Perle di Psicoanalisi 2014

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SIPARIO Perle di psicoanalisi - 2014


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NOTE PSICOANALITICHE sulle radici inconsce del maltrattamento Dott.ssa Maria Rita Ferri Psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico

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lle origini della vita, per il bambino il senso stesso della vita è dato dall’essere con l’oggetto materno, come sottolinea Bollas, ma ancor prima è di essere uno con l’oggetto. La separazione precoce da esso o percepirne una distanza emotiva, è strappo disperante, perché il piccolo ancora non ha costruito una mente per pensare i pensieri e dunque il mondo, e contenere il dolore. In età adulta il ripetersi dell’esperienza di perdita dell’illusione di essere uno con un nuovo oggetto d’amore rievoca, nella personalità narcisistica, l’antico trauma vissuto e non pensato. Rivivere memorie in cui il soggetto era in relazione con un oggetto materno che lo abbandonò e morì, perchè non più desiderante e quindi vivo, è essere davanti alla propria morte. Ciò determina una regressione alle origini della vita psichica, a quando nel Sé l’Istinto di vita e l’Istinto di morte erano ancora disgiunti. Si libera così, nella vita adulta, l’odio (Istinto di morte), per il nuovo oggetto d’amore che, allontanandosi, gli dà nuovamente la morte psichica. L’odio così diviene trionfo dell’Io sull’Oggetto, odio che nega la dipendenza psichica da esso e diviene per il soggetto immaturo l’unica forma di non cadere in frantumi…

CINEMA e PSICHIATRIA TI DO I MIEI OCCHI L'Aquila Auditorium E. Sericchi Carispaq, via Pescara (Strinella88) mercoledì 13 novembre - ore 17,30 origine: Spagna 2003 regia: Iciar Bollain interpreti: L. Marull (Pilar), L. Tosar (Antonio), C. Pena (Ana), R. Sarda (Aurora), K. Manver (Rosa). sceneggiature: I. Bollain, A. Luca. tema: maltrattamento e violenza sulla donna. Presenteranno il film la dott.ssa Ferri e la dott.ssa Dufrusine. Sarà presente anche la giornalista Adriana Panitteri.

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erché una donna resta per dieci anni con un uomo fisicamente e psicologicamente violento? A Toledo la bella Pilar, spinta dalla paura, fugge da casa e dal marito Antonio col figlio Juan, rifugiandosi dalla sorella, ma qualche tempo dopo, ancora innamorata e fiduciosa nelle sue promesse di ravvedimento, ritorna dal marito. Il secondo distacco sarà definitivo. Scritto con Alicia Luna, il 3° lungometraggio dell'attrice madrilena Bollaín affronta il tema della violenza domestica sulle donne, riuscendo a subordinare i suoi espliciti intenti didattici alla complessità di un dolorante rapporto umano, a un ammirevole scavo psicologico dei personaggi. 7 premi Goya, gli Oscar spagnoli, e la Concha de Plata del Festival di San Sebastian ai due interpreti

principali: Marull, fragile e forte con uno splendore che le viene dall'interno, e il sobrio, intenso Tosar che analizza, sfaccettandole, le contraddizioni del suo difficile personaggio.

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personale esperienza patrimonio condivisibile e cultura della comunità vivente. A tale scopo, l’Associazione si propone di realizzare un ciclo di quattro seminari a orientamento psicoanalitico dal titolo “Al di là del trauma. Ricostruendo i legami”. Scopo dell’iniziativa è quello di favorire l’incontro tra il patrimonio culturale della città di L’Aquila e la cultura psicoanalitica. I seminari si configurano come spazio di informazione, formazione e discussione sulle tematiche connesse all’elaborazione del trauma nell’infanzia, nell’adolescenza, nell’età adulta e nei soggetti e nella comunità che hanno vissuto il terremoto, nonché sulle risorse che ciascuno può attivare per far fronte all’esperienza traumatica. Il ciclo di seminari è stato reso possibile dall’interesse del Centro Danza MUD e di alcune ditte preposte alla ricostruzione della città: Opera Costruzioni srl, O & B, Garc, Modus Services e Savini Group. L’interessamento per i seminari di queste società di costruzione rende immediatamente visibile il legame fra la ricostruzione concreta dei luoghi e quella della psiche e della comunità dei cittadini che vi abitano. È stato ottenuto il patrocinio del Comune di L’Aquila, della ASL 01 di Avezzano Sulmona L’Aquila e dell’Ordine degli Psicologi della Regione Abruzzo.

I QUATTRO SEMINARI

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quattro seminari si svolgeranno presso il Palazzetto dei Nobili nei giorni del 5 e 19 ottobre e nei giorni 16 e 30 novembre 2013; l’ingresso sarà libero e gratuito, aperto a studenti ed esperti del settore, ma soprattutto ai cittadini aquilani interessati. Ogni seminario prevede la partecipazione di uno o più esperti in materia: alla descrizione teorica dei fenomeni connessi al trauma, farà seguito la discussione di un caso clinico, nonché la libera riflessione da parte dell’uditorio.

AL DI LÀ DEL TRAUMA. Ricostruendo i legami. Ciclo di seminari ad orientamento psicoanalitico 5 ottobre / 30 novembre 2013-10-08 Palazzetto dei Nobili - L'Aquila info: 349.0517408 - 347.1303497

5 OTTOBRE: Quando mancano le parole. Generativita' e distruttivita' del trauma, a cura della Dott.ssa M. Fraire (Psicoanalista Didatta SPI) – Trame interrotte e fili sotterranei. Le dimensioni transgenerazionali del trauma, a cura della Dott.ssa C. Matteini (Psicologa Candidata SPI)

Il sisma del 2009 ha lasciato dietro di sé una scia di distruzione non solo materiale, ma anche sociale ed interna ad ogni individuo. Al bisogno di ricostruzione concreto della città, quindi, si affianca un non minore bisogno di profonda ricostruzione individuale e gruppale.

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Associazione ‘Chorós- Spazio Psiche L’Aquila’ è nata come modalità di risposta a un bisogno così profondamente riparativo: non ha scopo di lucro e svolge attività di utilità sociale promuovendo e sostenendo iniziative nell’area clinico-psicologica e psicoanalitica atte a favorire e tutelare il benessere psicologico della persona nel ciclo di vita e della collettività, attraverso attività di ricerca, informazione, formazione e intervento. In particolare, l’Associazione nasce dall’intento di sviluppare un pensiero, o meglio il pensiero psicoanalitico nel territorio, come chiave di lettura che disveli i significati più profondi e inconsci della ricca vita interiore di ciascuno. Si promuove in tal modo un sentire e un pensare più sensibile e profondo che consente di comprendere (cum-prehendere) le dissonanze e le contraddizioni dell’esistere e orientare la vita nei giorni. Solo la riflessione e la narrazione gli uni agli altri degli accadimenti rende la propria SIPARIO

19 OTTOBRE: I volti del trauma in adolescenza. Il controllo anaffettivo, a cura del Prof. L.Cappelli (PsichiatraPsicoanalista Didatta SPI) – Il Trauma della separazione, a cura della Dott.ssa V. Nanni (PsicologaPsicoterapeuta) 16 NOVEMBRE: Il trauma nell’infanzia, a cura della Dott.ssa A. Costis (Psicoanalista SPI, Didatta dell’i-W Istituto Winnicott) 30 NOVEMBRE: Legami psichici in strutture in crisi. Pensare il sisma: una lettura psicoanalitica, a cura della Dott.ssa M. R. Ferri (Psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico) – Il Servizio: una mente che non cade, ma raccoglie soggetti dispersi in un progetto di speranza, a cura della Dott.ssa M. M. Dufrusine (Psicologa, Psicoterapeuta, Psicologo Dirigente C.S.M. Asl 1 Avezzano-Sulmona-L’Aquila)


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Pillole di Psicanalisi

COMMENTO PSICOANALITICO DEL FILM PROIETTATO IL 13 NOVEMBRE ALL'AQUILA PRESSO L'AUDITORIUM E. SERICCHI - CARISPAQ, NELL'AMBITO DELLA RASSEGNA CINEMA E PSICHIATRIA

Quale la dinamica inconscia che sottende la violenza e quale i suoi significati più profondi? All’origine della vita l’Io del piccolo non può percepire la separazione dalla madre, prima di aver integrato dentro di sé le immagini del mondo, il proprio amore ed odio e sentirsi quindi vivo dentro un confine psichico che lo contiene e lo ripara.

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in tale confine che egli potrà sognare-pensare il mondo, sentire che gli oggetti sono esterni al Sé e creare legami d’amore con essi. Egli accede così ad una dimensione psichica di separatezza dall’oggetto, in cui lo può pensare, ricordare, attenderne il ritorno e non temerne l’assenza. Se l’illusione è interrotta precocemente, dicevamo, o la psiche della madre è abitata da un dolore che la sottrae dall’essere affettivamente uno con il piccolo, le cure materne non potranno formare del tutto il mondo interiore del bambino e favorire in lui il buon impasto pulsionale, ovvero l’integrazione dell’amore e dell’odio, l’Istinto di Vita e l’Istinto di Morte. Tali pulsioni saranno sempre debolmente legate tra loro e con il ritorno nella vita adulta di un’esperienza così traumatica perché così precoce (sentire l’oggetto amato separato da sé) che rievoca la fine della fusione e il sentimento della madre assente o della madre morta, tali pulsioni, l’amore e l’odio, tornano a scindersi di nuovo. E’ così che l’odio non trova nella capacità di amare ciò che lo potrà lenire e mitigare, ma sciogliendosi del tutto dalle

immagini amate impedirà al pensiero di contenerlo, abbattendosi sul mondo. L’illusione di ritrovamento dell’antica fusione si accende nell’incontro adulto d’amore. Chi, come Antonio, dovette rinunciarvi troppo immaturamente, non accetterà di perderla ancora. Con Pilàr Antonio rivive l’antico trauma, il dissolversi dell’oggetto prima che egli fosse maturo, il fading, (espressione evocativa che “indica il momento in cui l’innamorato sente venir meno il desiderio nell’oggetto del suo amore…uno svuotamento, uno svanire…” R.Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, in G.Civitarese), nel sentirne la crescita della soggettività, l’individuarsi di Pilàr, come separazione da sé e abbandono della fusione (“…è diversa, diversa…” dice Antonio disperato parlando di lei al terapeuta). Il suo odio si scinde dalla capacità di amare e si abbatte così sull’oggetto amato che, poiché afferma di essere esterno, cioè afferma la propria individualità, è scomparso come oggetto buono, perduto alle origini e ritrovato nella vita adulta, oggetto buono che dà la vita (“senza te non posso vivere” afferma più volte A. a Pilàr) ed è divenuto, agli occhi di Antonio, un oggetto crudele e cattivo, morto, perché non più desiderante, e che dà la morte, come l’antica madre che precocemente svanì. L’odio è quindi una forma inconscia di negazione e annullamento magico della dipendenza dall’oggetto, e quindi della sua perdita, attraverso il suo opposto: il disprezzo ed il trionfo maniacale e crudele su di esso. La necessità di negare la dipendenza nasce dal bisogno di annullare il dolore che ne derivò. Come risposta alla morte psichica, l’odio diviene la difesa estrema dall’andare in frantumi, in seguito all’assenza dell’Altro percepito come oggetto-sé, ovvero come estensione del soggetto. L’agito maltrattante rappresenta anche una disperata richiesta di integrazione con l’oggetto, che esso torni ad essere parte di sé. Ma ad un livello più profondo tale agito è un tentativo magico e fatale di ridare vita ad un oggetto morto, attraverso l’urto. In Antonio l’antico e rinnovato dolore psichico della separazione dalla madre, non pensabile poiché l’agire ha sostituito in lui il pensare, viene inferto sull’Altro come dolore fisico. Possiamo dire che egli ripete il trauma inconscio delle origini capovolgendolo (non è più lui la vittima, ma l’Altro) e identificandosi con la madre morta che dà la morte, come in Pshyco di A. Hitchcock. Il sentimento della rabbia, dell’odio, inoltre, ha la funzione inconscia di dare compattezza alla soggettività lacunare, è un tentativo di riparare la discontinuità dell’Io, rivelata dalla perdita dell’oggetto-Sé adulto. Era l’oggetto, Pilàr, infatti,

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Pillole di Psicanalisi che prima di allontanarsi, ovvero diversificarsi da lui, riempiva il vuoto psichico di Antonio, completava il suo Io, come vero oggetto Sé, donando a lui la propria soggettività. Senza di lei egli è pervaso dall’angoscia profonda che sottende l’agito maltrattante: il separarsi dall’oggetto d’amore, vissuto come essere lacerati e strappati dal corpo della madre. L’odio di Antonio vuole distruggere in Pilàr la cattiva madre delle origini, che gli dava la morte psichica, allontanandosi precocemente da lui, egli vuole uccidere, colpendo lei, la propria dipendenza dal “…corpo della madre, sentito come ciò cui si apparteneva prima di esistere” (G.Civitarese), come terra che precedeva l’Io e il simbolico, il linguaggio e la soggettività separata. L’oggetto assente (che tace, o si assenta mentalmente, o non guarda o si diversifica, Pilar che trova lavoro, o si allontana, pensa di andare a Madrid) non è mai, nella mente paranoide, percepito come assente perché vorrebbe dire percepirlo come morto (ricordiamo il sentimento del dissolversi dell’oggetto o fading in R. Barthes). Esso viene percepito come cattivo, che dà dolore e tradisce. Nel pensarlo ostile e persecutorio (“mi vuoi provocare” grida Antonio a Pilar) il protagonista trova un modo per continuare a sentirlo vivo. E poiché non può pensarla, ma solo percepirla debolmente e sensorialmente, Pilàr non è mai del tutto sua, lui non la possiede internamente. Perché possiamo affermare questo? Perché il pensare nasce dalla capacità di tollerare-percepire che l’oggetto è esterno a sé, perdere la fusione con esso e accettare la separazione per generare, in sua assenza e a suo ricordo, un’immagine affettiva, un pensiero, che viva dentro la psiche. Tale immagine è l’oggetto-sentimento di A.Racabulto. Coltivando e avendo cura dell’immagine interna dell’oggetto amato troviamo consolazione e contenimento al dolore quando esso è assente e tolleriamo l’attesa del ritorno. Antonio non può farlo perché non ha potuto sviluppare, non tollerando il pensiero della separazione, un’immagine interna di lei. Per questo non la possiede, perchè non può accettarne l’assenza. Nella scena in cui i suoi partners di terapia, inoltre, che rappresentano simbolicamente la sua immagine speculare duplicata nello spazio, non riescono nel gioco dei ruoli, si evidenzia che tale difficoltà nasce dal fatto che per tutti loro l’oggetto non è interiorizzato, ma è vivo solo nella realtà esterna, quindi, non potendo percepirlo esternamente perché assente in quel momento, non riescono a trovarlo dentro di sé per riprodurlo o ricrearlo. Per tali motivi, dunque, lei non è del tutto sua, e poichè non vive internamente a lui, ma solo nella realtà percepibile, può sempre perderla. Esiste solo all’esterno, e se la perde all’esterno è del tutto e per sempre. Poiché non può ritrovarla internamente o ricrearla nel suo mondo interno la può solo controllare e non “perderla di vista”come ricorda J.B. Pontalis perché nel suo modo di essere al mondo, la perdita della percezione dell’oggetto coincide con la sua perdita reale. Se lui, infatti, non la vede o non sente la sua voce, quando Pilàr non risponde al telefono o non conosce i suoi pensieri, quando Pilàr tace, è come se lei fosse svanita, morta o perduta per sempre. Perdere lei è per Antonio perdere il suo oggetto-Sé (Kohut) e la propria integrità psichica che si formava dall’illusoria integrazione fusionale con lei. Per questo è del tutto sincero quando, nelle scene finali, di fronte alla scelta di Pilar di lasciarlo, lui grida: “senza di te non vivo, se mi lasci mi ammazzo, se te ne vai mi suicido”. Solo alcuni cenni sul mondo inconscio di Pilar. Anche lei, anche se in forma molto più lieve, non ha potuto ultimare lo

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cialù Spemen Venerdìe pesc di Durastante Vincenzo pizza - panini - hamburger calzoni - focacce - fritti primi - secondi - contorni

Aperto a Pranzo e Cena Viale Corrado IV, snc - 67100 L’Aquila Tel. 0862.028410 slegamento psichico dalla madre. In Pilar, infatti, il ripetere la storia della madre rappresenta un modo inconscio di ristabilire la continuità interrotta attraverso un’identificazione primitiva con lei: essere come l’oggetto, ripetere le sue dinamiche affettive di coppia, è un modo inconscio di essere con l’oggetto, con una madre che non si fa raggiungere. Il suo bisogno profondo di appartenenza le fa scambiare per amore la dipendenza di Antonio, che riflette, in parte, la sua. Ci troviamo, inoltre, di fronte a una “coazione a ripetere” tra le generazioni, ovvero ad un ripetersi transgenerazionale del trauma del maltrattamento. Pilàr si trova infatti, con Antonio, a rivivere il dramma della madre, inalterato, “il perpetuo ritorno dell’uguale”(S.Freud, Il Perturbante,1919). Forse inoltre Pilàr può accettare di essere picchiata per uccidere, attraverso di lui e in se stessa, un antico oggetto materno morto perché assente emotivamente (come la madre sembra essere ancora), interiorizzato e che la deprime. L’esistenza in lei di un oggetto materno morto, ovvero la depressione stessa della madre che Pilàr ha fatto sua, è suggerita nel film dal paesaggio cimiteriale in cui sempre incontra la madre, una presenza della morte nell’ambiente esterno che riflette l’esistenza psichica di una morte interiorizzata. Ma accettare l’agito maltrattante su se stessa è anche un atto d’amore inconscio verso la madre: assume su di sé, oggi la violenza subita nel passato dalla madre per salvarla magicamente, prende su di sé la morte in sua vece, per ridarle la vita. E poiché anche per lei “la madre arcaica è il prototipo di ogni relazione intima successiva”, Pilàr dona, alla madre inconscia che ama in Antonio, i propri occhi, per poter essere vista una prima volta da lei e quindi esistere.

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Dott.ssa Maria Rita Ferri

Psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico


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Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile. Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.

PENSARE IL SISMA: UNA LETTURA PSICOANALITICA Il sisma, nell’inconscio, viene sempre dal cielo, un cielo che è abisso, un cielo che cade. E’ la notte che fu, prima della vita.

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la città nasce sempre fra i campi, come forma di pensiero della terra, o come un suo sogno. Si nutre di acque sotterranee e d’arte. E’ dunque il nostro caro oggetto estetico, che sorge attorno ad un centro psichico condiviso, e ci riflette intimamente. E’ il nostro puro oggetto estetico, che chiede di essere pensato per vivere, ed è fonte del nostro sentire più profondo (estetico, infatti, proviene etimologicamente dal greco aisthesis, sentimento ed aisthetikos, sensibile, capace di sentire). La città non dimentica la terra: in alcuni dei suoi angoli le vie parlano ancora il linguaggio dei campi. E la nostra è una città che “si ascolta come un verso”, ci sussurra P. Neruda. Mille città invisibili, inoltre, nei sogni di I. Calvino, vivono in un unico villaggio. Si svelano, a volte, solo a chi sa riannodare i ricordi inconsci. La città dunque è, nello spazio, un antico oggetto d’amore ritrovato e creato nelle forme d’arte. E pure nei nostri sogni più profondi ogni città proviene dal cielo, ha un suo doppio celeste da cui nasce. Si genera quindi da una leggenda del cielo, il suo volto e le sue forme riflettono il volere dei venti e del sole. Nella rêverie (o pensiero sognante) di chi vi dimora il suo destino è nel cielo. Per il soggetto che sogna essa è sempre in contatto con il cielo, le sue forme sono rispecchiamento di un’architettura di stelle. Ogni città onirica, inoltre, narrano i sognatori di simboli, ha al suo interno una forma quadrangolare, simbolo di stabilità, in opposizione alle forme rotonde, circolari, proprie delle tende di chi è nomade. La stabilità dunque è la sostanza di ogni sogno di città…La stabilità che culla e permette il sonno e il sostare, dove si fonda il pensiero e l’andare, già nell’etimologia rimanda ai temi dell’essere eretto, quindi saldo, stabile, in piedi ( dalla radice sscr. stha col senso originario di essere o render fermo, saldo) e ai temi dalla risonanza affettiva dell’appoggio e del sostegno che fortifica e rende saldi (dal lit. sthâ- varàs). Il senso di esistere, inoltre, di essere in vita, viene dal legame interno che inconsciamente tracciamo tra le rappresentazioni della realtà e le emozioni che essa ci suscita, ciò ci permette di essere sensibili al mondo. Noi, infatti, pensiamo raffigurandoci le cose del mondo e legandole ad un nostro affetto: esse così significano per noi. E’ dall’intreccio poi di questi legami interni che nel corso della vita si sviluppa un sentimento profondo di continuità di esistere nel paesaggio e di coerenza del Sé nel tempo.

Tale continuità trova forma in un dialogo che fluisce con l’ambiente esterno, che ci accoglie in un abbraccio immaginale e comprende il nostro discorso vivente. La vita psichica, dunque, si fonda sul ritmo con cui svolgiamo la nostra continuità con l’ambiente, con il paesaggio in cui i nostri viaggi solitari ogni giorno hanno inizio. Profondamente lacerante, dunque, in un evento tale, è il rivelarsi della fine della città come fine dell’abbraccio strutturale che rende saldi, ovvero dell’inconsistenza della sua promessa di stabilità. Noi scoprimmo così la nostra impermanenza e ci percepimmo come non-più-in-vita. Il trauma del sisma è il rivelamento (o il non poter più negare) dell’impermanenza di sé e di ciò che sognavamo come eterno e saldo. E’ la caduta, cioè, della promessa inconscia di immortalità in cui ha avuto radici la nostra infanzia. E’ dunque l’impermanenza che apre la via al soggetto ad essere “cosa”. Cessa il sentimento di essere vivi perché il legame tra emozioni e pensiero, tra mondo e sentire cadde. La nostra mente, difensivamente, rinunciò al sentire e divenne “cosa” tra le “cose”, avvolta da un’indifferenza esistenziale, rispecchiamento dell’indifferenza della natura, di fronte al dolore che questa creò. Restò, in noi, unica, una percezione antica di natura crudele e indifferente, che fiorisce mentre si muore. Madre di pietra e non di carne. Percepire la natura non-viva è il crollo dell’illusione animistica di essere amati dal mondo, che ci abbandonò ad una desertificazione del naturale, 21come silenzio inumano. Ma la violenza del sisma è altresì svelamento che la culla, l’abbraccio ( che la casa significa), non era che mattoni assemblati. L’impulso di morte, non più lenito da eros, diviene cielo che acceca e caduta infinita, notte non più abitata, notte che non dialoga, silenzio che ci colloca in un infinito “prima” di ogni evento. Le zone della città, prima del sisma, erano luoghi esterni che rimandavano in noi a zone e possibilità di elaborazione psichica. Il crollo del paesaggio si configura quindi come impensabile, perché fa cadere, in noi, ogni elaborabilità. In

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Perle di Psicanalisi tal senso la perdita, in ogni terremoto, è perdita senza oggetto, riconduce ad un tempo prima del tempo, che precede l’oggetto ed il pensiero. Perdita pura. Perdita del limite, del confine e quindi dello spazio. Ciò si riflette nella fissità dei movimenti, che avevamo quella notte e in quei giorni, senza più spazio per andare. Ciò nasce anche dalla perdita definitiva dell’illusione che fa vivere, del genitore onnipotente che salva, sempre e ovunque. Rimangono ombre che vagano,(così divenimmo), oggetti extra-vaganti (come ricorda S. Resnik in altri ambiti): perduta la viabilità è perduta la meta ed il tempo. Rimase un lento muoversi circolare, espressione di un’immobilità interna, lento movimento che non lascia impronte, solo esterno, che parlava di un’improvvisa assenza emotiva (emòtus) interna, espressione del non-essere del-tutto-esistenti, sotto un sole anch’esso immobile sulla città. Un’andatura quasi ferma avevamo, intorno a un centro perduto ed illusoriamente ricreato da ciò che restava del movimento, movimento senza significato perché non più teso ad unirci ad una meta, ma che si costituiva, quella notte, come ultima forma del rimanere in vita, frange di una vita che tutti ci comprendeva. Il sisma infrange il tempo e, poiché è la morte, non è contenibile in un pensiero vivente. Non pensabile, resta un evento, che non si fa esperienza. Inter-rompe il sogno che tiene in vita e la capacità di pensare le percezioni sensoriali ed emozionali e trasformarle in esperienza. Ciò fa sì che il terremoto, in quanto insignificabile (come evento a cui non poter dare senso), non possa essere “pensato” se non scindendo il fatto concreto, legato a leggi fisiche, dall’angoscia del cadere in pezzi. Pertanto, l’esperienza del sisma non trova una vera elaborabilità: una parte di essa rimarrà scissa, nella psiche, come luogo di accoglimento di altri antichi “terremoti” affettivi patiti o non vivibili nel soggetto. Non essendo pensabile, né internalizzabile, se non come zona vuota, di assenza di simbolizzazione, si configura come buio psichico, cecità psichica, luogo di “slegamento”, dove la rappresentazione, sciogliendosi dall’affetto, può perdere il senso e tradursi in mera percezione. In quanto area “vuota”, zona di “slegamento”, nell’elaborazione dei “terremoti” emotivi rimossi e lì riuniti, si configura cionondimeno come apertura psichica all’ignoto, disponibilità ad una nuova nascita. Non internalizzabile, dunque, il sisma è sempre un evento e mai un’esperienza, e come evento è sempre un evento esterno al soggetto. In quanto tale interrompe spazio e tempo, non può essere oggetto di rimozione, non lo possiamo coprire di oblio, è sempre presente e sempre in arrivo. Rimane un “al di là” che proviene dal remoto, sede del destino. Proviene dal remoto e ad esso riconduce. Può essere scisso, ma non rimosso. (Lo possiamo allontanare, ma non dimenticare). Se la città è la madre, il suo crollo è la morte di lei. Nella sua scomparsa, e al suo posto, danza notturna la morte ad attendere il soggetto-bambino. Fasi primitive della mente sono attivate in difesa della psiche, nell’ultimo crollo, in attesa di un tempo di elaborazione, dove toccare il dolore è il primo sole della rinascita. Per una comprensione più profonda di ciò che avvenne, possiamo pensare che se l’Io di ognuno nasce dalle identificazioni inconsce con i suoi primi oggetti, cioè con le prime cose del mondo che giunge a conoscere il legame con le forme ed il senso di ciò che esiste al di fuori di sé forma il suo mondo interno e quando le cose del mondo si cancellano, l’Io sente di cancellarsi insieme ad esse. Viene meno quella continuità con il paesaggio che faceva sì che il soggetto divenisse ogni giorno se stesso.

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L’insieme delle angosce primitive rinasce intatto dal crollo del mondo esterno che le tratteneva e del legame con esso che le elaborava. Quando gli scenari del mondo si infrangono, il pensiero non ha più il suo oggetto. Viene meno l’esperienza di essere pensati dal mondo. Non resta che uno sguardo che ci attraversa senza più raffigurarci. Si è smarrita nel crollo la preghiera di chi desiderò che noi fossimo vivi. Ma la cura dei sogni dei luoghi amati fa nascere nel nostro Io una città interna in cui riposare, che diviene via via l’orma per un paesaggio che ritrova il suo antico volto. Un’esperienza impossibile da pensare-sognare, come il sisma, diviene, infatti, perdita antica di senso. Lo si può ritrovare solo tornando a sognare. E’ così che una città perduta diviene città sognante, in attesa che un senso più profondo ci torni a trovare. E’ una mente bambina, in noi, che si assopisce nel dolore che, se non abbandonato, può riposare ed attendere il cielo. Se il sisma slegò i gesti con cui ci cerchiamo, con cui ci scambiamo il nostro modo di essere vivi, dal loro motivo profondo, dal sentimento che in noi li genera, il sisma stesso sciolse il senso di ciò che appare, ciò che si mostra al nostro sguardo, dalla vera essenza delle cose. Forma e sostanza furono scisse. E’ così, dunque, che esso slegò il significante dal significato, la notte dal sogno. Con il sisma un’intera città divenne un ricordo. E l’intero spazio bianco che si aprì al suo posto sembra il paesaggio originario che precedette l’inizio della vita. Esso ricondusse il nostro sentire all’esperienza inconscia di essere pur vivi senza l’esistere. Solo l’ambiente vivo, infatti, nutre i pensieri e il linguaggio intimo del soggetto. Quando esso svanisce, il pensiero stesso sembra lasciare la mente da cui nacque, sembra seguire l’improvvisa notte del vivere senza inconscio, ovvero in un luogo che cessa di esistere.Perchè possiamo dire questo? Che vivemmo da allora senza l’inconscio? Perchè il paesaggio è il nostro inconscio, è lo spazio dove i sogni prendono forma, dove nascono le nostre fantasie più profonde. E’ fra i suoni del villaggio umano, infatti, immerso nelle cose del mondo, che nasce il nostro sentire, dove l’Io si nutre. Quando la realtà esterna si cancella, dunque, si cancella anche il Sé. Una linea sottile nella psiche, tuttavia, separa l’Io dal perdere il sentimento di essere vivo e lo fa rispondere ad un sogno di nascere ancora. L’antica promessa inconscia fatta a se stessi di vivere eternamente, infatti, torna ad essere l’unico segno che ha permesso al nostro Io di tornare a pensare, e protegge il desiderio di essere vivi. Nel tempo sono le fantasie inconsce, ritrovate nel desiderio di vita, che permettono di pensare parte dell’esperienza del crollo, per essere, così, psichicamente salvi. (Fine prima parte. La seconda parte sul prossimo numero di Sipario)

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Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile. Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.

PENSARE IL SISMA: UNA LETTURA PSICOANALITICA Il sisma, nell’inconscio, viene sempre dal cielo, un cielo che è abisso, un cielo che cade. E’ la notte che fu, prima della vita.

Seconda Parte

(la Prima parte sul numero 452 di Sipario) Quando crollò il paesaggio, infatti, venne meno in noi ciò che lo rispecchiava: il luogo psichico, inconscio, in cui riporre i buoni oggetti interni, in cui pensarli, si distrusse così ogni legame, ogni accordo vivente, ignorando la preghiera di chi ci amò. Il sisma ricorda che la follia giunge sempre dall’esterno, come disimpasto pulsionale e trionfo di ogni istinto di morte. E’ chiusura ad ogni fantasma di senso, riproduzione di una fine preannunciata internamente nei meriggi di altri tempi. Come trovare chi ruppe il ritmo regolare dei giorni che univa l’alba alle stelle e respirava con noi? Quello che è sempre stato in noi paesaggio di desiderio si cancellò nei luoghi del solo bisogno, dove pulsioni indistinte negano al simbolo la sua antica esistenza. Nella fragilità di pareti disgiunte, infatti, l’Io, dimora dei simboli, si rispecchia e può cadere, al giungere del sisma. Poiché il sisma slegò l’abbraccio interno con il paesaggio fino a non sentirci più parte di esso, la perdita di senso che ne derivò fu perdita senza fine. Chi riunirà di nuovo le nostre rappresentazioni disperse? Perdita di senso che si avvolse alla nostra stessa vita fino, a volte, a non essere più da noi internamente amata. Oggetto di un processo di designificazione, la vita stessa perse il suo senso più profondo. Chi, dunque, riunirà le nostre rappresentazioni disperse? Il sisma ci ricondusse d’un tratto dove ha origine il mondo, senza più cieli che proteggano il senso. E se ogni casa, con G. Bachelard, è un sogno di capanna, dove si perse la nostra più antica madre che ci avvolgeva in ogni angolo di vita? E se anche il grano da allora, da quell’aprile, fiorisce sotto il cielo di un altro secolo, con i fiumi di G. Bachelard, come ritrovare il nostro Sé smarrito? Quando il sisma interruppe il nostro senso di esistere, un pensiero bianco come neve fu il nostro rifugio. Inconsciamente rinunciammo così al sentire. Fu quando la nostra terra rinunciò al suo esistere, infatti, che svanimmo con lei, e ci fu chi tornò a vivere nei luoghi inconsci in cui nascono i sogni. E se è vero, come ricorda sempre G. Bachelard, che gli uccelli dei sogni non muoiono, fu così che il nostro vivere sensibile ebbe riparo. E’ anche vero che un pensiero che non tollera il crollo è troppo duro per non cadere.

Il trauma esterno del sisma, infatti, risveglia e rivela in noi antiche ferite interiori. In ognuno di noi, per così dire, vive un sentimento di infanzia senza fine, di infanzia immobile, dove dorme, a volte, un trauma affettivo muto, conosciuto come sentimento dolente, ma non ancora pensato, come un “sogno non sognato”, diremmo con T. H. Ogden. Ne resta, a ricordo, solo una sua rappresentazione immobile dove tace l’emozione. Ne ricordiamo il fatto, ma non l’emozione o il dolore che esso ci diede. Trauma affettivo taciuto a se stessi. Realtà troppo dura per essere pensata da una sola mente, quando l’Altro e i suoi doni si fecero assenza. Se non può essere pensato, è un dolore che giace nel corpo, forse, dove trova rifugio, negli organi assopiti cui non dà più tregua. Diviene dunque dolore d’organo,ritorno al somatico. Ogni somatizzazione, infatti, è memoria carnale di un dolore psichico un giorno vissuto, ma non ancora narrato. Ciò che nel passato fu trauma bianco, cioè impensabile perché inumano per una mente sensibile, unendosi e confondendosi al sisma, diviene oggi sentimento di allarme, che segue l’ombra dell’Io e non dà pace. “Paura di un crollo”psichico che fu (con D.D. Winnicott) e che, non riconosciuto allora, diviene nelle immagini inconsce, ora, imminente aprirsi della terra. Attesa di una fine il cui sapore è già conosciuto. Il sisma è ferita carnale, e riproduce così quel trauma affettivo e personale, lo assorbe e lo proietta nell’universo, lo rende ora, davvero irrappresentabile al soggetto, perché separato dalle sue origini e travolto da un mare sconvolto. Il dolore diviene cosa. Il doppio sisma, quello personale e quello esterno, è notte che non si può sublimare e cioè elaborare, far passare dalla realtà sensibile a quella rappresentabile, senza un’Altro che lo pensi e lo senta con noi. Quando dei due, l’antico trauma affettivo diverrà narrabile, attraverso l’esperienza che cura, anche il sentimento del sisma si scioglierà in pianto.Troverà un luogo psichico dove generare immagini e nutrire il giorno. Con il tempo nuove trame mentali più leggere nasceranno in una comunità che sogna. Dalla polvere che un giorno fu

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Perle di Psicanalisi strada un nuovo pensiero raggiungerà civiltà perdute dove hanno origine i pensieri. Nella capacità di raccogliere utopie per farne un tessuto mentale si giunge a dar luogo all’esperienza di essere nuovamente vivi. Ed è così che torneremo a darci del tu. Quale il significato inconscio della città, ovvero del paesaggio da noi perduto? I luoghi amati hanno l’essenza dei veri oggetti trasformativi, di cui parla, altrove,C. Bollas, poiché riuniscono le frammentazioni del Sé che li percorre. Il paesaggio è, dunque, promessa di trasformazione del Sé, ma anche ricordo inconscio dei primi rapporti con la terra in cui il soggetto e il mondo, come il Sé e il primo oggetto d’amore, “sentono di accrescersi e darsi forma a vicenda”, con C. Bollas. I luoghi amati rendono, infatti, immortale la mente che li pensa. Favoriscono un processo d’integrazione interna tra emozioni e rappresentazioni, ridando vita a quella parte di sé, di noi, che vive nel viaggio. Il paesaggio, per il viaggiatore che lo abita, è come disegnato dal destino. Ogni aspetto della città è, inoltre, eco del nostro mondo interiore che trova in essa respiro per vivere. La sua memoria, dunque, è ricordo di un nostro vivere antico, quando la mente non rappresentava ancora il mondo, ma lo conosceva profondamente nei sensi, è atmosfera interna di esserecon-la-madre, fra cortili e corolle… Ogni sguardo sul villaggio umano è uno sguardo su sé, è una forma di déjà vu, dove le immagini non muoiono, ma si legano in nuovi giochi con gli oggetti della vita, dove si raccoglie il disegno antico scritto nell’ontogenesi. La realtà psichica di ogni singola città è nei suoni, nella luce che in lei abita e nei gusci che raccolgono il suo Sé. L’estetica del villaggio umano è, dunque, un sogno architettonico di chi visse per donarci luoghi da amare e dove il nostro Sé può riconoscersi e sostare. E’ trasmissione grafica di un senso, di un modo di essere vivi in altri secoli, che dialoga con il nostro essere più profondo. Vivere con il paesaggio è un’esperienza onirica, poiché esso è il teatro in cui il Sé incontra inconsciamente l’antica madre, dona alle strutture dell’Io un senso profondo, lo riannoda all’esistere ancestrale. Ma è l’essere profondamente con il paesaggio, è l’incontro con l’Altro, che offre continuità all’esistere, così come seguire con lo sguardo, in rêveries solitarie, i passaggi di luce sulle mura. Sognare il paesaggio arricchisce di senso i giorni e ci protegge dall’ignoto e dalle forze che dissolvono il legame tra i pensieri inconsci. Noi sappiamo bene che la costanza di ogni legame con il mondo dà continuità al nostro sentire. Essendo se stesso, dunque, il paesaggio ci riunisce intimamente. L’apertura al discorso inconscio dei luoghi più cari rivela nel nostro mondo interno nicchie di esistenza impensate, e trasforma ogni strada in itinerari di senso. Ed ogni strada è l’inscrizione inconscia del tempo nello spazio, perché disegna un percorso, ci congiunge ad una meta. Tracciare una strada, infatti, è davvero inserire il tempo nello spazio, tracciare un ponte percorribile su una distanza tra due punti prima indistinti, include una meta e dunque il desiderio di congiungerci ad essa. La strada nasce dal sentimento del tempo, si genera da un desiderio, ed è dunque l’incisione, nella terra, di una nostra profonda emozione. E’ la strada, infatti, che ci rende possibile pensare il cielo. Ed è per questo che possiamo dire con C. Castaneda che “le strade hanno un cuore.”

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Nelle piazze, colme di cielo, anche la luce ci è cara. Ogni fontana, poi, è rêverie di acque nascenti, ogni incontro con l’Altro un primo, antico incontro. E i parchi, i giardini di città, sono i luoghi che nascono dalla nostalgia degli dei e attendono il loro ritorno, nei sogni di Duccio Demetrio. La città ha, nell’inconscio, l’essenza di un vero oggetto evocativo, ricordo di “una ricorrente esperienza di essere”, pensando con C. Bollas, nella quiete psichica di essere con l’Altro. Il paesaggio, inoltre, suggerisce il pensiero, favorisce con i suoi disegni una tessitura di legami nella mente che integra sensazioni ed emozioni in un ramage che trattiene il senso del vivere. Evoca nel mondo interiore l’incontro con parti impensate, aree di sogno si intrecciano in mappe di sentieri che, divenuti pensabili, possono incontrare il mondo. La città antica è il luogo dei sogni della sosta e del riparo. Una città che riposa, infatti, addolcisce il dolore. La sua estetica notturna, altresì, sollecita in noi il desiderio di viaggi più profondi, di incontri inconsci con aree inesplorate e sotterranee, celate al giorno. Una città sotterranea, ogni notte, ci guida al centro della terra. Ci sono parole, infatti, che prendono vita solo nella notte e tornano ad attenderci in quegli antichi luoghi. Gli stati d’animo che dimorano nel nostro Sé notturno si arricchiscono in una città che da sempre nasce nelle stelle. Ed è solo per chi è intimo della notte, come R. Frost, che si rinviene, con stupore, l’oggetto amato la cui ombra vive sempre nell’archetipo della notte. Possiamo infine aggiungere che il villaggio umano è una pausa nel mondo naturale, luogo quindi di incontro tra conscio e inconscio, è il simbolo di un legame profondo con la terra, dell’umano con il naturale. Il sisma, dunque, è follia cosmica di un inconscio che ha perduto l’Io che lo conteneva. E se la natura è madre, è anche inconscio, generoso mondo di pulsioni che l’Io coltiva e discerne articolandole e trasformandole in viali di pensiero. L’uomo è quindi, in questo dialogo immaginale con la natura, rappresentante dell’Io cosciente che raccoglie, dà forma e senso agli oggetti inconsci naturali, trasformandoli in architettura di sogno. E’ in questo senso che il paesaggio urbano è l’incontro ed il legame profondo fra Conscio e Inconscio, tra l’Io e la Madre Archetipo che rende salda la vita rendendo sensibile la materia ( lat. Mater- madre). Ritroviamo nelle linee costruttive di ogni città vivente il primo paesaggio che scorgemmo alle origini sul volto della madre e che ci donò la terra. Ed è per tutto questo che in noi sappiamo bene che una città che rinasce è una madre che torna.

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Dott.ssa Maria Rita Ferri Psicoterapeuta Psicoanalitico


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Pillole di Psicanalisi

Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile. Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.

MARNIE

di Alfred Hitchcock:

un femminile diviso Commento Psicoanalitico del film

La vita di Marnie, giovane donna che agisce furti presso grandi ditte in cui si fa assumere di volta in volta, mutando identità e interpretando il ruolo di impiegata modello, è guidata inconsciamente da un vissuto traumatico rimosso in cui da bambina aveva colpito, uccidendo, un marinaio che aggrediva la madre, durante uno degli incontri sessuali che quest’ultima conduceva per sopravvivere.

L’

evento si era svolto di notte, durante un temporale, dopo che l’uomo si era avvicinato anche alla bambina e la madre era intervenuta per difenderla. Nella collisione l’uomo feriva la madre nella gamba. L’Io di Marnie rimuove il trauma, così come la madre mantiene il segreto su quanto avvenuto: si sviluppa, quindi, nella psiche di Marnie una patologia nevrotica costituita da fobie di oggetti e condizioni legati al trauma (il colore rosso come il sangue, i temporali, il mondo maschile), l’inibizione affettiva e la coazione al furto. L’incontro con Mark e con il suo amore riconduce alla coscienza gradualmente l’evento traumatico, giungendo alla catarsi finale, sciogliendo i sintomi e rendendo Marnie libera di amare La macchina da presa, come usuale nella poetica di Hitchcock., anche in questo film è in realtà rivolta costantemente verso il mondo interno, volta a cogliere ciò che di oscuro e segreto nel profondo agita l’animo di ognuno: protagonista e spettatore.

Nelle scene iniziali non compare mai il volto della donna, ma in primo piano sono oggetti: la borsa, la valigia, oggetti nella valigia. Ciò può significare che protagoniste sono le forze inconsce, senza volto, che guidano l’agire. La macchina da presa si sofferma sull’immagine della borsetta, in primo piano all’inizio del film, che trova un suo doppio nella valigia. La borsetta rappresenta, alla luce di ciò che la storia rivela, la femminilità minacciata e mutilata che viene riempita di buone cose, preziose e di valore, come a riparare il danneggiamento. Dopo l’agito del primo furto, Marnie torna nella casa natale, per portare nuovi doni alla madre, dove dopo un drammatico e inquietante colloquio che sancisce l’impossibilità di incontro emotivo con lei, tenta il riposo. Nel sonno appaiono frammenti dell’incubo ricorrente, che replica la scena del trauma nelle notti di Marnie: alcuni colpi alla porta, l’immagine della madre che viene a svegliarla per farla alzare e il terrore che pervade il suo cuore. Sentendola gridare, la madre, nella realtà, giunge a svegliare Marnie. In questa scena la figura della madre si staglia nell’oscurità, quasi emergesse dal sogno stesso, silhouette dell’inquietudine che estende il pathos del sogno di Marnie in una realtà che non conosce ancora il risveglio della coscienza; il profilo della madre non illuminato e quindi non visibile, pone in primo piano i toni della voce; la sonorità senza volto (anche in lei, vedremo nel film,agisce una profonda inibizione inconscia), privata di colore affettivo, è immagine- ombra inquietante dell’assenza del materno che culla il risveglio. “…E’ sempre quando tu arrivi alla porta che comincia a fare freddo…” mormora nel sogno Marnie, aggiungendo “non mi far muovere, fa troppo freddo, non allontanarmi”: nella semantica del film la richiesta di Marnie è un’antica richiesta legata al trauma che, rimosso, riemerge confusamente nel sogno. E’possibile peraltro individuare nelle sue parole la dolorosa percezione di una madre-ambiente fredda, che, attraverso l’interiorizzazione, fa sì che l’ambiente interno della psiche di Marnie sia divenuto freddo (e tale si rivelerà nella “freddezza” con cui cambia personalità e agisce i furti o nell’ impossibile incontro d’amore con Mark), per l’assenza del calore di un buon oggetto materno interiorizzato. La madre giunge a Marnie ad un tempo nel sogno e nella realtà: congiunzione d’ immagini che perpetuano il vissuto traumatico estendendolo dal sogno al reale. Secondo un’ottica psicoanalitica che non vede nel sogno unicamente una riedizione oscura ed enigmatica del trauma (come ci suggerisce Hitchcock.), possiamo ipotizzare che in esso si esprima il desiderio più profondo in Marnie: che l’allontanamento emotivo della madre si rovesci nell’immagine in cui giunge a bussare al cuore o alla vita della figlia, per tornare ad alloggiarvi e a diffondere calore. La stessa immagine include il Sé di Marnie che “bussa” alla porta della madre, senza altra risposta che il battere del vento sulla finestra che si replica nel rumore dei passi della madre mentre si allontana.: immagini sonore del battito del suo cuore atterrito. Ancora, l’immagine della madre nel sogno può rappresentare una parte “antica” e inconscia del Sé di Marnie che ”bussa” alla coscienza, la cui unica risposta possibile, prima del processo di elaborazione, è l’angoscia. Nella scena del dialogo tentato tra le due donne Marnie non riesce a toccare il cuore della madre. Quest’ultima, infatti, sembra aver proiettato aspetti ostili e distruttivi di sé nella figlia, esitandone un allontanamento fisico (ricordiamo quando Marnie si appoggia teneramente sulla sua gamba e lei la allontana con un gemito di dolore o quando le impedisce di raccogliere le noci e riparare così il gesto aggressivo) e ancor più psicologico, scindendo e proiettando i buoni oggetti interni del proprio Sé e della buona immagine inte-

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Pillole di Psicanalisi

riorizzata della figlia su Jessie, la bambina figlia di una vicina di casa di cui ora la madre ha cura. Jessie rappresenta.inconsciamente ad un tempo, per la psiche della madre, la piccola Marnie e la buona immagine di sé, unite in un sogno di innocenza integra e originaria. L’identificazione della madre con la figlia è sottolineata più volte sia dal colore dei capelli di Jessie, che la madre ama pettinare, che unisce il colore dei capelli di Marnie e della madre in gioventù, ma più ancora dall’inibizione affettiva della protagonista verso il mondo del non-materno, che replica la distanza emotiva della madre, come se in Marnie vivesse un oggetto senza vita, fantasma depressivo che prende forma dalla fusione del dolore rimosso nella psiche delle due donne. L’interazione tra madre e figlia rimanda all’impossibilità disperante di un riconoscimento dell’Altro, da parte della madre che, “accecata” inconsciamente dal trauma, avvolge la figlia di uno sguardo che la esclude, sguardo opaco che, perduto in un passato inelaborabile, attraversa l’oggetto senza riconoscere. Marnie, in ogni avvicinamento, ha visto i tratti dell’immagine materna irrigidirsi al punto da non potervi scoprire i propri tratti. La mancanza del riconoscimento materno, a mio avviso, agisce come secondo trauma che, amplificando l’effetto del primo, esita una scissione nevrotica nella personalità di Marnie configurantesi nella fioritura di un “falso Sé” adulto, adeguato e compiacente, e un “vero Sé” segreto e celato alla coscienza, legato al mondo infantile e al sentire emotivo. Anche in questo senso è possibile rinvenire una potente

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identificazione con la madre: così come la madre allontana Marnie, in lei anche il Sé diurno, o falso Sé, respinge oltre la regione della coscienza il mondo delle emozioni, inespresse e inesprimibili. I due mondi psichici trovano congiunzione nel furto, inscritto in una sintomatica catena di “coazioni a ripetere”. Nella narrazione i due piani di vita interiore si rincorrono e si congiungono, sfuggendo il Sé diurno dall’incontro con il vero Sé, volto antico e inascoltato della personalità, ma rimanendo attonito e sgomento dall’improvviso irrompere di elementi inconsci (colore rosso dei gladioli, gocce di sangue sulla camicetta, il sogno ricorrente, il temporale, il colore rosso sulla camicia del fantino) e dall’impossibilità di trovare una risposta che riunifichi i due mondi. Nelle parole materne l’evento traumatico trova una possibile forma di esprimibilità come “disgrazia”, antica ferita psichica che si somatizza nel dolore nella gamba della madre e nel sintomo di Marnie (coazione al furto, fobia del colore rosso e della tempesta). L’asse sintomatico mantiene una connessione madre-figlia nel ricordo inconscio del trauma che le ha divise. La coazione a ripetere il furto ha senz’altro il significato inconscio, per Marnie, di riprendere con sé la “buona madre” e i suoi doni, (con Winnicott), punendo il potente e terrifico mondo maschile, ma ha inoltre il significato ancora più pregnante di tentativo disperato di guarire la relazione con la madre, riparandone l’immagine danneggiata di cui si sente oscuramente colpevole, e la propria distruttività: “…io non sono come gli altri esseri umani, so quello che sono” dirà a Mark. Il sentimento di colpa inconscio spingerà inoltre Marnie a tentare, attraverso il reiterarsi del furto, una possibile espiazione attraverso l’intervento di un’autorità esterna. Nell’acting-out del furto,infatti, proietta fuori di sè il mondo interiore, assumendo lei stessa il ruolo distruttivo e causando l’inevitabile intervento di un Super-io esterno. Nelle scene in cui progetta il furto, Marnie guarda incantata il movimento dei cassetti che si aprono, contenenti il codice per l’apertura della cassaforte: nei suoi occhi è l’incanto del desiderio di aprire l’impermeabilità della madre e goderne i suoi doni, sorretto dalla fantasia inconscia di una “madre-cassaforte”, ricca di buoni oggetti da cui lei è esclusa, l’unica “cassaforte” che non può aprire. L’incontro con Mark Rutland segna l’inizio della trasformazione. Egli, impersonando una funzione contenitiva interna, analitica e materna, si inserisce come “terzo” strutturante nella dicotomia “Io –mondo pulsionale”, “vero e falso Sé”, “madre-figlia”, che lacera l’animo di Marnie. Gustosa è la citazione di Hitchcock, che situa nello studio di Mark oggetti di arte pre-colombiana, come nella stanza di analisi di S.Freud e, più avanti, nella disposizione spaziale di Mark, sulla sedia, e di Marnie, sul letto (nella scena del”gioco” delle libere associazioni) che richiama la configurazione del setting analitico.

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Fine prima parte. La seconda parte sul prossimo numero di Sipario)

Dott.ssa Maria Rita Ferri

Psicoterapeuta psicoanalitico, docente della Scuola di specializzazione in Psicoterapia ad orientamento Analitico Atanor, in Diagnosi clinica e Personalità


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Perle di Psicoanalisi parti di sé, che trovano in Mark l’area transizionale in cui coesistere. Nella mente di Mark,infatti, in un atto di comprensione (da com-prendere, ovvero prendere con sé), alloggiano le due Marnie e trovano gradualmente integrazione. Ciò permetterà alla psiche di Marnie di trovarla in sé. Elementi psichici grezzi, spuri in Marnie, acquistano senso nella mente di Mark, vi trovano uno spazio di pensabilità, sono così sottratti all’agire e consegnati al pensiero affettivo, che integra e ripara i tagli psichici. Mark, inoltre, accoglie i timori di Marnie, cogliendo l’essenza più profonda della sua delicata femminilità e la vita dei suoi due volti interni :“… conosco un fiore color corallo con i petali bordati : è formato da mille piccoli insetti che si difendono così, assumendo una forma diversa “ le racconta Mark in momento di intimità affettiva nelle scene del viaggio di nozze, cogliendo la fragilità del vero Sé come piccolo insetto che trova riparo nel falso Sé dalla forma impeccabile. Le permette così un’ esperienza di riconoscimento del vero Sé, che da questo momento in poi trova accesso graduale alla coscienza. Egli, come vero “Io ausiliario”, la sostiene con amore mentre le porge prove di realtà (ricordiamo la scena in automobile in cui fa cadere le difese fabulatrici con cui Marnie tenta di percorrere il mondo proteggendo dal contatto con l’esterno minaccioso parti autentiche del Sé), inoltre si pone come filtro o intermediario tra la psiche di Marnie e il mondo: restituisce il denaro da lei sottratto e riparando i suoi rituali aggressivi ripara l’immagine danneggiata, attraverso il furto, della “cassaforte” come buon seno materno: simbolicamente rende possibile il desiderio di Marnie, la ricongiunge con gli oggetti amati (le riconduce il cavallo, presenza

Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile. Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.

MARNIE

di Alfred Hitchcock:

un femminile diviso

Commento Psicoanalitico del film

La vita di Marnie, giovane donna che agisce furti presso grandi ditte in cui si fa assumere di volta in volta, mutando identità e interpretando il ruolo di impiegata modello, è guidata inconsciamente da un vissuto traumatico rimosso in cui da bambina aveva colpito, uccidendo, un marinaio che aggrediva la madre, durante uno degli incontri sessuali che quest’ultima conduceva per sopravvivere. SECONDA PARTE (la prima parte sul numero 454 di Sipario)

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ark, nella sua mente, accoglie Marnie e il suo enigma, accogliendone il dolore e lo spavento in un abbraccio sia fisico (già nella scena del temporale) che mentale. La tempesta che giunge nello studio di Mark e che produce in Marnie un’angoscia senza nome è l’eco di un movimento tempestoso e pulsionale interiore che fa vacillare le fragili difese dell’Io e chiede di essere compreso. “Tempesta”, dal latino “tempestas”, proviene etimologicamente dalla parola “tempus”, ovvero tempo, che ha la radice “tem” dal significato di tagliare. E’ il tempo interno di Marnie, bloccato al momento del trauma, che ha tagliato via la speranza e il legame, che ha tagliato in due, o scisso, la vita interiore e il dialogo tra le SIPARIO


Perle di Psicoanalisi

affettiva e vitale nel mondo di Marnie). Mark inoltre, nei dialoghi, ripercorre con lei le fasi del processo difensivo dal trauma, collegando ed interpretando frammenti del sentire e del ricordo. Tale percorso corrisponde e rappresenta il processo interiore di mentalizzazione del trauma. Nella scena del gioco delle libere associazioni la mente di Mark si pone esplicitamente come contenitore psichico in cui gli elementi frammentati della psiche di Marnie possono trovare ordine e senso, conducendola a far contatto diurno con i fantasmi interiori compressi nel colore rosso associativamente evocato e a cercare rifugio nella realtà affettiva (“Aiutami” grida Marnie a Mark, cercando rifugio nelle sue braccia) fin lì vissuta come minacciosa e pericolosa: ora percepisce che il pericolo proviene dall’interno, diminuirà il ricorso a difese proiettive, l’immagine del femminile distruttivo diviene esterno al Sé (riconosce le insidie di Linda, cognata di Mark che aspira al suo amore e per gelosia tenta di vendicarsi di Marnie, facendola incontrare pubblicamente con Strutt, prima vittima dei furti, perchè la riconosca) ed il suo Io ne emergerà rafforzato: può affrontare una prima prova di realtà (incontro con Strutt). Nella scena in cui Mark e Marnie cercano insieme una soluzione al disvelamento operato da Strutt è interessante notare come il movimento di lei nello

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spazio accompagni il corso dei pensieri di Mark, quasi ad indicare che pensiero e azione, nella psiche di Marnie, trovino ora una possibilità di integrazione, senza più essere scissi: lei si “muove” nel reale, non più “agita” dalle fantasie inconsce, seguendo un pensiero secondarizzato. L’immagine della propria e altrui distruttività, percepita come riparabile, diviene meno minacciosa, oggetto di confronto. Sconvolta dall’incontro con Strutt, Marnie si allontana correndo sul suo cavallo che cade a terra ferito gravemente. Marnie, quasi in trance, cerca una pistola per ucciderlo, per non vederlo soffrire. La drammatica scena dell’uccisione del cavallo si configura come replica della scena traumatica e assume inoltre significati psicologici fondamentali di espiazione della colpa inconscia, attraverso il sacrificio e la perdita del buon oggetto amato. Essa è inoltre disvelamento del significato dell’uccisione come atto d’amore (per il buon oggetto proiettato nell’immagine del cavallo, salvato dal dolore e dall’agonia e verso la madre nell’episodio traumatico dell’infanzia),anticipazione del perdono. Marnie uccide nel cavallo simbolicamente le proprie pulsioni e quindi si prepara a riconoscerle. Nella scena in cui, aprendo in segreto la cassaforte di Mark, tenta nuovamente la riattivazione della coazione al furto è resa evidente, dall’abile gioco dello zoom sui soldi e sulle mani di Marnie, l’avvenuta interiorizzazione del conflitto. L’Io combatte contro i propri impulsi, non più soggiogato da fantasie persecutorie, in una realtà non più persecutoria (“Prendi” dice Mark che la raggiunge alle spalle, indicando il denaro: “è tuo”): rende impossibile l’attuarsi della coazione. Le scene finali del ritorno alla casa natale si aprono alla catarsi: Marnie narra con voce infantile l’episodio traumatico che può ora accedere alla coscienza. Il racconto, che proviene da un tempo psichico lontano, riconduce al momento del trauma, offre la parola all’indicibile, permettendone l’accesso al tempo attuale, la narrabilità e quindi l’elaborazione. Passato e presente si ricongiungono, esitando altre possibili integrazioni. Si ricompone così la scissione traumatica nel Sé di Marnie, tra le due Marnie (la parte piccola e fragile può narrare l’episodio), si ricongiunge inoltre nella sua psiche la rappresentazione (narrazione) con il suo affetto (angoscia e fluire libero delle emozioni). Nasce il tempo della trasformazione: Marnie è ricondotta al tempo della vita, in cui le ombre dileguano, gli enigmi svaniscono nella comprensione del pathos e le relazioni infrante, la relazione con la madre e con il proprio mondo interno, fluiscono e si rivelano come “luogo” dello scambio più profondo e del riconoscimento.

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Sul prossimo numero sarà analizzato il film “La parola amore esiste” di Mimmo Calopresti.

Dott.ssa Maria Rita Ferri

Psicoterapeuta psicoanalitico, docente della Scuola di specializzazione in Psicoterapia ad orientamento Analitico Atanor, in Diagnosi clinica e Personalità


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Perle di Psicoanalisi differenza che abita gli incontri, con la madre e lo psicoterapeuta, parlano silenziosamente di un’assenza di essere, che si estende come ombra malinconica di un mondo disaffettivizzato, di non-nascita. Eloquente, in questo senso, è una delle scene iniziali, in cui dalla finestra Angela vede il tempo segnato su un orologio e controlla la sua esattezza attraverso il segnale telefonico per poi raccogliersi, distesa sul letto. Il tempo non vissuto diviene cronologia del vuoto (“Ho trenta anni e non faccio niente”), tempo luttuoso in cui nulla può nascere, poiché il dolore psichico di Angela non ha ancora rappresentazione, ne’ ricordo. In lei non diviene attesa, poiché l’attendere implica una direzione, un rivolgersi della speranza verso le revêries dell’incontro, cui ha dovuto rinunciare. Delicato, a questo proposito, è l’accenno, in una seduta con lo psicoterapeuta, ad un ricordo dell’infanzia, unico momento del rimemorare: “ ... quando ero piccola, ero a casa che aspettavo un’amica e ho detto a mia nonna: ‘ sicuramente verrà a giocare con me’. Ero sicura che sarebbe arrivata e invece non è ... non è venuta, poi. Pensai che ero stata punita perchè l’avevo dato per scontato e anche perchè avevo usato quella parola troppo presuntuosa ...” E’ questo un tenero passaggio che permette lo sguardo fugace al passato di Angela e apre al paesaggio di solitudini infantili, quando la sua anima ferita cercava di far tacere il dolore dell’assenza, trasformandolo in colpa. La parola “tempo”, inoltre, proviene dal latino tempusoris, dal significato dividere, con radice tem, tagliare: Angela non può quindi assumere il tempo, poiché in esso è un’oscura minaccia di perdita innominabile, così come il numero due “... il due per me è solitudine, scissione ...”, dirà allo psicoterapeuta. La sua psiche, quindi, rifugge il respiro dello spazio e del tempo, si assottiglia nella costruzione di una mitologia solitaria, dove numeri e colori resti-

Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile. Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.

LA PAROLA AMORE ESISTE di Mimmo Calopresti

Note psicoanalitiche del disturbo ossessivo - compulsivo.

Il film inizia con una scena in cui Angela è ripresa nel suo incerto cammino, espressione dell’angoscia degli spazi e dell’attraversamento. La strada è metafora della sua terra psichica, dove solo i rituali del cammino rendono possibile l’incedere, così nel disegno di strisce pedonali che lei non può percorrere liberamente è tracciato l’abisso in cui il suo Io può scivolare e perdersi. PRIMA PARTE

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a strada è proiezione di territori psichici non saldi, in cui l’Io traccia mappe di certezza attraverso la ritualizzazione del cammino interno. Anche il suo pensare, infatti, segue tracciati particolari che si estendono sull’incertezza dell’essere, in cui la magia di alcune parole aprono abissi superabili solo col tacere: “ ... ci sono parole di cui ho paura, che non ho il diritto di usare, come la parola ‘sicuramente’... ”, dirà allo psicoterapeuta, che le chiede quindi: “ ‘Come fa quando deve esprimere quel concetto?’ ‘ Cerco di non farmelo venire in mente’ “ L’abisso psichico, come vuoto interiore, da lei pronunciato come mancanza sul piano dell’agire (“... Ho trent’anni e non faccio niente”, dice allo psicoterapeuta), è in realtà sentimento pervasivo, dell’essere niente, proiettato nel mondo: la scelta degli scenari disadorni e scarni, così come il vuoto del dialogo minimale con le amiche e l’inSIPARIO


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tuiscano un senso all’esistere senza scelte (“[ senza di essi ] ho paura di non esistere più”, confida allo psicoterapeuta). Angela, infatti, in questa prima parte del film, non può ancora scegliere o sciogliere il legame con il nulla, da cui è catturata, poiché vivere il tempo e lo spazio rimanda a vissuti di tagli e lacerazioni, dolori impronunciabili in un mondo che nega le appartenenze. Il conflitto interiore, privato di rappresentabilità, ed esternalizzato in gesti magici, permea la psiche, che quindi rifugge il dividere, la scelta (da ex-eligere, scelgo-sciolgo dall’insieme), Il numero due, che rispecchia una dualità interna, conflittuale e lacerante, e ricerca l’unione, il congiungere che offre equilibrio: il numero tre è composto di un terzo elemento che offre stabilità, lega i primi due in un nodo amoroso.

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pensare il mondo, in cui comunicare. L’assenza di aree psichiche di elaborazione impedisce l’incontro: nel rapporto con la madre, infatti, si profila la dimensione dell’incomunicabilità, dell’assoluta non corrispondenza tra desiderio e realtà, si oggettivizza il niente affettivo che rende vuoto il tempo e la parola. La madre, infatti non l’accoglie, ne’ la respinge, in uno sguardo che assicura distanze senza pronunciarle e rende immobili i gesti, nel divieto di ogni dinamica affettiva.Quando Angela, nella seconda parte del film, le chiederà aiuto, la madre, incapace di offrire riconoscimento e rifugio, affiderà ad altri la cura. L’aderire all’imperturbabilità materna fa del mondo interno di Angela un universo di desideri taciuti. Così anche nei dialoghi con le amiche o con lo psicoterapeuta prende vita la poetica disperante degli incontri mancati: in assenza della dimensione dell’alterità, essi si rivelano come monologhi senza fine, ne’ inizio, specchio del monologo interiore di una sofferenza che non di fa discorso. Nei delicati toni di un acquerello, la tessitura del film si sviluppa in sequenze brevi ed irrelate: esse parlano di una difficoltà psichica a mettere in relazione le parti interne e ad entrare in relazione con l’Altro. Manca uno spazio transizionale, in Angela, un centro psichico strutturante che congiunga ed integri, cui l’Io è teso: “Jung è meno razionale, più mistico, è per questo che mi piace. Sapere che c’è qualcuno capace di mettere insieme tutto: i vivi, i morti, i sogni...” sussurra allo psicoterapeuta. Nella mancanza d’integrabilità diviene possibile solo la sovrapposizione di parole (nei dialoghi) e d’immagini, l’incontro tra parti è vissuto come implosivo: così nei simboli che abitano la psiche di Angela ogni colore composto è perturbante e viene quindi difensivamente scisso nei suoi elementi originari: “Il problema è il rosa”, aggiunge, “perchè è un misto di rosso e di bianco e bianco è un buon colore e rosso è amore e ovviamente anche malattia”. Il film è ricco di simbolismi, in consonanza all’operare psichico della protagonista. Interessante è la scena in cui Angela trova una chiave spezzata e, attraverso un’ansiosa ricerca, rinviene l’altra metà. “Una chiave rotta è un bruttissimo segno ... da qualche parte deve esserci l’altra metà, bisogna assolutamente trovarla ...”, confida allo psicoterapeuta. Angela vede nella chiave spezzata una frattura interiore, un discorso infranto con una parte preziosa di sé, il mondo del sentire con cui l’Io vuole inconsciamente congiungersi. Il simbolismo dell’immagine della chiave parla di possibili aperture psichiche ai misteri interiori, rimanda al processo di iniziazione spirituale, verso il dimorare psichico.

La ricerca d’amore, in Angela, nasce da uno slancio psichico, volto a rinvenire un fondamento dell’essere, esprime la speranza dell’Io a ricongiungersi al fluire libidico dimenticato ed interrotto nella relazione antica ed immobile con la madre. Ricordiamo la scena in cui Angela va dalla madre, mondo delle assenze, in ritardo: non può essere nel tempo poiché manca in lei uno spazio psichico in cui SIPARIO

La seconda parte sul prossimo numero di Sipario, in distribuzione da venerdì 9 maggio

Dott.ssa Maria Rita Ferri

Psicoterapeuta psicoanalitico, docente della Scuola di specializzazione in Psicoterapia ad orientamento Analitico Atanor, in Diagnosi clinica e Personalità


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del Sé. I protagonisti, quindi, raffigurati su una soglia che non diviene apertura, esprimono una revêrie del cammino, sogno di aperture inaccessibili: il loro continuo movimento è un sostare nell’impossibile accesso alla porta del Sé. All’immagine della porta si collega, inoltre, il simbolo della scala, così presente anch’esso nel racconto. Sul piano simbolico ogni scala parla del ricongiungimento tra cielo e terra, tra l’alto e il basso, della verticalità dell’esistere, slancio ascensionale dell’anima. I personaggi del film, nel perenne innalzarsi su scale e ascensori, esprimono un desiderio di elevazione dell’essere, un capovolgimento della dinamica della caduta, della dialettica dell’abbattimento.

Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile. Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.

LA PAROLA AMORE ESISTE

La psiche della protagonista è racchiusa in una segreta mitologia in cui il bisogno di equilibrio è dato da una numerologia dell’anima. E sarà un’intima costellazione matematica a guidarla verso l’amore per Marco: lo amerà perchè lo ha incontrato il ventisette, “amore perfetto”, vicino alla sua abitazione segnata dal numero tre, ed era vestito di rosso. Ma l’Io che non cinge tra le braccia il suo mondo interiore teme l’incontro, teme di smarrirsi e cadere: Angela racconta infatti allo psicoterapeuta un sogno in cui incontra Marco e, nel momento dell’abbraccio, si sveglia nel panico.

di Mimmo Calopresti

Note psicoanalitiche del disturbo ossessivo - compulsivo.

Il film inizia con una scena in cui Angela è ripresa nel suo incerto cammino, espressione dell’angoscia degli spazi e dell’attraversamento. La strada è metafora della sua terra psichica, dove solo i rituali del cammino rendono possibile l’incedere, così nel disegno di strisce pedonali che lei non può percorrere liberamente è tracciato l’abisso in cui il suo Io può scivolare e perdersi. SECONDA PARTE - La prima parte sul numero 456

L’inizio della trasformazione interiore ha luogo quando Angela scopre che sulla sua porta è stato posto il numero undici, nei suoi pensieri misteriosamente legato alla solitudine. L’undici è l’uno che si replica, che non diviene dualità, si rispecchia nel monologo che impedisce il dialogo. Di fronte a quel piccolo numero l’anima di Angela si sporge sulla solitudine fin lì agita senza essere vissuta e sviluppa un’oscura consapevolezza del suo essere: “L’undici l’ha sempre avuto, solo che prima non c’era la targhetta” risponde la portinaia dello stabile alle sue proteste. Il numero le rivela l’insieme della sua condizione psichica. Non potrà più varcare la porta perchè il suo Io ha fatto contatto con il dolore di un nomadismo interiore che nasce dall’assenza di una dimora psichica. Ma sarà proprio nel momento in cui lei assume la sua solitudine a non essere psichicamente più sola. Nella coscienza rigenerata il vuoto si fa mancanza. La simbologia del numero undici rimanda, inoltre, a significati di rinnovamento nel ciclo vitale. Sopraggiungendo alla completezza del dieci l’undici raffigura l’eccesso, il traboccamento, l’iniziativa individuale nel conflitto con l’armonia cosmica, il trasgredire ribelle alla legge. Nella psiche di Angela inizia così la ricerca del rifugio. Angela, infatti, dopo aver rinunciato alla non-casa e abbracciando il proprio dolore, rinuncia ai non-rapporti che racchiudono, in forme perfette, il nulla affettivo e il disconoscimento: torna dallo psicoterapeuta e dalla madre per difendere la sua verità, il dolore Mimmo Calopresti

el mondo delle leggende e della fiaba sono spesso presenti tre chiavi (d’argento, d’oro e di diamante) che, in successione, permettono l’accesso a tre stanze segrete, in analogia ai gradi di avvicinamento al mistero. L’immagine della chiave rimanda simbolicamente all’enigma dell’anima da sciogliere, dei misteri da svelare, alle imprese ardite: essa parla del rivelamento interiore, dell’illuminazione psichica. Nel trovare e ricomporre la chiave si esprime l’intuizione inconscia, in Angela, dell’avvio di un processo interiore di individuazione, dello scioglimento del molteplice enigma della sua anima. L’immagine della chiave rimanda, poi, alla simbologia della porta (ricordiamo come i protagonisti siano ripresi in molte inquadrature nell’atto di varcare la soglia, o nel chiudere porte dietro di sé o ancora di fronte a porte inaccessibili). La porta, sul piano simbolico, raffigura il passaggio tra due mondi, la vita e la morte, il noto e l’ignoto, l’esortazione al viaggio rigenerante verso un altrove psichico, verso l’espansione e reintegrazione

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co), la psiche di ognuno dei due esce dal suo universo passivo, rinunciando a nutrirsi di un oggetto idealizzato e salvifico. Attraverso l’assunzione inconscia del dolore della mancanza, il rapporto si apre al dono. Nella psiche di Marco nasce un discorso di paternità in cui può donare nuovi sì alla figlia, restaurando con lei un mondo affettivo che accoglie la soggettività nascente e conferma il legame. Angela ripara, nel rapporto con Sara, le immagini delle appartenenze danneggiate.

trova forza in una ricerca disperata di involucri affettivi che l’accolgano e l’Io scioglie, attraverso il rifiuto, il suo legame con il nulla. Così, nel ricovero in clinica, è pronta all’incontro con l’alterità di Sara, nel cui sguardo si sente esistere. Sara, infatti, sarà l’unica che dona speranza ai suoi sogni e realtà ai sentimenti; trasponendo il desiderio di Angela nel mondo del possibile lo renderà pronunciabile: “Ma perchè lei è così triste? ... invece secondo me andrà bene, lo sposerà” le dirà sulla spiaggia e, sul finale, salutandola: “... vedrà che tutto andrà bene con quel Marco: io non mi sbaglio mai”. Il pensiero beneaugurante di Sara diviene, silenziosamente, indicazione di destini felici, sostituisce psichicamente, in Angela, la mitologia numerica con la paroladell’altro. Nel ritrovato scambio affettivo con Sara, Angela prosegue la sua lotta per la prima volta per sé e per un altro, contro un mondo abitato dalla paura di amare: “Ha visto in che stato è la signora Sara?” dirà al medico della clinica e, difendendo una verità interiore divenuta pronunciabile “... non siete capaci di amare le persone così come sono ... è l’amore che guarisce”. Difendendo la vulnerabilità di Sara difende la propria fragilità e sviluppa, sciogliendo inconsapevolmente un destino di dipendenza, una pelle psichica che pone al riparo le sue parti più fragili e delicate. Nel contrasto senza timori con una realtà rifiutante, il Sé ritrovato prosegue il suo viaggio. Ora Angela potrà tornare verso casa perchè, accogliendo il dolore della solitudine, l’Io ha costruito la sua dimora psichica, dove il contenimento della sofferenza diviene forza dell’anima.

In entrambi la trasformazione psichica ha permesso un mutamento di senso nella scelta oggettuale: in un primo momento nel film è sottolineata una funzione difensiva dell’oggetto d’amore fantasticato, volta a sostituire gli oggetti perduti, a celare e coprire il vuoto d’essere. Dopo aver riparato separatamente l’area del legame, Angela e Marco possono aprirsi all’incontro nel mondo reale. Nell’ultima scena la bella metafora: sospingono insieme l’automobile di lui, che non ha più benzina, fino ad una stazione di servizio, che compare d’improvviso: sostengono l’Io (simboleggiata dall’automobile) che rinviene nel reale la risposta ad un desiderio di rifornimento libidico, amoroso. Il sogno d’amore trova forma nel mondo poiché la psiche dei protagonisti può ora tessere l’incontro con l’Altro non più sull’assenza, ma nella rêverie dell’appartenere.

Sul prossimo numero di Sipario, sarà analizzato il film di F. Truffaut “Adele H.”, Psicoanalisi della Melanconia.

Nella vita di Marco si sviluppa un processo psichico che riflette la dinamica trasformativa in Angela, come è sottolineato dalla musica del violoncello che, estendendosi tra le scene in cui i due protagonisti sono ritratti separatamente, riunisce i due mondi. Entrambi vivono inizialmente l’amore come momento dell’illusione, rapiti silenziosamente in un disegno amoroso donato da un destino benevolo, che si rivela ad Angela attraverso il concerto delle coincidenze e a Marco dal sentirsi amato nel mistero delle piccole poesie senza volto. Dopo la disillusione nell’incontro mancato (ricordiamo la scena dell’incontro nel parco in cui lei, non riconosciuta da Marco come l’autrice dei messaggi, si allontana affranta e la scena in cui lui rimane smarrito di fronte allo svelamento del suo equivo-

Dott.ssa Maria Rita Ferri

Psicoterapeuta psicoanalitico, docente della Scuola di specializzazione in Psicoterapia ad orientamento Analitico Atanor, in Diagnosi clinica e Personalità

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Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile. Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.

ADELE H di François Truffaut

Psicoanalisi della Melanconia

Nei disegni che fanno da sfondo alla presentazione del film è presente un castello diroccato: esso già ci parla di qualcosa di grande e prezioso che si è infranto e rimanda a ciò che si profila nell’anima di Adele. La simbologia del castello rimanda ad un cosmo isolato e alle immagini della protezione attraverso l’irrigidimento delle strutture psichiche ed un innalzarsi dell’Io dalla terra. Esso rimanda inoltre ad un’idea di pericolo, di attacco, cui l’unica risposta è la chiusura. dele, infatti, trova riparo dal pericolo di precipitare nell’ombra malinconica in un’idea ascensionale amorosa che diviene sempre più slegata dal reale e che si erge e la rinchiude, proteggendola. Il castello inoltre evoca un immaginario amoroso e d’avventura, slancio onirico in cui vive Adele per tutta la prima parte del film: “Quella cosa incredibile da farsi per una donna, di camminare sul mare, passare dal vecchio al nuovo mondo per raggiungere il proprio amato, quella cosa, io la farò”dice Adele a se stessa. Nelle ultime immagini il castello onirico si è spezzato: l’infrangersi della sua capacità di proteggerla e di donare realtà al desiderio. La caduta malinconica, prima rinchiusa nelle notti d’angoscia, ora dirompe nel giorno, e Adele, creatura della poetica dell’annientamento, perdendo il suo desiderio, perde se stessa. Lo spezzarsi dell’anima di A., allontanandosi dalla realtà, si riflette nel racconto che sembra spezzarsi anch’esso in due parti nel brusco passaggio di luminosità: nella prima parte la penombra è protagonista delle scene, penombra della coscienza, nella seconda si diffonde una luce nera, senz’anima.

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La prima parte del racconto, infatti, si descrive nella dialettica del chiaro-scuro, specchio della dialettica interna alla psiche di Adele. Le lampade sono punti luminosi in un’eterna notte psichica, che non diffondono luce, non interrompono cioè il buio della depressione malinconica. Ma l’ombra dà volume, indica l’Io che trova consistenza attraverso un sogno d’amore. Il viso che si illumina su un corpo al buio simboleggia la psiche di Adele che ancora si oppone con la sua narrazione fabulatoria a un dolore che la può sommergere come le acque in cui lotta ogni notte. Adele si muove in una dinamica stringente tra l’ossessione interna del pensiero d’amore e l’oggetto ideale esterno, Pince. Tale dinamica diurna è movimento vorticoso che di notte prende la forma di vertigine d’acqua, caduta malinconica che cattura ed uccide. Sussurra G. Bachelard: “Per alcune anime l’acqua è la materia della disperazione”. L’acqua, cosmo della notte che travolge Adele, è anche simbolo di un desiderio di riunificazione con l’oggetto primario, in cui l’Io regressivamente si inabissa. Il suo Io è peraltro simbolicamente rappresentato dallo specchio in cui appare il volto di Adele che non guarda se stessa: coscienza che non rispecchia, che non riflette, perduta nell’Altro idealizzato, Pince. Quasi impossessata dal suo ritratto allo specchio, che replica l’immagine del ritratto della sorella, Adele è anche Leopoldine. L’eopoldine, peraltro, rappresenta il suo doppio ideale in cui immergersi per ottenerne la luminosità e divenire oggetto d’amore, immagine lunare che sorge dalle acque oniriche e a cui Adele dona la vita, la propria identità, per poter nascere amata e non morire più di dolore: lei infatti ha i suoi gioielli. I gioielli sono tesoro delle acque, simbolo dell’immortalità. La morte di Léopoldine , cadendo nell’acqua, diviene la morte di Adele, che ogni notte si rinnova. Per i sognatori di acque marine, i fondali sono sempre vivi, abitati da velieri e tesori dove si muove un mondo marino che vive in penombra. Il punto in cui l’acqua dà la morte è dunque sempre acqua di lago, capovolgimento di un cielo morto, cielo liquido in cui il sole è negato. Come Leopoldine morì nelle acque, così Adele può morire ogni giorno, cadendo nella melanconia che la segue e che diviene vortice nei sogni. E’ il delirio diurno che non la fa cadere nelle acque melanconiche: ad ogni rifiuto di Pince segue infatti l’intensificarsi della tabulazione amorosa, come un elevamento immaginario della psiche dalla terra che contrasti la caduta melanconica dell’anima. Nella scena in cui strappa un bacio a Pince, sullo sfondo delle tombe, sono presenti diverse simbologie: sono infatti presenti nell’immagine del cimitero la malinconia che avvolge l’Io , come luogo psichico degli oggetti morti e perduti ed il bacio rappresenta la non elaborazione del lutto, ma la sua negazione delirante. La scena inoltre rimanda al significato di un antico amore morto che lei vuol far tornare in vita con un bacio non donato. Attraverso il bacio Adele nega la morte dell’oggetto primario, vuole non morire assieme a lui.


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riconosce più, quando lo incontra nel suo errare, mentre insegue orizzonti di un altro tempo: la perdita dell’amore dell’Altro fa sentire di essere non più vivi e di essere in presenza di un-altro morto. Ciò ha origine nel modo in cui l’Io percepisce sin dall’inizio la vita. Infatti, alle origini, il bambino sente di esistere solo “…se è fatto oggetto di affetto da parte dell’Altro”(L. Russo). Il desiderio affettivo della madre fa sentire al piccolo di essere accanto ad un oggetto vivo e vivificante, esso infatti accende il desiderio del bambino e la sensazione di essere vivo nel mondo, ed il legarsi alle cose del mondo con un proprio universo desiderante. L’impossibilità per la madre di mantenere o costituire il proprio desiderio per il bambino, perché la sua mente è attraversata, ad esempio, da lutti fin lì non elaborati o non elaborabili, fa percepire al bambino la presenza di “una madre morta” (A. Green). Inconsciamente ciò corrisponde ad una improvvisa scomparsa della madre, lasciando il bambino con un desiderio-domanda (J.Lacan) che perde il suo senso perchè non la può più poggiare su alcuno, poichè a nessuno egli appartenne. E poiché per la sua immaturità, il piccolo Io non potè né identificare e rappresentare psichicamente tale perdita d’essere, nella vita adulta torna a vivere, nel rifiuto d’amore, la prima perdita dell’oggetto e di sé, e lo sprofondare nel cielo melanconico si profila come un suo disperato modo di dare la propria vita all’oggetto.L’Io si scioglie nella morte dell’oggetto. La psicoanalisi della fase dello specchio fa risalire, nell’approfondimento M. C. Lambotte, le condizioni che possono generare lo stato melanconico, nell’impossibilità nello sguardo della madre, di riflettere l’immagine del bambino, come se i suoi occhi fossero rapiti, dall’interno, da un orizzonte infinitamente perduto, da un dolore antico e muto: lutto bianco, non elaborato e quindi lacunare. Se è vero che il bambino vede negli occhi della madre se stesso, con D.D. Winnicott, in questo caso egli, per essere, non può che rincorrere, per tutta la vita, uno sguardo che non si compì, un desiderio che, appena accennato e che aveva in lui pur acceso il sentimento di essere vivo, improvvisamente scomparve in un lontano altrove. La perdita d’amore, in età adulta, inserisce il soggetto melanconico “…in un processo di lutto primario: quello della perdita precocissima dello sguardo materno che fonda il soggetto nell’esistere e tesse il legame.” ( M.C. Lambotte). C’è un primo lutto, dunque, rivissuto interamente da Adele, nella perdita senza fine dell’illusione di riunirsi alla madre arcaica e al suo sguardo, attraverso Pince. L’oggetto dell’amore adulto, nel melanconico, rappresenta inconsciamente un aspetto ideale di sé mai raggiunto, tutto ciò che manca al suo essere, un ideale di perfezione che avrebbe potuto rapire lo sguardo della madre e permettere il riconoscimento che, solo, permette di essere vivi. Perdere Pince, il suo amore, vuol dire per Adele, dunque, perdere la possibilità di congiungersi all’ “oggetto perfetto” ed essere, grazie ad esso, inscritto nello sguardo della Madre e quindi essere viva. La possibile elaborazione di tale perdita, (non suggerita nel film, ma sempre possibile), potrebbe rendere vero, anche per Adele, ciò che P. Neruda afferma essere: “…l’amore estinto non è la morte, ma un’amara forma di nascere…”

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La fabulazione ormai delirante trova un argine, una riva nel diario, che le offre forma di realtà. L’ anima di Adele è sospesa nello scrivere, la sua angoscia di annientamento trova contenimento nel foglio. Attraverso lo scrivere Adele riannoda i legami spezzati tra desiderio e realtà che rispecchiano il legame perduto con l’Altro, ma attraverso lo stesso scrivere spezza il legame con la realtà che sostituisce con un immaginario onirico. Adele scrive una neorealtà che si pone al posto di quella dolente. Dà vita ai suoi oggetti interni, tenta di comporre follia e realtà. Il pensiero vorticoso trova dunque riparo nello scrivere copioso e diviene movimento nel mondo. La protagonista, infatti, è ritratta in un incessante danza circolare come un vortice, contenuta, nella prima parte del film, da alcuni punti di riferimento: l’ufficio postale, la libreria-biblioteca, la famiglia che l’accoglie e il suo giaciglio, e l’oggetto amato. Adele quindi si muove quasi in un cerchio, che si avvolge intorno ad un punto luminoso (l’oggetto amato e ideale), sospinta dalla speranza di congiunzione tra realtà e desiderio, fino alla caduta dei sogni e allo schianto psichico. Nelle ultime scene il movimento, nelle strade- labirinto delle Barbados, non ha più cornice e non è più, quindi, contenuto, è movimento senza orbita, senza meta, diviene un extra-vagare, e lei un oggetto extravagante, rapita da un universo parallelo che ha catturato il suo Io. Movimento senza origine ne’ meta, negazione della sosta, dell’immobilità dell’anima, gettata nell’oceano melanconico dal rigetto della realtà. Adele si identifica infine con l’oggetto, come è evidente nello scambio di ruoli finale, in cui P.la cerca e lei, rapita in un’assenza di sogni,non può vederlo,né sostare . Il movimento del corpo è espressione drammatizzata della mente errante di Adele, che diviene così creatura della poetica dell’annientamento. L’amore non ricambiato, nel soggetto melanconico, produce la percezione dell’onnipotenza dell’oggetto amato e rifiutante e, di contro, l’inconsistenza dell’immagine di sé, come sempre più chiaro nelle scene finali del film. Ma la perdita dell’illusione di essere amata, o di un’intenzione desiderante nell’Altro, fa sentire alla protagonista, inconsciamente, l’Altro come non più in vita. Anche per questo Adele non lo

Sul prossimo numero di Sipario, sarà analizzato il film di “Paris, Texas”, di Wim Wenders, Rêverie della Melanconia

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l film, uscito nel 1989 e girato negli Stati Uniti nell’anno precedente, narra la storia di un dramma familiare, in cui il delirio di gelosia del protagonista irrompe infrangendo i legami. Travis, il protagonista maschile, è un uomo il cui mondo interiore è abitato da una profonda depressione dove la soggettività è smarrita. All’inizio del film lo vediamo errare senza meta lungo i binari di una ferrovia, sperduta nel deserto. L’uomo ha un andatura instabile e reca in mano un recipiente probabilmente vuoto, lo porta inutilmente alle labbra, lo scuote, e cerca di dissetarsi presso una piccola fontana che non ha più acqua. Raggiunto un punto di ristoro, sviene. E’ quindi soccorso da un medico, che gli trova in tasca un foglio con il numero di telefono del fratello Walter. Questi giunge dalla California, nel tentativo di ricondurre il fratello, scomparso da anni, ad una vita normale nella propria famiglia. Via via lo spettatore viene a conoscenza di una storia dai toni cupi, che aveva dato origine allo smarrimento e al vagare senza meta del protagonista. Travis il cui animo viveva profonde angosce inelaborate di separazione in un rapporto coniugale idealizzato ed era stato travolto dal delirio già dopo la nascita del figlio, dopo un litigio con la bellissima moglie (che, in un agito folle, egli aveva legato per non perderla), aveva dato fuoco alla roulotte nella quale i due vivevano con il bambino nato dalla loro unione. Da quel momento era fuggito nel nulla, non avendo più alcuna notizia della propria famiglia. Travis aveva vagato per anni da solo, alla ricerca delle proprie radici. Al fratello racconta di essere alla ricerca del luogo in cui i genitori lo avevano concepito, un luogo sperduto nel deserto del Texas che si chiama come la capitale della Francia: Paris, Texas. Il nome del luogo aveva avuto un ruolo importante nel delirio che anche il padre di Travis aveva vissuto: le due Parigi si erano confuse nella sua mente, esitando un’idea delirante che investiva la madre di Travis (da lui idealizzata), trasformandola allucinatoriamente in una donna elegante e “chic”, conosciuta in Francia. Tale idea delirante aveva quindi determinato e sancito un’incolmabile distanza fra i genitori di Travis. Accolto nella famiglia del fratello, dopo aver visto un filmino che lo ritraeva nei momenti di armonia con la moglie e il figlio (il piccolo Hunter), Travis tenta di ricostruire un rapporto con il figlio, adottato dalla famiglia del fratello e che stenta a riconoscere in lui il padre che lo aveva abbandonato. Man mano cresce il legame tra padre e figlio. Dapprima il regista sottolinea la difficoltà di Hunter, che finge di non riconoscere il padre all’uscita di scuola. Poi, gradualmente, il bambino si lascia nuovamente affascinare dal padre. Decidono così di andare alla ricerca della madre del bambino. Hunter deve quindi di nascosto lasciare la famiglia dello zio che lo aveva adottato, mentre Travis scopre che Jane, la bellissima moglie ambivalentemente amata, si reca ogni mese in una banca di Houston ad effettuare un versamento a beneficio del figlio, che ormai non vede più da tempo. Jane, a sua volta, dopo l’abbandono del marito, ha tentato di cancellare il passato matrimoniale e la tragica esperienza della notte dell’incendio. Lavora adesso in una sorta di peep-show, un luogo cupo

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Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile. Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.

PARIS, TEXAS di WIM WENDERS

Rêverie delle congiunzioni Cosa impedisce alle soggettività che si amano l’incontro e la condivisione dell’essere? Cosa fa della nostra vita un deserto infinito e ne fa perdere il senso? Quando i sogni di un universo passato catturano l’anima e la sottraggono alla vita reale? Come si può giungere ai margini di se stessi? La perdita del contatto interiore produce il sentimento di una caduta di senso nel mondo. La ricerca all’esterno di qualcosa di vivo è, dunque, la ricerca della nostra stessa vita, perduta nella rinuncia emotiva, quando il dolore del vivere divenne così profondo da far vacillare l’Io e spingerlo ad una fuga infinita da sé. L’angoscia del separarsi e di perdere l’oggetto d’amore può divenire così forte, a volte, da recidere ogni possibile appartenenza. Ma la spinta a uscire da sè e ad intrecciare legami d’amore può generare, altresì, l’angoscia di perdersi nell’Altro, configurando, così, il legame come fusione che soffoca l’Io: lo spinge a inseguire un sogno di esistere respingendo ogni seduzione d’amore. E’ questa la dimensione che impedisce, nel rapporto d’amore, il cammino e la sosta. L’unico viaggio che appare possibile diviene allora la ricerca di un’illusione solitaria, perduta in un passato senza tempo. Il dolore di una solitudine che non si placa con la vicinanza di alcuno, se elaborato, può indicare la rottura del cerchio di un impossibile dialogo (con sé e l’Altro) che non fa che replicare se stesso, nel falso movimento tra appartenenza e fuga. Sarà, infatti, solo la personale nascita psicologica a permettere l’avvio di un discorso emotivo interrotto, per tornare ad amare. Dott.ssa Maria Rita Ferri

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sente nel paesaggio del film, simbolicamente rappresenta l’indifferenziazione iniziale dell’essere, l’origine e l’alba di ogni vita, o la difensiva estensione sterile del Sé, sotto cui vive la realtà. Nell’esoterismo ismaelita il deserto rappresenta infatti la terra che si percorre inconsapevolmente senza percepire la presenza del divino che la abita, celata dalle apparenze. Ciò rimanda al congelamento emotivo del Sè irrigidito di Travis., come difesa dall’angoscia di frantumazione, che mantiene al suo interno una speranza di nuova nascita (egli parla del desiderio di raggiungere e costruire lì dove era stato concepito. “Fu lì che io cominciai a essere... è il mio punto di partenza” Egli non ha più acqua con sè, e la piccola fontana è asciugata. L’immagine ci parla del suo rapporto con il mondo. La sua “sete” più profonda di madre, di vita, di purificazione e di rigenerazione (tematiche principali a cui rimandano i significati simbolici dell’acqua) non trova un “oggetto” esterno che la plachi. La sete infatti indica il desiderio profondo di riacquisire il buon oggetto materno primigenio, simboleggiato nell’acqua, che torni a dare vita e fertilità ad un universo interiore desertificato. Inoltre è noto come l’acqua rappresenti l’inizio dell’opus, come esprime il detto alchemico...non effettuare alcuna operazione prima che tutto sia ridotto ad acqua... “Lo sai che hai attraversato la frontiera?” sussura il medico che lo soccorre e che rappresenta un “alter ego” di Travis, l’immagine psichica del Salvatore, identificabile nell’amplificazione di Esculapio, figlio di Apollo. Egli parla per lui: Travis ha infatti varcato il limite interiore all’interno del quale si sviluppa l’esperienza del sentirsi vivi, egli ora abita ai margini del Sé. “Chi è?” chiede il medico, esprimendo così l’enigma inquietante che agita l’anima del protagonista che non sa chi è, ma non sa se è; “...è molto facile, da queste parti, smarrire il cammino o se stessi” continua a commentare il medico esprimendo, inconsapevolmente, ciò che è avvenuto della vita interiore di Travis. Chiamato dal medico, giunge il fratello,Walter, a occuparsi di Travis, reincontrandolo dopo anni di lungo silenzio. L’immagine di Walter può rappresentare il “doppio”psichico di Travis, immagine psichica del Frater, dal pensiero che affonda profonde radici nel principio di realtà, con le caratteristiche personologiche di equilibrio tra emozioni e razionalità. Egli rappresenta il suo “doppio” anche nel rapporto con il figlio di Travis., di cui è divenuto il padre. In una visione complessiva i due fratelli possono simbolicamente rappresentare due parti interne, maschili, del Sé di Travis, che non si incontrano, sconosciute l’una all’altra., come fa notare il non riconoscimento iniziale di Travis verso il fratello e la non conoscenza assoluta di questi di quanto sia accaduto. L’assenza di colonna sonora nelle sequenze in cui Travis, sfuggendo al fratello, riprende il suo errare, indica il vuoto emotivo (derivante etimologicamente dal part. lat. “e-motus”, ovvero movimento interiore) nel suo cuore, sostituito da un movimento senza tregua all’esterno. Walter rappresenta anche la realtà da cui Travis si ritrae e pone distanze (con il silenzio, con il salire sul sedile posteriore della macchina,con tutto il non verbale). Quando Walter esprime il suo dolore per il silenzio del fratello, questi, come toccato emotivamente, torna a parlare e rivela cripticamente, mormorando “Paris”, i suoi sogni.

dove giovani donne consolano gli uomini soli attraverso una paretespecchio dalla quale possono essere viste senza vedere i loro interlocutori. Travis scopre la nuova vita di Jane e, senza mai rivelarsi direttamente, ha con lei degli incontri. Attraverso lo specchio, giunge a parlare di nuovo con lei e a rimemorare il passato. Decide di ricondurre il piccolo Hunter tra le braccia della madre, quindi riprende il suo viaggio con un enigmatico sorriso. Il film si apre après coup, la narrazione ha inizio dopo l’accadimento, così come l’errare del protagonista nasce da una rottura di continuità. Egli emerge dal nulla, dal nulla interiore, che proiettivamente lo circonda, di chi vive l’enigma biografico nel cuore. Anche lo spettatore dovrà attendere la seconda parte del film per ricostruire una continuità narrativa (attraverso il racconto che Travis rimemora alla moglie e a se stesso) che colma il disorientamento cognitivo per aprirsi allo stupore. E’ interessante notare la struttura circolare del film in cui le scene iniziali dell’errare solitario si rispecchiano nella scena finale in cui, nuovamente solo, Travis riprende il suo viaggio-errante. Il “cerchio” narrativo indica l’immutabilità della condizione del Sè di Travis, nel movimento del tempo e nel cambiamento degli importanti accadimenti da lui provocati, ma che restano “esterni” al suo Sé. Senza inizio ne’ fine, il cerchio sintattico vuole quasi sottolineare, nella psiche del protagonista., un limite magico invalicabile fra sé e il mondo, fra la percezione e il vissuto. Travis attraversa gli eventi senza che tocchino profondamente la sua soggettività, per divenire esperienza e rompere il cerchio in cui il suo Sé distante è racchiuso. Nella scena finale la circolarità del passato si infrange per far nascere, come esito di livelli di consapevolezza raggiunti e di parziale elaborazione, una direzionalità interiore, un orientamento lineare che ha lo slancio della freccia nel cosmo. Le immagini iniziali del deserto rappresentano la proiezione nello spazio del silenzio interno di Travis, del caos psichico, la negazione spazializzata del grido interiore, evocano il deserto in cui erra l’Io del protagonista, ma allo stesso tempo descrivono il suo mondo non più abitato dal desiderio e dalla speranza. La parola “deserto” proviene da “desertus” e da “deserere”, abbandonare. È l’abbandono emotivo, infatti, che rende vuoto lo scenario interiore di Travis., imprigionato in un assenza di mondo. Il deserto, inoltre, così pre-

La seconda parte sul prossimo numero di Sipario, in distribuzione venerdì 1 agosto.

Dott.ssa Maria Rita Ferri

Psicoterapeuta psicoanalitico, docente della Scuola di specializzazione in Psicoterapia ad orientamento Analitico Atanor, in Diagnosi clinica e Personalità

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uando il dolore è senza nome, come nello sguardo di Travis, i piccoli oggetti che accompagnano, muti, il quotidiano esistere, divengono sicurezze irrinunciabili: delicata è la scena in cui Walter, vero Frater dell’Io, quindi Io ausiliaro che guida dolcemente verso la prova di realtà filtrandone gli aspetti più duri, gli consegna il sacchetto delle sue “piccole cose” lasciate nella clinica, borsa delle immagini perdute, immagini assenti da cui nasce il deserto interiore, o ancora il calore con cui cerca di convincere la custode delle macchine a noleggio a trovare l’automobile (che rappresenta l’insieme della coscienza) precedentemente usata, in cui Travis possa tornare a viaggiare. Nella casa di Walter è interessante notare, tra le altre, la scena in cui Travis raccoglie le scarpe di tutti e le lucida, tenendole accanto a sè, mentre guarda, sognante, volare gli aerei. Tra i diversi significati simbolici della scarpa, ricordiamo che essa evoca l’idea del viaggio, ma ancora il poter prendere contatto con la realtà: Travis desidera inconsciamente avere delle “buone scarpe” che poggino sul reale, sorreggano l’Io e non lo facciano vacillare nel cammino. La scarpa inoltre indica simbolicamente un’identificazione con la persona (ricordiamo la fiaba di Cenerentola): Travis, quindi, aspira ad avere un buon contatto con la famiglia che lo accoglie, ma non potendo aprire il suo Sé all’Altro-i, si prende cura dell’insieme delle scarpe che li rappresenta. La famiglia, che rappresenta la famiglia psichica, nell’amplificazione archetipica conduce alla divinità tutelare del focolare domestico, Estia, che gli studiosi archetipici identificano nella centratura psichica: non può esservi ricostruzione psichica in assenza dell’intervento di Estia che riconcentra la psiche. Ricordiamo inoltre che nella lingua cinese la parola “scarpa” è pronunciata come l’espressione “intesa reciproca”: é un desiderio di accordo col mondo che inizia a nascere in Travis, e si rivela come desiderio di buone identificazioni nella richiesta che rivolge a Walter di scambiarsi gli stivali. Travis si propone quindi di affrontare tragitti ancora più difficoltosi, tanto che propone al fratello lo scambio degli stivali. L’immagine dello stivale ha in sé una valenza magica di attraversamento e superamento: si apre per Travis, nel desiderio di identificazione, la possibilità dell’”oltre”, rappresentata dall’immagine dello stivale. Nel suo sguardo rapito verso gli aerei è possibile intuire un sogno di leggerezza dell’essere, un desiderio di ritrovamento di un buon involucro psichico che lo contenga e lo sollevi per poter errare nell’aria e torni a dare respiro alla fantasia e buone scarpe per percorrere il mondo. Toccante la scena del filmino proiettato in casa, che raccoglie scene di serena intimità. Suggerisce un universo di scambio affettivo, dove l’assenza di parola offre leggerezza alle immagini, che si rivela nel passaggio del cappello di paglia (leggero anch’esso) di Travis al bambino e alla moglie, quasi fosse un piccolo, magico rito che unisce i pensieri, sancisce il legame. Il “volo” affettivo si completa nel lieve volteggiare di Jane, divenendo danza nei piccoli passi che Travis e il piccolo Hunter improvvisano. L’immagine del cappello è quella del grande mediatore cielo-terra, che trattiene il

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Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile. Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.

PARIS, TEXAS di WIM WENDERS Seconda parte

Rêverie delle congiunzioni Cosa impedisce alle soggettività che si amano l’incontro e la condivisione dell’essere? Cosa fa della nostra vita un deserto infinito e ne fa perdere il senso? Quando i sogni di un universo passato catturano l’anima e la sottraggono alla vita reale? Come si può giungere ai margini di se stessi? La perdita del contatto interiore produce il sentimento di una caduta di senso nel mondo. La ricerca all’esterno di qualcosa di vivo è, dunque, la ricerca della nostra stessa vita, perduta nella rinuncia emotiva, quando il dolore del vivere divenne così profondo da far vacillare l’Io e spingerlo ad una fuga infinita da sé. L’angoscia del separarsi e di perdere l’oggetto d’amore può divenire così forte, a volte, da recidere ogni possibile appartenenza. Ma la spinta a uscire da sè e ad intrecciare legami d’amore può generare, altresì, l’angoscia di perdersi nell’Altro, configurando, così, il legame come fusione che soffoca l’Io: lo spinge a inseguire un sogno di esistere respingendo ogni seduzione d’amore. E’ questa la dimensione che impedisce, nel rapporto d’amore, il cammino e la sosta. L’unico viaggio che appare possibile diviene allora la ricerca di un’illusione solitaria, perduta in un passato senza tempo. Il dolore di una solitudine che non si placa con la vicinanza di alcuno, se elaborato, può indicare la rottura del cerchio di un impossibile dialogo (con sé e l’Altro) che non fa che replicare se stesso, nel falso movimento tra appartenenza e fuga. Sarà, infatti, solo la personale nascita psicologica a permettere l’avvio di un discorso emotivo interrotto, per tornare ad amare. Dott.ssa Maria Rita Ferri

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Puer nella terra e gli impedisce di disgregarsi nel volo verso la solarità. Il mondo emotivo sembra sciogliersi in Travis ed il desiderio di contatto con Hunter lo sospinge a vivere ancora, a riunirsi con quell’immagine di sé, che dal filmato forse è giunta al suo cuore, per poter essere padre ancora. Il Puer, prigioniero di un ineffabile passato infantile, non riesce a far vivere dall’interno un sogno di paternità: nella ricerca di un vestito per “sentirsi padre” cercherà, sui fogli di un giornale e con una piccola aiutante, l’immagine esteriore in cui collocare il desiderio, che il piccolo Hunter accoglierà. E’ lui, infatti, l’unico della sua famiglia, a mantenere in sé un sogno intatto di felicità degli affetti (“Non ti ho mai sentito morto” confida al padre “ho sempre sentito che c’eri ancora, da qualche parte, in qualche modo, e per la mamma lo stesso”). Travis sente di essere vivo nella mente del bambino, che con il suo amore ha mantenuto integra la sua immagine, senza fratture: può forse calmare la sua sete. Deliziosa la scena in cui l’avvicinamento fra padre e figlio, quando tornano insieme dalla scuola di Hunter, inizia con il gioco di imitazione a distanza dei passi, in cui ognuno cammina per l’altro, immagine evocatrice della scena dell’antico gioco infantile conservata nel filmino. Tale immagine rimanda alla coniunctio figliopadre, in cui il bambino interiore torna a nascere. Il ristabilirsi del legame con il figlio esita in Travis nuove direzioni. L’andatura di Travis, d’altronde, parla per lui: molto diverso dall’errare catturato in un sogno, nelle scene iniziali, è il suo passo mentre si dirige verso Walter per comunicargli che andrà in cerca di Jane, e sicure le sue parole: “Io la ritrovo... lo sento”. L’immagine solitaria di un folle che grida al mondo la sua fine, che Travis incontra, rappresenta una parte di sé interna, una sua posizione esistenziale antecedente, quando errava nel deserto, prima di ogni incontro, immagine del suo grido lanciato nel vuoto generato dall’assenza dell’Altro e di sé. L’avere un progetto offre ora una decisione interiore molto forte, come se il suo mondo interno avesse trovato una nuova compattezza. Tale cambiamento interiore verrà da lui espresso inconsapevolmente nelle parole che rivolge a Walter sull’impalcatura dei pannelli pubblicitari dove Walter lavora: ”Viste da quassù le cose non sembrano le stesse...sembrano meglio da quassù.”. E’ il suo mondo interno che prende forma intorno a un progetto di riparazione, intorno allo svilupparsi di un punto di vista psichico che si “solleva” dagli oggetti interni, li può osservare e ordinare. La narrazione ora diviene più altamente drammatica in quanto disvela la storia degli affetti di Travis, dove immagini del passato si fondono inconsciamente con il presente. Lo spettatore riunisce le parti del passato di Travis attraverso le sue parole nel colloquio con la moglie e le confidenze che rivela al piccolo Hunter sulla propria famiglia di origine. Travis non riesce ad avere un atteggiamento protettivo, propriamente paterno verso il figlio (lo induce a telefonare ai genitori che lo hanno accolto per annunciare la sua partenza e a farsi carico della loro angoscia, ecc.), sembra considerare il bambino come un’estensione del proprio Sé, per una possibile mancata identificazione con il proprio padre (“Cerco il padre” diceva nelle scene in cui tentava di recuperare una dimensione paterna attraverso l’imitazione di un modello esterno). Porta nel cuore l’angoscia del pensiero ossessivo, delirante, paterno di avere una “moglie chic”e la convinzione, anch’essa delirante, dell’identità delle due Paris (del Texas e europea): “... mia madre era una donna semplice, buona..” dice al piccolo Travis-Hunter “..ma mio padre aveva quell’idea in testa, quasi una fissazone. Non la vedeva com’era, ma come voleva...la vedeva come una donna molto chic...l’aveva incontrata a Parigi. Più lui ci credeva, più lei ..”qui Travis vive un’intensa, dolorosa emozione “oddio! ...moriva dall’imbarazzo...era così timida...” Si può quindi ipotizzare una trasmissione transgenerazionale di contenuti psichici non elaborati dalla psiche paterna nella psiche di Travis e che questi possa identificarsi con il padre unicamente attraverso il delirio e attraverso il proprio nome, identico a quello del padre. L’ossessione delirante del padre diverrà quindi in lui il devastante delirio di gelosia verso Jane, delirio che irrompe nella sua mente, determinando una frattura incolmabile nella relazione d’amore, già fragile per la parziale differenziazione dei due Sé. Anche la rottura del rapporto d’amore con

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Jane replica l’abisso di incomunicabilità tra le soggettività materna e paterna nella vita di Travis. Il dolore, patito ma non sofferto (elaborato), per l’impossibile incontro fra i suoi genitori e la dolente percezione del dolore della madre per essere non riconosciuta nella sua identità, viene rivissuto nella coppia: così come il padre, anche lui non riconoscerà l’amore della moglie e la sua fedeltà, sarà probabilmente proprio la riedizione del vissuto traumatico infantile a sconvolgere il suo animo e la proiezione del passato nel presente a trascinarlo in un universo confuso. La grande angoscia nella separazione da Jane (lasciò il lavoro per non separarsi mai più da lei) rivela, nella psiche di Travis, il rinvenimento in lei di un antico oggetto d’amore, materno, con cui rivivere una fantasia di fusione originaria, il sogno di un’appartenenza che avvolge e riscalda il cuore di chi non ha ancora se stesso. Inseguendo il sogno di un’appartenenza totale, che non accoglie distanze, il Sé di Travis, non ben definito, si è come sperduto nell’oggetto amato. Per ritrovare se stesso, costruì distanze attraverso il conflitto e il delirio. La nascita del figlio rivelò inconsciamente, allo sguardo incredulo di Travis, la fragilità della fantasia di fusione. L’impossibilità ad accogliere la realtà di un terzo, che rompeva la dualità idealizzata, con Jane, esitò il vissuto di tradimento, che divenne convinzione profonda. Il delirio rappresentava per Travis forse l’unico modo di porre ordine al caos interiore, alla inconciliabilità tra desiderio e realtà, ma sancì una separazione irreparabile da Jane, e il suo errare, lontano da sé. Manca, nel Sé di Travis, una “pelle” psichica, che filtri, “disintossichi” lo scambio con il mondo, e contenga l’identità, proteggendola. L’Io cercherà, quindi, all’esterno “oggetti-filtro” che lo distanzino dall’Altro, per permettere la comunicazione e lo scambio. Le scene in cui parla con Jane, attraverso il vetro unidirezionale e girando le spalle, sono altamente significative in questo senso, così come l’immagine in cui può comunicare ad Hunter i sentimenti più profondi solo attraverso una registrazione. La chiusura emotiva e il silenzio (ricordiamo le lunghe scene iniziali) hanno valore di distanziamento e proteggono anch’essi, quindi, il fragile Sé di Travis dal contatto con la realtà, divenuta così dolorosa da non poter essere trattenuta nella psiche, nel pensiero come nel sentire. La realtà fuggita all’esterno diviene vuoto o deserto interiore, ma lui sa che in quel deserto potrà di nuovo reincontrare la vita. Egli oscuramente percepisce, infatti, che la sua nascita psichica può avvenire solo in un ricongiungimento, nel profondo, di parti scisse internamente: egli ricostruirà il suo Sé a partire dal ritrovamento di una congiunzione originaria, nel punto del Texas in cui i suoi genitori si amarono, uniti: “...E’ il mio punto di partenza...” diceva a Walter, indicando la sua terra nel deserto. E’ verso tale punto che, forse, si dirigerà alla fine del film, dopo aver ricongiunto il figlio alla madre e quindi proiettivamente se stesso alla propria madre psichica. Avendo riparato una frattura affettiva, può riprendere il cammino che sembra non essere più un errare, ma assume la direzione di un viaggio interiore nella complessità della ricchezza del Sé. Dall’immagine tragica di chi erra nel deserto come esito delle congiunzioni infrante, Travis è ora il poeta delle ricongiunzioni sognate: Parigi e il Texas.

Sul prossimo numero di Sipario, in distribuzione da venerdì 5 settembre, l’analisi del film “Il Principe delle maree”: la rêverie dell’oggetto perduto.

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Psicoterapeuta psicoanalitico, docente della Scuola di specializzazione in Psicoterapia ad orientamento Analitico Atanor, in Diagnosi clinica e Personalità

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re difendendo la casa natale dai nuovi proprietari, così come sempre aveva difeso la madre e i fratelli dalla violenza del padre e, quella sera, degli sconosciuti. L’elaborazione del trauma libera l’anima di Tom, ormai legata da un sentimento profondo a Susan, la donna che lo ha restituito alla vita emotiva. La conoscenza, inoltre, dell’infanzia di Savannah, attraverso i ricordi di Tom (che rappresenta “la sua memoria”), rendono più efficaci le cure e possibile la sua guarigione. Tom, ritrovato il mondo emotivo, è pronto al ritorno, pur nel lacerante distacco da Susan. Il soggetto si struttura intorno al racconto che il protagonista fa degli eventi, la sua voce fuori campo commenta e dà calore ad ogni scena. L’inizio del ricordo è su di un’isola dove il paesaggio solare fa da sfondo alle immagini dell’infanzia…

Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile. Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.

IL PRINCIPE DELLE MAREE: SOGNO DI UNA NASCITA

di BARBRA STREISAND

Dott.ssa Maria Rita Ferri

Prima parte

l film è inscritto nella cornice del narrare, in cui la voce del protagonista accoglie lo spettatore nel suo mondo interiore. Il tono della voce fuori campo ha il colore di un’affettività ritrovata che “filtra” le emozioni più dure e gli aspetti più crudi del vivere, offre una tessitura emozionale in cui vivono ricordi lontani e immagini presenti. E’ la narrazione di una nascita psicologica, in cui Tom ricompone il suo tragico vivere in un racconto rivolto a se stesso. E’ importante notare che la forma narrativa dialogica rimanda alla presenza psicologica di un Altro o altro-sè (rappresentato dallo spettatore). Essa rivela come la struttura di personalità di Tom non abbia in realtà realizzato una chiusura verso il mondo, ma che abbia, anche nella forte inibizione nel contatto emotivo con sé e con le persone più care (la moglie e le figlie), mantenuto all’interno un’apertura verso un Altro possibile, sospesa in un’attesa interiore di un incontro che lo riconduca a se stesso e al mondo. Tale speranza psichica si rinviene, peraltro, negli slanci affettivi verso le figlie e nella straordinaria capacità d’introspezione, ovvero di dialogo con l’Altro interiore. Le immagini iniziali di una natura dolce e fiorita, dei giochi infantili in un paesaggio ridente e fatato esprimono l’idealizzazione originaria del mondo familiare (ricordiamo le scene in cui la madre stringe a sé i bambini sedendo sul molo, guardando il tramonto, o quando il padre guida la sua barca nelle acque tranquille, con lo sguardo assorto nel mare: “...ero figlio di una donna bellissima...lei riusciva a trasformare le passeggiate intorno all’isola in un viaggio di meravigliose scoperte...ed ero anche figlio di un pescatore di gamberi che era innamorato della linea delle barche...”). Il vero volto del “familiare” si disvela improvvisamente come luogo del trauma e delle appartenenze impossibili, attraversato dalle pulsioni ostili e violente paterne, che lo travolgono, e dal narcisismo

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La rêverie dell’oggetto perduto. Il film, girato da Barbra Streisand, esce sugli schermi degli Stati Uniti nel 1991 ed è ispirato ad un romanzo di Pat Conroy, autore tra l’altro della sceneggiatura. Il soggetto sviluppa la storia di Tom Wingo, allenatore di football, caduto in uno stato di leggera depressione, di cui non è consapevole, dalla morte del fratello Luck, avvenuta durante uno scontro con la polizia, nel tentativo disperato da parte di Luck di non concedere la sua casa natale (venduta dai genitori) ai nuovi proprietari. Da quel momento la vita matrimoniale di Tom subisce una profonda crisi, in quanto la non elaborazione della perdita mantiene il lutto nel suo cuore, impedendogli di mantenere i suoi investimenti d’amore nelle relazioni affettive. Viene improvvisamente chiamato a New York, per un tentativo di suicidio messo in atto dalla sorella Savannah. Tom tenterà di aiutarla, collaborando con la psichiatra che l’ha in cura, aprendosi ad ascoltare il suo mondo interiore, le emozioni dimenticate, le memorie e l’oblio. Il rapporto con la psichiatra (Susan) ben presto assume il valore di una relazione terapeutica a cui Tom, oltre a collaborare per la sorella, si affida. Nasce tra i due, gradualmente, inoltre, un avvicinamento emotivo profondo: Tom si prenderà cura del figlio di lei, Bernard, e del rapporto tra loro, conoscerà anche la sua fragilità e prenderà ad amarla. Nel suo processo psicoterapeutico, Tom elaborerà i lutti e i vuoti della sua vita, a partire dall’infanzia in cui la violenza paterna e la crudeltà di una madre con manifesti disturbi narcisistici della personalità avevano profondamente turbato l’equilibrio psichico dei tre fratelli, spingendoli a stringere fra loro un intenso legame affettivo in cui vivere una possibile appartenenza. In una scena particolarmente toccante, durante una seduta, Tom rimemora un grave evento traumatico, avvenuto nell’ infanzia, oggetto di una profonda rimozione, in cui lui, la madre e Savannah furono vittime di violenza da parte di due sonosciuti, uccisi in quella stessa scena dalla madre e dal fratello. La madre chiese quindi ai figli un patto di segretezza in cui celare l’episodio. Tom da allora lo affidò all’oblio, e nella fragile psiche di Savannah la scena infranse ogni rifugio, dando luogo a numerosi tentativi di espulsione psichica del trauma attraverso il suicidio e forse esitò in Luck un congelamento del tempo vissuto, fino a condurlo a mori-

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famiglia, in particolare per Luck, che lotterà fino a perdere la vita per non rinunciare a sentirlo suo, separandosene nell’avvenuto passaggio di possesso. Delicata e toccante è l’immagine del piccolo, magico rito di negazione della sofferenza intollerabile dove i tre piccoli fratelli , per sottrarsi alla distruttività parentale, si uniscono in un tuffo regressivo nel mare: “...trovavamo un mondo silenzioso e consolante, dove non esisteva il dolore. Formavamo una catena di sangue, carne ed acqua...”. Stabilivano così, inconsapevolmente, un legame profondo che li univa in un unicuum acqueo materno, dove si ripristinava l’appartenenza infranta dall’agito familiare incontrollabile e violento. Sarà proprio il tenero e profondo legame con i fratelli che manterrà viva in Tom la speranza di rinvenire un’emozione perduta e che, dalla morte di Luck, non abita più le sue relazioni adulte (“...può darsi che avessi il cuore gelato...” dice Tom a Susan, analizzando scherzosamente il sogno della tempesta di neve. La morte del fratello, infatti, aveva attivato, nella psiche di Tom, le immagini luttuose di un’orfanilità psichica denegata: egli, perdendo il fratello, aveva davvero perduto la sua famiglia. Luck rappresenta, infatti, per Tom, un oggetto idealizzato che sconfigge le pulsioni distruttive, incarna un’immagine del Pater che pone ordine nel maschile aggressivo e crudele e protegge il familiare.La morte di Luck risveglia i lutti rimossi.) Tali sentimenti intatti, di un’appartenenza profonda nel legame con i fratelli, avvolgono il Sé di Tom e lo preservano dalla morte psichica (che colpisce Savannah) o fisica (in Luck), rivivono nel legame con le figlie, con Susan e con Bernard, e infine con se stesso. Tom cattura in sé l’ostilità paterna e l’indifferenza materna, miscelandole in uno stile sarcastico, barriera difensiva che, in particolare dopo la morte del fratello, lo preserva dal dolore nelle relazioni attraverso il distanziamento emotivo e dal contatto con il suo mondo interno, costringendolo in una solitudine e inibizione affettiva che lo pone al riparo da una possibile caduta in depressioni profonde. L’incontro con Susan avvia i processi elaborativi e del ricordo: in questo viaggio interiore egli sperimenta un’iniziale e profonda consapevolezza di non-vita psichica, di come il suo difensivo ritrarsi dal sentire abbia reso impossibile ogni incontro con l’Altro, se non in un contatto fugace fra superfici, in cui l’assenza di profondità emotive sottrae consistenza al suo essere :“...non so cosa mi tenga così lontano... hai ragione a sentirti così, come altro potresti reagire con un mezzo uomo...” mormora tra sé in un dialogo interiore con l’imago della moglie e rispondendo ai sentimenti delusivi di lei. E’ questo il tema principale del film: la scomparsa delle emozioni, imprigionate in un passato inelaborato, distanzia il femminile psichico dal Sé, impedendo la nascita del maschile che orienta e offre direzioni; il silenzio del maschile, infatti, sospende la psiche di Tom tra pensiero ed emozioni, tra solitudine e appartenenze impossibili. Il Sé, così, ne risulta mutilato e come sospeso, in una fuga circolare che replica se stessa in ogni possibile incontro. L’inconciliabilità interiore tra emozioni e pensiero riproduce nella psiche di Tom l’impossibile congiunzione fra le immagini materna e paterna e tra figli e genitori nell’infanzia.

infantile di una madre inconsapevolmente crudele e ‘caotica’: “...non so quando i miei genitori hanno cominciato la loro guerra, so che gli unici prigionieri che fecero furono i loro figli...”. La psiche della madre, in particolare, esprime un quadro di “caos organizzato”, come possibile difesa da abissi di disintegrazione dell’Io, su cui si struttura uno stile relazionale che rivela la non integrazione psichica, attraverso la congiunzione di affettività e lontanaza, rompendo ogni possibile costruzione di senso nel Sè dei figli, proiettati così in una dolorosa confusione psichica. Il mondo interiore della madre, infatti, è abitato da un caos psichico originario, legato alla mancata introiezione dell’interdetto strutturante e al persistere di un nucleo luttuoso inelaborato; è assente la dimensione della rêverie: in un impossibile sogno di filiazione, catturerà i suoi figli nel sogno senza nome che la tiene prigioniera. Il suo sguardo avvolge i figli escludendoli e non esitando, quindi, il riconoscimento della soggettività. In esso è inconsapevolmente espresso il desiderio di ricevere da loro un riconoscimento psichico che la inscriva nella vita. I processi d’identificazione con la madre, dunque, diverranno possibili solo in una dinamica capovolta degli scambi affettivi. Anche nella psiche del padre è assente la nascita psicologica. Il suo agire maltrattante esprime una scarsa aderenza dell’Io al reale, una sua intima discontinuità, ed uno slancio disperato ad evitare il contatto con nuclei depressivi, capovolgendo l’angoscia in rabbia. Le violente esplosioni, inoltre, rappresentano un tentativo di espellere all’esterno dei nuclei di sofferenza non elaborata, alla ricerca di possibili contenitori psichici in cui riporla, perchè sia contenuta e modulata. Per nessuno dei due, però, lo spazio di coppia rappresenta un oggetto di contenimento della sofferenza, un luogo di elaborazione dei vissuti, ma diviene l’area dove l’agito conflittuale restituisce illusoriamente all’Io un sentimento di identità: nella contrapposizione replicantesi senza trasformazioni nascono fugaci confini del Sé di ognuno. Il conflitto, quindi, si estende nella psiche dei figli, dando vita a dinamiche depressive interiori. In particolare nel mondo interno di Savannah trova alloggio il nucleo psichico luttuoso, non elaborato nella psiche dei genitori, che si estende nel suo Sé. Interessante è notare il contrasto tra le immagini che descrivono la violenza distruttiva che abita la vita familiare e lo sfondo naturale sul quale si svolgono: la bellezza intatta dei paesaggi in un’isola di sole. Il significato simbolico dell’immagine dell’isola rimanda, inoltre, alle rêveries del rifugio: la letteratura del sogno ha al suo centro il tema dell’isola misteriosa, dove si avventura l’anima che esplora. Il paesaggio solare dell’isola e della casa sul mare, nel film, rappresenterà proiettivamente l’immagine idealizzata del buon oggetto-

La seconda parte sul ul prossimo numero di Sipario, in distribuzione da venerdì 3 ottobre.

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Psicoterapeuta psicoanalitico, docente della Scuola di specializzazione in Psicoterapia ad orientamento Analitico Atanor, in Diagnosi clinica e Personalità

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re difendendo la casa natale dai nuovi proprietari, così come sempre aveva difeso la madre e i fratelli dalla violenza del padre e, quella sera, degli sconosciuti. L’elaborazione del trauma libera l’anima di Tom, ormai legata da un sentimento profondo a Susan, la donna che lo ha restituito alla vita emotiva. La conoscenza, inoltre, dell’infanzia di Savannah, attraverso i ricordi di Tom (che rappresenta “la sua memoria”), rendono più efficaci le cure e possibile la sua guarigione. Tom, ritrovato il mondo emotivo, è pronto al ritorno, pur nel lacerante distacco da Susan. Il soggetto si struttura intorno al racconto che il protagonista fa degli eventi, la sua voce fuori campo commenta e dà calore ad ogni scena. L’inizio del ricordo è su di un’isola dove il paesaggio solare fa da sfondo alle immagini dell’infanzia…

Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile. Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.

IL PRINCIPE DELLE MAREE: SOGNO DI UNA NASCITA

di BARBRA STREISAND

Dott.ssa Maria Rita Ferri

Prima parte

l tema del femminile è peraltro presente già nel titolo del film: le “maree”, infatti, rimandano alle congiunzioni lunari del mare, simboli del femminile universale. Il mare, simbolo dell’origine di ogni vita, rappresenta l’elemento femminile che avvolge e rigenera, dell’inconscio che cela tesori e misteri preziosi, il “materno” oceanico ancestrale, luogo della nascita del Sé. La luna é per eccellenza il femminile notturno che percorre i cieli, astro dell’apparire periodico, simbolo di trasformazione e del rinnovamento. Quando la vita dolente del protagonista trova rifugio nelle Maree dell’anima, che restituiscono un calore dimenticato ma mai perduto, il Sé ritrovato torna a sognare L’oggetto originario e indimenticabile, la Cosa di J. Lacan. Il rinvenimento delle emozioni (il femminile interno, rappresentato da Susan di cui Savannah rappresenta il “doppio” psichico), infatti,dà nuova vita al maschile psichico di Tom, ne lenisce attraverso l’integrazione gli aspetti distruttivi (conglomerati nell’immagine interiore del padre e dei violenti predatori del trauma segreto), lo renderà libero e lo riavvicinerà alla vita e alle donne: “...per la prima volta ho sentito di poter dare io qualcosa alle donne della mia vita: ... lo meritavano...” dirà Tom nelle ultime scene. La capacità di amare (rêverie dei fratelli amati, immagine del “buon oggetto” familiare) di Tom si esprime, inizialmente, attraverso l’incontro con Susan, in un sogno di paternità che esita riparazioni dell’anima: in Bernard egli rinviene forse l’immagine del fratello Luck e di sé. Evocando un buon oggetto interiore, si prende cura di lui, attraverso l’uso della palla da baseball (come vero oggetto transizionale)

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La rêverie dell’oggetto perduto. Il film, girato da Barbra Streisand, esce sugli schermi degli Stati Uniti nel 1991 ed è ispirato ad un romanzo di Pat Conroy, autore tra l’altro della sceneggiatura. Il soggetto sviluppa la storia di Tom Wingo, allenatore di football, caduto in uno stato di leggera depressione, di cui non è consapevole, dalla morte del fratello Luck, avvenuta durante uno scontro con la polizia, nel tentativo disperato da parte di Luck di non concedere la sua casa natale (venduta dai genitori) ai nuovi proprietari. Da quel momento la vita matrimoniale di Tom subisce una profonda crisi, in quanto la non elaborazione della perdita mantiene il lutto nel suo cuore, impedendogli di mantenere i suoi investimenti d’amore nelle relazioni affettive. Viene improvvisamente chiamato a New York, per un tentativo di suicidio messo in atto dalla sorella Savannah. Tom tenterà di aiutarla, collaborando con la psichiatra che l’ha in cura, aprendosi ad ascoltare il suo mondo interiore, le emozioni dimenticate, le memorie e l’oblio. Il rapporto con la psichiatra (Susan) ben presto assume il valore di una relazione terapeutica a cui Tom, oltre a collaborare per la sorella, si affida. Nasce tra i due, gradualmente, inoltre, un avvicinamento emotivo profondo: Tom si prenderà cura del figlio di lei, Bernard, e del rapporto tra loro, conoscerà anche la sua fragilità e prenderà ad amarla. Nel suo processo psicoterapeutico, Tom elaborerà i lutti e i vuoti della sua vita, a partire dall’infanzia in cui la violenza paterna e la crudeltà di una madre con manifesti disturbi narcisistici della personalità avevano profondamente turbato l’equilibrio psichico dei tre fratelli, spingendoli a stringere fra loro un intenso legame affettivo in cui vivere una possibile appartenenza. In una scena particolarmente toccante, durante una seduta, Tom rimemora un grave evento traumatico, avvenuto nell’ infanzia, oggetto di una profonda rimozione, in cui lui, la madre e Savannah furono vittime di violenza da parte di due sonosciuti, uccisi in quella stessa scena dalla madre e dal fratello. La madre chiese quindi ai figli un patto di segretezza in cui celare l’episodio. Tom da allora lo affidò all’oblio, e nella fragile psiche di Savannah la scena infranse ogni rifugio, dando luogo a numerosi tentativi di espulsione psichica del trauma attraverso il suicidio e forse esitò in Luck un congelamento del tempo vissuto, fino a condurlo a mori-

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Nella parte centrale del film è la rivelazione angosciante del trauma subito: la rottura del segreto libera Tom dalla dipendenza ostile dalla madre e dal passato, offre rappresentazione all’immemorabile. L’abbraccio di Susan rende pronunciabile il dolore, che si scioglie in pianto. Le lagrime di Tom, segno di un’integrazione interiore in cui il suo Sé può tenere tra le braccia la sofferenza raggiunta, esprimono quindi l’avverarsi di un contatto profondo. Nel mondo dei simboli le lagrime, infatti, evocano le immagini preziose della perla e dell’ambra. La perla è simbolo del legame che unisce mare e cielo, della scienza del cuore, della vita, forza rigeneratrice. E’ l’essenza ineffabile del Sé, traccia dei cieli: una leggenda persiana narra, infatti, la nascita della perla da una goccia di pioggia caduta dal cielo che una conchiglia raccolse, giungendo in superficie del mare: la perla ha origini celesti. L’ambra rappresenta il legame psichico tra l’anima individuale e l’universo. Apollo pianse lacrime di ambra quando, cacciato dall’Olimpo, giunse presso gli Iperborei. Esse esprimevano la nostalgia del paradiso e il sottile legame che lo univa ad esso. Attraverso il legame ritrovato con sé, la psiche di Tom rompe la dimensione necessitante del destino, in cui era inscritto il suo vivere, raggiungendo il mondo del possibile, la scelta. La libertà interiore emerge così nell’elaborazione di un passato che sommerge il presente ( sottolineato dall’accorgimento tecnico del film in cui le scene del passato sfumano nel presente senza confini ), giungendo al ricordo che disegna distanze e ripone nel cuore, dove ciò che è stato diviene memoria ( come ci suggerisce il significato etimologico di memoria: “riporre nel cuore”, da “ricordo”, “cor-cordis” ). L’acquisizione di tale livello di individuazione chiude la catena difensiva dei “no” che imprigionavano Tom nelle relazioni iniziali, in cui l’idealizzazione nostalgica impediva ogni contatto con gli oggetti reali e gli permette ora di tornare all’incontro con i genitori reali, riconoscerli affettivamente (avendoli riparati internamente), senza più temere di perdersi in loro. Savannah è dolce presenza, silenziosa e lunare del femminile interiore. Vero alter ego, è protagonista nell’ombra, da lei ha inizio la spinta al cambiamento di Tom. Il suo gesto autolesivo ha il valore, nella psiche dei fratelli (il cui mondo interno è profondamente congiunto: “ ...Ho scritto un nuovo libro di poesie...l’ho dedicato a Tom Wingo, la mia memoria...” sussurrerà Savannah a Tom), del desiderio di uccidere il passato e i cattivi oggetti interiori, per tornare a vivere. Tom raccoglie inconsciamente tale messaggio e attraverso il lungo viaggio elaborativo si ricongiunge a lei, nei ricordi e nel rimemorare l’impensabile, scende di nuovo con lei nel mare interiore, come nelle scene infantili, per raccoglierla e riportarla alla vita. Salvando Savannah, Tom salva se stesso.

sviluppa una relazione strutturante il Sé di Bernard., dona vita ad una funzione paterna fantasmatica e ripara così, dentro sè, l’immagine distruttiva del paterno. La riparazione del rapporto di Bernard con la madre, restaura nella psiche di Tom anche l’immagine interna della relazione danneggiata con la propria madre. Attraverso l’affidarsi a Susan egli quindi scopre una parte di sé “affidabile”, contenitiva ed elaborativa che rende possibile permettere ad altri di affidarsi a lui , come Bernard, Savannah e la stessa Susan, di riporre nella sua psiche parti ferite e danneggiate perchè possano essere riparate e tornare integre attraverso l’elaborazione emotiva di cui il Sé di Tom diviene sempre più capace. Susan, infatti, gli affida il figlio Bernard, che rivela una sofferenza raccolta in chiusure aggressive verso la madre e il mondo, ferito dalla ostilità e lontananza del padre (violinista di successo, il cui avvolgente narcisismo esclude ogni legame). L’Io di Bernard tenta un’ideale e illusoria ricongiunzione psichica con il padre attraverso l’introiezione e l’agito della aggressività paterna verso la madre. Tale ostilità, inoltre, assume il significato di difesa distanziante, propria dell’adolescenza, dalle seduzioni regressive del materno. Il padre pone fine al rapporto di Bernard con Tom, chiedendo al figlio di riprendere lo studio del violino in collegio. Tom nel suo rapporto con il ragazzo, lo ha ricondotto dolcemente alle buone identificazioni con il paterno. Il passaggio viene sottolineato nel cammino intrapreso insieme per giungere al treno che li separa. Interessante, a questo proposito, è notare, nella scena in cui si separa da Bernard e gli chiede di suonare il violino, l’intensità dell’ultimo incontro, che si sostanzia del suonare struggente del ragazzo e dell’ascolto appassionato di Tom. In questo incontro finale, con il suo ascolto, egli traspone nel violino il calore di una relazione padre-figlio vissuta fin lì assieme, rendendo così il violino stesso l’area transizionale in cui tale rapporto può vivere ancora. L’affettività di Tom trasforma magicamente il violino da oggetto di negazione emotiva per Bernard, che lo aveva abbandonato nel tentativo di negare il proprio slancio affettivo verso il genitore, a immagine amabile del padre, di cui il violino è rappresentazione plastica. Egli potrà così tornare ad identificarsi con il padre, a cui Tom lo ha psichicamente riconciliato. Tale passaggio esiterà, inoltre, nel mondo interno di Tom, la ricongiunzione dell’Io con il padre psichico, che si manifesterà anche in un avvicinamento sul piano somatico con il padre reale, come è possibile notare nella scena in cui Tom conduce le figlie dal nonno e trascorre una giornata con lui, accettando le sue distanze ed i silenzi invalicabili.

Sul prossimo numero di Sipario, Poetica della psicosi: “Come in uno specchio”, di I. Bergman.

Dott.ssa Maria Rita Ferri

Psicoterapeuta psicoanalitico, docente della Scuola di specializzazione in Psicoterapia ad orientamento Analitico Atanor, in Diagnosi clinica e Personalità

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PERLE DI PSICOANALISI Ente Morale ISTITUTO CINEMATOGRAFICO DELL’AQUILA «La Lanterna Magica» fondato da Gabriele Lucci

Mercoledì 29 Ottobre 2014 – ore 18.00 Presentazione: Dott. Vittorio Sconci, Direttore Dipartimento di Salute Mentale Dott. Carlo Di Stanislao, Presidente Istituto Cinematografico IL BOOM di Vittorio De Sica (Italia, 1963) Al termine della proiezione incontro con Sergio Rubini, attore, regista e sceneggiatore Giovedì 06 Novembre 2014 – ore 18.00 WILDE di Brian Gilbert (UK, 1997) Interventi: Dott. Alessandro Rossi, Dott. Lorenzo Annecchini Mercoledì 12 Novembre 2014 – ore 18.00 L’UOMO IN PIÙ di Paolo Sorrentino (Italia, 2001) Interventi: Giornalista Rai Tg1 Adriana Pannitteri, Dott.ssa Enrica Strippoli Giovedì 20 Novembre 2014 – ore 18.00 TRE PASSI NEL DELIRIO di Vadim, Malle, Fellini (Francia, Italia 1968) Al termine della proiezione incontro con Gida Salvino, scrittrice Federico Pontiggia, critico cinematografico Mercoledì 26 Novembre 2014 – ore 18.00 LA PRIMA COSA BELLA di Paolo Virzì (Italia, 2010) Interventi: Dott.ssa Maria Rita Ferri, Dott. Paolo Stratta Sabato 29 Novembre 2014 - ore 10.00 IL RITRATTO DI DORIAN GRAY di Albert Lewin (Usa, 1945) Interventi: Dott. Vittorio Sconci Giovedì 4 Dicembre 2014 – ore 18.00 LA MORTE TI FA BELLA di Robert Zemeckis (Usa, 1992) Interventi: Dott.ssa Maddalena Dufrusine, Dott. Stefano de Cataldo Sabato 06 Dicembre 2014 - ore 10.00 REALITY di Matteo Garrone (Italia, 2011) Interventi: Dott. Roberto L. Bonanni Mercoledì 10 Dicembre 2014 – ore 18.00 IL MIO MIGLIOR NEMICO di Carlo Verdone (Italia, 2006) Conclusioni: Dott.ssa Mirella Del Principe, Dott. Vittorio Sconci, Dott. Carlo Di Stanislao PARLIAMO DI Mercoledì 19 Novembre – Biblioteca Provinciale “S. Tommasi” - ore 17.00 Reading di letteratura – Alexis o il trattato della lotta vana di Marguerite Yourcenar – Edizione Feltrinelli Interventi: Dr.ssa Tiziana Pasetti, Dott. Vittorio Sconci Sabato 29 Novembre – Libreria Colacchi – Centro Comm.le Amiternum - ore 17.00 Bel Ami di Guy De Maupassant – Edizione Mondadori - Interventi: Dr.ssa Tiziana Pasetti, Dott. Vittorio Sconci Sabato 6 Dicembre – Libreria Mondadori – Centro Comm.le Meridiana – ore 17.00 Stoner di John Edward Williams - Fazi Editore - Interventi: Dr.ssa Tiziana Pasetti, Dott. Vittorio Sconci

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LA PRIMA COSA BELLA di Paolo Virzì (Italia, 2010)

Mercoledì 26 Novembre 2014 – ore 18.00

Auditorium “E. Sericchi”

Interventi: Dott.ssa Maria Rita Ferri Note psicoanalitiche sull’immagine ideale di se e illusione di bellezza dell’io Dott. Paolo stratta Estate 1971, elezione di miss Pancaldi, evento clou della stagione estiva livornese, celebrato nel suo stabilimento balneare più noto. L'elezione di Anna come "mamma più bella" sembra essere il fatto che scatena scompiglio nella storia della famiglia Michelucci, dando il via ad una serie di eventi tragicomici che arrivano fino ai giorni nostri. Bruno Michelucci, professore di lettere di mezz'età in un istituto alberghiero di Milano, è un uomo infelice e fondamentalmente insoddisfatto della sua vita. Quando la sorella più giovane Valeria lo chiama a Livorno, al capezzale della madre Anna, giunta allo stadio terminale di una lunga lotta contro il cancro, l'uomo, riluttante, si dispone a riallacciare una relazione che aveva troncato molti anni prima, durante l'adolescenza, quando fuorviato dalle maldicenze dei suoi compagni di liceo, si era convinto che la madre fosse una donna di facili costumi. L'occasione di questo tardivo riavvicinamento diventa propizia per ripercorrere tutta l'esistenza della sua famiglia, da quella notte ai "Bagni Pancaldi", in cui venne piantato il seme di una distruttiva forma di gelosia del padre, passando attraverso il fallimento del matrimonio dei suoi genitori, le fughe, i litigi, la vita disordinata, ma anche ricca di affettività e di momenti di allegria, gli espedienti, gli incontri fortunati, le amicizie, le perdite e i lutti, fino alla definitiva separazione da una madre mai completamente compresa, seppur profondamente e segretamente amata. Poco alla volta, Bruno diventa consapevole di segreti che non aveva mai voluto comprendere. Gli ultimi giorni di vita della madre Anna, costretta a cedere la sua prorompente ed estrosa vitalità di fronte all'avanzare inesorabile del male, sono l'occasione per riannodare rapporti sciolti troppo bruscamente, per rileggere, dal punto di vista di un uomo ormai maturo, fatti e comportamenti di persone che hanno affollato la sua infanzia e la giovinezza, per arrivare a concedere infine a tutti quanti, primo tra tutti a se stesso, una nuova occasione e un nuovo inizio, prima che sia troppo tardi e che la separazione diventi definitiva.

NOTE SULL’IDEALIZZAZIONE uando la realtà deluse l’Io nascente, strappandolo alla madre, il soggetto colmò il distacco attraverso la creazione di un’illusione che lo facesse pensare nuovamente a lei riunito. Ogni successiva illusione, che nutre la psiche, è figlia della prima, originaria illusione del bambino, come ci ricorda D.D. Winnicott, ed è quella di aver creato lui stesso la madre, e quindi di vivere in un tempo che lui, creatore di entrambi, può capovolgere per tornare ad essere-uno-con-lei. L’idealizzazione di bellezza di sé risponde a questo profondo e antico desiderio, ed è la risposta ad un sentimento depressivo di base, attraverso l’illusione di vivere in un tempo perenne e reversibile, che permette di ritrovare l’unione inaugurale e quindi originaria con la madre, negando le lesioni del tempo e colmando le discontinuità dell’Io per la mancanza d’oggetto. L’idealizzazione di sé come oggetto estetico, quindi, nasce sempre da un’illusione dell’ Io di eternità e quindi di sconfitta della morte. E’ il ritorno di una perfezione inaugurale.

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Sul prossimo numero di Sipario, il commento psicoanalitico del film “La prima cosa bella”, di Paolo Virzì, a cura della Dott.ssa Maria Ferri

Dott.ssa Maria Rita Ferri

Psicoterapeuta psicoanalitico, docente della Scuola di specializzazione in Psicoterapia ad orientamento Analitico Atanor, in Diagnosi clinica e Personalità


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iamo di fronte ad un film dotato di una narrazione crepuscolare, che parla del dolore del vivere celato a se stessi.Ciò che lega le varie parti del film, infatti, è un diffuso sentimento struggente e malinconico, proprio di Virzì, che rimanda allo Spleen di Baudelaire, ovvero all’oscuro sentimento, che abita l’Io, della caducità delle cose del mondo. E ancora più precisamente alla nostalgia di qualcosa che era pure sul punto di compiersi, ma che mai avvenne: l’incontro con una “prima cosa bella” perduta prima di raggiungerla. E’ l’amore per “…la rosa che non colsi…” di G. Gozzano, primacosa-bella che non muore perché vive in un’attesa inconscia e senza fine del soggetto. Nella sottile psicologia dei personaggi vive la poetica della provincia, che riproduce la realtà nel registro del “raccontabile”, fa della vita un aneddoto, dove il soggetto vive, nell’ombra dell’Altro e di ciò che è detto dal coro. La storia ha, infatti, a tratti, il sapore decadente del piccolo mondo, le piccole cose, dunque, di G. Gozzano. E’ in esso, delicatamente declinato il tema dell’Ideale di sé, e più precisamente dell’Ideale di bellezza. Esploreremo il significato e l’origine più profonda, nella psiche, di tale immagine. L’illusione inconscia di possedere intimamente un oggetto estetico, un oggetto bello che ferma il tempo, di farne parte o, ancor di più, esserne l’immagine, nacque quando, agli occhi dell’Io, nella nascita e nella sua crescita, svanì la madre delle origini, nel separarsi da lei. L’identificazione con il buon oggetto, che è quindi anche originariamente bellissimo, è tornare ad essere-con-la madre o, ancor di più, ad essere uno-con-lei. L’immagine idealizzata di sé nasce dunque per dar vita a ciò che il piccolo Io pensò morto o perduto, cioè la madre, non sapendo che non fu essa a morire, ma la vita che giunse a conoscerlo. L’oggetto materno, infatti, e più propriamente la Cosa, (l’oggetto mitico delle origini, con J. Lacan) per sua stessa sostanza è vivo, il piccolo Io ne smarrì l’ombra, ma esso mai si slegò nel tempo dal soggetto, e dalle sue origini continua a vivere intimamente ad esso unito. Ma poiché lo pensò perduto, fu così che l’Io idealizzò sé. L’illusione idealizzante di sé, infatti, giunse a consolare il soggetto della perdita, a giocare (il-ludo) con lui.

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Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia, vi propongo una riflessione che raccoglie, in una trama sensibile, le associazioni inconsce che la nostra mente stupita può aver seguito prima e dopo l’aprile. Ciò che nel nostro inconscio ha avuto vita o pausa. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.

Commento del film

LA PRIMA COSA BELLA di Paolo Virzì Note psicoanalitiche sull’idealizzazione

Note sull’idealizzazione

Quando la realtà deluse l’Io nascente, strappandolo alla madre, il soggetto colmò il distacco attraverso la creazione di un’illusione che lo facesse pensare nuovamente a lei riunito. Ogni successiva illusione, che nutre la psiche, è figlia della prima, originaria illusione del bambino, come ci ricorda D.D. Winnicott, ed è quella di aver creato lui stesso la madre, e quindi di vivere in un tempo che lui, creatore di entrambi, può capovolgere per tornare ad essere-uno-con-lei. L’idealizzazione di bellezza di sé risponde a questo profondo e antico desiderio, ed è la risposta ad un sentimento depressivo di base, attraverso l’illusione di vivere in un tempo perenne e reversibile, che permette di ritrovare l’unione inaugurale e quindi originaria con la madre, negando le lesioni del tempo e colmando le discontinuità dell’Io per la mancanza d’oggetto. L’idealizzazione di sé come oggetto estetico, quindi, nasce sempre da un’illusione dell’ Io di eternità e quindi di sconfitta della morte. E’ il ritorno di una perfezione inaugurale, delle origini. Dott.ssa Maria Rita Ferri

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da sempre a una sofferenza precoce nelle radici della psiche. Ed è un taglio delle origini, ma anche una ricerca di uno spazio psichico in cui porre radici, che la induce inconsciamente al suo perenne errare fra strade che non conducono e case che non accolgono. Possiamo inoltre cogliere nel movimento continuo che la vede impegnata, l’espressione esternalizzata della ricerca interiore di un oggetto perduto, con cui ricongiungersi per sentirsi viva. La mancanza o insufficienza di radici psichiche è propria di un Io che, per difettualità ambientali, non ha potuto impiantarsi e sostare saldamente nelle braccia materne, braccia che Anna crede di trovare in ogni promessa d’amore. Se il primo amore, la Madre delle origini, anziché accogliere, recide radici, l’Io non può evolvere. L’Io di Anna, infatti, per tutto lo scorrere del film, e della sua vita, non giunge ad evolvere davvero, accedendo al cambiamento come arricchimento di esperienza e sostanza psichica, ma rimane a pensarsi come una prima ed unica “cosa bella”, ovvero aderendo all’Ideale di Sé. Vorrei, ora approfondire brevemente questo concetto. L’Ideale di sé contiene sempre anche l’ombra di un Altro, il primo oggetto d’amore che l’Io conobbe e che perdette nascendo, lo cinge e si riunisce ad esso, ne nega dunque la perdita che avvenne, è sempre promessa di un ritorno di madre. Figlio del trauma, di una prima separazione, l’Ideale di sé, è sempre sbilanciamento verso l’oggetto, poiché nacque in sua vece, nacque per celarne l’assenza. Se per l’infans, che, dunque ancora non giunge alla parola e quindi al pensiero, la separazione dalla madre, nella nascita psicologica, non trovò consolazione nel ritrovare un legame d’amore con lei, simbolico ed infinito, il piccolo Io, facendo di Sé il solo oggetto del primo d’amore, tenterà così di cancellare il dolore della perdita d’oggetto, amando sé, al suo posto e ponendo del tutto la bellezza dell’oggetto al proprio interno, su di sé. Sostituirà sé all’oggetto, amerà sé al posto dell’oggetto: così nasce un più acceso Narciso, nella psiche, che rinuncia all’oggetto, e, dunque, al proprio confine con il mondo, poiché non conobbe l’abbraccio che forma appartenenze e confini. Rinunciò, così, al Significante, che sempre nasce, con J. Lacan, dal sentimento di una “mancanza ad essere” tutto, dalla percezione di un limite e di un oggetto al di là. E’ da un lutto impossibile a farsi, infatti, con C. Racamier (“Il Genio delle Origini”), e l’assenza di un confine da porsi, che il soggetto giunge a una scelta narcisistica nel suo modo di essere in esistenza. Egli, infatti, investe nel sogno di bellezza (che rappresenta il Sé unito all’oggetto, e quindi un legame ritrovato, nell’immagine, ma non nel mondo) ogni invito ad essere. Nel separarsi immaturamente, in qualche possibile e precoce trauma delle origini, e perdendo il suo oggetto materno, il piccolo Io può morire. Dovrà ricomporsi in un sogno di intatta bellezza.

Illudersi di essere egli stesso l’oggetto evocativo e ideale è dunque per l’Io un modo per continuare ad amare ed essere in vita e, con il proprio amore, tener vivo l’oggetto materno nel proprio mondo interno. Ma, nel protrarsi dell’assenza di questo nel mondo reale, ovvero se non giunge un oggetto a conoscere il dolore dell’Io, e ad amarlo, l’ Ideale di sé diviene l’unico rifugio, un richiamo a svanire nell’immagine idealizzata. Mi soffermerò principalmente ad analizzare i tratti della personalità di Anna, un Femminile fragile, sottile, in cui una leggerezza di fanciulla si estende e configura il suo Sé minuto. Danza nel mondo, ma non incede, abbiamo la sensazione precisa, infatti, nel vederla esprimersi, che il suo Io viva nelle pause dell’esistenza, nella sua ombra, ma non nell’esistenza piena. La vita appare ad Anna come un insieme di eventi che si rincorrono, come agiti inevitabili, che non giungono mai alla sostanza di scelte, proprie o di altri. E’ un vivere, il suo, che non può nutrirsi di un profondo spessore soggettivo, il suo, ne è anzi quasi travolta, senza quasi poter coglierne il senso, privata di quella parete psichica che assicura distanze e permette di pensare il mondo e quindi farne esperienza, con Bion. Non potendo pensare il mondo, Anna ne è travolta. Il regista dipinge ciò nel candore esistenziale in Anna, fa di lei l’imago dell’innocenza primaria. E potremmo chiederci perché, nonostante il non felice destino, la psiche di Anna non mostri di essere attraversata dall’angoscia. E’ perché noi sappiamo, con Kierkegaard, che l’angoscia nasce sempre dall’interruzione dell’innocenza primaria, dallo strappo dell’unità con la natura, con cui lei vive una dolce continuità. Dalla rottura del narcisismo innocente, in cui Anna trova rifugio, dal mondo delle discontinuità, dell’Altro e del possibile, da tale rottura, solo da lì, per Kierkegard, nasce l’angoscia. La sua parola è un dolce canto di eventi, rispecchia e rende bello il reale, su cui il suo Io si appoggia, non potendo distanziarsi da esso e coglierne un significato tutto soggettivo. Ciò può far pensare ad assenze significative nelle esperienze affettive primarie, tali da non poter essere state interiorizzate fino a formare un ponte mentale che le permettesse di legarsi alla realtà con un pensiero complesso, e comprenderla: Anna può solo appoggiarsi ad essa. Il suo è, dunque, un equilibrio anaclitico, ovvero d’appoggio. In ciò è la fragilità e la sottigliezza di spessore in un pensiero candido. Noi sappiamo che la fragilità di spessore, nel pensiero, riman-

La seconda parte sul prossimo numero di Sipario, in distribuzione dal 9 gennaio 2015

Dott.ssa Maria Rita Ferri

Psicoterapeuta psicoanalitico, docente della Scuola di specializzazione in Psicoterapia ad orientamento Analitico Atanor, in Diagnosi clinica e Personalità

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