea tutto aumiliato [soddisfatto]». La colla è una tortura medievale che consisteva nella sospensione da terra per le braccia, tirate dietro la schiena in modo violento. Otto giorni dopo, prima di partire per Firenze, Dolcibene si reca in chiesa con il suo signore prima della messa celebrata dal vescovo e gli dice: «Né mica disse istamane cotestui il paternostro di san Iuliano». Si tratta di un’espressione maliziosa diffusa nel Medioevo, soprattutto fra i viaggiatori, che significava trovare generosa ospitalità femminile,

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il trecentonovelle di franco sacchetti/12 Riproduzione dell’allegoria del mese di Aprile, dal Breviarium secundum consuetudinem Romanae curiae (XVI sec.). Un corteo nuziale si snoda in un parco, due damigelle giocano con un cagnolino sedute nell’erba vicino allo specchio d’acqua e un giullare allieta la compagnia. Eliotipia del 1910 circa.

(CLIII), si finge medico per curare una fanciulla gravemente infortunata (CLVI), si vendica di chi a cena lo inganna spacciando un coniglio per una gatta e gli dà da mangiare dei topi (CLXXXVII).

Medico improvvisato

perché san Giuliano l’Ospitaliere era il protettore dei viandanti. Il vescovo «sentendo questo Diavolo ivi e udendo il motto, avendo il calice nelle mani, gli venne sí fatte risa [da ridere] che fu presso che ’l calice non gli cadde di mano. E detta la messa, che già messer Dolcibene s’era partito col signore, gli perdonò quella medesima mattina, e fu poi sí grande suo amico che appena il vescovo sapea vivere sanza lui. E ’l signore vidde andare questo fatto come egli avea voglia, e rimase contento». Sacchetti conclude che, tutto sommato, Dolcibene aveva fatto bene a picchiare il vescovo, perché

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«non si dee ancora, né da beffa, né da dovero aspreggiare [malmenare] uno peccatore, quando viene a contrizione, però che [poiché] nelle cose sacre non si vuole scherzare; ché, per menare la bacchetta oltre al debito modo, n’acquistò uno bene gli sta [un giusto castigo]». Dopo aver scherzato sul giudizio universale e aver picchiato il vescovo, Dolcibene beffa gli Ebrei a Gerusalemme, (XXIV), castra un prete lussurioso (XXV), lascia Padova contro il volere del suo signore (CXVII), rimprovera l’avarizia di un cavaliere (CXLV), vince una lite giudiziaria con un’astuzia

In queste novelle, il buffone si fa carico di ricordare i valori propugnati da Sacchetti per una società migliore: un mondo religioso scevro dall’ipocrisia, un potere legislativo con magistrati all’altezza del loro compito, la necessità delle beffe, anche pesanti, se provocate da un comportamento scorretto del beffato. Tuttavia, il riconoscimento dell’altezza morale di Dolcibene si manifesta in tutta la sua forza nella novella CLVI. Il giullare si trova a Ferrara e deve recarsi alla corte di Carlo IV, ma le locande sono tutte occupate dalla corte imperiale, finché giunge in una casa di campagna, dove una giovane fanciulla si è appena rotta un polso cadendo da un albero. Per ottenere buona ospitalità, Dolcibene finge di essere un medico e inventa una cura: mette due piatti attorno al braccio della ragazza, ci si siede sopra con impeto e il braccio si sistema. Grazie a questo successo, l’improvvisato ortopedico guadagna le lodi e un ottimo trattamento da parte della famiglia; quando racconta l’accaduto all’imperatore, merita la sua stima e ricchi doni. Il buffone ha usato i ferri del mestiere: il fingersi qualcun altro, l’iniziativa geniale, il coraggio di rischiare per fare una buona azione e da tutto questo ne ha tratto il giusto beneficio. gennaio

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Il suo comportamento, basato sul senso della misura e della morale, è molto diverso da quello del suo collega Pietro Gonnella. Il giullare sta tornando a Firenze e si ferma per pranzo a Scaricalasino, nei pressi di Monghidoro, sull’Appennino emiliano (CLXXIII), qui: «Ebbe veduto per la sala e in terreno certi contadini gozzuti; di che come vide il fatto, subito informò in camera uno suo famiglio [servitore] e fecesi trovare una roba [vestito] da medico che nella valigia avea e miselasi in dosso». All’ epoca i medici erano riconoscibili per una veste scarlatta e per portare dei cappelli di vaio, la pelliccia di una varietà di scoiattolo grigio dalla pancia bianca. Il buffone si reca nella sala da pranzo mentre il suo servitore si avvicina a un contadino gozzuto e gli rivela che il suo padrone è un valente medico capace di curare i gozzi. Si trattava di una malattia frequente soprattutto nelle Prealpi e sugli Appennini, dovuta a una carenza di iodio che portava al cretinismo. Il contadino si dimostra interessato: «Doh, fratel mio, e’ n’ha in questa montagna assai; io ti prego che sappi, quand’egli ha mangiato, se ne volessi curare parecchi che secondo uomeni d’alpe [relativamente alla loro condizione di montanari] sono assai asgiati [disagiati]». Dopo pranzo, Gonnella chiama a sé l’uomo: «Questo mio famiglio mi dice sí e sí ; se tu vuogli guarire, io non mi impaccerei per uno solo, però che [perché] mi serà un grande sconcio [fastidio] di tornare a Bologna e recare molte cose. Ma fa’ cosí: se ti dà cuore d’accozzarne [se puoi raccoglierne] otto o dieci, va’ subito e menali qui, e togli uomeni che possano spendere fiorini quattro o

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Il Matto, carta del mazzo dei tarocchi Visconti-Sforza o Colleoni. Seconda metà del XV sec. Bergamo, Pinacoteca dell’Accademia di Carrara.

re, tutti i malati sono d’accordo; nell’attesa del suo ritorno, Gonnella dà loro il compito di riunirsi in una casa tutti insieme: «Trovate per ciascuno una conca, o calderone di rame, o altro vaso di terra, e trovate de’ carboni del cerro [prodotti dal legno di quercia, facilmente recuperabile in quel territorio] e legne di castagno, e abbiate uno doccione [tubo] di canna per ciascuno e ciascuno per quello soffi ne’ carboni e nel fuoco; questo soffiare, con alcuna unzione che vi farò nel gozzo, assottiglierà molto la materia del vostro difetto; e ’l fante mio non si partirà da questo albergo infin ch’io torno».

Un’«ottima» idea...

cinque per uno». Il contadino recupera piú di otto malati di gozzo e li porta dal falso medico: «E m’incresce che io non sono in luogo piú abile [fornito] alle cose che bisognano; poiché cosí è, io tornerò a Bologna, e bisognerà due fiorini per uno di voi; e tanto che io torni, ordinerò ciò che avete a fare e lascerocci il fante mio». Mossi dalla speranza di guari-

Dopo aver unto i gozzi dei contadini, Gonnella li lascia nella casa con i tubi in bocca, raccomandandosi di respirare il fumo, e si reca a Bologna dal giovane podestà: «Io credo che per avere onore voi fareste ogni spendio [spesa]; e pertanto mi volete dare fiorini cinquanta, che sono povero uomo, io ho a le mani cosa che vi darà il maggior onore che voi aveste mai». Il podestà era un nobile forestiero esperto in diritto che amministrava la giustizia per un anno nelle città per assicurare l’imparzialità delle sue decisioni. Il giovane rettore è entusiasta dell’idea, Gonnella gli espone il progetto: «In una casa sono una brigata che fanno moneta falsa. Date buona compagnia al vostro cavaliero [date dei buoni soldati al vostro comandante delle milizie] e io il metterò sul fatto. Sí veramente che, perché sono uomini di buone famiglie, non vorrei loro nimistà [desiderio di vendetta]; quando io avrò messo il vostro cavaliero sul fatto, io mi voglio andare a mio camino». Il podestà pensa che la soffiata

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il trecentonovelle di franco sacchetti/12 sia un’ottima occasione per mettersi in mostra, dà i cinquanta fiorini a Gonnella e manda la squadra di soldati in paese, dove il cameriere del buffone li sta aspettando per indicare loro la casa dei presunti falsari. Il cavaliere e la compagnia di militari fanno irruzione nella casa e «trovorono la brigata tutta soffiare sanza mantachi [mantici] nel fuoco. Piglia qua, piglia là; costoro furono tutti presi (...) E se voleano dire alcuna cosa, non erano uditi: e’ gozzi loro erano divenuti due tanti, come spesso incontra a simili, quando hanno paura con impeto d’ira». Un uomo con il doppio gozzo compare, per esempio, in un affresco della Crocifissione risalente al 1512 e attribuito al Bergognone, presso la Fondazione Scola di Brugora (Monza e Brianza). Davanti al podestà e al cavaliere, i contadini si giustificano dicendo che stavano applicando le disposizioni del medico per curare i loro gozzi, in attesa del suo ritorno da Bologna con altri medicinali. Il cavaliere tira da parte il podestà e gli rivela: «Ello dee essere vero, però che, come io giunsi alla porta là dove erano e bussando, dicendo che aprissono, e’ diceano: “Sete voi il maestro?”. E poi voi vedete che costoro son tutti co’ gozzi; la cosa rinverga [corrisponde] assai ché, a fare moneta falsa, otto serebbe impossibile fossero tutti gozzuti. Ma sapete che vi voglio dire? Questo medego dee essere assottigliatore piú di borse che di gozzi; e cosí egli ha assottigliato la borsa di questi poveri uomeni, e anco la vostra; a buon fine il faceste; da’ tradimenti non si poté guardar Cristo; rimandate costoro alle loro famiglie, e pensate di sapere chi è questo mal uomo che ha beffato e loro e voi; e se mai potete gli date o fate dare di quello che merita». I contadini tornano a casa, aspettano invano il ritorno di Gonnella «poi se ne diedero pace; ma non si avisorono [accorsero] mai, come gente alpigiana e grossa [semplice], come il fatto fosse andato; e avisaronsi che qualche malevolo, perché non

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Crocifissione, affresco attribuito alla scuola del Bergognone. 1512. Brugora, Fondazione Scola. Il personaggio a destra della croce presenta un doppio gozzo. Nella pagina accanto Giullare che culla la sua marotte, olio su tavola di autore sconosciuto, da un originale di Hendrick Goltzius. XVII sec. Collezione privata.

guerissono de’ gozzi, avesse condotto là quella famiglia [guarnigione militare]; e pensando or una cosa e or un’altra, se prima erano grossi, diventorono poi grossissimi e stupefatti. E ancora per maggior novità parve ch’e’ gozzi loro, non che altro, ne ingrossarono». Sacchetti conclude con amaro realismo: «Chi nasce smemorato [sciocco] e gozzuto non ne guarisce mai».

Un tiro mancino

Lo scorretto Gonnella si prende gioco anche degli innocenti fanciulli (CCXX). Capitando in Puglia e «avendo bisogno per uno carnasciale [il carnevale] d’uno paio di capponi, pensando come gli potesse avere sanza costo, come era uso, assai bene adobbato per avere il credito andò in polleria; e convenutosi [accordatosi] d’un paio di capponi per soldi quarantacinque, disse al pollinaro mandasse un suo fantino co’ capponi insino al banco [il magazzino mercantile che nel Medioevo svolgeva attività bancaria] e darebbegli i denari». Il garzone segue Gonnella che prima lascia i polli da un amico, poi lo accompagna in banca per ritirare il denaro, ma qui «’l fanciullo aspettava di drieto a lui che si volgesse con li denari; e stato per ispazio di presso a un’ora, non

volgendosi il Gonnella o né facendo sembianti di darli e’ denari, il garzone tirò il Gonnella per lo mantello. Come il Gonnella si sente tirare, subito si trae della scarsella [borsa appesa alla cintura] una gran sanna di porco [zanna di cinghiale] e mettesela alla bocca; e ciò fatto s’arovescia le ciglia degli occhi che pareano di fuoco, e con questi facendo un fiero viso, si volse al garzoncello dicendo: “Che vuo’ tu?”». Alla vista di un viso diabolico e tanto orribile, il bambino si spaventa, non riconosce il suo debitore: «Voi non siete esso, io non dico a voi!». Poi si guarda intorno, ma non vede il giullare, torna dal pollivendolo senza denaro e tenta di dare spiegazioni: «Io andai con lui alla tavola [banca] e aspettai un buon pezzo; e nella fine tirandolo per lo mantello e’ si volse che parea un diavolo con gli occhi rossi e con le sanne [zanne] grandissime; io dissi: “Voi non sete esso” e guardai di quello che ebbe e’ capponi: mai non lo potei rivedere». Il pollivendolo è furente: picchia il fanciullo, lo rimprovera, cerca di rintracciare inutilmente il truffatore che nel frattempo aveva cambiato abbigliamento e cosí «il fanciullo (...) ebbe cattivo carnesciale, avendo di molte busse e dell’erbe, se gennaio

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il trecentonovelle di franco sacchetti/12 Capolettera miniato con l’immagine di un giullare. Scuola lombarda, XV sec. Parigi, Musée Marmottan Monet.

ne seppe mangiare». Sacchetti sottolinea amaramente: «in questa vita non si può stare troppo avisato [guardingo] però che [poiché] d’ogni parte sono tesi gli inganni e tradimenti per fare de l’altrui il suo». Ma l’autore non si limita solo a prendere le distanze dalle truffe del perfido buffone: nella novella CLXXIV racconta come viene punito in modo esemplare. A Firenze Gonnella cerca di estorcere denaro alle banche: vanta crediti inesistenti, facendo leva sulla difesa della solvibilità da parte dei banchieri. Essi avevano appena superato un periodo di crisi, a causa della dispendiosa guerra degli Otto Santi tra lo Stato Pontificio e Firenze, combattuta tra il 1375 e il 1378. Dopo una truffa andata a buon fine, Gonnella si trova di fronte un competitore piú furbo di lui, che si accorge dell’inganno e «il paga di molte pugna [bastonate]» assoldando due «barattieri», persone del popolo dedite ai mestieri piú umili e occa-

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sionali. Questa volta il commento morale di Sacchetti è all’inizio e alla fine del racconto per insistere con maggior forza sul bisogno di vedere punito il truffatore, se non sempre, almeno qualche volta. In questo caso, il buffone è un esempio di come la libertà di pensare e l’agire in modo sconsiderato possa causare danno agli altri.

Carmignano, brutto come nessun altro

In maniera ancora piú evidente rispetto ai personaggi simbolici di Dolcimbene e Gonnella, riscontriamo il tema del corretto uso della libertà di azione e di pensiero nei «quasi giullari». Carmignano de Fortune (CLXV) è un fiorentino «di stratta [bizzarra] condizione, però che [poiché] quasi visse non come uomo moderato [normale], non come uomo di corte, ma vestito in gonnella bisgia, sanza mantello, col cappuccio a gote, cinto larghissimo [con un vestito non aderente, largo in vita], brutto piú che altro uomo, che sempre e ’l naso

e gli occhi gli colava», eppure capace di considerazioni «di filosofo». Un giorno Carmignano passando «al Frascato [osteria presso Mercato Vecchio], trovò a un giuoco di tavole [gioco medievale simile agli scacchi] esser grandissima contesa. L’uno che giucava era possente uomo di famiglia [membro di una famiglia prestigiosa e potente], l’altro era un omicciuolo di piccol affare. D’intorno era assai gente, e niuno volea dire chi avesse la ragione o il torto». Pur non avendo assistito alla partita, Carmignano prende la parola, dice di sapere chi ha vinto; l’uomo potente gli chiede a chi spetta la vittoria: «E io il dirò, e dico che tu hai il torto, però che, se tu avessi la ragione, questi che son qui te l’arebbon data come la questione mosse, e arebbonlo detto; ma perché non l’hai, nessuno di costoro per la tua maggioranza [per timore della tua presenza] non l’hanno osata dire; e però [per questo] costui che giuoca teco ha ragione». Sacchetti conclude: «Questa novella mi fa ricordare quanto il mondo corre oggi in questo errore, e ben lo sa il men possente, quando ha questione col possente: ché (...) non si truova chi per lui apra la bocca o chi giudicare voglia contr’al piú possente (...) E non si vede egli nella iustizia che tutti i poveri uomeni e tapini sono gli essecutori di quella [sono quelli per i quali la giustizia ha immediata esecuzione], ma i possenti non la vogliono per loro?». I «quasi giullari» come Carmignano sono portatori delle regole di come vivere bene, attraverso sentenze che rimangono scolpite nella memoria: per Franco Sacchetti anche agli uomini comuni è concessa l’istrionica comicità quando corregge un comportamento negativo perché la beffa è anche in grado di educare.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Gli ultimi gennaio

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Finché il giudice non vi separi di Anna Esposito

Già nel Medioevo il legame tra un uomo e una donna poteva non essere indissolubile e lo studio dei documenti d’archivio permette di rintracciare gli embrioni della moderna legislazione oggi esistente in materia. Si tratta, tuttavia, di norme meno «eque» delle attuali, soprattutto perché della mancata riuscita di un matrimonio veniva considerata quasi sempre responsabile unica la partner

I I

I 13 giugno 1531 Pasquina da Parma, residente a Roma insieme con il marito, Simone di Ilario tessitore, anch’egli parmigiano, sottoscriveva di fronte al notaio un documento che potremmo definire di «separazione consensuale». Pasquina e Simone, infatti, dopo contrasti molto violenti, finiti spesso con percosse e insulti alla donna – che lamentava anche di essere stata lasciata un’intera notte fuori casa –, stabilivano di vivere «separati sia per quanto riguardava il letto sia l’abitazione, ognuno a proprie spese finché da loro non fosse stato deciso altrimenti»; dopo questi accordi e la promessa di Simone di non offendere piú la donna, l’uno dava all’altro licenza di vivere per proprio conto. Questo documento, una vera e propria separazione consensuale, induce a fare qualche riflessione sui rapporti tra coniugi per quel che riguarda i problemi di convivenza coniugale, dai conflitti di varia natura che potevano verificarsi nel corso dell’esistenza di una coppia alla separazione di fatto e di diritto, rapporti che è possibile verificare da un ampio ventaglio di fonti, dai registri processuali, alle rubriche statutarie, agli atti dei notai, solo per citare le piú importanti.

Una pratica diffusa

Sono le carte notarili quelle in cui in primo luogo possono essere rintracciate situazioni familiari irregolari, come il concubinato, diffuso sia tra i laici celibi e coniugati sia tra gli ecclesiastici; la piú o meno saltuaria relazione sessuale con domestiche e serve, con l’appendice di figli bastardi, riconosciuti e no; le relazioni extraconiugali occasionali, certamente piú frequenti di

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Miracolo del marito geloso (particolare), affresco di Tiziano Vecellio appartenente al ciclo dei Miracoli di sant’Antonio da Padova nella Sala Priorale della Scuola del Santo, a Padova. 1511. Vestito di un abito a scacchi bianchi e rossi (i colori della città di Padova), il marito, accecato dall’idea di essere stato tradito dalla moglie, brandisce il pugnale con il quale già ha colpito la donna. In secondo piano, molto in piccolo (e qui non illustrato), è rappresentato il miracolo: l’uomo, in ginocchio davanti a sant’Antonio, si è pentito della propria violenza, mentre la vittima torna sana per intercessione del santo.

quanto non dimostrino i documenti, con buona pace dei principi monogamici della Chiesa cattolica. Particolarmente interessante a questo proposito è un documento che potremo definire un «contratto di convivenza» tra un mercante e una serva-concubina, figura quest’ultima abbastanza comune per tutto il Medioevo. L’8 dicembre 1287 nella città corsa di Bonifacio, allora sotto il dominio genovese, davanti a un notaio veniva redatto un contratto tra Joaneta Oliveti, cittadina del luogo, e il mercante veneto Marco Bentrame, che si trovava nel porto con la sua nave. Il contratto – che nel formulario, a eccezione della parte relativa alla disponibilità sessuale della donna, non si discosta da quelli comuni all’epoca nell’ambito del servizio domestico – prevedeva che Joaneta rimanesse per i sei anni successivi con Marco come serva e amante seguendolo ovunque egli andasse. La donna si impegnava a conservare e custodire il padrone e i suoi beni «senza inganno», l’uomo di darle «vitto e vestito conveniente». Alla fine dei sei anni, se uno dei due avesgennaio

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costume e società Sulle due pagine miniature tratte dal Codex Schürstab, un manoscritto su pergamena che illustra gli effetti degli astri sul comportamento dell’essere umano. 1472. Zurigo, Zentralbibliothek. Qui, in particolare, sono riprodotte tre delle vignette scelte per illustrare la teoria degli umori: al carattere flemmatico (a sinistra) è associata l’immagine di una donna che fila al capezzale del marito; i collerici (in basso) sono impersonati dal marito che picchia la moglie; le tenere effusioni che una coppia si scambia (nella pagina accanto) sono invece l’emblema dell’umore malinconico.

se voluto interrompere il rapporto, la donna avrebbe ricevuto 10 lire genovesi. Anche l’accordo stretto a Roma il 24 luglio 1489 tra Margherita del fu Giovanni Dolcini da Milano e Angelo del fu Andrea da Parma, di mestiere salsicciaio, potrebbe essere definito un contratto di convivenza, nel quale però non è fatto cenno all’apporto lavorativo della donna. Di fronte al notaio e a tre testimoni, tra cui un prete, i due dichiaravano di voler insieme «vivere et abitare et stare». La donna cedeva all’uomo i suoi beni mobili, valutati in 19 ducati d’oro, e lui li accettava, promettendo di conservarli e mantenerli in buono stato. L’accordo prevedeva anche la possibilità di una separazione, sia per morte sia «per allontanamento l’uno dall’altro o di comune volontà o in qualunque altro modo». In ogni caso Angelo si impegnava a restituire a Margherita o ai suoi eredi i 19 ducati. I testamenti sono una fonte privilegiata anche per questo tipo di notizie, che vanno dalla menzione di concubine come beneficiarie di lasciti (a volte si apprende

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che l’uomo ha sposato la donna prima di morire) alle disposizioni per il mantenimento dei bastardi – maschi e femmine, nati o nascituri –, o per un legato loro riservato, pur escludendoli dall’eredità del patrimonio familiare. È il caso, per esempio, del ferrarese Giovanni Bianco, connestabile nel palazzo del Campidoglio, il quale assegnava – nel suo testamento del 1492 – a Caterina ungherese, «sua femmina in casa sua», biancheria e masserizie valutati in 50 ducati d’oro come dote dichiarando di farlo per riverenza a Dio e per esonero della sua coscienza e per i molti, graditi servizi che Caterina gli aveva elargito negli otto anni della loro convivenza, in cui si era dimostrata verso di lui «graziosa e liberale». Il problema delle relazioni extraconiugali – soprattutto quelle concubinarie che si mostravano alternative alla vita matrimoniale, mettendo in grave pericolo l’integrità del nucleo familiare – era ben presente ai legislatori medievali, che negli statuti cittadini, soprattutto a partire dalla metà del Trecento, non mancano di condannare questa pratica, che doveva essere piú frequente di quanto la documentazione pervenuta non riveli apertamente e che fino ad allora, per quanto riguardava le persone non sposate, erano stati abbastanza tolleranti. Cosí, per esempio, nello statuto del 1342 di Perugia si puniva sia il «marito retenente la bagascia» sia «la femena retenente el marito altruie», mentre di solito è piú frequente il riferimento esclusivo all’uomo a indicare quasi una propensione maschile per questo reato.

Naturalmente, non è solo il concubinato a preoccupare i legislatori cittadini in materia di vita familiare. Molta attenzione è rivolta anche all’adulterio e, in genere, ai rapporti sessuali fuori dal matrimonio, dove si riscontra un atteggiamento diverso a seconda del sesso del reo: molto piú severo se a commetterlo è una donna, piú permissivo se l’adultero è un uomo. Infatti, quasi ovunque la donna coniugata di cui fosse stato provato l’adulterio perdeva l’intera dote, a vantaggio del marito o dei figli, in linea con il dettato del diritto comune; in piú, soprattutto dalla metà del Trecento,

Multe e frustate

Esemplare è il caso di Ascoli Piceno, dove, nella rubrica statutaria dal titolo «che nesciuno che ha mogliera tenga la concubina», si punisce, peraltro con una semplice pena pecuniaria, soltanto l’uomo sposato concubinario, escludendo quindi il celibe, mentre per «la detta concubina» che perseverasse a vivere «ne lo dicto adulterio» si disponeva che venisse pubblicamente «frustata per la ciptà». Sulla stessa linea gli statuti di Roma del 1360, nei quali si stabiliva che era preciso dovere del senatore, ovvero della figura piú rappresentativa della città, di «costringere» chiunque fosse stato trovato ad aver abbandonato la moglie, i figli e la casa coniugale per tenere presso di sé «giorno e notte» una concubina, a lasciarla e a tornare ad abitare con la moglie e la sua famiglia.

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poteva essere soggetta anche a pene infamanti come la fustigazione pubblica, l’allontanamento dalla casa coniugale, il bando dalla città. Inoltre si legittimavano il ferimento e perfino l’omicidio dell’adultera e di chi era stato colto in flagrante «con la propria moglie, madre, figlia, nipote o sorella carnale», in nome della difesa dell’onore, come viene ricordato per esempio nello statuto di Viterbo del 1469. Per Roma le disposizioni dello statuto trecentesco sono ancora piú severe: se la donna era stata consenziente e

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costume e società Miniatura raffigurante un giudice che emette una sentenza di separazione. XII-XIII sec. Bologna, Real Collegio di Spagna.

Giurisprudenza matrimoniale

Per sciogliere il vincolo Quando un matrimonio entrava in crisi, la separazione poteva essere un modo per uscirne. Il termine «divorzio», che compare a volte nei documenti medievali, in realtà indicava un annullamento, vale a dire una dichiarazione di invalidità originaria del vincolo coniugale, mentre la semplice separazione «dalla mensa e dal letto» consentiva a un uomo e una donna di vivere separati pur non spezzando il loro vincolo matrimoniale. L’annullamento del matrimonio era concesso, peraltro piuttosto raramente, qualora uno dei due coniugi ne avesse contratto un altro in precedenza o nei casi di consanguineità, affinità e impotenza. Un’unione poteva essere annullata dimostrando che era stata contratta sotto costrizione, sempre che non avesse avuto luogo la consumazione; che non si fosse rispettata la norma che fissava a sette anni l’età minima per contrarre nozze; che i futuri coniugi avessero cospirato per l’uccisione dei legittimi partner. Invece, per ottenere una separazione «dalla mensa e dal letto», i motivi da invocare erano di solito la «fornicazione spirituale», cioè l’eresia o l’apostasia, le sevizie e l’adulterio. Nel corso del Medioevo, la Chiesa cercò di trasferire gradualmente alle proprie corti tutta la materia matrimoniale, e quindi anche le cause di separazione e annullamento, non senza una certa resistenza da parte dei governi secolari.

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l’adulterio era stato commesso con un parente entro il terzo grado tanto da essere configurabile come incesto, la condanna prevista era il rogo e nessuna pax poteva intercorrere tra parte offesa e seduttore, per il quale era prevista la decapitazione. Da segnalare, infine, la distinzione che viene fatta in alcune località tra la prima volta in cui veniva commesso il reato d’adulterio e la reiterazione del crimine, soprattutto da parte della donna. La punizione per la donna «consueta ponere cornua» al marito (cosí viene definita nello statuto del 1414 di Villanova d’Asti) «appare associata a una punizione pubblica che deve evidentemente servire da monito». Per esempio, a Civitavecchia, la donna che aveva commesso adulterio per la prima volta era punita con la fustigazione ma in un luogo riservato, per rispetto dei suoi parenti; ma se era recidiva dopo aver ottenuto il perdono del marito, la pena era molto piú severa: «le sia tagliato il naso o vero le sia tracto l’occhio destro e quindi sia messa in monastero», recita l’apposita rubrica dello statuto del 1451.

Pene variabili

Diversa era la situazione se a commettere il reato era un uomo. In questo caso la principale discriminante nel comminare una pena era data dalla rispettabilità della donna coinvolta: la pena sarebbe stata piú pesante se la donna era ritenuta onesta o di buona fama

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La punizione degli adulteri, xilografia da un’edizione delle Cent Nouvelles nouvelles pubblicata da Antoine Verard. 1486. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto, in basso miniatura raffigurante la celebrazione di un processo per reati carnali e omicidio. XIV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

A sinistra miniatura raffigurante il profeta Osea e Gomer, la meretrice che Dio gli aveva ordinato di sposare, da una Bibbia illustrata da Manerius. XIV sec. Parigi, Bibliothèque Sainte-Geneviève.

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rispetto a una donna disonesta o di vile condizione. A Venezia l’uomo adultero era invece costretto a restituire la dote alla moglie o a provvedere al suo mantenimento, ma non subiva altre penalità. Certo le relazioni extraconiugali – sia che si configurassero come reati, sia che fossero piú tollerate come quelle con le prostitute – potevano essere la spia di rapporti matrimoniali non proprio ideali, anche se raramente portavano alla separazione dei coniugi. Anche l’eccessiva violenza dei mariti nei confronti della moglie poteva essere un motivo di disamo-

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Miniatura raffigurante don Felice e Isabetta, protagonisti della quarta novella della terza giornata del Decameron, che giacciono insieme, da un’edizione francese dell’opera di Giovanni Boccaccio. 1430-1450. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

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fra scienza e superstizione

Lo strano caso di Tommaso e Beatrice Alla fine del Cinquecento, davanti al tribunale arcivescovile napoletano si presentava un nobile amalfitano, Tommaso de Bonito, a richiedere lo scioglimento della sua unione da donna Beatrice de Stefano, dichiarando la sua impotenza per maleficio: mentre egli era sempre stato e continuava a essere «abilissimo et apto con altre donne», solo con la moglie non era stato in grado di consumare le nozze. Negli atti processuali sono ricordati sia le difficoltà sorte già dalla prima notte («quella notte per molto si fosse affaticato et desiderato consumare et far il suo effetto carnale, non lo possette in nessun modo; non obstante che avesse fatto gran forza alla natura, non possette operare cosa nulla in consumare carnalmente detto matrimonio»), sia tutti i rimedi – medici ecclesiastici, magici e

strategici – escogitati nell’arco di ben cinque anni dalle famiglie dei due giovani per risolvere una situazione che era divenuta motivo di grande imbarazzo per tutti: nulla da fare. Dopo preghiere e digiuni, dopo inutili tentativi di trovare una controfattura, dopo rimedi medici («li faceva pigliare pignolate, ove fresche et certa confettione che se pigliava con lo vino forte, et infinite altre cose che incitavano l’atto venereo») o «strategici», come cambiare città e case «sperando che col mutar del luoco fosse cessato tal impedimento» oppure inventando situazioni inusuali, come giacere sul nudo pavimento, il giovane, appena il suo corpo s’accostava «con le carne de detta signora Beatrice, era subito tornato como una donna». A un certo punto la colpa dell’impotenza fu definitivamente attribuita a una «fattura a catenaccio», fattura tra le piú potenti in quanto quasi

re e di abbandono del tetto coniugale. Una traccia documentaria significativa è data da una tipologia di atti notarili quali le «sicurtà» rilasciate da mariti violenti alle loro mogli. Nella sicurtà rilasciata il 22 agosto 1423 da Giovanni di Michele Brescese, di origine fiorentina ma ormai insediato a Roma nel rione Ponte, l’uomo prometteva di non offendere né la moglie, né la suocera, ma ribadiva il suo diritto a una lecita correzione delle due donne «in modo onesto ed equo, giuridicamente consentito, secondo la consuetudine degli uomini dabbene di correggere e punire le loro buone e oneste consorti». Infatti, che il marito punisse materialmente la moglie era ammesso ovunque, anzi di solito i legislatori cittadini prevedevano la non intromissione della giustizia negli affari e liti familiari, a meno che non si arrivasse all’omicidio. Secondo Bernardino da Siena, preciso diritto-dovere dell’uomo era quello di «istruire» e quindi «corregere», nel caso di errore, la consorte, anche ricorrendo a sistemi drastici, come dovere della donna era quello di «temere, servire, obbedire» il marito. Ciò non toglie che non si dovessero passare i limiti e mettere

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certamente gettata in mare e quindi non piú reperibile. Il processo di primo grado si risolse quindi con l’annullamento del matrimonio. E cosí pure quello d’appello voluto dalla donna confermava il precedente verdetto, mentre in un terzo processo il giudice, il vescovo Fabio Maranta, annullava le precedenti decisioni e rimandava la definitiva sentenza all’espletamento di una serie di operazioni spirituali, rituali e liturgiche, della durata di quindici giorni, non escludendo l’intervento di un esorcista ecclesiastico abilitato dalla Curia napoletana. Non sappiamo in che modo la vicenda si sia conclusa, ma tutto fa pensare che infine l’annullamento dell’unione sia stato sanzionato: una coppia da tempo non piú convivente e dai rapporti cosí compromessi difficilmente poteva riprendere la vita coniugale, che aveva avuto un avvio tanto tormentato.

Capolettera miniato raffigurante una coppia nel proprio letto, da un’edizione del Cantico dei Cantici. XIII sec. Le Mans, Médiathèque Louis Aragon.

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costume e società

in pericolo la vita della donna. Non stupisce quindi trovare nei registri giudiziari di tutto il periodo medievale processi per maltrattamenti e sevizie intentati da donne ai loro mariti troppo violenti, che potevano portare anche alla separazione fisica dei coniugi. Infatti la dottrina dei secoli tardo-medievali individuava un motivo di separazione proprio nelle insidie alla vita del coniuge, che potevano compromettere la prosecuzione della convivenza, anche se si poteva parlare di

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sevizie solo quando il marito eccedeva una ragionevole e moderata correzione. Di norma una separazione operata senza il controllo giudiziario esponeva a un’ammenda, tuttavia sono noti patti di separazione amichevole tra sposi in diverse località dalla fine del XIII secolo. Per Roma la documentazione notarile quattrocentesca ricorda diverse separazioni consensuali, nelle quali, purtroppo, non si chiariscono i motivi che le avevano provocate: gennaio

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Cristo e l’adultera, olio su tavola attribuito alla bottega di Lucas Cranach il Vecchio. Post 1537. Stoccolma, Nationalmuseum.

piú di quindici anni da parte della moglie Angela, la quale «assolutamente non era voluta tornare da lui», nonostante i suoi reiterati tentativi per convincerla sia per mezzo di amici, sia tramite citazione giudiziaria, supplicava le autorità ecclesiastiche di permettergli di tenere in casa un’altra donna per accudirlo. In alcuni casi l’intervento di mediatori e amici sortiva l’effetto di riunire la coppia, anche nel caso di gravi colpe, come per Nuzzo di Tartaglia del rione Trevi, la cui moglie Graziosa, dopo essersi per l’ennesima volta allontanata dalla casa coniugale «insalutato ospite» e «senza il permesso del marito» per condurre una vita scandalosa «contro i precetti di Dio», era stata poi convinta a ritornare da lui e a promettergli obbedienza.

Una causa quasi inoppugnabile

di solito i coniugi, come per esempio nel caso di Iacobo di Leonardo Forlano barbiere del rione Arenula e Lucrezia sua moglie, «unanimemente e concordemente» convenivano di «facere separationem» e di abitare ognuno per conto suo. Non mancano neppure notizie di abbandono del tetto coniugale da parte delle mogli, sia di bassa condizione che di ceto elevato. È questo il caso dello slavo Tommaso Saloto che, denunciando l’abbandono da

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Un motivo per ottenere lo scioglimento del matrimonio, invocando la nullità dell’unione, e per poterne contrarre un’altra, era l’accertata impotenza dell’uomo, o una grave malattia o malformazione della donna – ignorate al momento delle nozze, in base alla teoria che faceva della copula carnalis un elemento essenziale nella formazione del vincolo. In base a questo principio poggia la richiesta di scioglimento di matrimonio da parte della nobildonna romana Francesca Tebaldeschi, moglie del medico Agabito Porcari, da lei sposato in seconde nozze nel 1470. Nel 1474 ella si recava dal notaio per nominare un procuratore che dovesse occuparsi di istruire – davanti al tribunale vescovile – una causa d’annullamento del vincolo coniugale in quanto, come si legge nel documento, durante i predetti quattro anni non era stato possibile consumare il matrimonio «per colpa, causa, difetto e impotenza del predetto suo marito, che in tutto quel tempo non era mai stato in grado di conoscerla carnalmente né di mantenere eretto il suo membro, per difetto, come si crede, di disposizione e per l’impotenza della sua natura, sofferente di frigidità o di maleficio». Sono qui accennate le due principali cause a cui in quel tempo s’imputava l’impotenza maschile: quella fisica, riscontrabile in sede medica, e quella scaturita da impedimenti di origine sovrannaturale, demoniaca. Infatti la fattura di legame matrimoniale era una convinzione molto diffusa e paventata sia dalla cultura colta che da quella popolare per tutto il periodo medievale e moderno. Si riteneva che il maleficio colpisse soprattutto la potenza sessuale maschile, che veniva annullata da azioni magiche: da qui l’impotenza per maleficio, a volte addotta come motivazione a difesa dagli avvocati dell’uomo in una causa di annullamento intentato dalla consorte.

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di Simone Ferrari

In alto san Pietro, riconoscibile dalle chiavi, in un particolare del «pontile» del Duomo di Modena (per la descrizione completa, vedi alle pp. 76-77). Qui accanto, da sinistra chiave bizantina con sigillo in bronzo (XI-XII sec.) e una chiave di produzione longobarda dalla necropoli di Leno (Brescia).

COMBINAZIONI

VINCENTI

L’espressione «tenere sotto chiave» è di uso tuttora comune. Ma quando fu messo a punto per la prima volta l’ingegnoso strumento metallico che permette di custodire in sicurezza i propri beni o impedire l’accesso a case e stanze? Stabilirlo è difficile, se non impossibile. Si tratta, tuttavia, di una storia millenaria, della quale, nei secoli dell’età di Mezzo, sono stati scritti molti dei capitoli piú significativi


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ascosta nelle tasche o nelle borsette, fondamentale per aprire la porta di casa o far partire l’automobile, la chiave – strumento scontato, che utilizziamo, depositiamo e dimentichiamo di continuo – nasconde, in realtà, una storia millenaria, incredibile e inaspettata. Sin dagli albori della sua diffusione, infatti, questa fedele compagna della quotidianità, proprio grazie alla sua funzione e alla sua semplicità, ha ricoperto e ricopre un ruolo iconico e molteParticolare del Libro dei Morti redatto per lo scriba Nebqed, attivo fra i regni dei faraoni Thutmosi IV e Amenofi III: all’estrema destra, fra le vignette che corredano il testo, si vede un sacerdote che tocca con una chiave la bocca di una mummia. XVIII dinastia, 1400-1352 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

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plice al tempo stesso come fenomeno simbolico, iconografico, ma anche linguistico e letterario. Pochi manufatti hanno accompagnato il percorso e l’evoluzione della specie umana come questo, proprio in relazione alla sua finalità: quella di aprire e chiudere qualcosa come elemento deputato alla sicurezza e alla difesa di un luogo o di un bene, in grado di separare quello che sta dentro da quello che sta fuori. È proprio questo il vero segreto destinato a garantire successo all’oggetto-simbolo, indipendentemente dalla sua forma.

Molto piú di un utensile

Non si tratta, dunque, solo di un semplice attrezzo meccanico, bensí di un vero e proprio emblema, definibile entro i confini dell’antropologia culturale, attraverso il quale

possiamo intercettare differenze e somiglianze di una vastissima gamma di civiltà e gruppi etnici nel corso del tempo. È difficile stabilire con precisione la sua origine, soprattutto per la mancanza di resti archeologici dovuta alla deperibilità del materiale, ma possiamo ipotizzare che un suo primo sviluppo, magari sotto forma di semplici paletti in legno per battenti di palizzate mobili (simili ai piú moderni catenacci) possa aver preceduto l’epoca protostorica. Di fatto, l’esigenza di avere uno strumento per la custodia di un bene si sviluppa assieme alla necessità primaria del suo possesso a uso esclusivo e personale, sia esso uno spazio fisico, un prodotto alimentare o una risorsa economica. Dalle prime forme di stanzialità e dalle prime economie agricole

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Disco votivo in bronzo, decorato a sbalzo, da Montebelluna (Treviso). IV sec. a.C. Treviso, Museo Civico. Sul manufatto compare l’immagine di un personaggio femminile, identificato con la dea Reitia, che ha in mano una grande chiave retica con la quale affronta un lupo.

l’uomo ha sviluppato la necessità di nuovi concetti e nuovi oggetti che garantissero le prime forme di proprietà (non quelle relative al suo profilo giuridico, di moderna affermazione) ed ecco che, a seconda delle esigenze, nascono e si sviluppano le prime armi, le prime forme di baratto o di monetamerce e i primi strumenti per la chiusura. La forma e la funzione di questi strumenti si delineano sempre piú e iniziano a strutturarsi già dall’età del Rame, in parallelo alla maggiore complessità della

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società che li sviluppa: se possiedo qualcosa ecco che ho il bisogno di custodirlo attraverso la chiave, di difenderlo attraverso la spada o, successivamente, di commerciarlo attraverso l’uso di altre convenzioni sociali come il denaro, in senso lato la moneta.

Manufatti iconici

Questi tre oggetti fortemente iconici accompagnano le comunità umane sotto forme e con materiali diversi sin dalla piú remota antichità e si possono dire dunque, meglio di altri

manufatti, rappresentativi della loro storia anche nella logica dell’interesse demo-etno-antropologico. È facile intuire come il manufatto-chiave abbia di lí a poco iniziato ad assumere quell’importante valore rappresentativo che, col tempo, si è arricchito attraverso simbologie legate ai numerosi ambiti della vita sociale antica, da quello civile a quello cultuale. Certa è la presenza, sia in Oriente che in Occidente, di miti e leggende protostoriche relative alle chiavi ma la tematica trova pieno

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In età romana si fabbricavano chiavi di ferro, leghe di rame, tra cui il bronzo, o anche oricalco, una lega di rame e zinco simile all’ottone sviluppo successivamente: fra i piú antichi documenti conservati troviamo le tavolette micenee di Pilo (Peloponneso sud-occidentale, Grecia), del 1200 a.C. circa, nelle quali ricorre spesso il lessema «colei che porta la chiave» riferito probabilmente a una sacerdotessa. Anche i primi esempi d’immagine sono legati alla sfera del sacro: nel Libro dei Morti dello scriba egiziano Nebqed, databile fra il 1400 e il 1352 a.C., è raffigurato un sacerdote che tocca con una chiave la bocca di una mummia posta davanti alla porta spalancata di un

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tempio a garanzia del passaggio nell’aldilà (vedi foto a p. 62).

La dea e il lupo

Per la cultura greca la simbologia è analoga anche se meno escatologica e sorprende una lekythos a figure rosse (Istanbul, Museo Archeologico Nazionale) sulla quale si vede una donna che esce dalla porta di un tempio portandosi la chiave alle spalle e che ha l’appellativo di clavigere, attribuito alle donne consacrate ai culti. Avanzando nel tempo, anche nell’Italia antica, fra le immagini incise su dischi bronzei

spicca l’esemplare da Montebelluna (Treviso) databile al IV secolo a.C.: su di esso compare la dea del sole Reitia che affronta un lupo con una grande chiave retica in mano (vedi foto a p. 63). Sotto il profilo etimologico, il termine clavis, utilizzato nelle fonti classiche e derivato da clavis/sera, che indicava la sbarra per la chiusura o catenaccio, presenta una stretta affinità fonetica con clavos, il termine usato per definire il chiodo, probabilmente suggerendoci che fra i primi esempi arcaici nel sistema di chiusura vi fosse una sorta

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di chiodo o di chiavarda passante entro due anelli. Il vero cambio di passo si registra con l’avvento di Roma: la grande macchina romana è infatti in grado di esercitare un processo osmotico con gli aspetti tecnologici e culturali delle civiltà conquistate e poi di elaborarlo e migliorarlo, adattandolo a una società sempre piú sistematica e organizzata. A questo proposito è importante considerare l’assetto territoriale romano dai punti di vista geografico e culturale che trova nella facies multiforme ed eterogenea dei suoi prodotti lo specchio degli influssi derivati sia delle altre culture assorbite all’interno del limes (il confine dell’impero, n.d.r.), sia in quelle a esso prossime: le varianti sono numerose, ma spesso affiancano solo timidamente la tipologia principalmente utilizzata, quella della chiave «a doppia spinta», rintracciabile quasi in ogni angolo dell’impero, dal Nord Africa alla Bretagna; dall’Italia all’odierna area balcanica sino ai confini con l’Asia Minore.

Impugnatura di chiave in bronzo di epoca romana con terminazione antropomorfa. I-II sec. d.C. Cleveland, The Cleveland Museum of Art. Nella pagina accanto impugnature di chiavi in lega di rame di epoca romana con terminazioni zoomorfe. New York, The Metropolitan Museum of Art.

Un repertorio variegato

Ne risulta un panorama estremamente vario, in cui fioriscono chiavi dalle svariate forme e dalle molteplici ibridazioni tipologiche, ma non solo; i materiali utilizzati si moltiplicano e, attraverso botteghe sempre piú specializzate nella produzione di chiavi e serrature – quelle dei cosiddetti clavicarii e dei claustrarii –, si affinano le tecniche di costruzione e di decorazione. La capillare diffusione attraverso tutto l’impero di merci d’importazione provenienti da zone lontane permetteva, grazie all’efficientissimo sistema logistico e stradale, una grande circolazione e una reperibilità diffusa di moltissime materie prime lungo tutte le sue aree, sia interne che esterne. Per questi aspetti, sin dal periodo imperiale si (segue a p. 68)

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Dossier Gli esordi

Dalla Grecia all’Italia Nella cultura materiale, fra le prime chiavi in metallo conservate abbiamo quelle templari dell’antica Grecia, come il magnifico esempalre bronzeo del tempio di Artemide Hemera a Lousoi, in Arcadia (oggi al Museum of Fine Arts di Boston), lunga circa 40 cm, con inscrizione sul fusto e terminazione a forma di serpente. Con la prima età del Ferro, nel Centro Europa crescono invece di numero le testimonianze materiali, come le chiavi «hallstattiane» rinvenute negli abitati palafitticoli dell’arco alpino (Zurigo-Grosser Hafner) e databili tra il 1000 e l’800 a.C.: la tipologia piú diffusa prevede chiavi formate da un’impugnatura collegata a lunghi fusti cilindrici, simili a spilloni ricurvi che, attraverso un foro praticato nel fronte della porta, agganciavano il chiavistello ligneo interno, permettendone, per trazione, lo scorrimento avanti e indietro. Riferibili invece a corredi femminili e dotate di altissima qualità estetica, troviamo in Italia le cosiddette «chiavi di Penelope», legate alla cultura villanoviana, tra l’800 e il 700 a.C.; veri e propri status symbol in bronzo, nei quali le impugnature sono arricchite da pendagli ed elementi decorativi zoomorfi come cavalli o uccelli acquatici dalla chiara valenza simbolica (vedi foto in questa pagina, in alto). Esempi successivi e relativi a un funzionamento analogo si moltiplicano già dalla media e tarda età del Ferro: importanti testimonianze a riguardo sono le chiavi rinvenute fra Trentino e Alto Adige e legate alla cultura retica Fritzens-Sanzeno (vedi foto in questa pagina e disegni alla pagina accanto). I molti esemplari conservati (Castello del Buonconsiglio di Trento, Museo

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Al di là del valore funzionale, le «chiavi di Penelope» erano un vero e proprio status symbol

In alto chiave in bronzo, del tipo a gancio, ascrivibile alla categoria delle cosiddette «chiavi di Penelope», dal Monte Nenz, Trichiana (Belluno). Seconda metà del VII sec. a.C. Belluno, Museo Civico.

Sulle due pagine chiave in ferro con impugnatura a traforo e losanga, ascrivibile alla cultura retica Fritzens-Sanzeno, dal Doss Venticcia (Segonzano, Trento). gennaio

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Restituzioni grafiche di esemplari di chiavi di tipo Sanzeno o retico: 1-2. Doss Venticcia di Segonzano; 3. Montesei di Serso presso Pergine Valsugana; 4. Sanzeno; 5. Manching; 6. Settequerce/ Siebeneich; 7. Sonthofen «Am Gribesgraben»; 8. Doss Castel di Fai della Paganella (?); 9. Sanzeno; 10. Mezzocorona.

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Retico di Sanzeno) provano la grande versatilità dell’oggetto; dalla chiave di un edificio religioso lunga oltre i 50 cm a quella da porta, di dimensioni ridotte. La forma vincolata alla meccanica di queste chiavi arcaiche è ancora molto semplice e possiede, nonostante le molteplici varianti e al netto degli elementi decorativi, aspetti comuni per

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tutte le culture europee: si tratta, sostanzialmente, di un grande ferro ricurvo, con impugnatura che – come evoluzione tecnologica – presenta, alla fine del puntale, terminazioni polimorfiche a «uncino» o «gomito» via via piú complesse con la già citata funzione di agganciare il chiavistello attraverso alloggiamenti corrispondenti ricavati nel legno.

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Dossier la miniaturizzazione

Nelle acconciature e per le bambole Se miniaturizzate, le chiavi sono oggetto di un processo di ibridazione merceologica, oltre che tipologica: per la prima volta si trovano un po’ ovunque, vengono rimpicciolite e montate sugli aghi crinali per le acconciature delle matrone romane o addirittura ridotte a dimensioni intorno al centimetro come corredo di bambole. Un curioso esempio a riguardo ci racconta una storia: la chiave ad anello in oro della bambola eburnea di Crepereia Tryphaena, del II secolo d.C. (Roma, Musei Capitolini), una sorta di Barbie ante litteram. Era una mattina di maggio del 1889 quando la «pupa», cosi erano chiamate le bambole al tempo di Marco Aurelio, venne trovata in un sarcofago marmoreo nell’area dell’erigendo Palazzo di Giustizia, a Roma, assieme alla sua giovane proprietaria. Fra i monili aurei, la cui chiave era destinata alla cassettina rivestita di piastre in avorio che li conteneva, un altro anello con inciso il nome Filetus assieme alla bambola colorata e abbigliata, fecero pensare a Giovanni Pascoli che Crepereia fosse mancata proprio alla vigilia delle nozze con il suo promesso sposo, non avendo potuto donare i suoi giocattoli agli dèi nella cerimonia prenuziale dell’»addio all’infanzia». Particolare della bambola in avorio appartenente al corredo funebre di Crepereia Tryphaena. Metà del II sec. d.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini.

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assiste alla realizzazione di chiavi in oro, argento, osso, avorio, legno e persino in piombo per oggetti di destinazione ludica o simbolica, come chiavi-giocattolo, o chiavi a uso votivo, realizzate quasi serialmente entro stampi bivalve in terracotta. Tuttavia, i materiali piú diffusi furono il ferro e le leghe di rame tra cui il bronzo o l’aurichalcum (oricalco), una lega di rame e zinco simile all’ottone. Per certi versi non stupisce l’utilizzo del bronzo su larga scala proprio per le caratteristiche di grande versatilità tecnica e conservativa che lo rendono, fra i tanti, il materiale piú idoneo a una diffusione capillare e duratura.

Le tecniche di lavorazione

Allo stesso modo le tecniche di realizzazione erano le piú svariate a seconda delle zone o delle capacità delle singole botteghe: dalla forgiatura in massello alla realizzazione tramite cartocci di lamiera in ferro, oppure dalla tornitura (per l’impugnatura) alla fusione a «cera persa» con rifiniture a lima o bulino per gli esemplari bronzei piú ricchi e pregiati, mentre altre ancora prevedevano assemblaggi di vari metalli e addirittura alcune forme di placcatura. Le chiavi di questi secoli, che variano nella dimensione tra 1,5 e 30 cm circa, possono addirittura diventare (nei casi piú importanti legati a edifici pubblici o di culto) parte dell’apparato decorativo di grandi portali bronzei: quelle con impugnatura a protome figurata (zoomorfa o antropomorfa; vedi foto alle pp. 64-65) fungevano ingennaio

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fatti, una volta inserite, da piccoli elementi scultorei nel contesto architettonico di cui facevano parte. Sulle due pagine, in alto aghi crinali per acconciature con chiavi alle estremità. Epoca romana. Già Hermann Historica Auktionen, Monaco di Baviera. In basso chiave ad anello di fabbricazione romana. Già Hermann Historica Auktionen, Monaco di Baviera.

Movimenti e funzionamento

Oltre a chiavi e serrature, a volte si conservano le «toppe», ossia le piastre metalliche collocate all’esterno delle porte o dei mobili, utili all’inserimento della chiave: attraverso la forma delle loro boccole possiamo ricostruire in modo dettagliato il preciso movimento impresso alla chiave dalla mano

umana e, di conseguenza, il funzionamento del meccanismo della serratura che, come si vedrà, è sovente impostato su criteri funzionali e tipologici differenti. Come spesso succede, infatti, l’aspetto tecnico è sintomatico della sua cultura produttrice e, nel caso specifico, in perfetta coerenza ideologica con il carattere schiettamente pragmatico e multietnico congenito alla civiltà romana. Un altro fenomeno che ne avvicina la modernità a quella contemporanea è il processo di miniaturizzazione a

Simbolo del matrimonio

Lo scambio degli anelli Le donne romane, soprattutto se di rango elevato, usavano portare molti anelli, calzandone anche due per dito. Su alcuni di questi si montavano piccole cartelle traforate per serrature «a scorrimento verticale» o pettini per le prime serrature «a rotazione»: vere e proprie chiavi di piccoli bauli, scatole o cassette, da indossare per una maggiore sicurezza e praticità. Queste diventarono a tal punto sinonimo del bene custodito da gettare le basi dell’usanza, poi ereditata dalla liturgia cristiana, che celebrava l’unione fra un uomo e una donna: lo «scambio degli anelli». Il pater familias romano deputato all’approvvigionamento delle risorse necessarie per il sostentamento della famiglia donava alla matrona la chiave ad anello o una chiave da sospendere a una catenella come atto di fiducia, perché ne tutelasse le risorse quale responsabile della propria dimora. L’etimologia della parola piú comunemente associata al sesso femminile, domina (da cui l’odierno donna), riconduce al termine domus riferibile alla casa e quindi alla custodia di tutti i beni della famiglia, di cui la chiave, a uso strettamente personale e montata su un monile, diventa emblema e figura stessa del patto d’unione. Come per il legame matrimoniale, curiosamente, in alcune fonti latine, anche la formula per l’adulterio o per il divorzio è metaforicamente legata alla figura della chiave; Cicerone stesso usa l’espressione claves uxori adimere, per sottolineare la separazione nel «togliere le chiavi alla moglie».

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Dossier cui furono sottoposti molti oggetti quotidiani, primi fra tutti e non a caso simboli di potere e proprietà, chiavi e sigilli (vedi box a p. 68). Un altro aspetto interessante insito nella cultura romana è la volontà di rimarcare l’esecuzione o la paternità dei beni, apponendovi il nome dell’esecutore o del proprietario dell’oggetto stesso: da questo presupposto si assiste a una fioritura di sigilli e, per esten-

sione, anche le chiavi (soprattutto nell’impero romano d’Oriente e nella successiva cultura bizantina) iniziano a ospitarne le incisioni funzionali sugli alloggiamenti apicali delle loro impugnature. Come succede nella mondanità e nel quotidiano, anche per il mondo del simbolo e del culto il nostro oggetto vede in questo periodo uno straordinario arricchimento, già pregno di quanto

ereditato dal mondo preromano: un caso emblematico è la chiave ad anello. Ancora una volta assistiamo allo stretto legame fra una necessità funzionale e un aspetto caratteristico del mondo femminile romano, quello della cura del corpo e della sua estetica, espresso attraverso uno dei suoi principali monili, caricato di un potere simbolico cosí forte da sopravvivere sino ai giorni nostri (vedi box a p. 69).

Chiavi «a scorrimento»

Un meccanismo semplice Nell’antica Roma la tipologia piú utilizzata fu, come già detto, quella della chiave «a scorrimento», detta anche a «doppia spinta», mutuata dalle chiavi «laconiche» diffuse in Grecia: formata da un’impugnatura circolare collegata a un fusto che terminava con un pettine perpendicolare dotato di barbe a sviluppo verticale. La serratura era semplice e provvista di un chiavistello mobile generalmente in bronzo o ferro: questo aveva alcuni fori corrispondenti in negativo alle barbe del pettine della chiave ed era sovrastato da una piccola molla; la chiave che veniva introdotta nella toppa a forma di «L» era spinta in alto in modo che le barbe del pettine si infilassero nei fori del chiavistello e potessero alzare la molla, permettendo con un semplice movimento orizzontale la chiusura o l’apertura della porta.

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In alto schema del funzionamento di una serratura romana a scorrimento: 1. placca della serratura; 2. chiavistello; 3. foro della serratura; 4. molla; 5. perno d’arresto; 6. congegno o «barba» della chiave. Chiavi a scorrimento e a rotazione di epoca romana. Colonia, Römisch-Germanisches Museum.

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Le chiavi e le serrature generate dalla romanità furono tante e differenti come le componenti sociali e geografiche del suo impero e da questa complessa commistione presero il via nuove tipologie meccaniche che influenzarono in modo diretto e indiretto i sistemi adoperati per tutto l’Alto Medioevo.

Per le celle dei monaci

Altre tipologie utilizzate, in misura minore e soprattutto legate ad ambienti rurali, furono ibridazioni delle chiavi arcaiche preromane come quella ad «ancora», che deve il nome alla forma simile alle ancore gettate in mare dalle navi per lo stallo, utilizzata anche in altre culture fino al Basso Medioevo, o quella a «scorrimento verticale», le cui chiavi, dette clef à la cordelière o «alla cappuccina» – dotate di uno scudo piatto e traforato sotto l’impugnatura –, rimasero anch’esse in uso fin oltre l’età bassomedievale, spesso come meccanica prediletta dai monaci certosini per la chiusura delle loro celle (vedi foto in questa pagina). Con le chiavi a rotazione comincia a delinearsi un’ulteriore differenziazione formale che diverrà poi normativa per tutti i secoli seguenti: la distinzione tra chiave «femmina» e chiave «maschio», la cui nomenclatura, dichiaratamente onomatopeica, dipenderà dalla struttura del suo fusto. La maggioranza di questi manufatti in epoca classica sono «femmina», ossia hanno una canna cava per l’alloggiamento del perno di rotazione della serratura; viceversa, le chiavi «maschio» sono a canna piena e possono terminare con il fusto allungato in un puntale da inserire nel foro sulla piastra della serratura, diventando esse stesse il perno di rotazione in asse. Grazie a questa innovazione si ottiene un sistema altrettanto valido in termini tecnici quanto pratici, nel quale la forma della chiave e la sua realizzazione

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chiavi «a rotazione»

Per lucchetti e mobili Una tipologia di chiave non meno importante vede la sua origine tra il I e il II secolo d.C. soprattutto per la chiusura di lucchetti cilindrici e piccoli mobili: si tratta della chiave «a rotazione», detta anche «a mandata». È composta da un’impugnatura spesso circolare (ma che può assumere le piú svariate forme decorative del repertorio classico), dalla quale si prolunga un fusto solitamente anch’esso di sezione circolare; all’estremità della canna, a guisa di bandiera laterale, sta il pettine (detto anche castello) nella sua forma quadrangolare con fori o tagli, detti pertugi, entro i quali passano i riscontri della bussola di serratura. La chiave che ruota all’interno del congegno con l’applicazione di una piccola forza solleva una molla con il pettine e sposta al contempo il chiavistello sopra di essa, permettendo l’apertura o la chiusura del sistema. In alto schema del funzionamento di una serratura romana a rotazione. A destra una chiave gallo-romana in lega di rame del tipo detto à la cordelière o «alla cappucina». New York, The Metropolitan Museum of Art.

si semplificano notevolmente, garantendogli una fortuna che sarà indirettamente proporzionale al declino di Roma. Non stupisce, tuttavia, che la tipologia universalmente nota per il funzionamento dei meccanismi da chiusura sia un’invenzione dovuta alla romanità e alla sua ineguagliata concretezza e modernità; la chiave a rotazione, infatti, è la piú utilizzata in tutto il mondo e in tutte le epoche, sino ai giorni nostri.

L’Alto Medioevo

Delineare in modo esaustivo le tipologie di chiavi in uso durante il periodo altomedievale è assai complesso, sia per la scarsità di materiale conservato, soprattutto per l’Italia, sia per la loro rappresentazione iconografica, molto limitata e spesso poco dettagliata.

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Dossier A partire dal V secolo si assiste allo spostamento di numerosi «gruppi etnici» e in alcuni casi, come per i Longobardi, il fenomeno assume la proporzione di una vera e propria migrazione di popoli che di fatto cambiano o contaminano, sia culturalmente che tecnologicamente, le popolazioni stanziali integrate e, con esse, ovviamente, i loro prodotti materiali. Il collasso del mondo romano occidentale e la conseguente crisi della cultura urbana provocano un vero e proprio tracollo tecnologico: nelle città le condizioni igieniche peggiorano a causa della mancata cura del sistema fognario, molti monumenti vengono smantellati o ridotti a calce e le aree urbane, prima deputate al culto e alla vita pubblica, pressoché abbandonate o destinate alla pastorizia. Anche l’edilizia, a cui una parte dei nostri manufatti è destinata, a seguito della mancanza di maestranze itineranti specializzate è relegata per lo piú a riadattamenti e riutilizzi delle strutture romane e, nelle aree extraurbane, alla costruzione di case in legno seminterrate, secondo modelli simili alle Grubenhaus di origine protostorica. Per effetto della mancata manutenzione, si assiste inoltre, ed è un fattore di primaria importanza, al declino dell’assetto viario romano (400 000 km circa di strade realizzate durante l’impero) che consentiva alti standard di efficienza nei trasporti e, con esso, chiaramente diminuisce la circolazione delle merci, causando una crisi nell’approvvigionamento di beni non locali: meno interazioni commerciali e meno disponibilità di prodotti comportano meno specializzazione e un generalizzato ristagno tecnologico. Con l’arrivo delle popolazioni germaniche e la perdita del legante romano, ogni aspetto della società si complica e il vecchio sistema geopolitico si frammenta in quello

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Goti e Longobardi

Echi della tradizione romana Ben rappresentativi delle elaborazioni tecnologiche avviate tra il V e il VI secolo sono gli oggetti restituiti dagli scavi condotti sui Monte Barro, a Olginate (Lecco). Le indagini hanno portato alla luce un complesso di edifici costruiti a mezza costa della montagna, databili a quell’orizzonte cronologico e riferibili al contesto norditaliano della dominazione gota. Tutte le chiavi rinvenute sono in ferro e mostrano differenti tipologie: quelle di dimensioni maggiori, 13 cm circa, hanno impugnature piatte direttamente derivate da modelli tardo-romani, ma un fusto circolare corto per la rotazione e pettini ibridi, mentre le piú piccole hanno pettini analoghi, ma impugnatura snodabile derivata dalle chiavi tardo-romane; una sola chiave, di mirabile fattura e totalmente a rotazione è invece da connettere a una importante tipologia successiva. Anche le rare chiavi della prima età longobarda parlano un linguaggio tipologico e meccanico di derivazione romana, con una coesistenza nel pettine di «denti» e «fori» che suggerisce anche per queste un utilizzo in sistemi ibridi fra il sollevamento e la rotazione. La chiave in ferro dalla necropoli di Leno (Brescia), lunga 10,2 cm, e la chiave di Desenzano, località Faustinella (Brescia) di 8 cm – databili entrambe tra la fine del VI e la metà del VII secolo – presentano due delle caratteristiche citate; la prima con il foro nel pettine e la seconda con le barbe. Gli scavi del castrum di Sant’Andrea a Loppio (Trento) hanno restituito altri esemplari: una piccola chiave che trova confronto con quelle minute del Monte Barro e una lievemente maggiore, 8 cm, databile al VII-VIII secolo, con impugnatura ad anello articolato nella quale il pettine di derivazione longobarda si fa piú complesso, secondo una strutturazione triangolare a tre barbe, presente in chiavi contemporanee di area centro- e nordeuropea.

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In alto esemplari di chiavi in ferro, probabilmente per cassettine o per mobili, dal Monte Barro. V-VI sec. Galbiate (Lecco), Museo Archeologico del Barro. A destra chiave in ferro dalla necropoli di Leno (Brescia). VI-VII sec. Nella pagina accanto, in alto e al centro chiavi longobarde dagli scavi di Sant’Andrea a Loppio (Trento). VII-VIII sec. Rovereto, Museo di Scienze e Archeologia. Nella pagina accanto, in basso chiave bizantina con sigillo in bronzo. XI-XII sec, Collezione privata.

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che divenne un piccolo universo di poteri locali, nei quali la coesistenza di molteplici influenze culturali spostò l’accento, per le arti minori, da una diffusione di modelli universalmente adottati con varianti locali a modelli specifici a seconda della zona e della cultura produttrice. Questo fenomeno si riflette in una sorta di ibridazione tecnologica nella cultura materiale, particolarmente evidente anche per chiavi e serrature dalla fine del V al tardo VI secolo, che prendono forma direttamente dai sistemi romani a «doppia spinta», semplificandone le componenti meccaniche attraverso una commistione tra il sistema «a sollevamento» e quello «a rotazione» (vedi box in queste pagine).

La versione bizantina

Un altro elemento significativo per i legami con il Vicino Oriente europeo sono invece le chiavi di età bizantina rinvenute nei territori anticamente soggetti all’esarcato (l’attuale Emilia-Romagna) e alle pentapoli, oltre che nel Lazio. Si tratta di chiavi «a rotazione» principalmente in bronzo, con impugnature fisse o snodabili ad anello e pettine «chiuso» a fori molteplici, tipologicamente affini a quelle diffuse nell’impero romano d’Oriente con minime varianti dal V al XIII secolo.

Per le chiavi d’uso domestico di questi primi secoli altomedievali, alcune caratteristiche comuni sembrerebbero la minore qualità tecnico-esecutiva e la standardizzazione formale, legata alla sfera funzionale piú che a quella estetica. Grazie a queste testimonianze, tuttavia, è possibile individuare alcune tracce di ciò che caratterizzò i secoli successivi, nei quali le popolazioni insediate consolidarono la loro stanzialità e modellarono ulteriormente molti aspetti della società attorno alla ricca eredità classica, rielaborandola. Non si tratta di secoli oscuri, bensí di un complesso insieme di interazioni e mescolanze, che porta a elementi nuovi: è la genesi germinale della struttura sociale bassomedievale, un percorso storico imprescindibile, ricco di spunti dal quale scaturirono nuovi linguaggi nel campo sociale, in quello artistico e in quello cultuale. Proprio in questa seconda fase, per chiavi e serrature si assiste, specialmente in Europa, al ritorno di oggetti di alta qualità esecutiva, in cui è ormai dominante l’utilizzo di meccanismi «a rotazione». Il volgere del millennio portò con sé, come progressivo risultato di questo lungo processo storico, un’Europa piú complessa, in cui le strutture sociali consolidarono le proprie forme, delineando i contorni della società feudale. Di pari

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Dossier «alla normanna»

Nuove soluzioni tecnologiche Dopo la caduta dell’impero romano, anche per le chiavi «a rotazione» si sviluppa una nuova tipologia, destinata ad avere continuità e fortuna nel tempo: quella oggi detta «alla normanna» per la sua derivazione formale delle chiavi anglosassoni e vichinghe a impugnatura allungata. L’aspetto è frutto della semplicità realizzativa che comportava anche un minor impiego di materiale: tramite l’arrotolamento di una lamiera ferrea e l’inserimento del codolo superiore nel fusto di risulta, si genera l’impugnatura detta per questo «a cappio». La coppia di chiavi unite da una catena, rinvenute nel 1939 in località Volta di Besta a Molina di Ledro (Trento; vedi disegno qui sopra), lunghe 13 e 14 cm e databili al VI-VII secolo, sono fra i piú antichi reperti a oggi conservati. passo con le profonde innovazioni in campo agricolo e tecnologico che garantirono una maggiore produzione di derrate alimentari, il rinnovato vigore degli scambi commerciali portò a un maggiore sviluppo economico e demografico. Si moltiplicarono case in muratura e castelli, abbazie, pievi e monasteri e, con questi, anche in campo artistico si sviluppò un nuovo linguaggio, che mutò di continuo assieme alla società durante i secoli a venire. La nascita dei comuni e il nuovo potere attrattivo delle città crearono un crescente bisogno di beni mobili e, di conseguenza, una progressiva ristrutturazione della rete artigianale, che coinvolse tutti i settori produttivi: un ritorno alla complessità e alla multiformità dei modelli caratterizzò anche la maggior parte della cosiddetta «arte minore» e le varie botteghe tornarono a specializzarsi, non per ultime quelle dei mastri serraturieri. Nel periodo bassomedievale anche per chiavi e serrature cambiò lo stile, ma non il modello fun-

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zionale e, per una certa parte di oggetti, la produzione divenne quasi seriale. A partire dall’XI secolo gli edifici e tutti i beni a essi legati si moltiplicarono e, con questi, le chiavi, non solo come oggetti, ma anche nelle immagini che popolarono copiose i portali, i capitelli e gli affreschi delle chiese romaniche e gotiche, riportando questa volta forme precise, derivate dagli strumenti d’uso contemporanei (vedi, per esempio, la foto a p. 77). Dalla semplicità delle chiavi da mobile con impugnatura piatta e foro centrale alla complessità dei pettini «a cartella» delle chiavi romaniche francesi, i manufatti mutarono le forme secondo un’estetica pulita ed essenziale, non priva di una poetica ancora attuale. Allo stesso modo, a partire dal tardo XII secolo, le impugnature a

L’età carolingia

Le chiavi al tempo di Carlo Magno Le chiavi merovingie sono un interessante prodromo, ma è l’età carolingia, soprattutto per il territorio francese, a produrre manufatti dalla ineguagliata qualità, in cui il ritorno preponderante del bronzo «a cera persa» è il sintomo di un rinnovato e manifesto recupero stilistico e ideologico in linea con la formazione del Sacro Romano Impero. Le loro impugnature si arricchiscono, innalzandosi in complesse strutture ad archi sovrapposti o trafori, in cui trovano spazio croci e forme dalle piú intricate soluzioni geometriche; anche la decorazione riappare con impressioni a «occhio di dado» o bulinature su tutta la superficie. Mirabili esemplari, databili fra VII e X secolo, sono oggi conservati nel Musée Le Secq des Tournelles di Rouen, in Francia. L’epoca ottoniana porta avanti la medesima linea qualitativa: le impugnature si arricchiscono

Chiave di epoca tardo-carolingia. Stenico (Trento), Castello.

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losanga delle grandi chiavi gotiche (vedi foto a p. 78, in basso) tornarono via via a complicarsi, gettando le basi per la ramificazione di nuove componenti stilistiche sino al XV secolo, come in un continuo processo creativo della storia.

Il potere delle immagini

Per noi risulta oggi sin troppo semplice sottovalutare il potere di un’immagine, in un’epoca nella quale il ritmo del tempo è vorticoso e le esigenze umane non sembrano piú dettate dalla natura; siamo quotidianamente bombardati dalle immagini che ci piovono addosso da ogni dove, moltiplicate all’infinito dai mezzi di comunicazione e strumentali al continuo consumo, messaggi costruiti per imprimersi nelle nostre coscienze generando emozioni momentanee il cui scopo

di corone cilindriche per il passaggio della corda e i pettini di cifrature piú complesse, attraverso cartelle a pertugi chiusi dalle forme geometrizzanti, che trovarono grande sviluppo e piena fortuna dopo l’XI secolo, in età romanica. In questi secoli per la bassa Germania e il Nord Italia assistiamo, nei manufatti migliori, all’elaborazione della tipologia «normanna» attraverso l’arricchimento delle impugnature in ferro con l’inserimento, mediante saldatura autogena, di racemi decorativi interni ed esterni secondo soluzioni dal grande impatto visivo; dalla chiave del Monte Barro a quella conservata nei musei trentini, sino alla chiave della «Santa Casa di Loreto».

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è a volte magari legato all’effimero, alla creazione di un’idea, all’acquisto di un prodotto. Nel Medioevo non era cosí e la realizzazione delle immagini non era cosí scontata; essa richiedeva uno sforzo fisico e materiale forte, che si rifletteva nel messaggio di cui si faceva strumento espressivo. Dipinte su un muro o scolpite nella pietra, tramite la loro fissità da un lato o la loro tridimensionalità dall’altro, colpivano profondamente chi le osservava, tanto che personaggi, manufatti o animali s’impregnavano di simbologie piú comprensibili e immediate della scrittura, accessibile, quest’ultima, solo a una minima parte della popolazione. Fra i molti oggetti d’uso comune rappresentati nell’arte medievale, la chiave occupa certamente

Chiavi in bronzo di epoca carolingia. VIII-IX sec. Rouen, Musée le Secq des Tournelles.

un posto di primaria importanza e, con il passare del tempo, divenne una sorta di icona pop, diremmo oggi, garanzia assoluta nella diffusione dei suoi messaggi simbolici a tutte le classi sociali. I responsabili del fenomeno sono in senso esteso i due principali regolatori della società medievale: il potere spirituale, ossia quello adibito al «governo sulle anime»,e il potere temporale, deputato al «governo sugli uomini», sia esso imperiale o civile. Entrambe le «sfere», non sempre in distinzione fra loro, utilizzano la chiave come simbolo del proprio potere e rappresentano, al tempo stesso, le sole «classi» ad avere i mezzi economici per produrre o commissionare gli oggetti d’arte figurativa necessari all’identificazione o al mantenimento del proprio status o a perpetuare le proprie istituzioni. La scultura medievale occidentale offre molte testimonianze a riguardo, in particolar modo grazie all’edilizia monumentale: se per edifici civici o privati assistiamo all’utilizzo di «chiavi» per guarnire soprattutto stemmi familiari (sotto forma di emblemi come espressione di potentati locali, comitali o marchesati) o cittadini (insegne comunali), per quelli ecclesiastici – come pievi, chiese o cappelle cristiane – queste sono sempre compendiarie a scene sacre o simboliche, spesso a tema vetero- o neotestamentario. Per l’importanza storica legata all’oggetto e per i profondi risvolti antropologico-culturali, è proprio l’aspetto cultuale a catturare maggiormente il nostro interesse. Nell’Europa continentale infatti, secondo un lento processo di adozione di alcuni elementi classici, il culto cristiano fa della chiave un attributo proprio, garantendogli continuità e implementandone la potenza attraverso i secoli a venire, esattamente come per alcune figure di santi, festività e tradizioni.

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In questo caso la nostra fonte principale è la raffigurazione di una autentica superstar della cultura cristiana: san Pietro, per il quale la chiave o le chiavi diventano l’attributo onnipresente. Il legame imprescindibile con l’apostolo decreta la fortuna iconografica dell’oggetto comune, come in una sorta di simbiosi che, fin dai primi secoli della religione cristiana, lo riconosce, assieme all’idea stessa della Chiesa per gli uomini, quale passaggio o porta per la vita eterna a mezzo dell’azione salvifica del Cristo. L’accostamento della porta alla divinità deriva anch’es-

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so dall’età classica: la parola janua, che la identifica, è simbolo del passaggio e, non a caso, le stesse radici fonetiche si trovano nel nome del dio dai due volti, Giano «bifronte», che da un lato è rivolto verso ciò che sta davanti e, dall’altro, a ciò che sta dietro, oppure in quello del primo mese dell’anno, che tutti conosciamo come gennaio o januarius, la porta d’ingresso del nuovo anno attraverso quello vecchio.

Oggetti emblematici

Pietro ne diventa il diretto portavoce fra gli uomini e, come tale, viene spesso stigmatizzato assieme

a Paolo – che come attributo avrà la spada – in un episodio cardine nelle immagini della Chiesa medievale: la «Traditio legis et Clavium» in cui Cristo consegna ai due santi la legge e le chiavi (vedi, per esempio, la foto a p. 84). Anche in questo caso i due oggetti emblematici rimandano a concetti cardine, l’uno legato alla necessità della custodia e l’altro a quella della difesa della Chiesa attraverso l’ennesimo riutilizzo dell’eredità classica e a sua volta di quella preclassica, intessendo pur con le singole differenze un continuo filo rosso nella storia umana. Ma torniamo alla figura di san gennaio

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A sinistra, sulle due pagine particolare del rilievo raffigurante la Lavanda dei Piedi che orna il «pontile» (una struttura sopraelevata di recinzione presbiteriale) del Duomo di Modena. 1165-1184. Al centro, accanto a Gesú, è l’apostolo Pietro, con le chiavi. A destra un’altra immagine di san Pietro con le chiavi, nella decorazione di un capitello del chiostro di S. Orso ad Aosta. XII sec.

Pietro: la sua rappresentazione iconica diventa in breve il simbolo stesso della Chiesa di Roma, secondo uno schema talmente immediato e mimetico da diffondersi universalmente in ambito cristiano sin dall’Alto Medioevo. Nelle sue prime rappresentazioni troviamo la dedicazione scritta con il nome e, al massimo, una croce o un rotulo nelle mani, ma non le chiavi: queste cominciano ad apparire come attributo petrino verso la fine del VI secolo, ma ne accompagnano la figura soprattutto dopo l’VIII, in un momento di forte consolidamento del papato su tutta la Chiesa.

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I successori di Pietro poi utilizzarono l’immagine della chiave come conseguenza del passaggio di testimone avvenuto per la prima volta direttamente tramite le parole di Gesú Cristo, che dona all’apostolo le chiavi per il regno dei cieli: «Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam,et portae inferi non praevalebunt adversum eam, et tibi dabo claves regni coelorum, et quodcumque ligaveris super terram, erit legatum et in coelis; et quodcumque solveris super terram,erit solutum et in coelis» («Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non

prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli», Matteo 16,13-19). Il simbolo assume quindi anche una precisa funzione celebrativa rivolta verso la figura stessa del papa «vicario di Cristo» come detentore fisico della giurisdizione ecclesiastica e, per estensione, verso il potere temporale della Chiesa universale. Proprio tra il VI e l’VIII secolo, infatti, la chiave assume la valenza teologica e rappresentativa dell’intera istituzione ecclesiastica cristiana e,

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Dossier ti d’altare, miniature, coperte di evangeliari, reliquiari e altri oggetti di minor pregio, come sigilli o pendenti che, tra il X e il XV secolo, ci consentono di operare analisi e confronti crono-tipologici.

Le chiavi-reliquie

Il rinnovato rilievo simbolico attribuito alla chiave è fondamentale per capire un altro fenomeno tipicamente medievale con il quale trova un felice connubio: quello delle reliquie. Proprio per il grande valore apotropaico e taumaturgico a esse attribuito, la loro diffusione e adorazione sono aspetti centrali per la Chiesa: ingenti risorse economiche sono state impiegate da monarchi, papi e abati per la loro ossessiva ricerca e custodia alla stregua di una vera e propria corsa all’oro. Nel millennio medievale, non solo per il singolo individuo, ma per con essa, la conseguente necessità di una raffigurazione piú precisa. Come una forma di pubblicità ante litteram, la chiave, attraverso la figura di san Pietro, inizia a essere utilizzata come vero e proprio slogan della Chiesa secondo diverse forme, piú o meno esplicite; in alcuni casi il processo iconografico di fusione tra il santo e le due chiavi che tiene in mano diventa pressoché totalizzante, tanto che le loro componenti meccaniche, impugnatura e pettine, intersecandosi, compongono le iniziali del suo stesso nome, «PETRUS», come si trattasse del monogramma firmatario in calce a un documento emanato da un imperatore o da un papa. Proprio a partire dal X secolo circa in tutta Europa e anche oltre si moltiplicano gli esempi del santo con le chiavi e, spesso, questi le riportano secondo forme tipiche dell’epoca e del luogo che le ha prodotte, a volte con dettagli e precise peculiarità tipologiche. In questo senso troviamo capitelli o lunette, sculture lignee, paliot-

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In alto grandi chiavi in ferro di epoca romanica, dalla Francia. XII sec. Collezione privata. Nella pagina accanto affresco raffigurante la Vergine e san Pietro. Inizi dell’XI sec. Briga Novarese, chiesa di S. Tommaso. L’apostolo ha in mano le chiavi, che, intersecandosi compongono le iniziali del suo stesso nome, «PE(trus)». In basso grandi chiavi in ferro di epoca gotica. XII-XV sec. Collezione privata.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

la sua intera comunità, i cimeli di santi e martiri erano fondamentali: colui che stava vicino alla reliquia – e altrettanto valeva per gli oggetti appoggiati a essa o al reliquiario che la conteneva – poteva godere dei risultati miracolosi del suo potere confidando nella risoluzione di problemi legati alla sfera terrena o ultraterrena, guarigioni da malattie o assoluzioni da colpe a garanzia della salvezza spirituale. La logica concettuale è la stessa che si trova alla base delle sepolture ad sanctos nei luoghi di culto, in cui le spoglie

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del venerato diventavano fonte raggiante di beneficio e nucleo santificante dell’edificio che lo conteneva, spesso costruito in suo onore.

Alto artigianato

Come massimi fra i tesori, le reliquie e i loro contenitori diventano sempre piú preziosi, traducendosi in una vera e propria rappresentazione visiva del potere della Chiesa e dei suoi santi, secondo ostentazioni estetiche che raggiungono esiti dalla straordinaria valenza artistica. Fiera espressione di questa

tendenza sono le opere di oreficeria, diffuse in Europa proprio dalla tarda età longobarda e soprattutto in epoca carolingia e ottoniana: reliquiari «a borsa» e «a figure» diventano mirabili esempi della piú alta qualità artigianale, che sfoggia cammei classici e gemme preziose incastonate in superfici d’oro o d’argento riccamente realizzate entro un horror vacui di racemi, girali e decorazioni di ogni genere. La loro esposizione o il loro passaggio portava a una grande affluenza di persone e quindi alla gennaio

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A sinistra, sulle due pagine particolare del mosaico della cupola del Battistero degli Ariani a Ravenna. VI sec. Ai lati dell’etimasia, il trono vuoto con le insegne di Cristo, stanno Pietro, con le chiavi, e Paolo, con i rotuli delle sue lettere. In basso mosaico raffigurante la Traditio legis (Consegna delle leggi) da parte di Gesú Cristo a san Pietro. IV sec. Roma, mausoleo di S. Costanza.

il fenomeno della loro diffusione appaia multiforme e dilatato nel tempo lungo tutto il periodo medievale. Gregorio Magno fu uno dei primi teologi a parlarci di questi oggetti attraverso un episodio narrato nell’epistola del giugno 579, in cui ci dà notizia della situazione religiosa del suo tempo nei confronti delle popolazioni longobarde della prima generazione.

Il miscredente punito

possibilità di enormi ricavi per l’istituzione religiosa sia in termini economici che autoritari, ma non solo; grazie a esse, anche il commercio o il lavoro esercitato dagli altri strati sociali poteva rifiorire, come per miracolo. Questo grande meccanismo di fede e beneficio sta alla base di altri complessi fenomeni della società medievale, primi fra tutti quelli del pellegrinaggio e della corsa alla costruzione delle grandi cattedrali, che presero forte impulso tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo.

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La necessità spirituale e fisica che regolava il bisogno di questi spolia aveva caratteristiche e potenzialità specifiche a seconda dell’attributo legato al santo di riferimento e non sorprende affatto che anche la chiave trovasse forma e diffusione come reliquia grazie al suo duplice valore simbolico: nel legame con san Pietro, mediante oggetti direttamente santificati dal suo contatto, e nella già citata celebrazione della Chiesa di Roma e del papato. Grazie alle testimonianze offerte dalle fonti, osserviamo come

Si narra di un evento accaduto in una città dell’Italia transpadana risalente al tempo del suo predecessore, papa Pelagio II: il ritrovamento da parte di un Longobardo dell’esercito di re Autari di un reliquiario in oro a forma di chiave di san Pietro e delle sue conseguenze. Il barbaro ariano, non interessato alla valenza religiosa dell’oggetto ma solo al suo valore materiale, cercò di adattarlo a un altro uso e, mentre tentava di aprirlo, scalfendolo con un coltello, questo gli sfuggí di mano e lo trafisse alla gola, provocandone la morte immediata. Alla vista dell’accaduto, Autari e il suo contingente restarono impressionati e, chiamando un Longobardo noto come cattolico devoto, gli fecero raccogliere il reliquiario. Il sovrano fece quindi realizzare una chiave in oro dalla foggia simile e la fece inviare assieme al reliquiario e a un resoconto dell’accaduto al papa come segno di riconoscimento del miracolo avvenuto. La questione narrata fra le righe grazie all’emblema della chiave-reliquia intende legittimare la conversione al cristianesimo da parte della gens Langobardorum, evidenziando come questa non fosse ridotta a casi isolati ma diffusa già spontaneamente tra la popolazione. Dalle fonti scritte apprendiamo inoltre che piccole chiavi venivano mandate dai papi ad alti funzionari del potere – come sovrani, patriarchi, vescovi di città lontane – e patrizi, assieme a richieste o a

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Dossier documenti di esigenze politiche ed ecclesiastiche; le circostanze che attribuivano loro valore sacrale erano spesso legate ai resti delle catene che avvinsero san Pietro e a volte accompagnate dal dono di alcune porzioni di queste. Il culto legato alle Sante Catene, sia quelle della prigionia nel Carcer Tullianum (a Roma, nei pressi del Foro Romano) che di Gerusalemme, e ai suoi numerosi anelli, detti «boghe», vide un’importante diffusione nell’Alto Medioevo proprio per la particolare proprietà che veniva attribuita loro nella guarigione di malattie, fra le quali i sintomi

dell’avvelenamento provocati dai morsi dei serpenti o da animali affetti da rabbia.

Sulla tomba di Pietro

In passato anche la limatura in ferro di queste catene venne utilizzata per impreziosire le piccole chiavi in oro donate dai papi: una piccola parte di questa polvere metallica veniva inserita dentro i monili che spesso, prima della spedizione, erano posti sopra la tomba vaticana del santo e potevano avere anche una forma simile alle chiavi utilizzate per la confessio petrina. Curioso, per il periodo, è anche il riferi-

mento che vede l’inserimento della santa limatura nelle crocette auree. Le sacre «chiavette» venivano portate al collo per scampare pericoli e disgrazie di vario genere grazie all’intercessione del santo e spesso si accostavano alla benedizione degli occhi o della gola. Lo stesso Gregorio Magno ci offre altre testimonianze di questi doni ed è verosimile che la chiavereliquiario dell’episodio narrato si riferisca a questa tipologia di oggetti. Sempre attraverso un suo scritto veniamo a conoscenza di una chiave in oro contenente il ferro delle sacre catene mandata da lui stesso a Recaredo, re dei Visigoti, con queste parole: «Clavem vero La chiave di san Servazio in un disegno tratto da un’edizione delle opere del gesuita e bollandista belga Daniel Papebroch. XVIII sec. Nella pagina accanto, in alto la chiavereliquiario di sant’Uberto. XI-XIII sec. Liegi, Santa Croce. Nella pagina accanto, in basso la chiave di san Servazio. VIII-IX sec. Maastricht, basilica di S. Servazio.

la chiave di san servazio

Una reliquia leggendaria Secondo Gregorio di Tours, l’armeno Servatius, dopo essere stato custode del Santo Sepolcro di Gerusalemme e passato al vescovato di Tongres, si recò in pellegrinaggio a Roma per scongiurare i pericoli dell’attacco alla Gallia da parte degli Unni; durante una veglia di preghiera sulla tomba di san Pietro, ebbe una visione in cui l’apostolo, dopo avergli predetto il saccheggio di Tongres, gli donò la chiave con cui aprire la «porta del cielo» per rimettere i peccati dei suoi concittadini e salvarli dalla sciagura. Il santo morí nel 384 a Maastricht e sulla sua tomba fu subito eretta una chiesa lignea, in seguito piú volte rimaneggiata, fino all’attuale basilica romanica, che conserva le reliquie di Servazio, fra cui la chiave, in lega d’argento e oro, lunga 28,5 cm. Il dato di nostro interesse è vincolato all’antica credenza, espressa nelle fonti, che l’oggetto sia identico, per forma o provenienza, a quello della confessio petrina come derivato della chiave di Pietro.

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In realtà, studi recenti hanno fatto luce sulla sua realizzazione: secondo la teoria piú accreditata, il prezioso manufatto, databile tra l’VIII e il IX secolo, sarebbe un magnifico esemplare di oreficeria carolingia la cui ricca decorazione, composta da volute vegetali e racemi intrecciati, riporta a esempi scultorei tipici delle regioni del Reno e della Mosa. Anche il pettine, composto da cinque pertugi a forma di croce è simbolo della Chiesa di Cristo e formalmente un archetipo dei pettini «a cartella» largamente sviluppati nelle chiavi tra XI e XIII secolo. L’oggetto di culto, dall’aura leggendaria, non appare quindi coevo alla vita del santo, quanto piuttosto a una vicenda di donazione o di migrazione dalla sede papale romana in occasione di un evento importante legato alla basilica e alle sue reliquie. Di fatto, al suo interno è contenuta della limatura di ferro, attribuita alle catene di san Pietro, come in uno dei numerosi casi citati in queste pagine. gennaio

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parvulam a sacratissimo beati Petri apostoli corpore vobis pro eius benedictione transmisimus, in qua inest ferrum de catenis eius inclusum, ut quod collum illius ad martyrium ligaverat, vestrum ab omnibus peccatis solvat» («Vi abbiamo trasmesso per la sua benedizione una piccola chiave del corpo santissimo del beato Pietro apostolo, nella quale è racchiuso il ferro delle sue catene, affinché ciò che legò il suo collo per il martirio vi liberi da tutti i vostri peccati»). La chiave-monile diventa un vero e proprio reliquario portativo, da tenere addosso per garantirsi la salvezza dell’anima. Dopo di lui numerosi pontefici mantennero l’usanza: Gregorio III

La chiave di Sant’Uberto di Liegi

Un prezioso (e presunto) dono papale

Una preziosa chiave-reliquiario è oggi conservata nella chiesa della Santa Croce di Liegi: trovata nel XIX secolo all’interno della tomba di sant’Uberto, nella chiesa di S. Pietro, è riferibile, secondo la tradizione, a una donazione papale fatta dopo il pellegrinaggio del vescovo di Liegi a Roma, avvenuto nel 691 o nel 721, e anch’essa contiene una reliquia di Pietro. In realtà, anche in questo caso recenti analisi indicano una datazione compresa tra l’XI e il XII secolo per l’impugnatura, mentre collocano la fabbricazione del fusto e del pettine tra il XII e il XIII. Il materiale qui utilizzato è il bronzo e la chiave, lunga 37 cm circa, è composta da due pezzi: il piú antico e importante è costituito da una grande impugnaturacontenitore a lanterna, riccamente decorata da un continuo traforo fitomorfo e zoomorfo, che si concentra in una grande croce terminante in una base sferica, su cui è raffigurato il Cristo crocifisso. ne inviò una a Carlo Martello per invocarne l’aiuto contro Liutprando, re dei Longobardi, che aveva posto Roma sotto assedio e cosí Leone II, nel 796, a Carlo Magno; solo per citarne i maggiori. A sottolineare questo tipo di devozione, Gregorio di Tours cita la consuetudine di mandare chiavi d’oro al Santo Sepolcro di Gerusalemme per riceverne in cambio quelle servite nel medesimo luogo tenendole con venerazione a guisa di reliquie e assumerne «per contatto» la forza sacrale e benefica a garanzia di protezione. Le descrizioni tratte dalle fonti, però, non consentono di ricostruire con pre-

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cisione la forma di queste chiavisimbolo. Le testimonianze materiali, del resto, mettono in luce la maggiore complessità del fenomeno e come spesso un oggetto utilizzato o venerato per secoli possa cambiare funzione e struttura durante il corso della sua storia. Sono giunte sino a noi infatti, come oggetti di forte devozione, sia chiavi-reliquiario che chiavireliquia: le prime sono per lo piú manufatti celebrativi dalla grande valenza artistica, veri e propri gioielli d’oreficeria realizzati in materiale nobile che potevano contenere reliquie, partecipando al loro potere sovrannaturale, mentre le

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seconde sono chiavi funzionali vere e proprie, alle quali, per storia o tradizione, si attribuiscono proprietà taumaturgiche e curative. Ciascun oggetto è protagonista di un percorso storico soggettivo piú o meno importante attraverso il quale gli stretti confini delle categorie sfumano e si riflettono le esigenze e la storia delle comunità cui appartengono.

Per il santo vescovo

Un esempio emblematico è la reliquia conservata nel tesoro della cattedrale di Maastricht, in Olanda: la chiave di san Servazio (vedi box a p. 82). La vicenda e la fama della reliquia nel Medioevo furono tali da portare alla definizione iconografica di Servatius mentre stringe la chiave per la salvezza e la guarigione degli uomini, ma non fu la sola legata a un santo vescovo (vedi box a p. 83). Queste splendide chiavi erano sacri contenitori creati per l’ostensione: le grandi dimensioni, la forma a gabbia e l’esasperata tendenza ornamentale delle loro impugnature si avvicinavano di fatto a quelle dei reliquari, aumen-

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Bassorilievo raffigurante Gesú Cristo che consegna a Pietro e Paolo i sacri simboli: le chiavi (Traditio clavis) e le leggi (Traditio legis). X-XI sec. Civate (Lecco), S. Pietro al Monte. Nella pagina accanto, a sinistra chiave distintivo da pellegrino. XV-XVI sec. Collezione privata.

San Pietro al Monte

Contro i morsi velenosi Un’antica leggenda attribuisce la costruzione del santuario di S. Pietro in Monte, a Civate (Lecco), al re longobardo Desiderio, che l’avrebbe promossa a seguito della miracolosa guarigione del figlio Adalgiso, che aveva perso la vista durante una battuta di caccia. Vera o presunta che sia, la storia è testimonianza dei valori cultuali del luogo, secondo i quali la visita del santuario civatese e la visione delle sue reliquie avrebbero portato alla guarigione degli occhi dei pellegrini affetti da disturbi alla vista. Le piú antiche notizie raccolte da Galvano Fiamma nel XIV secolo non si riferiscono però alle chiavi, bensí a diverse reliquie portate dal sovrano nel 780 d.C. tra cui «gran parte della catena, dalla quale fu legato San Pietro». Le chiavi appaiono nelle fonti soltanto dopo il 1615, in un atto di visita del cardinal Federico Borromeo e nel 1760 si ricordano a un lato dell’altare, chiuse entro un armadio da due grate di ferro con il riferimento alla provenienza dalla prigione di san Pietro. Queste chiavi, vere reliquie, erano poste sulle ferite per curare le persone morse da cani o da vipere. La devozione popolare continuò attraverso esposizioni solenni in occasione della festa «in monte» del santo fino alla fine dell’Ottocento e dopo lo spostamento nella chiesa civatese di S. Calocero arrivarono al museo milanese, negli anni Novanta del XX secolo. Un’ispezione disposta dal cardinal Ildebrando Schuster portò alla luce, entro ciascuna chiave, pergamene arrotolate contenenti cotone macchiato da aloni rossastri; forse i risultati ossidativi della polvere ferrea anticamente contenuta in esse. Di fatto, però, le chiavi, dalle descrizioni d’epoca conservate entro un reliquiario ambrosiano a turricola gotica, assieme a una fiala vitrea fatta risalire al XIII secolo, apparterrebbero, per tipologia e realizzazione, al periodo bassomedievale. gennaio

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la chiave della santa casa di maria

La reliquia perduta

tando il valore al vero tesoro di fede in esse racchiuso. Che fossero veri e propri mirabilia lo si evince anche dall’importanza data ai loro cordonieri apicali, dovuta proprio alla possibilità di una sospensione per mezzo di grandi e preziose corde, sottolineandone ancor piú la funzione comunicativa corale, lontana dalla possibilità personale di tenerle al collo. Una storia ancora diversa narrano le chiavi di S. Pietro in Monte a Civate (Lecco), oggi conservate a Milano, presso il Museo d’Arte Sacra (vedi box alla pagina precedente). Secondo l’attuale tradizione, le due «chiavi in ferro di rozza fattura altomedievale» potrebbero appartenere alla serie di esemplari diffusi dai tempi di Gregorio Magno; in realtà alcune vicende storiche e la loro forma raccontano tutt’altro. Si tratta verosimilmente di due oggetti collocabili tra il XII e la fine del XIII secolo con segni di usura e rotture che permetterebbero d’ipotizzare un loro antico utilizzo; quindi un reimpiego solo successivo come reliquie. A spiegazione dei fatti potrebbe essere valida l’ipotesi

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Nell’abbazia benedettina di S. Maria di Farfa (Rieti) si conservava quella che era ritenuta la chiave della casa della Madre di Dio; l’alzato della dimora di Maria portato prodigiosamente dagli angeli direttamente da Nazaret a Loreto nel 1294. La Sancta Clavis Domus Lauretana aveva una cappella dedicata e una grande venerazione che la portò al centro di una vicenda singolare: nel 1608, il sagrista Remigio, d’accordo con un fabbro di Bocchigiano, falsificò la reliquia ferrea, ma dopo qualche anno fu scoperto e deposto dalla carica. Da allora, sui due lati dell’impugnatura delle copie della chiave fu imposta la scritta a caratteri capitali «RITRATTO DELLA MIRACOLOSA CHIAVE DELLA SANTA CASA DI LORETO CHE È NEL MONASTERIO DI FARFA», quasi una forma primitiva di copyright. Nel 1643 «fu fatto il laccio d’oro con bottone tempestato di brillanti alla chiave dalla piissima contestabilessa Colonna, e l’abate la rinchiuse entro una cassetta di velluto, guardata da cristalli». La chiave originale, in In alto, a destra la chiave della Santa Casa di Loreto in una incisione attribuita a Francesco Bufalini. XVII sec. Roma, Istituto Centrale per la Grafica.

di un loro arrivo assieme ad altre reliquie o l’assemblaggio di pezzi della sacra catena a due chiavi dalla valenza simbolica forse derivate da un luogo sacralizzato; ma di questo non rimane notizia. L’interessante caso delle chiavi dette «di san Pietro» a Civate è certamente emblematico rispetto alle resistenze cultuali legate a questi oggetti che, diffuse dalla prima età altomedievale hanno trovato eco

ferro e lunga 13 cm circa, è oggi smarrita, ma dalle immagini e dalle fonti appare come una chiave nelle piú pregiate forme «alla normanna» con volute. Talvolta, queste reliquie, come accade per i moderni souvenir, moltiplicavano la loro immagine e la divulgazione del loro culto attraverso piccoli monili bronzei da appendere alle mozzette o ai cappelli dei pellegrini a protezione e segnale del viaggio intrapreso. e continuità per i secoli successivi con nuovi attributi. Il fenomeno infatti si protrae anche nel Basso Medioevo e, ancora in Italia, un’altra chiave è protagonista di una storia singolare legata all’abbazia di Farfa (vedi box in questa pagina). Ma questa è un’altra storia, legata a un periodo ancor piú avanzato e complesso in cui la simbologia della chiave acquistò sempre maggior potere semantico, di fedeltà, di fiducia, di riservatezza fino alla sensualità e alla lussuria; tutti elementi dell’uomo e della sua vita di cui nel bene e nel male è sempre stata compagna.

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C’è una torre nella torre di Franco Bruni

A Bassano in Teverina, nel Viterbese, si può ammirare la pregevole chiesa romanica di S. Maria dei Lumi. Un edificio dalla storia plurisecolare e che, fino a tempi recenti, si presentava inspiegabilmente privo del campanile, la cui esistenza era tuttavia suggerita dalle fonti d’archivio. Un autentico mistero, svelato dall’intervento di restauro condotto su una poderosa struttura difensiva innalzata a pochi passi dal tempio: al cui interno, come in un gioco di scatole cinesi... Una veduta del borgo medievale di Bassano in Teverina (Viterbo). Sulla sinistra svetta la Torre dell’Orologio, innalzata intorno al 1520-1550, inglobando il campanile duecentesco della vicina chiesa di S. Maria dei Lumi.

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olte e variegate sono le bellezze artistiche e paesaggistiche che la Tuscia viterbese è in grado di offrire; dalla visionaria immaginazione di Vicino Orsini, committente del celebre Parco dei Mostri di Bomarzo, alle magnifiche dimore rinascimentali di Bagnaia e Caprarola, dagli splendidi borghi arroccati su rupi tufacee ai tanti edifici medievali sacri e civili che li arricchiscono. Lontano dai circuiti turistici piú battuti di questo comprensorio, il borgo di Bassano in Teverina, situato nella media valle del Tevere tra Orte e Bomarzo, nasconde nel suo centro medievale, sorto anch’esso su uno sperone tufaceo, una storia venata di mistero legata alla chiesa di S. Maria dei Lumi e al torrione che la fronteggia.

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Le notizie d’archivio su Bassano nel periodo altomedievale sono piuttosto scarse e sono i dati archeologici che permettono di ricostruirne le varie fasi. Nella documentazione piú antica, si accenna alla presenza, a partire dal IX secolo, di una pieve, la succitata S. Maria dei Lumi – ma è probabile che un edificio di culto, forse rupestre, esistesse già nei secoli precedenti –, attorno alla quale si sarebbe costituito un primo villaggio rurale, poi ampliatosi nell’XI secolo sullo sperone tufaceo prospiciente la chiesa, in seguito al fenomeno dell’incastellamento, al quale Bassano non fu estranea, cingendosi nel corso del Duecento di mura oggi solo in parte conservate. Un’idea del suo sviluppo urbano si può forse ricavare dall’illustrazione di un abitato, senza nome, rappresentato nel Catasto rustico dei terreni di Orte, compilato nei primi decenni del XVI secolo: vi si vede al centro, una chiesa (S. Maria dei Lumi?) e, a sinistra, l’accesso al borgo sorto sul pianoro tufaceo, dirimpetto a una torre (forse il suo campanile?).

Possedimento ecclesiastico

Alla fase piú antica della storia del borgo rimanda una bolla pontificia emanata nel 1212 da Innocenzo III, in cui Bassano risulta tra i possedimenti della Chiesa, benché con molta probabilità appartenesse a quest’ultima già dall’XI secolo. Tale condizione di subalternità impedí ai suoi abitanti di darsi un’organizzazione paragonabile a quella di un libero Comune; la Chiesa stessa, in piú occasioni, cedette il feudo «in governo» dietro acquisto di una regolare concessione. Nel 1527, per volontà di Clemente VII, la patente di governatore viene venduta a un nobile napoletano, Alfonso de’ Lagnis, che la detiene fino al 1558. Questi ricostruisce A destra la colonna al primo piano del campanile di S. Maria dei Lumi su cui è scolpita la figura di un uomo nudo, visto di spalle, che, con la mano destra tocca quello che sembra un grande fallo.

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medioevo nascosto lazio il paese, dopo che, nel 1528, in seguito all’accoglienza data ai Lanzichenecchi prima del sacco di Roma, era stato distrutto, e lo dota di infrastrutture, di uno statuto e di un catasto. Tra le «memorie» della sua permanenza a Bassano, vi è il palazzo con lo stemma di famiglia costruito sulla piazza della Cisterna (oggi piazza Finzi), accanto alla porta di accesso al borgo. Nel 1559, alla morte di de’ Lagnis, Pio IV assegna il governo di Bassano al cardinale Cristoforo Madruzzo, e, qualche decennio piú tardi, al cardinale Marco Sittico Altemps, dopo di che, alla fine del Cinquecento, l’abitato torna alla Camera Apostolica.

Ricostruzioni e trasformazioni

Il centro storico di Bassano, dopo la violenta deflagrazione di un treno carico di munizioni il 25 novembre 1943 e ancor piú nel secondo dopoguerra, in seguito all’abbandono del centro storico, ha conosciuto vari tentativi di ricostruzione del suo impianto urbanistico, databile all’epoca tardo-medievale e rinascimentale. Tra gli edifici religiosi meglio conservati spicca appunto S. Maria dei Lumi, edificio religioso che ha subito nei secoli varie trasformazioni. Tra il X e il XII secolo, la chiesa fu ampliata, assumendo le tipiche fattezze romaniche. Altri interventi vennero effettuati nei secoli XVI e XVII, con l’aggiunta di due campate (portando a sei per lato il numero delle colonne). Alla metà dell’Ottocento, a seguito dell’incremento demografico, la chiesa perse di importanza a (segue a p. 92) Dall’alto la facciata e l’interno della chiesa di S. Maria dei Lumi, costruita nel XII sec. vicino all’antica porta di accesso del borgo fortificato, probabilmente su una pieve preesistente. Nella pagina accanto un’altra veduta di S. Maria dei Lumi e, in secondo piano, della Torre dell’Orologio.

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Lago di Bolsena

Viterbo

Bassano in Teverina Rieti Tev ere

Lago di Bracciano

ROMA

Latina

Frosinone

Dove e quando Torre dell’Orologio, chiesa di S. Maria dei Lumi Bassano in Teverina (Viterbo) Orario gli orari di visita variano stagionalmente Info tel. 347 3118021 o 388 6097490 https://bassanointeverina.com/torre-dellorologio

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Nella pagina accanto, a sinistra e in basso, a destra esempi dei motivi ornamentali che impreziosiscono i capitelli delle colonne di S. Maria dei Lumi. Fra gli altri, nella pagina accanto, si riconosce un Green Man (elemento molto diffuso dall’Alto Medioevo nell’architettura anglosassone), ovvero l’immagine di un volto umano dalla cui bocca fuoriescono elementi vegetali.

A sinistra il tetto a capriate di S. Maria dei Lumi, le cui falde sono decorate internamente da pianelle dipinte del XVI-XVII sec.

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medioevo nascosto lazio Con l’ampliamento della chiesa altomedievale, importante tappa sulla via di pellegrinaggio che dalla Flaminia, lungo la quale si era consumato il martirio di san Fidenzio, e dalla Amerina conduceva alle catacombe di S. Eutizio (Soriano nel Cimino), fu eretta la torre campanaria, anch’essa in stile romanico. Essa venne però dislocata a poco piú di una decina di metri della facciata della chiesa, probabilmente sulle fondamenta di un precedente edificio posto all’entrata del paese (un mausoleo, un precedente oratorio, oppure la porta

favore della nuova parrocchiale costruita al di fuori del borgo antico, per poi essere riconsacrata nel 1929, dopo lavori di restauro, seguiti da ulteriori interventi che hanno riportato l’edificio, tra gli anni Settanta e Ottanta del XX secolo, alle originali fattezze romaniche. E proprio la fase romanica (XI-XII secolo) di S. Maria dei Lumi è quella di maggior interesse. S. Maria dei Lumi fu allora edificata in blocchi di peperino – pietra da costruzione largamente impiegata nella Tuscia –, articolandone la struttura in tre navate, con tetto a capriate, piú tardi decorato con pianelle in cotto che raffigurano rombi alternati a gigli (XVI-XVII secolo).

Echi anglosassoni

Attirano l’attenzione i pregevoli capitelli delle otto colonne riconducibili a questa fase piú antica, variamente decorati: a motivo vegetale, a intreccio e, in particolare, con la figura di un «Green Man» (letteralmente, «uomo verde»), nella prima colonna di destra. Si tratta di un elemento decorativo molto diffuso nell’architettura anglosassone a partire dall’Alto Medioevo, rappresentato da un volto umano dalla cui bocca fuoriescono elementi vegetali: un simbolo che somma elementi pagani e cristiani con riferimento ai culti della fertilità e alla forza generatrice della fede in Cristo, piuttosto diffuso in architetture sia religiose che civili.

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di accesso al borgo nel suo primo incastellamento), come suggeriscono i blocchi di peperino piú grandi nella sezione inferiore della torre rispetto alla parete superiore. Successivamente, per ragioni di praticità, venne costruito un secondo campanile nella parte posteriore della chiesa (XVI secolo), poi demolito nel 1890 e rimpiazzato da un piú piccolo campanile a vela. Viene dunque legittimo chiedersi quale sia stata la sorte del campanile romanico, di cui, col passare dei secoli, si persero misteriosamente le tracce. Già dalla

metà del XVI secolo, infatti – come sottolinea l’archeologo Stefano Del Lungo –, non si fa piú menzione di un campanile nella documentazione d’archivio, e, al suo posto, si parla invece di una torre di guardia presente nel luogo in cui un tempo sorgeva la torre campanaria.

La riscoperta

Solo agli inizi degli anni Settanta del Novecento, durante i lavori di restauro e di consolidamento di una torre di guardia collocata nei pressi di S. Maria dei Lumi – nota come Torre dell’Orologio –, il campanile romanico viene riscoperto casualmente, inglobato nella struttura. Come in un gioco di scatole cinesi, il campanile è stato ritrovato in ottimo stato di conservazione: la demolizione di un muro interno della torre ha infatti rivelato la presenza di un corridoio di intercapedine largo poco meno di 1 m e che si sviluppa per tutti i quattro piani dell’antica torre campanaria. Sia la torre esterna – la cui costruzione si data a cavallo del XV e XVI secolo – alta circa 25 m, e ospitante nella parte superiore un orologio decorato a mano (donde il nome), sia la piú antica torre campanaria inglobata al suo interno sono oggi visitabili lungo il corridoio di intercapedine, grazie a un percorso che permette di scoprire le peculiarità delle due strutture. Come per gran parte delle torri campanarie romaniche, i quattro lati sono ingentiliti dalla presenza a ogni piano da finestre a piú luci, che, oltre a impreziosire le facciate, avevano la funzione di alleggerire l’intera struttura. In due bifore del primo piano spiccano due colonne a «telamone» (elementi architettonici antropomorfi di sostegno): il primo indossa una tunica

Sulle due pagine, da sinistra un’altra veduta della Torre dell’Orologio e una serie di disegni ricostruttivi che illustra il rapporto fra la sua struttura e quella del campanile romanico della chiesa di S. Maria dei Lumi; in particolare, qui a destra, viene mostrato il rapporto fra i volumi delle due costruzioni.

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medioevo nascosto lazio I telamoni di Bassano

Un motivo diffuso I telamoni bassanesi riconducono a una impronta stilistica nordica, ben presente nella Tuscia viterbese, dove lo stile lombardo ha influenzato l’architettura locale. Esemplari, in questo senso, sono le basiliche di S. Pietro e S. Maria Maggiore a Tuscania, la chiesa di S. Maria in Castello a Tarquinia, e altre chiese di Viterbo. Nel caso specifico dei telamoni, però, i riscontri con analoghe «presenze» nella Tuscia viterbese si fanno piuttosto rari; due sono gli esempi noti: una colonnina antropomorfa collocata nella bifora del lato sud della torre campanaria di S. Sisto a Viterbo; un telamone presente nella bifora del campanile di S. Bruna in località Aliano, a Gallese. Per altre testimonianze vicine ai telamoni bassanesi, ci si deve spostare piú a nord, con un esempio di colonnina antropomorfa presente nella facciata di S. Maria della Pieve ad Arezzo e un altro, sempre in facciata, collocato nella bifora sovrastante il portale della Pieve di Corsignano (Pienza, Siena).

In alto una colonnina-telamone presente nel campanile di S. Sisto a Viterbo e confrontabile con quelle bassanesi di S. Maria dei Lumi. A sinistra la colonna del campanile di S. Maria dei Lumi scolpita in forma antropomorfa, con una figura nuda che evoca il modello dello Spinario (scultura in bronzo derivata da un originale greco di età ellenistica, forse databile al I sec. a.C., e oggi conservata a Roma, nei Musei Capitolini). Nella pagina accanto un altro esempio di colonnina-telamone, in questo caso visibile nella facciata della pieve di Corsignano (Pienza, Siena).

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Da leggere Stefano Del Lungo, Bassano in Teverina. Le origini (VI-XII secolo) e le sue chiese, Scienze e Lettere, Roma 2016 Stefano Del Lungo, Bassano in Teverina. Aspetti di vita quotidiana nel Borgo al tempo del governo di Alfonso de’ Lagnis (1527-1558), Scienze e Lettere, Roma 2019

Con molta probabilità, i tre telamoni sono da attribuire alle maestranze comasche all’epoca attive nell’area del Viterbese (Vasanello, Tuscania), ipotesi che ne spiegherebbe l’impronta stilistica «lombarda». La struttura del campanile, invece, sarebbe di committenza monastica e attribuibile alle stesse maestranze romano-bizantine attive a Roma e nella vicina Orte (campanile di S. Silvestro). Il quarto piano non presenta elementi architettonici di particolare rilievo; in esso si aprivano in origine quattro finestroni a tutto sesto, poi rimpiazzati, dopo la costruzione del muro esterno della torre militare, da due finestre piú piccole.

Una presenza poco ortodossa

con cinturino ed è raffigurato nell’atto di sostenere la colonna; il secondo è nudo e curiosamente caratterizzato da un membro virile di dimensioni esagerate. Dal secondo piano in poi, nelle pareti si aprono finestre a trifora, secondo la tipica progressione dell’arte romanica che tendeva ad alleggerire gradualmente le strutture murarie delle torri campanarie. Anche a questo livello i capitelli delle colonnine presentano varie decorazioni architettoniche: sul lato nord-est troviamo una colonna a tortiglione, mentre in altri casi sono scolpite a rilievo rose e altri elementi vegetali. Al terzo piano ritroviamo una colonna a tortiglione, ma di fattura migliore rispetto alla precedente. Accanto a essa, un terzo telamone (lato nord-ovest), raffigura un personaggio seduto, a gambe accavallate e, ancora una volta, caratterizzato da un grande fallo. Questa figura ci riporta alla leggenda dello «spinario», ossia a Marzio, un eroe vitorchianese (Vitorchiano è un paese non distante da Bassano) di cui si narra che, nell’accorrere a Roma per avvisare dell’imminente attacco di Vitorchiano, si fosse punto il piede con una spina. Pressoché ovvio è il rimando al celeberrimo spinario di epoca ellenistica esposto nei Musei Capitolini di Roma.

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Affascinante risulta l’allestimento della torre campanaria: specchi collocati nelle controfacciate della torre di guardia permettono infatti di apprezzarne i dettagli architettonici. Del quale restano tuttavia irrisolti alcuni enigmi: inspiegabili, per esempio, sono i grandi attributi sessuali di due dei tre telamoni; una presenza poco ortodossa, visto il luogo che li ospita, ma non del tutto insolita (si consideri il contrasto fra l’Amor Sacro, rappresentato dal personaggio vestito e rivolto verso la chiesa, e l’Amor Profano, rappresentato dal personaggio nudo rivolto verso la campagna). Curiosa appare anche la scelta di inserire i tre telamoni a un’altezza abbastanza elevata, tanto da comprometterne la visibilità dal basso: che si tratti di una «licenza» da parte del «maestro» incaricato di scolpire le colonne? È difficile rispondere e, d’altronde, anche nel resto della Tuscia viterbese, che pure è ricca di «presenze» romaniche, sono rare le testimonianze che rimandino ai telamoni bassanesi (vedi box alla pagina precedente). Come del resto sfuggono le ragioni che possono aver portato alla copertura integrale, a distanza di tre secoli, del campanile romanico e alla sua trasformazione in una torre militare: una sorta di damnatio memoriae? Motivare l’operazione con l’esigenza di dotare il borgo di una torre di guardia parrebbe una giustificazione un po’ debole… E se l’intento fosse stato quello di nascondere le imbarazzanti nudità dei telamoni, sarebbe stato senza dubbio piú semplice rimuoverle a colpi di scalpello. Il mistero del «campanile nascosto» di Bassano in Teverina è, insomma, una questione aperta…

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CALEIDO SCOPIO

Storie, uomini e sapori

Sesso, cibo e... castità di Sergio G. Grasso

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l cibo come allegoria sessuale è stato a lungo parte della tradizione occidentale. Basti pensare al frutto proibito di Eva, alle mele d’oro di Afrodite o alla prostituta dell’epopea di Gilgamesh che civilizza Enkidu, l’uomo selvaggio, introducendolo ai piaceri del mangiare e del sesso. Nella successiva letteratura medievale l’utilizzo del cibo come metafora sessuale non è altro, dunque, che un traslato storico dall’antichità. Gli autori ell’età di Mezzo attingevano a convenzioni letterarie e sociali millenarie, ricollocando cibo e sessualità nella cultura cristiana come risposta agli «errori» della società greca e romana, in cui l’adulterio, la fornicazione e il tradimento erano associati ai luoghi in cui mangiare, alle tabernae e alle cauponae, intese come luoghi nei quali ci si dava all’ubriachezza e si esercitava il meretricio, nonché ai triclinia e ai simposia, che degeneravano in osceni festini animati da prostitute o giovani ragazzi. Orazio scrisse spesso di un passato in cui le fedeli mogli dei contadini preparavano pasti semplici per i loro mariti, in contrasto con le donne del suo tempo, che mostravano di impegnarsi in atti sessuali rozzi, indulgendo in diete lussuose, ben lontane dalla parca tradizione romana. Altri scrittori, come Giovenale e Persio, descrissero banchetti farciti di sesso all’interno delle loro opere e Petronio si avvicinò pericolosamente alla realtà, parodiando la decadenza culinaria e carnale dei banchetti

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Capolettera miniato raffigurante Jean Bodel che declama in pubblico il suo Congé, da una raccolta di opere in versi in antico francese. 1285-1292. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

dell’imperatore Nerone; basti, fra tutte, la descrizione della scandalosa cena di Trimalcione, durante la quale gli ospiti si contendono l’attenzione sessuale di uno schiavo, mentre scrutano la moglie dell’anfitrione che inizia a prostituirsi ubriaca.

Carote ai senatori Allo stesso modo, l’imperatore Caligola era famoso per combinare cibo e sesso e giunse al punto di servire al Senato una cena a base di piatti di carote, considerate un potente afrodisiaco, sia per le loro supposte proprietà, sia per la forma fallica che per il colore viola scuro. Dell’interdipendenza tra appetito cibario e desiderio sessuale hanno trattazione di molti Padri della Chiesa, tra cui san Clemente (I

secolo), Tertulliano (III secolo) e ancor piú san Girolamo (V secolo), il quale, attingendo alla teoria umorale degli scritti medici di Galeno, enumera gli alimenti che incrementano il calore corporeo e l’ardore carnale. La continenza sessuale era centrale nel concetto di ascetismo cristiano di Girolamo, ma era una condizione minacciata dall’esistenza fatale delle donne che, benché cristiane o vergini consacrate, erano ritenute per natura «sensuali, lascive, ghiottone, ubriacone e arroganti». In molte lettere indirizzate alle donne, Girolamo prescriveva loro il digiuno allo scopo di «raffreddare i loro piccoli corpi già caldi», le esortava addirittura ad astenersi da ogni cibo, determinando, pur senza volerlo, la morte per inedia di alcune ragazze. Dichiarava apertamente che «benché Dio non si compiaccia del brontolio dell’intestino o del vuoto dello stomaco, questo è l’unico modo per preservare la castità». Per molti secoli l’impatto delle opinioni e degli scritti girolamini sull’accostamento pruriginoso tra cibo e sesso fu notevole. Lo testimonia il Templum Dei del teologo e vescovo inglese Robert Grosseteste (1175–1253), che inquadrava la gola e la lussuria come un unico peccato della carne «contro se stessi». Il francescano Jacopone da Todi (1228?-1306) gennaio

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Miniatura raffigurante una stufa, una via di mezzo tra il bagno pubblico e il bordello, da un’edizione dei Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo. 1470 circa. Berlino, Staatsbibliothek. La scena è intesa come un’allegoria della gola e della lussuria: i due personaggi che compaiono sulla porta della sala sarebbero Valerio Massimo e l’imperatore Tiberio, a cui l’autore dell’opera mostra la depravazione che imperversa, con uomini e donne nudi che si lavano e mangiano insieme oppure si lasciano andare a effusioni, come nella stanza di fronte, allietati dalla musica prodotta da un suonatore di liuto.

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Miniatura raffigurante Lancillotto che, nel letto, racconta a Ginevra di come, durante il torneo, la sua forza fosse venuta meno dopo essersi accorto che la regina lo stava guardando, da un’edizione del Livre de Lancelot du Lac realizzata in Francia. 1316 circa. Londra, British Library.

parafrasava proprio san Girolamo, affermando: «Controlla la tua ingordigia perché l’eccesso è veleno e compagno della lussuria». Fino a tutto l’illuminismo – ma anche oltre – gli scritti teologici, letterari e anche medici hanno stabilito una forte connessione tra indulgenza culinaria e vocazione alla lussuria. Troviamo gli esempi piú significativi nelle pieghe della letteratura francese del XII e XIII secolo, piú o meno all’epoca in cui Filippo il Bello convoca gli Stati Generali, deciso a liberarsi del giogo papale. Fino a pochi decenni fa, persisteva lo stereotipo di un Medioevo visto come un’epoca oscurantista, casta e bigotta, in cui i codici cavallereschi regnavano sovrani e la vita di ognuno era scandita da prescrizioni alimentari e astinenze penitenziali. È pur vero che aedi, cantori, trovatori e menestrelli del Due e Trecento cantavano l’amor cortese e intrattenevano signori e cortigiani con le chansons de geste, ma è altrettanto vero che alcune

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fonti letterarie ci rivelano un’età di Mezzo sorprendentemente disinvolta e libertina, che poco si curava delle reprimende della Chiesa: si praticavano la disobbedienza e la trasgressione, si mangiava carne anche di Quaresima e si viveva una sessualità libera, in modo nemmeno tanto segreto. I divieti, i precetti e i tabú morali esistevano negli scritti di patristica e nei sermoni ex pulpitis piú che nella quotidianità.

Divieti poco efficaci Non dava certo il buon esempio il clero incaricato di controllare la condotta dei fedeli, poiché sacerdoti e vescovi si sentivano autorizzati ad avere mogli e figli e a sedere a tavole imbandite con ogni bendidio. Nel 1049 papa Leone IX proibí i rapporti coniugali agli ecclesiastici, ma il divieto ebbe cosí scarso successo che, dieci anni dopo, papa Nicola II fu costretto a rinchiudere le concubine del clero romano nel Palazzo del Laterano. Solo il Concilio del 1139 vietò ai religiosi

di contrarre matrimonio – che era un atto civile, riconosciuto come sacramento solo dal Concilio di Verona del 1184 – ma ciò non impedí a molti ecclesiastici di continuare a vivere con le rispettive amanti (le pretesse) e di intrattenere rapporti carnali con donne dentro e fuori la comunità. Gli unici a fare voto di castità e a sottomettersi a precise regole alimentari erano i monaci, le cui gioiose trasgressioni dietetiche nei refettori conventuali erano oggetto di facezie, fino a favoleggiare di immorali pratiche erotiche all’ombra dei chiostri. Uno spaccato di questa ben poco austera società medievale si può rintracciare in opere come il Roman de la Rose, i Canterbury Tales, il Decameron e, soprattutto, nei fabliaux, narrazioni in versi, argute e divertenti, composte in lingua galloromanza (langue d’oïl) e destinate a intrattenere il pubblico nelle piazze, nelle osterie, ma anche nelle abitazioni borghesi. Ne sono giunte fino a noi poco piú di 150, lunghe tra i 100 e i 500 versi, composte tra il 1180 e il 1330 da menestrelli e giullari come Jean Bodel, Gautier le Leu, Rutebeuf o le Clerc d’Oisi. Si tratta di racconti satirici, comici e spesso osceni, di ambientazione borghese e quotidiana, che mettono in scena inganni e beffe, astuzie e ingegnosità, viscide macchinazioni e grossolani equivoci. Protagonisti dei fabliaux sono quasi sempre le donne, i villani, il clero, con le loro umane debolezze e le necessità fisiologiche. Nella cultura letteraria romanza «ufficiale», traboccante di donne angeliche e di cavalieri loro vassalli travolti dall’impeto gennaio

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della passione, gli accenni, vaghi o romanzati, al sesso immorale non mancano, benché trattati con decoro cortese; come fa Chrétien de Troyes narrando l’amore proibito di Lancillotto e Ginevra, in cui nega al lettore qualcosa di piú di uno sguardo voyeuristico

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della coppia: «Ora Lancillotto aveva ogni suo desiderio: la regina cercava volentieri la sua compagnia e il suo conforto, mentre lui la teneva tra le braccia e lei lo teneva tra le sue. Il suo gioco d’amore gli sembrava cosí dolce e buono, sia per i suoi baci che per le sue carezze, che in verità i due provavano

Estasi di santa Caterina da Siena, affresco del Sodoma (al secolo, Giovanni Antonio Bazzi). 1526. Siena, S. Domenico, cappella di S. Caterina. La santa praticò con insistenza il digiuno, inteso come ascesi, ma che oggi viene letto come possibile sintomo di una forma di anoressia nervosa.

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CALEIDO SCOPIO una gioia e una meraviglia, la cui uguale non era mai stata ascoltata o conosciuta. Ma lo terrò sempre segreto, poiché non dovrebbe essere scritto». Nei fabliaux questo «pudore dell’illecito» non esiste; la parola non raffinata, grassa, cruda, spesso sferzante fino alla brutalità, non veniva mai usata in modo disonesto. Esprimeva semplicemente, con un linguaggio terreno, una realtà fattuale, come le necessità fisiologiche che la costituivano e che venivano accettate senza scandalo e ripugnanza poiché «inter urinam et stercorem nascimur». Le necessità del letto forse offrivano maggiore interesse e potevano dar luogo a molte astuzie ed espedienti pur di soddisfarle, ma non solleticavano brame peggiori o maggiori di quelli suscitati dalla tavola o dal cesso. Perché, come scrisse Mino Chiari, «quando tutto si sa, quando tutto si vede e rivede cosí com’è, non nascono prurigini, pari a quelle che destano le ipocrisie raffinate, fra le quali non è ultima l’esaltazione dell’amore fisico a un’altezza quasi

divina, che lo rende signore di tutta la nostra vita, a essa assoggettata, senza riguardo né al bene né al male» (I Favolelli, 1932).

Un prete licenzioso Molti sono i racconti in cui al sesso illecito viene accostato il cibo. Ne è un esempio il fabliau Baillet, in cui un bravo ciabattino scopre che sua moglie ha una relazione con il prete locale. Il narratore descrive i dettagli dell’amore e del banchetto, che si svolgono in assenza del marito in modo cosí fluido che i confini tra le due situazioni sembrano non esistere. Cosí la moglie nutre l’amante prima di farsi mangiare fisicamente dal medesimo. Il segreto dell’alcova mangereccia avrebbe potuto essere tenuto nascosto al marito, se non fosse stato per l’impazienza della figlia del ciabattino, che veniva corrotta per il suo silenzio con i bocconcini elargitegli dagli amanti. Ne vedremo l’epilogo piú avanti. Nel fabliau De la bourgeois d’Orliens, un onesto e sospettoso marito Miniatura che illustra un’edizione del fabliau erotico Du prestre ki abevete (Il prete guardone), scritto in francese antico da un autore noto come Garin, attivo nel XII sec.

incarica i suoi servi di far la guardia alla moglie, di cui sospetta l’infedeltà. Si traveste e si nasconde per sorprenderla mentre soddisfa l’amante, offrendogli prima un arrosto di manzo e poi il suo corpo; purtroppo i servi scambiano il padrone di casa per l’amante stesso e lo picchiano di santa ragione, mentre lei si gode il pasto e l’amante al piano di sotto. In un altro racconto, Du prestre ki abevete (traducibile con Il prete guardone), il sacerdote smanioso arriva a casa della sua amante, ma dalla finestra aperta la vede fare sesso col marito. Roso di gelosia, urla ai due il suo disgusto, ma il marito risponde che stanno solo mangiando, e per dimostrarglielo, invita il prelato a prendere il suo posto a tavola. Messosi fuori dalla finestra, con suo grande stupore vede il prete che fa sesso con sua moglie e gli urla di smettere, benché i due gli assicurino che stanno solo mangiando. Il voyeurismo attraverso la finestra «magica» sottolinea la natura consumabile del sesso e del cibo. Il destino del marito è quasi sempre quello di soffrire la fame e i casi di mogli che nutrono il legittimo consorte sono piuttosto rari. Nella novella Le clerc qui fu repus derriere l’escrin, si legge di una moglie che, mentre mangiava con un suo amante, fece partecipare al pranzo un altro dei suoi corteggiatori; il banchetto si trasformò in un gioco erotico, durante il quale giunse inatteso il marito che, dopo aver scoperto i due amanti nei loro nascondigli, si sedette a tavola per finire il pasto, optando per lo stomaco pieno piuttosto che per una lite con la moglie infedele.

Allusioni e metafore Oltre ai reiterati casi di sesso illecito e banchetto, nei fabliaux si fa ampio uso di giochi di parole, eufemismi e allusioni al cibo per descrivere le prestazioni amorose e soprattutto gli

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organi genitali. Il pene di un uomo è rappresentato attraverso immagini alimentari, «la cui lunghezza è come il collo di un’oca», «ha il colore di una cipolla rossa», «la sua apertura era grande come un fagiolo»; l’atto sessuale è descritto di volta in volta come «giungere alla fine della corsa», «allattare», «girare sullo spiedo», «arare e seminare», «macinare il grano», «schiacciare l’uva coi piedi», «battere le noci», «ungere l’arrosto» e «bardare la pancetta». Alla passione adultera veniva associata in particolare la carne, che gli antichi medici e i padri della Chiesa riconoscevano come responsabile dell’aumento della libido. Il consumo di carne, come la libertà di fare sesso, era uno

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dei sacrifici che un monaco faceva quando prendeva i voti. Per i laici, carne e sesso erano proibiti anche durante la Quaresima e la Pasqua, cosicché i matrimoni non venivano celebrati in questi tempi, poiché non potevano essere consumati. Nel fabliau Guillaume au Faucon, il giovane cavaliere Guillaume si rifiuta di mangiare fino a quando la moglie del suo signore non cederà ai suoi desideri. La moglie non rivela la vera speranza di Guillaume, ma, interrogata dal marito, risponde che egli desidera solo il suo «falco». Ottenuto il consenso, il digiuno culinario di Guillaume è finalmente soddisfatto da un banchetto sessuale con la moglie del suo signore. È qui interessante notare le implicazioni

Un gruppo di musicanti, particolare della pagina miniata dedicata al margravio Ottone IV di Brandeburgo nel Codice Manesse, una collezione di ballate e componimenti poetici redatta a Zurigo tra il 1300 e il 1340. Heidelberg, Biblioteca dell’Università. Ottone fu protettore di poeti ed egli stesso Minnesänger («cantore d’amore»). dell’uso del termine «falco» come eufemismo per i genitali della donna, visto che i falchi erano tradizionalmente visti come un uccello con associazioni maschili. Tuttavia, il suo uso nel racconto potrebbe essere un riferimento all’impiego del rapace nella caccia (la ricerca della carne) e sottolinea il ruolo sessualmente attivo e

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occasionalmente dominante o predatorio della moglie adultera. Inoltre, la violenza dell’uccisione potrebbe essere un sottile riferimento all’orgasmo, poiché il climax sessuale era occasionalmente indicato come una «morte». Nel già citato Baillet, la carne è

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il piatto forte della cena che la moglie tenta di servire al suo preteamante, ma è la stessa madia in cui generalmente si conserva la carne che diventa un oggetto centrale del racconto. All’arrivo improvviso del consorte-ciabattino, la moglie fa nascondere l’amante proprio

in quella madia. Il marito se ne avvede, ma, anziché svergognare il prete in privato, decide di umiliarlo pubblicamente e porta la madia al mercato per metterla all’asta. Terrorizzato, il prete comincia a pregare e Baillet fa salire il prezzo, magnificando le doti di quella gennaio

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Rappresentazione allegorica del peccato di gola dalla Tavola dei Peccati Capitali, olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1505-1510. Madrid, Museo del Prado.

madia di carne che parla latino. Il fratello del sacerdote che passava per il mercato, intuisce ciò che sta accadendo e compra la cassaforte a un prezzo esorbitante per salvare la vergogna del fratello. In tal modo Baillet realizza un lauto profitto dalla vendita, pone fine alla

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relazione della moglie e la priva definitivamente della carne che incita alla lussuria.

Il cibo come indicatore sociale Oltre a fornirci un sorprendente spaccato della morale sessuale del XIII-XIV secolo, i fabliaux sono una sostanziosa fonte di notizie sulla vita quotidiana, le abitudini e gli atteggiamenti sociali dell’epoca. A cominciare dal cibo, che per la prima volta viene impiegato in letteratura come discrimine tra il mondo contadino e quello borghese-nobiliare. Nel racconto Le Prêtre et le chevalier, cosí si descrivono i preparativi per il pasto servito a un cavaliere da un ricco sacerdote: «Il cuoco sbuccia l’aglio, macina cumino e pepe, mentre quattro capponi e due polli sono stati arrostiti. La cucina offre un bellissimo spettacolo: le papere e i conigli sono già cotti, cosí come il pesce; Gillain il grazioso, il bello, ha preparato due sfogliatine e una galette; Madame Avinée ha scelto frutta da gustare e altre prelibatezze per il futuro; il sacerdote seziona le mandorle. Qualcuno accumula i denti d’aglio, un altro lo pepa con il cumino per cuocere a fuoco lento una deliziosa salsa». Elemento centrale dell’alimentazione dei meno abbienti era il pane, scuro e di profumo acre, subito raffermo e sminuzzato nelle zuppe o immerso nel latte per ammorbidirlo. Il consumo giornaliero superava «la grandezza di due palmi» a persona e forniva all’incirca i 3/4 delle calorie giornaliere. La varietà comune veniva prodotta con poca farina d’orzo o frumento e molta crusca. Vi erano poi i pani «di mistura», che si confezionavano nei periodi di carestia con cereali meno pregiati (miglio, spelta, avena), legumi (fave, ceci, lenticchie), castagne o addirittura ghiande. Sulla tavola contadina il

companatico (cum-panis) consisteva in zuppe di verdure dell’orto: cavolo e porri principalmente, ma anche cipolle, rape, aglio, carote, pastinache; chi poteva accompagnava il pane con formaggio fresco, grasso, secco e grattugiato, o, nei casi migliori con qualche fetta di lardo. Il latte intero era riservato ai bambini, alle donne incinte, agli ammalati e sempre fatto bollire prima del consumo; il restante si sgrassava per recuperare la panna con cui fare il burro, poi una parte si cagliava per fare il formaggio dal cui siero residuo si ricavava la ricotta. Solo una minima quantità, completamente sgrassata, veniva bevuta dagli adulti o impiegata nelle zuppe. La carne non era rara nella dieta dei contadini e dei lavoratori. Tassativamente esclusa la selvaggina, che spettava al signore, l’animale piú citato nei fabliaux è il manzo, seguito da capre e pecore. Quanto al pollame, lo si reputava di carne bianca e leggera, idonea solo per i delicati stomaci degli aristocratici; per queste ragioni il contratto agrario prevedeva quasi sempre che fosse devoluto al signore come tassa. Capponi, oca o pollo comparivano sulle mense dei villaggi solo in occasione di grandi feste, di matrimoni o di eventi particolari. Cibarsene di nascosto da parte di una famiglia contadina senza un «lecito» motivo rappresentava una trasgressione. Nel racconto Le trois aveugles de Compiègne, i tre ciechi indigenti che credono di aver ricevuto una grossa somma di denaro si permettono una sontuosa festa in una locanda: «L’oste preparò per loro cinque grandi servizi pane e carne, paté e pollame, e alcuni dei migliori vini, e poi li fece trasportare e fece mettere carbone nel fuoco». Nella novella Du vilain de Bailleul, la moglie infedele di un villano prepara il pasto da offrire al suo amante, ancora una volta il prete del villaggio: «Cosí avevano stabilito lei

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CALEIDO SCOPIO Particolare di una miniatura raffigurante un banchetto, da un’edizione manoscritta dell’opera Remède de Fortune di Guillaume de Machaut. 1350-1355. Parigi, Bibliothèque nationale de France. a cedere le sue grazie ai due chierici. «Pancetta» sarà usato con identico significato un secolo dopo anche da Geoffrey Chaucer nel suo Wife of Bath’s Tale, uno dei Racconti di Canterbury.

Quelle gocce di grasso...

e il sacerdote, di trascorrere la giornata festiva insieme. Era tutto già pronto, il vino era già nella botte e lei aveva cucinato, in aggiunta, il cappone; e la torta era coperta da una tovaglietta». La carne di maiale è presente soprattutto sulle tavole del clero e dei borghesi sotto forma di arrosti o stufati, trasformata in paté o pasticci, servita con salse acide

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a base di vino o aceto arricchite di pepe e cannella. Nel mondo rurale dominano i salumi, per lo piú realizzati con ritagli, carnicci, sangue e interiora. Nei fabliaux ricorre spesso la parola «pancetta» per indicare ogni tipo di carne di suino conservata. In Le Meunier et les deux Clers, con questo termine si indica la giovane donna disponibile

Le carni suine sono spesso associate a sacerdoti corrotti, avidi, golosi e lussuriosi; come nel racconto Du provost à l’aumuche, in cui un prete disonesto viene invitato a un lussuoso banchetto: «Come primo piatto, avevano piselli con pancetta i cui pezzi, che venivano serviti nelle ciotole, erano enormi. Quella pancetta grassa e spessa che gli era stata posta davanti piacque talmente al prevosto che si gettò sulla ciotola, la prese e la nascose infilandola sotto il grande cappello a tricorno». Constatata la sparizione, il padrone di casa chiede agli ospiti se per caso avessero visto il ladro; il prete giura di non saperne niente ma viene tradito dal grasso che, sciolto da un fuoco vicino, inizia a gocciolare da sotto il cappello. La bastonata finale è inevitabile. Nel secondo quarto del Trecento il «fenomeno» fabliaux pare esaurirsi. Si entrava in un turbine di carestie, epidemie, guerre, assedi e vessazioni del ceto fondiario, si assisteva a una destabilizzazione della società, aggravata dallo scisma avignonese che divise in due la cristianità occidentale. O, piú semplicemente, si esaurí la vena creativa com’è nella storia di qualsiasi movimento letterario che soccombe alle avanguardie pur resistendo nella memoria. La sorte postuma fu però benevola e ancora nel XV e XVI secolo i fabliaux furono apprezzati, molto spesso copiati, trasformati e adattati in opere teatrali o farse. gennaio

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Quando i santi prendevano le armi

Giustina, martire della vittoria di Paolo Pinti

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ata in una nobile famiglia padovana, Giustina visse tra la fine del III e gli inizi del IV secolo, al tempo delle persecuzioni promosse dall’imperatore Diocleziano contro i cristiani. Come innumerevoli altre martiri, rinnegò la religione pagana e fu perciò messa a morte, dopo essere stata arrestata all’ingresso in città, nei pressi di Porta Pontecorvo, cosí chiamata dall’adiacente e omonimo ponte (il Pons Curvus). La giovane fu quindi condotta davanti al tribunale di Massimiano, dove – secondo uno schema collaudato – non cedette alle blandizie, né alle minacce, per cui il giudice la condannò alla pena capitale. L’esecuzione avvenne nell’area oggi nota come Prato della Valle e la martire fu sepolta fuori delle mura, a oriente della città, nei pressi del teatro romano, mentre oggi le sue spoglie riposano sotto l’altare maggiore della basilica di Padova che porta il suo nome. In casi del genere, sarebbe stato l’imperatore in persona a interrogare/processare i cristiani, ma la circostanza appare altamente improbabile, se non impossibile. Eppure si dice che l’imperatore

Allegoria della battaglia di Lepanto, olio su tela di Paolo Caliari detto Paolo Veronese. 1572-1573. Venezia, Gallerie dell’Accademia. Eseguita dalla bottega di Veronese su disegno dello stesso, la tela commemora la vittoria riportata dalla Lega Santa contro la flotta turca all’imboccatura del Golfo di

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Corinto, esaltando il ruolo chiave svolto dalle navi veneziane. La Serenissima viene qui simbolicamente raffigurata come una donna vestita di bianco, presentata al cospetto della Vergine dai santi Giustina e san Marco. La martire impugna un lungo pugnale di foggia cinquecentesca. gennaio

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In basso Santa Giustina, scomparto del Polittico di San Luca, tempera su tavola di Andrea Mantegna. 1453-1454. Milano, Pinacoteca di Brera. Il pugnale ha, per quel poco che si vede, una lama con costolatura centrale, l’impugnatura che si allarga verso l’alto e l’elso con corti bracci, ricurvi verso la lama: difficile una datazione, quasi certamente coeva al dipinto.

abbia sentenziato: «Giustina afferma di rimanere vincolata alla religione cristiana e non intende obbedire alle nostre ingiunzioni, comandiamo pertanto che sia uccisa di spada».

Una tradizione inverosimile Dalle fonti apprendiamo che, nell’XI secolo, a Padova in onore di santa Giustina fu eretta una chiesa, nella quale, nel XII secolo, si rinvennero reliquie a lei attribuite. Si diffuse allora un racconto della sua morte secondo il quale la martire, educata da san Prosdocimo – discepolo di san Pietro apostolo e primo vescovo patavino –, fu uccisa con una spada, a motivo della fede che professava. Sebbene suggestiva, la storia risulta del tutto inattendibile, dal momento che Pietro morí a Roma il 29 giugno del 64 (o 67) e Prosdocimo il 7 novembre del 100, senza dunque avere avuto alcuna possibilità di incontrare Giustina. Per contro, sappiamo che, nel VII secolo, san Venanzio Fortunato, vescovo di Poitiers, la considerava tra le vergini piú illustri della Chiesa, ed esortava coloro che si fossero trovati

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A sinistra rovescio di una moneta da 40 soldi di santa Giustina, battuta sotto il doge Alvise Mocenigo nel 1574. La martire appare in piedi, di fronte, con il seno trafitto da un pugnale, mentre tiene nella destra la palma e nella sinistra un libro. Intorno alla sua figura corre la scritta «MEMOR ERO TVI * IVSTINA VIRGO» («Sarò a tua memoria, vergine Giustina»).

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CALEIDO SCOPIO Martirio di Santa Giustina, olio su tela di Paolo Veronese. 1570-1579. Firenze, Galleria degli Uffizi. In questa immagine della santa, che l’artista veneto ha ritratto in ben quattordici opere, quasi nulla si distingue del pugnale con il quale viene trafitta.

a Padova ad andarne a baciare il reliquiario. La venerazione nei suoi confronti è provata anche dai mosaici della basilica ravennate di S. Apollinare Nuovo, che risalgono alla seconda metà del VI secolo e in uno dei quali Giustina è raffigurata. Il culto per la santa crebbe alla fine del Cinquecento, perché, nel 1571, nel giorno della sua festa, il 7 ottobre, la flotta della Lega Santa sconfisse nella battaglia di Lepanto quella turca, fermando l’espansione dell’impero ottomano nel Mediterraneo. Agli occhi di molti non apparve casuale e, soprattutto a Venezia, la santa venne onorata come patrocinatrice della vittoria, tanto che in suo onore fu coniata anche una moneta, un’osella, la giustina, oggi molto rara e ricercata. La martire venne inoltre nominata patrona di tutti i domini della Serenissima. E nella

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città lagunare la vittoria di Lepanto fu celebrata proprio nella chiesa di S. Giustina – risalente al secolo VII e ritenuta fondata da san Magno – con un solenne Te Deum: un evento ricordato dal nome Te Deum della vicina calle. Da allora, il Doge e il Senato si recarono ogni anno in visita nella chiesa, nel giorno di santa Giustina, sempre in memoria della vittoria navale.

L’evoluzione dell’iconografia Secondo la Bibliotheca Sanctorum, sono conosciuti almeno centoventi artisti noti e altrettanti non identificati, che hanno raffigurato la santa: il solo Paolo Veronese in ben quattordici opere. Inizialmente, come simboli aveva solo la palma dei martiri, ma, dopo il Mille, furono aggiunti il libro e, piú tardi, la corona regale e poi il globo e lo scettro. Solo dal 1400 si consolidano

i segni distintivi: palma, libro, corona e pugnale nel petto. Storia e leggenda non ci tramandano molto altro della sua vita. Nulla sappiamo di miracoli operati o di altri episodi. Anche la presenza di un pugnale, quale simbolo del martirio, non è giustificata da tradizioni precise: anzi, poiché si parla di decapitazione e, talvolta, espressamente di spada, è quest’ultima che ci si aspetterebbe di vedere e non un’arma corta, che, comunque, la contraddistingue nell’iconografia sacra. Martiri con un pugnale non sono infrequenti e, pertanto, imbattersi in una con tale simbolo non significa necessariamente avere a che fare con la santa padovana. Santa Lucia, per esempio, ha la stessa arma, ma, di solito, conficcata nel collo, mentre a santa Giustina trafigge il petto. gennaio

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Lo scaffale Maria Giuseppina Muzzarelli, Luca Molà, Giorgio Riello Tutte le perle del mondo Storie di viaggi, scambi e magnifici ornamenti il Mulino, Bologna,

338 pp., ill. col.

45,00 euro ISBN 978-88-15-38754-7 www.mulino.it

Piccole sfere luminose oggetto del desiderio di donne, ma anche di uomini, le perle furono apprezzate fin dall’antichità: accostate a smeraldi, ricorrono nell’iconografia e nei reperti archeologici del mondo greco e romano, mentre il Vecchio e il Nuovo Testamento le menzionano spesso con valenza simbolica. Furono ricercatissime anche nella gioielleria del mondo bizantino, come documentano

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i mosaici di Ravenna, cosí come nel mondo longobardo e franco. Fecero però la loro comparsa sul mercato dei preziosi tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento, parallelamente all’affermarsi del fenomeno della moda. Marco Polo, narrando di quelle enormi e splendide ammirate durante il suo viaggio (1271-1295), diede un impulso determinante al loro diffondersi nei dettami della moda dell’epoca e dei secoli successivi. Da allora Venezia divenne il centro commerciale strategico nel quale sfere preziose di ogni sfumatura, colore e dimensione giungevano dall’Oriente per essere redistribuite sui mercati delle città di ogni angolo d’Europa (Bruges, Londra, Souhampton, Parigi), dove le comunità di mercanti italiani attivi in loco le vendevano alle corti. I guadagni che gli uomini d’affari della Serenissima ne traevano potevano arrivare al 160/200% del capitale investito. Molto attivi furono anche i commercianti

genovesi. Dai principali luoghi di provenienza (India, Cina e Giappone), le perle giungevano in Occidente attraverso Tabriz, Baghdad, Costantinopoli, Cipro, Alessandria d’Egitto e Beirut. Fin dal XV secolo, un altro importante polo produttivo fu il Golfo Persico. Negli anni Venti del Cinquecento Siviglia divenne il principale centro di approdo di quelle (meno pregiate, ma dalla produttività altissima) provenienti In alto guanto cerimoniale di Ruggero II. Ante 1220. Vienna, Weltliche Schatzkammer, Hofburg.

L’imperatrice Xiaojie (1508-28), consorte del dodicesimo imperatore Ming Jiajing (r. 1521-67).

dal Venezuela, dove erano appena stati scoperti ricchi bacini di ostriche perlifere. Su questo nuovo, intenso commercio, il re di Spagna impose immediatamente una tassa del 20%. Dalla fine del Duecento in poi, oltre che preziosi di valore, le perle costituirono elementi essenziali di abiti e acconciature, trapunte su stoffe di ogni tipo destinate ad abiti, copricapi, tessuti d’arredamento, attirando cosí il biasimo dei gennaio

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predicatori (come e del diaspro, propose san Bernardino), al governo veneziano e l’attenzione dei un suo nuovo ritrovato: legislatori, che perle contraffatte piú le percepirono belle di quelle vere immediatamente come e ottenne il brevetto un ottimo modo per (revocato però l’anno fare cassa. Le multe successivo per la comminate a chi nuova politica di lotta indossava ornamenti alla contraffazione). eccessivi, gli oboli Spesso oggetto di richiesti a chi voleva investimento, la esibire le perle in vendita di questi pubblico, consentirono preziosi poteva notevoli entrate ai dar vita a lucrose governi di molte attività: sacrificando città della Penisola una delle sue perle, e d’Oltralpe tra il Lucrezia Borgia aprí XIII e il XVIII secolo un caseificio per (leggi suntuarie). la produzione di Non sfuggivano mozzarelle di bufala, al fisco neppure i contribuendo a bambini: a Siena, in diffondere questo pieno Cinquecento, formaggio prelibato venne denunciato e nell’Italia centromultato un bimbo settentrionale, dov’era sorpreso a passeggiare ancora sconosciuto. indossando un vezzo Nonostante il loro di perle, insieme al valore, non pochi fratellino abbigliato trattati esaltavano le elegantemente. proprietà terapeutiche Gli abiti dei sovrani, delle perle (per le ricamati con centinaia affezioni agli occhi, di piccole perle cardiache, femminili potevano raggiungere e infantili, contro la un peso di 17 o peste, le emorragie, addirittura di 35 chili. la depressione), e Erano tanto di cosmetiche (per moda presso tutti sbiancare i denti o i ceti sociali che ci come cipria), fatto si accontentava di che ne causava quelle false, della cui la distruzione, produzione si interessò frantumandole o Ondas. Martín Codax, persino Leonardo da sciogliendole nell’acido Cantigas de Amigo Vinci. Nel 1501 a citrico o nell’aceto. Vivabiancaluna Biffi, Pierre Venezia, una donna, AllaHamon bellezza di (A390), 1 CD questi piccoli oggetti giàArcana inventrice di inedite www.outhere-music.com tipologie di grani di preziosi facevano rosario in vetro a da contraltare lo imitazione del corallo sfruttamento e i

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Ritratto di giovane donna di profilo, dipinto di Bernardino de’ Conti. 1490-1525. Collezione privata.

maltrattamenti a cui erano sottoposti gli indigeni americani che li pescavano: una vita infernale, fatta di continue immersioni, di maltrattamenti, di schiavitú che li portava in breve tempo alla morte. Tale situazione generava disordini e repressioni

sanguinose. In Oriente, invece, esistevano apposite organizzazioni di pescatori locali, non immuni comunque dallo sfruttamento da parte degli imprenditori e da tutti i danni causati dalle lunghe immersioni (attacchi di follia, crampi, paralisi). Il volume affronta

insomma, con linguaggio discorsivo e piacevole, affiancato da uno straordinario apparato iconografico, tutti i possibili aspetti della diffusione, commercializzazione e dell’impiego di queste piccole sfere preziose, dal XIII al XVIII secolo. Maria Paola Zanoboni

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Lo scaffale Marina Benedetti (a cura di) Eretiche ed eretici medievali Carocci editore, Roma, 416 pp., ill.

39,00 euro ISBN 978-8829019946 www.carocci.it

L’eresia delle pensatrici e dei pensatori medievali, le loro storie, la repressione delle rispettive idee, il tema del controllo sociale del dissenso da parte delle strutture ecclesiastiche

medievali. Tutto questo è al centro dello studio a cura di Marina Benedetti, specialista di eresie medievali – soprattutto femminili –, docente di storia del cristianesimo all’Università di Milano e autrice di numerose ricerche su argomenti affini. Eretiche ed eretici medievali raccoglie saggi e approfondimenti di studiosi dell’età

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medievale. L’opera prende le mosse dal presupposto dell’eretico come sofferente al conformismo religioso, interprete di un discorso di mancata sottomissione che lascia tracce e non resta relegato al solo ambito di fede, incidendo in maniera non trascurabile sulla formazione della mentalità e prettamente della mentalità medievale. L’eretico crea un sistema «culturale» vero e proprio, ben oltre il solo – pur decisivo e dirimente – moto di ribellione all’autorità costituita. Al centro c’è un dinamismo nell’adesione alla sequela evangelica che porta indiscusse novità nell’interpretazione dei testi e della vita religiosa. Le donne, in tutto ciò, assumono un ruolo da protagonista e dunque nelle pagine dei vari testi troviamo non solo i noti uomini Arnaldo da Brescia, Valdo di Lione, Dolcino da Novara, John Wyclif, Jan Hus, ma anche Guglielma, Margherita Porète, Margherita Boninsegna detta la Bella, fino alla celebre Giovanna d’Arco. L’attenzione della raccolta di saggi è

destinata, poi, anche all’evoluzione del concetto di eresia dal Medioevo ai tempi moderni e contemporanei. Nella silloge è infatti compreso un saggio su un riverbero non poco intrigante e piú che rilevatore della curiosità attorno al tema dell’eresia fino al XX secolo. Si tratta del giovane Benito Mussolini e del suo volume del 1913 Giovanni Huss il Veridico, espressione dell’anticlericalismo del socialista romagnolo Mussolini, allora decisamente non ancora duce. Marino Pagano

Lombardia e che dà modo all’autrice di smentire, come scrive nell’Introduzione, alcuni luoghi comuni, che vedrebbero nelle Alpi una barriera

fisica alla circolazione delle genti e delle idee o il terreno di coltura di una

e d’artigianato. Chiese, castelli, affreschi o sculture divengono dunque i perni sui quali Percivaldi ripercorre gli eventi e i fenomeni culturali di cui i territori presi in esame sono stati teatro nel corso del millennio medievale. Fra i molti luoghi citati nel testo, sfilano siti famosi, come il Castello della Manta o la Sacra di S. Michele, ma c’è spazio anche per località meno note e però meritevoli di attenzione e, soprattutto, pagine di sicuro interesse sono riservate a temi quali la cultura dei

Elena Percivaldi Civiltà medievale sulle Alpi occidentali Edizioni del Capricorno, Torino, 160 pp., ill. col.

14,00 euro ISBN 978-88-7707-709-7 www.edizionidelcapricorno. com

Firma che i lettori di «Medioevo» hanno da tempo occasione di apprezzare, Elena Percivaldi arricchisce la sua già vasta bibliografia con un viaggio alla scoperta dei tesori d’arte medievale a cui fanno da corona le cime del settore occidentale dell’arco alpino. Un viaggio che si snoda dalla Provenza alla

«presunta “chiusura”» delle comunità alpine, «dettata dall’isolamento». Merito principale della pubblicazione è quello di inserire le descrizioni delle mete suggerite nel contesto storico delle diverse realizzazioni, siano esse monumenti civili o religiosi, oppure, per esempio, opere d’arte

La Sala Baronale del Castello della Manta (Saluzzo, Cuneo), con la lunga teoria di Prodi ed Eroine.

Walser o peculiari forme di devozione alpina, come fu il culto praticato nei santuari «à répit», a metà strada fra religione e superstizione. Stefano Mammini gennaio

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La discoteca Splendours of the Gonzaga Sacred music from Wert to Monteverdi

vi fu il fiammingo Jacques de Wert, assunto come maestro Ensemble Biscantores, di cappella dal duca direzione Luca Colombo Guglielmo nel 1565. Arcana A545, 1 CD Nei tre mottetti scelti https://outhere-music.com per il CD, de Wert Nel XV e XVI secolo ammalia con un Mantova e la corte linguaggio che, pur dei Gonzaga sono nel rispetto del severo state al centro di una contrappunto, si apre al sentimento. Basti citare il profondo pathos suggerito dai ricchi cromatismi del Adesto dolori meo. Altro grande protagonista a S. Barbara fu Claudio Monteverdi, assunto come violista nei primi anni Novanta del XVI secolo, e che, intensa vita culturale. grazie all’immenso In questo contesto, talento, acquisí il titolo la musica divenne un di maestro di musica veicolo di ostentazione sotto il regno di del potere: tra gli anni Vincenzo Gonzaga. Di Sessanta e Settanta Monteverdi l’antologia del Cinquecento, propone il Confitebor il duca Guglielmo a cinque voci, Gonzaga fece l’esuberante Cantate costruire una cappella domine e un’originale palatina, intitolata a versione delle Litanie santa Barbara. Con della Beata Vergine. Splendours of the Altre figure, forse meno Gonzaga, il repertorio note, ma altrettanto «mantovano» sacro interessanti, sono Gian viene brillantemente Giacomo Gastoldi, proposto che succedette a de dall’ensemble Wert come maestro Biscantores, grazie a di cappella nel Ondas. Martín Codax, 1596. Suoi sono un brani che includono Cantigas de Amigo alcuni dei compositori bellissimo Magnificat Biffi, Pierre Hamon Regina piúVivabiancaluna celebri dell’epoca e l’antifona Arcana (A390), 1 CD coeli. Seguono e che intrattennero www.outhere-music.com legami duraturi con brani di Salomone la corte gonzaghesca. Rossi, violista attivo Tra le figure di spicco, nell’ensemble del

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gennaio

duca nel secondo Cinquecento, e autore di una importante raccolta musicale, i Cantici di Salomone, di cui ascoltiamo Keter Yitnu e Yesusum midbar. Non è da meno Amante Franzoni, che divenne maestro di cappella nel 1612 e di cui viene proposto Dixit dominus. Allo stile policorale, molto popolare alla fine del Cinquecento e per tutto il Seicento, ci riporta Benedetto Pallavicino, di cui si ascoltano due brani a doppio coro, Dum complerentur e Misericordias Domini. L’ensemble Biscantores, composto da 20 cantanti, è qui accompagnato da un organico di basso continuo formato dall’arciliuto, viola da gamba e organo. Fedele alla prassi esecutiva dell’epoca, la direzione di Luca Colombo si rivela vincente, grazie all’attenta e sensibile lettura di pagine che hanno fatto la storia della musica. Franco Bruni Graduel d’Aliénor de Bretagne

Vox Clamantis, direzione Jaan-Eik Tulve

Mirare, MIR 612, 1 CD www.mirare.fr

Conservato presso

la Bibliothèque Francophone Multimédia di Limoges, il cosiddetto Graduel d’Aliénor de Bretagne (ms. 2), a cui è dedicata la proposta discografica dell’ensemble estone Vox Clamantis, diretto da Jaan-Eik Tulve, è un codice musicale di pregiata fattura, redatto verso la metà del XIII secolo. Fu probabilmente commissionato da Giovanni II duca di Bretagna e sua moglie Beatrice d’Inghilterra per la figlia, Aliénor, badessa dell’abbazia di Fontevraud dal 1204 al 1342. Si tratta, in ogni caso, di un raro esempio della pratica musicale presso una comunità monastica, basata sulla tradizione del canto monodico liturgico locale, originatosi in epoca carolingia dalla fusione di testi e musiche della tradizione «romana» con la tradizione «gallica». Nel graduale figurano canti per le festività dell’anno liturgico, legati al cosiddetto proprium missae, ossia introiti, graduali, alleluia, offertori, communio, a cui si aggiungono le sequenze, cioè testi in rima. Nel CD sono riuniti brani

dalle Messe di Mezzanotte, dell’Aurora e di Natale, eseguiti in canto monodico («gregoriano»), non senza saltuari interventi di una seconda voce, secondo una pratica contrappuntistica improvvisatoria, che, tra il XII e il XIII secolo, grazie ai teorici dell’Ars Antiqua, andava gettando le basi della polifonia. Fin dal debutto, nel 1996, l’ensemble Vox Clamantis si è distinto nell’esecuzione del repertorio gregoriano, e qui la perfezione e la cura del dettaglio, pur limitatamente all’uso delle sole voci, sono straordinarie. Si apprezza l’alto livello tecnico della registrazione, che ricrea ad hoc la spazialità sonora dell’ambiente chiesastico, rendendo l’ascolto particolarmente suggestivo. Un’occasione eccellente per ascoltare il repertorio proposto da questo prezioso codice. F. B.

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LA TERRA SANTA AL TEMPO DI GESÚ

L’archeologia in Israele alla scoperta della storia, dei protagonisti, dei luoghi

La nuova Monografia di «Archeo» è andata in stampa pochi giorni dopo l’inizio dell’ennesimo conflitto israelo-palestinese: un evento tragico, che, com’è sempre accaduto in frangenti del genere, ha avuto tra i suoi effetti collaterali quello di evocare le ragioni storiche di una contrapposizione agli occhi di molti ritenuta insanabile. E che viene spesso ritenuta tale perché figlia di un contrasto originatosi in tempi ormai remoti e che lo scorrere dei secoli ha incancrenito. Tuttavia, viene da chiedersi, è davvero cosí? Da questo interrogativo prende le mosse la Monografia, che si concentra, in particolare, sugli anni nei quali si dispiegò la straordinaria vicenda di Gesú, raccontata dai Vangeli, ma inserita nel piú ampio contesto storico e archeologico della dominazione della Giudea da parte di Roma. Nei vari capitoli c’è dunque spazio per gli eventi e i protagonisti di una stagione straordinaria, sia per le implicazioni ideologiche e sociali scaturite dalla diffusione della nuova dottrina, sia per la qualità delle testimonianze che di quell’epoca sono giunte fino a noi: dai resti dell’Herodium ai manoscritti del Mar Morto, dalle rovine di Masada all’eccezionale palinsesto della Città Vecchia di Gerusalemme...

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