Prato, Storia e Arte

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Articoli sulla Rivista pubblicati da Niccolò LUCARELLI

- «Quella che non calpestò nessuno sarà la strada che mi condurrà». Giovanni Bellini, un poeta contadino sul Carso. su Prato Storia e Arte n° 119, giugno 2016 - «Dal maggio radioso» alla Strafexpedition. L'esperienza al fronte di Alessandro Suckert. su Prato Storia e Arte n° 123, dicembre 2018 - «Dal Bisenzio al Volturno». L’avventura garibaldina di Ferdinando Giraldi. su Prato Storia e Srte n° 121, giugno 2017 - «Dalle ceneri di questo conflitto nascerà un’Italia più forte». su Prato Storia e Arte n° 117, giugno 2015


«Quella che non calpestò nessuno sarà la strada che mi condurrà». Giovanni Bellini, un poeta contadino sul Carso

di Niccolò Lucarelli

A morire, in quell’ultimo scorcio di Ottocento, non fu soltanto Dio, come aveva annunciato la rivoluzionaria filosofia di Nietzsche: nonostante le apparenze, morì un po’ anche l’uomo, che si staccò definitivamente da quelle millenarie radici arcaiche rurali, sulle quali, sino ad allora, si era retta l’umanità, o almeno la società occidentale. L’Europa in particolar modo risentì di questo inatteso clima di disperazione e sconvolgimenti, ma paradossalmente, ironicamente o sadicamente, la cultura europea che va dal 1880 al 1930 esprime una maturità e un’estetica di tragica bellezza, di cui il mondo non aveva conosciuto l’eguale, quanto a capacità di compenetrare lo stato d’animo corrente della società. Uno stato d’animo sospeso fra angoscia ed ebbrezza, così radicato nella società da contagiare, con esiti diversi, le Corti Imperiali e i circoli socialisti, l’intellettuale e l’uomo della strada, e in seno al quale maturò l’ultima crisi che vide l’Europa entrare nella Prima Guerra Mondiale. Se per figure quali Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, un giovanissimo Curzio Malaparte, Bino Binazzi, Fernando Agnoletti, Francesco Giunta e Ezio Maria Gray, l’adesione all’interventismo era la naturale conseguenza del loro essere intellettuali “ardenti” – per i quali sono chiare le dinamiche politiche dell’epoca e ben impressi nella mente l’Amor di Patria e l’onore militare – desta una particolare ammirazione ritrovare questi medesimi valori in figure di ben più umili condizioni come Giovanni Bellini, nato a Trefiano, tra Carmignano e Poggio a Caiano (ma oggi nel territorio di quest’ultimo Comune), il 22 novembre 18891 da una modesta famiglia 1 Come appare dall’Albo d’Oro dei Caduti e Dispersi in Guerra, del Ministero della Difesa.

(http://www.difesa.it/_layouts/15/MdDEvoluzione-Layouts/Archivio/AlboOro/23/75.jpg). Altre fonti, fra cui l’Agnoletti, discordano sulla data di nascita, proponendo il 1890 e il 1891.

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«Quella che non calpestò nessuno sarà la strada che mi condurrà». di Niccolò Lucarelli Giovanni Bellini in divisa di Caporale del 127° Fanteria, Museo Soffici e del Novecento Italiano.

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campagnola: il padre, Adriano, svolgeva il mestiere di acetaio in una bottega di Firenze, mentre la madre, Argenta Ravegli, era trecciaiola, attività allora molto diffusa fra le donne di paese delle campagne pratesi e fiorentine, per incrementare i magri bilanci familiari. Recandosi in città dove aiutava il padre nel lavoro, Bellini ebbe modo di conoscere personalmente l’ambiente artistico e intellettuale che sempre lo aveva attratto, e i cui riflessi gli erano arrivati attraverso la figura di Ardengo Soffici, che abitava non lontano da lui. Lo conobbe di persona nel dicembre del 1913, nelle sale della Galleria Gonnelli di via Cavour che dal novembre di quell’anno al gennaio del ’14, ospitò la grande esposizione di pittura futurista organizzata dalla rivista Lacerba. Soffici era fra i pittori che partecipavano all’esposizione, e un pomeriggio fu avvicinato da un giovane che gli pose una domanda ben precisa sulla geografia di un paesaggio nei pressi di Carmignano. Soffici comprese come il giovane ben conoscesse la zona, e ne nacque una conversazione. Lo descrive come «un giovanotto tarchiato, con in testa un cappellaccio a cencio, nero, e sulle spalle un mantello pure nero. (...) Il suo aspetto era di campagnuolo, magari di contadino: soltanto osservandolo meglio vidi che sulla sua faccia forte, (…) faccia d’antico guerriero, errava un sorriso timido e fine, mentre di sotto alla tesa del cappello due occhi scuri incastonati in profonde orbite sfavillavano di quella pura luce spirituale che solo emana dalle profonde anime dei veri artisti»2. Un giudizio particolarmente lusinghiero, dal quale emerge la capacità d’osservazione di Soffici, quando s’imbatteva in un volto interessante; con poche, semplici parole, Soffici ci restituisce la rude nobiltà di un’anima sensibile e robusta insieme, che portava in sé un residuo di scapigliatura, e legata alla propria terra da un affetto che si potrebbe definire filiale. Un affetto che si tradusse in genuino slancio lirico, con il quale Bellini si fa cantore di un mondo rurale ingenuo e operoso, rievocando figure di barrocciai, ricordi d’infanzia, adolescenziali palpiti d’amore. Poesie in versi liberi, lontane dalla purezza formale di Giovanni Pascoli o Gabriele D’Annunzio, eppure capaci di rendere la forza di un paesaggio - l’atavica campagna toscana -, che con le sue pievi, le figure di paese, i prati fioriti e le leggiadre fanciulle, racchiude ricordi d’infanzia, palpiti giovanili, cieli stellati e scorci dagli splendidi colori, a fianco dei quali emerge, però, una tensione che comunica e sovrappone al paesaggio quello che era il sentire dell’epoca, ovvero quell’angoscia senza nome che presagiva l’avvento traumatico di una nuova era. Anche l’amore, nei versi di Serenata, ne era contagiato: «Il tragico caos di due notti d’inverno si strinse nelle tue pupille e vi stillò tutto il mistero più buio perché tu potessi depredare e variopingere la luce»3. Un ritmo concitato, stante anche la mancanza di virgole, si unisce a un lirismo senza tempo, che evoca immagini sublimi e 2 A. Soffici, Ricordi di vita artistica e letteraria, Firenze 1930, p. 63. 3 G. Bellini, Arciviaggio, (a cura e con prefazione di F. Agnoletti), Firenze 1921, pp. 69-70.

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«Quella che non calpestò nessuno sarà la strada che mi condurrà». di Niccolò Lucarelli

violente insieme, attraverso un linguaggio elegante, ma non aulico. Altrove, Bellini omaggia la campagna toscana, scegliendo espressioni e vocaboli tratti dal parlato popolare, ad esempio celebrando la figura del “barrocciaio”, nel componimento Allegria: «E via alla brindelloni // con la fusciacca mezza a ciondoloni // pieno di vino e di boria»4. Un colorato quadretto di vita campestre, che anche nel ritmo richiama il dondolio di un carro su una stradina polverosa, e il suono allegro dei sonagli, al punto da avvicinarsi all’appassionata prosa che anni più tardi Idilio Dell’Era dedicherà proprio al “barrocciaio”5. Parole tracciate con divertito affetto, ma che mai restano alla superficie del bozzetto, riuscendo a raccontare la dimensione umana, di emozioni, gioie e miserie, di quel piccolo mondo campestre. Le pagine di Bellini sono anche scrigno prezioso di ricordi d’infanzia, impressioni ed esperienze di una giovinezza avida di vita, evocati con fresca sensibilità. Significativa, la poesia Insalatina di campo: «Ricordi d’infanzia fatati // scialbi sogni in lontananza, biancori nevicati (…) Tutti i ricordi si guardano innamorati (…) // quando sui rii fioriti (…) // passa la voce // Insalatinaaa di campooo»6. Le delicate immagini bucoliche scelte da Bellini sono la cornice di un mondo agreste dove l’infanzia scorre felice, anche se purtroppo lo scorrere del tempo la allontana. Ma a richiamare queste care memorie, il grido dell’ortolano, nella metafora che apparenta i teneri virgulti dell’insalata all’età infantile. Uno stile ancora acerbo, eppure lirico e pregno di atmosfere, per fermare sulla carta genuini impeti dell’animo. Bellini scrisse i suoi versi a partire dal 1913 circa, raccogliendoli su un quadernetto che portò con sé anche al fronte, e con il quale addolciva i rari momenti di riposo che la vita di trincea gli concedeva. Ritrovati subito dopo la sua morte, gli scritti di Bellini vennero in parte dati alle stampe dalla Libreria della Voce nel 1916, con il titolo originale di Memorie della Campagna d’Italia nella Guerra della Salute, mentre cinque anni più tardi, Ferdinando Agnoletti - suo antico collega e ammiratore sin dai tempi di Lacerba -, li pubblicò in forma completa per i tipi fiorentini di Vallecchi, con il titolo di Arciviaggio, in questo scegliendo un’espressione cara allo stesso Bellini, che era solito confidare alle sorelle: «un giorno o l’altro bisogna che vada a fare un gran viaggio. Dovrà essere un gran bel viaggio, un “arciviaggio”»7. A dare la misura dello stato d’animo di Giovanni Bellini in quegli anni tormentati, un frase scritta di suo pugno, e riportata da Fernando Agnoletti: «Quella che non calpestò nessuno sarà la strada che mi condurrà»8. Parole da 4 G. Bellini, Arciviaggio, pp. 46-47. 5 I. Dell’Era, La mia Toscana, Torino, 1959, pp. 223-226. 6 G. Bellini, Arciviaggio, pp. 43-44. 7 L. Corsetti, L’arciviaggio del poeta Giovanni Bellini, «Ambra», gennaio-marzo 2003, n. 30, anno VI. 8 F. Agnoletti, Il Bordone della poesia, Firenze 1930, p. 62.

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A sinistra: il catalogo della mostra di pittura futurista organizzata da Lacerba. A destra: La copertina dei Ricordi di Vita artistica e letteraria, di Ardengo Soffici.

vero combattente, da inappartenente che avvertiva il rivolgimento dei tempi, e ribadiva il rifiuto di una gretta quotidianità. Né la sua visione si fermava all’Italia, avendoci lasciati brevi pensieri su altri popoli europei, accusando gli svizzeri d’infingardaggine, e guardando ai russi come a «teste pensose che avanzano col levare del sole»9, una frase dalla quale si evince il fondo socialista dell’animo di Bellini. Ma cosa c’era, all’origine di quei pensieri e di quelle poesie? Giovanni Bellini si formò da autodidatta, assecondato da un innato talento che, se non falciato dalla morte al fronte, lo avrebbe quasi sicuramente reso una delle figure di spicco della cultura italiana del primo dopoguerra. A facilitare il suo avvicinamento all’ambiente culturale fiorentino, le sue simpatie interventiste, delle quali i futuristi erano i portabandiera. Il confronto con quelle illustri figure gli fu certamente di scuola per affinare il suo stile, ed entrare in contatto con problematiche di respiro europeo, non soltanto di carattere culturale, ma anche politico e sociale. Intanto, in quell’infuocata estate del 1914, la Toscana si dimostrava una delle zone a più alta vocazione interventista d’Italia, e Firenze ne era il naturale centro, con le sue piazze percorse da slogan e cortei. Ardengo Soffici ricorda la partecipazione del giovane poeta a quelle accese dimostrazioni, «urlanti fra le bastonate, gli spintoni, con le guardie dietro di corsa per le vie nere e le piazze in subbuglio. Bellini mi apparisce con gli altri nel ricordo di quelle “bufere”, dov’egli portava il suo mantello sventolante, il suo entusiasmo concentrato, e i suoi pugni fracassanti di campagnuolo sano come una

9 Il Bordone della poesia, Firenze 1930, p. 62.

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«Quella che non calpestò nessuno sarà la strada che mi condurrà». di Niccolò Lucarelli

lasca»10. La descrizione ci restituisce una figura determinata, romantica, all’occorrenza capace di utilizzare la sua forza fisica. Per dare compiuta coerenza al suo interventismo, nel gennaio del 1915 s’iscrisse alla sezione fiorentina del Fascio d’Azione Rivoluzionaria Interventista, costituito l’11 dicembre 1914 a Milano da Benito Mussolini e Alceste De Ambris. A Firenze, la palestra d’elezione degli intellettuali interventisti furono le veementi pagine di Lacerba - la rivista che Soffici e Papini avevano fondato a Firenze nel gennaio del 1913 -, e sulle quali scrissero quasi tutti gli aderenti all’Avanguardia Futurista. Sin dall’ottobre di quell’anno, con la pubblicazione del Programma politico futurista - seguito da una Postilla di Giovanni Papini -, Filippo Tommaso Marinetti, con l’entusiastica approvazione di Soffici, rivolse un vibrante appello agli elettori affinché prendessero le distanze dalle liste clerico-liberali-moderate di Giovanni Giolitti e dal programma democratico-repubblicano-socialista. Il che significava una decisa adesione ai valori conservatori del nazionalismo, gli stessi ai quali un anno e mezzo più tardi ci si appellerà per la causa interventista, attivamente sostenuta dalla rivista. E nemmeno Giovanni Bellini mancherà di contribuirvi, con due articoli particolarmente ardenti, apparsi nel 1915. Si tratta di due interventi che sono altrettanti appelli per l’onore della Patria. Il primo, rivolto al Duca degli Abruzzi, sin dall’esordio è coerente con l’arrabbiato clima di Lacerba, richiamando l’entusiasmo dei giovani aspiranti guerrieri, e il loro malcontento nei confronti del neutralista Giolitti: «I giovani d’Italia vogliono la guerra. Firenze l’ha prima gridato, e le due capitali hanno risposto: o la guerra, o la guerra! (…) Noi popolo d’Italia, siam così pronti alla vita, ora, che per essere grandi altro non ci manca se non l’uomo che ci guidi in guerra. Soltanto questa guerra farà l’Italia»11. In particolare, quest’ultima frase, si rifà all’idea del Risorgimento incompiuto, e abbraccia la causa irredentista. Una causa tradita da un’Italia dove «si fa la politica dell’albero di Natale»12; una tagliente metafora per sbeffeggiare l’indecisionismo di marca giolittiana. Al Principe Luigi di Savoia, Duca degli Abruzzi, si chiede quindi di ordinare la marcia sulle Alpi, di aprire quelle ostilità chieste dal popolo. Con un impeto tutto futurista, Bellini chiude l’articolo minacciando che «se non farete voi oggi la guerra giusta, il popolo farà quella giustissima domani»13. Per la cronaca, il Duca degli Abruzzi (1873-1933), divenne comandante in capo delle Forze navali, distinguendosi nell’organizzazione dell’evacuazione di 115.000 profughi civili e militari serbi dalla costa albanese, grazie alla flotta italiana. Fu in seguito rimosso dall’incarico per decisione dello Stato Maggiore, su pressione delle potenze alleate che volevano utilizzare la Marina 10 A. Soffici, Ricordi di vita, pp. 64-65. 11 G. Bellini, A Luigi di Savoia, «Lacerba», 20 marzo 1915, n. 12, anno III. 12 Ibidem. 13 Ibidem.

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Italiana a scopi puramente difensivi, contrariamente a quelle che erano le intenzioni del Duca. Nel suo secondo e ultimo intervento su Lacerba, pubblicato nei caldi giorni di maggio, Bellini rivolge un vibrante appello agli Ufficiali italiani, nei quali vede la punta di diamante della gioventù, cui affidare i destini della Patria: «Ufficiali dell’Esercito Italiano! O la guerra o il vostro fallimento, o soldati o frati»14. Un proclama che ha le velleità di un ordine di mobilitazione, in cui si chiede un deciso pronunciamento militare in favore dell’intervento, superando l’apatia governativa, perché, oltre certi limiti «la disciplina può essere servilismo»15, soprattutto verso un Parlamento visto come un “canile”, «legato da oscuri patti al malatesta Giolitti»16. L’allusione al potere dell’Esercito è chiara, così come l’avversione per il Governo: «gli scorpioni annidati nella Roma squarquoia sono sordi alle parole; ma voi possedete i cannoni»17, una frase che è un appello alla sollevazione in armi. Da notare l’utilizzo di un termine, squarquoia, di sapore dannunziano. Bellini si rivolge ai giovani ufficiali, quelli che ancora provano entusiasmo per il campo di battaglia: «siete giovani, cresciuti nella serra della famiglia (…) ma ora bisogna che pigliate confidenza con la morte»18. Uno spavaldo, virile accenno al coraggio guerriero, nel più puro stile del sentire futurista. Tuttavia, dovendo dare un’opinione sulla poesia di Giovanni Bellini, non ci sembra si possa etichettarla come futurista, rimanendo l’autore lontano dal linguaggio e dalle figure letterarie dell’avanguardia. La sua attenzione non è catturata dall’ebbrezza della tecnica o dal brivido della velocità, ma resta saldamente ancorata a quelle atmosfere “strapaesane” che rendono la dolce quotidianità della vita campestre, con le sue gioie e i suoi dolori, accettati con quello spirito atavico che non è rassegnazione, bensì forza d’animo e disillusione. La bravura di Bellini sta appunto nel coglierne la rustica bellezza, l’autenticità, trasferendone sulla carta la carica umana. Persino nei versi dedicati alla guerra, alla sua condizione di soldato, Bellini è lontano dal provare quella rabbia distruttiva propria di Marinetti. Differentemente dai Futuristi, che concepivano la poesia come «un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo»19, Bellini conserva una sorta di pacifico senso della misura, e la poesia resta per lui una forma d’arte per indagare – e un po’ anche giudicare –, l’essere umano, per dar sfogo al suo cuore estatico affascinato da una Natura cui sempre guardò con umiltà. Soltanto nell’uso della punteggiatura, emergevano i suoi limiti di autodidatta, come osserva bonariamente Fernando Agnoletti nella sua lunga prefazione 14 G. Bellini, Agli Ufficiali, «Lacerba», 15 maggio 1915, n. 20, anno III. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 17 Ibidem. 18 Ibidem. 19 F.T. Marinetti, Manifeste du Futurisme, «Le Figaro», 20 febbraio 1909.

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«Quella che non calpestò nessuno sarà la strada che mi condurrà». di Niccolò Lucarelli L’atto di morte del Caporale Giovanni Bellini (Archivio del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti).

all’Arciviaggio: «Bellini adoperava segni di interpunzione quando annotava pensieri o strofe per la prima volta (come sul taccuino), ma li adoprava male». Si era ormai giunti alle giornate decisive del “maggio radioso”, e all’indomani della dichiarazione di guerra del 24, Bellini si arruola in Fanteria. Viene assegnato alla IX compagnia del 127° Reggimento, che, con il 128° costituisce la Brigata Firenze, formata il 1 marzo di quell’anno. A sua volta, assieme alla Brigata Spezia, la Firenze costituisce la 32ª Divisione Fanteria, inserita 97


L’urna funeraria che accoglie gli Ignoti nel Sacrario Militare di Oslavia (Archivio del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti).

nella II Armata comandata dal Generale Pietro Frugoni (1851-1940). Con il grado di Caporale, Bellini viene destinato al fronte del Carso. Della sua breve permanenza in trincea, ci rimangono toccanti testimonianze ricche di umanità, nei versi di Esistiamo: «Noia, noia grossa da tagliarsi a fette, giorno piovoso e peso, mi vuoi proprio schiacciare alla terra? Tutto un giorno di picchetto malidetto (sic) : finalmente si sono accesi i lumi, i miei compagni hanno voluto che gli parlassi, e io gli ho raccontato che esistevano. I visi si sono accesi di vita come i lumi di luce»20. C’è, in queste parole, una profonda comprensione del disagio dei commilitoni, e con sensibilità degna di Ungaretti, Bellini non dimentica la sua e la loro natura di esseri spirituali, non soltanto carnali. Ne Il vestimento, dopo aver minuziosamente elencato l’equipaggiamento fornito ai soldati italiani al fronte, così esprime il suo “ringraziamento” al governo: «Evviva il massaio Salandra»21. Toni ben diversi da quelli che Soffici aveva riservati a Giolitti. Difficile non provare ammirazione per questa misurata, sottaciuta ironia, che conferisce una certa statura intellettuale e umana a Giovanni Bellini, che fu un uomo capace di battersi coraggiosamente per la Patria, con ideali ben saldi nel proprio animo, ma nel suo intimo disilluso nei confronti della politica italiana. Ci sentiamo quindi di apparentarlo a quel Tancredi Falconeri di gattopardesca memoria, volontario garibaldino sul quale però non stinse la retorica del Tricolore. Il coraggio, l’audacia, la necessità storica, furono elementi della sua prosa e della sua poesia, senza però sfociare nella spavalderia futurista, anzi affiancandosi alla comprensione della debolezza dell’uomo davanti ai 20 G. Bellini, Arciviaggio, p. 115. 21 G. Bellini, Arciviaggio, pp. 108-9.

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«Quella che non calpestò nessuno sarà la strada che mi condurrà». di Niccolò Lucarelli

Il Sacrario Militare di Oslavia (Archivio del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti).

gradi fatti della Storia (non ultima, ovviamente, la Prima Guerra Mondiale). Dopo lo schieramento dei reparti e le avanzate iniziali, dal Comando Supremo il Generale Cadorna dette avvio alla Prima Battaglia dell’Isonzo, combattuta fra il 23 giugno e il 7 luglio, e concentrata su tre obiettivi: il campo trincerato di Tolmino, il campo trincerato di Gorizia (diviso fra la zona di Plava e la linea Sabotino-Oslavia-Podgora), e l’attacco sul Carso. Giovanni Bellini si trovò dislocato a Plava, sul medio Isonzo, dalla cui testa di ponte oltre il fiume (incuneata fra le linee austriache già dalla metà del mese), si sarebbe dovuto procedere nell’avanzamento in quota. Purtroppo, le trincee nemiche, ben fortificate e protette da un robusto fuoco d’artiglieria, si rivelarono imprendibili; pur mantenendo la posizione – e in alcuni punti avanzando fino a Quota 308 e Zagora –, i reparti italiani non riuscirono a sfondare le linee austriache, e subirono perdite considerevoli. Fra i caduti di questa Prima Battaglia dell’Isonzo, il 7 luglio, ci fu anche Giovanni Bellini, non ancora ventiseienne, dilaniato da una granata nemica lanciata nella sua trincea. Fu tumulato, fra gli Ignoti, a Santa Lucia sull’Isonzo, dov’era 99


stato allestito un piccolo cimitero di guerra. Negli anni Trenta il cimitero fu smantellato, e le sepolture trasferite presso il Sacrario Militare di Oslavia, nei pressi di Gorizia, dove ancora oggi riposa il Caporale Giovanni Bellini, nella grande urna riservata agli Ignoti. Ma il suo nome e il suo talento non vennero dimenticati, tanto che, quello stesso settembre, Ottone Rosai, che già conosceva Bellini dai tempi di Lacerba, chiese al comune amico Ardengo Soffici notizie sui suoi scritti, dichiarandosi «sicuro di leggere della magnifica roba»22. Segno evidente della stima di cui Bellini godeva a Firenze. Ma Soffici, nella lettera di risposta, non poté fare altro che annunciare la morte del giovane al fronte, e spiegare a Rosai l’impossibilità di fargli avere quegli scritti, «perché Agnoletti se ne serve per fare un lungo articolo sul nostro amico. In quell’articolo vedrai alcune buone cose sue citate»23. Il breve scritto fu pubblicato nel 1917, all’interno di Dal giardino all’Isonzo, stampato a Firenze dalla Libreria della Voce. Né fu questo l’unico omaggio all’amico caduto, poiché ne scrisse approfonditamente in Il bordone della poesia, e, come detto, curò la pubblicazione di Arciviaggio, che conteneva tutte le sue poesie. A oltre cento anni dalla scomparsa, di questo atipico intellettuale italiano resta soltanto una piccola produzione poetica, purtroppo poco conosciuta, ma che sorprende per la sua eleganza lirica e la sua profondità d’indagine, e ci tratteggia un uomo forte, rudemente nobile, fiero della sua terra e desideroso di lasciare una sua traccia. Una traccia ancora viva, che affascina e commuove.

22 O. Rosai, Lettere 1914-1957, Prato 1974, p. 64. 23 Ivi, p. 698.

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«Dal Bisenzio al Volturno» L’avventura garibaldina di Ferdinando Giraldi

Di Niccolò Lucarelli

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erdinando Giovanni Maria Giorgio Giraldi nacque a Prato il 6 luglio 1828 da Domenico e Colomba Gacci (seconda moglie del padre, dopo la scomparsa della prima, Maria Anna Lulli), primo di altri sei fratelli, ovvero Teresa, Pietro, Ester, Giuseppe, Giovanna, Rosa ed Egisto. Ferdinando fu battezzato in Cattedrale la mattina del 7 luglio da don Fortunato Brizzi1. Terminati gli studi, entrò nella bottega del padre, commerciante a Prato, ma, in parallelo, si interessò anche alla causa patriottica, che in città aveva in Pier Cironi (1829-1862) il suo più autorevole esponente. Nato a Coiano, si avvicinò alle idee mazziniane sotto l’influenza di Jacopo Martellini (vicecancelliere del tribunale di Prato, e collega del padre). Il suo primo gesto eclatante, fu quello di percorrere le vie di Firenze agitando il tricolore, il giorno della concessione della Guardia Repubblicana, il 12 settembre 1847. Fu successivamente deputato dell’Assemblea Toscana, fra il 1848 e il 1849, e a seguito della restaurazione fu condannato al carcere. Ne uscì comunque dopo pochi mesi, grazie a un’amnistia granducale. Approfittò della ritrovata libertà per continuare la sua attività segreta di propaganda tra Prato e Firenze, e venne di nuovo condannato al domicilio coatto a Prato nel 1857, dove concentrò la sua attività patriottica, presiedendo il Comitato mazziniano2. Giraldi, che pur aspirava all’Italia unita, nutriva invece sentimenti monarchici, Appena ventenne, si era arruolato volontario nelle Truppe Toscane, dove militò fino al 1849 con il grado di Sergente. La restaurazione del Governo Granducale, l’anno successivo, determinò la fine di quell’esperienza, che lasciò in Giraldi un segno profondo al punto da stringere amicizia con il 1 Archivio Storico Diocesano di Prato (da ora in poi A.S.D.Po), Archivio del Capitolo

n. 2310 (battesimi 1827-1832) c. 28 n. 272, 7 luglio 1828. 2 E. Sestan, P. Cironi, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1982, pp. 1-6.

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«Dal Bisenzio al Volturno» Di Niccolò Lucarelli

concittadino Martino Pampaloni, già suo Capitano con i volontari, e che all’inizio degli anni Cinquanta lo introdusse nel Comitato Rivoluzionario pratese che si riuniva alla Villa del Palco, del quale facevano parte, fra gli altri, Jacopo Martellini, Antonio Martini, Gaspero Troni e Filippo Alberghetti. Tuttavia, sulle prime, la sua attività non fu particolarmente incisiva, limitandosi il Giraldi a partecipare ad alcune loro riunioni. Tuttavia, la sua presenza in quell’ambiente non era sconosciuta alla Polizia Granducale, che nel 1857 lo convocò in qualità di testimone, nel processo intentato contro Jacopo Martellini e altri, per possesso di carte sovversive. Nel corso dell’interrogatorio, Giraldi rilasciò le seguenti dichiarazioni: «Nego di aver fatto parte di associazioni politiche; conosco bene Jacopo Martellini, fin prima dalla gioventù. Non ho avuto noie con la giustizia tranne che due perquisizioni (in casa ed in bottega), di cui il processo verbale del 28 settembre 1851 mi assolveva; l’altra fu compiuta il 17 gennaio 1853 sulla sua (sic) persona proveniente con il vapore da Firenze, ma non mi fu trovato nulla addosso. (…) Conosco anche Antonio Martini e sono stato in casa sua una volta, trenta mesi fa, per farmi curare un cavallo»3. Dichiarazioni dalle quali si evince come la Polizia Granducale lo avesse controllato anche in passato; tuttavia, la condotta di Giraldi non permetteva di formulare accuse contro di lui, e gli uomini del Granduca furono costretti ad accettare le sue dichiarazioni. Alla domanda se facesse parte della società che si riuniva a Casa Colignon, presso Santa Cristina, rispose che si era ormai ritirato da tre anni da quel “gruppo di amici”, non avendo «tempo da perdere né mezzi a sciupar denaro»4. Con questa lapidaria affermazione si chiude l’interrogatorio, e Giraldi poté tornare a casa. L’episodio, non penalmente rilevante poiché lo vide semplice testimone, non lasciò su di lui tracce profonde, e la stessa Polizia Granducale non ritenne necessario proseguire con le misure di controllo. L’occasione per concretizzare il suo impegno nella causa nazionale gli capitò nel 1859, quando, assieme a Gaetano Mazzoni e Antonio Martini, Giraldi firmò l’appello ai pratesi, affinché concorressero alla sottoscrizione lanciata da Giuseppe Garibaldi per il milione di fucili alla Patria. Il testo del proclama era disponibile presso il Comando della Guardia Nazionale pratese, e presso botteghe dei cittadini Giuseppe Giovannini, Giuseppe Panichi, Gaspero Troni, Carlo Vestri. Vi si leggeva: «Bisogna che il popolo pratese si faccia vivo, che risponda alle solenni parole del Generale: che non vi sia un solo in Italia che non versi il suo obolo per la soscrizione Nazionale. (…) Si apra dunque l’anima vostra al sentimento del patriottismo»5. A Prato la sottoscrizione fu aperta dal 4 3 G. Adilardi (a cura di), Memorie di Giuseppe Mazzoni (1808-1880), Ospedaletto (Pisa)

2016, p. 143. 4 Ibidem. 5 Archivio di Stato di Prato (da ora in poi A.S.Po), Colletta per compra di fucili, Fondo

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al 14 dicembre; A quella data, si contarono 5142 sottoscrittori e 3107,91 Lire raccolte6. A questo slancio, rispose lo stesso Generale Garibaldi, con una vibrante lettera indirizzata a Piero Cironi, nella quale apprezzò lo «spettacolo imponente di generoso patriottismo offerto dalla città di Prato. (…) Porgete in nome mio e dell’Italia, una parola di gratitudine a questi generosi popolani e dite loro: se la mostra sublime di patriottismo da loto attuata per l’armamento Nazionale non avesse un plauso (…) dall’Italia intera, si potrebbe dire che questa Nazione è degradata e indegna di risorgere»7. Di lì a poco, Garibaldi avrebbe iniziata la campagna militare con lo sbarco in Sicilia del maggio 1860, e il 9 luglio del 1860, assieme ad altri concittadini, Giraldi decise di unirsi ai combattenti e salpò da Livorno alla volta di Palermo, dove sbarcò alla mezzanotte del 14 settembre. Inizialmente fu aggregato al Reggimento Malenchini - inquadrato nella Divisione Medici

Il proclama di Garibaldi per la sottoscrizione a Prato - Archivio di Stato di Prato.

Cironi, Cartella I vol. II. 6 A. Bresci, Un singolare episodio di patriottismo del popolo pratese, Prato 1933. 7 Ibidem.

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«Dal Bisenzio al Volturno» Di Niccolò Lucarelli Ferdinando Giraldi in divisa di Maggiore dell’Esercito Italiano Archivio di Stato di Prato

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Al recto della fotografia, la dedica all’amico Pier Cironi Archivio di Stato di Prato.

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«Dal Bisenzio al Volturno» Di Niccolò Lucarelli

(7a Brigata, I Battaglione, 3a Compagnia) –, poi passò nel Battaglione di Castel-Pucci - addetto allo Stato Maggiore del Colonnello Giovanni Nicotera –, e infine fu assegnato alla Brigata Spangaro, inserita nella Divisione comandata dall’esule ungherese Stefano Türr8. Completate le formalità presso il Quartier Generale, pochi giorni dopo è trasferito in Campania, e la sera del 18 si trovava in trasferimento da Caserta a Capua con il suo Battaglione; al mattino del giorno successivo ebbe luogo uno scontro a fuoco con la Cavalleria e i Bersaglieri napoletani. Di questo episodio Giraldi ci dà conto in una lettera ad Antonio Martini, inviata da Santa Maria di Capua il 2 ottobre del 18609: «Il Colonnello Spangaro (bravo soldato) mi ordinò di mandare una Compagnia a intimare la resa, (…) mandai la 9a Compagnia comandata dal Capitano Blanc, (…) egli andò e fece l’intimazione ma le (sic) fu risposto con una scarica, allora s’impegnò una viva fucilata, ma il povero Blanc restò gravemente ferito alle prime fucilate, allora andai io con altre due Compagnie, e fugammo subito la Cavalleria, ma ci rimaneva (sic) due Battaglioni Cacciatori Napol. che ci tiravano a bersaglio. Nel tempo che davo l’ordine al Capitano Paoletti di andare in un dato luogo, una palla le (sic) fracassa il revolver che teneva infilato nel cinturone; avvertii che quella roba era per me, perché il Colonnello, Blanc e io avevamo commesso l’imprudenza di avere la camicia rossa, tutti gli altri no». Una scelta spavalda, determinata sia dall’irruenza giovanile, sia da una sincera folgorazione per il campo di battaglia: «Ma se capiste che armonia è quella delle palle che escono dalle carabine rigate, in verità rimarreste»10. E da buon pratese, non frena la penna nei confronti di chi non si è arruolato per la causa nazionale e trova più comodo discuterne al caffè: «Dici a cotesti ciarlieri che venghino (sic) qua e non stare al caffè, a tagliare giubbe, che le più volte si sbaglia taglio»11. L’episodio cardine della campagna militare garibaldina nel napoletano fu la battaglia del Volturno, che ebbe luogo fra il 30 settembre e il primo ottobre. Il 30 i borbonici avevano tentato un’offensiva per sfondare la linea nemica e puntare su Santa Maria a Valogno, ma furono arrestati dal fuoco di due compagnie della Brigata Spangaro, attestate a San Iorio. Ed è probabile che lo stesso Giraldi vi si trovasse coinvolto. La battaglia principale si svolse il giorno successivo, lungo la sponda meridionale del Volturno, e vide impegnati circa 24.000 garibaldini contro circa 50.000 borbonici12. Questo lo schieramento 8 Archivio di Stato di Torino (da ora in poi A.S.To), Fondo Ministero della Guerra,

Esercito Italia Meridionale, ruoli matricolari, mazzo 4, registro 9, e mazzo 53, registro 244. 9 A. Petri, Il Garibaldino Ferdinando Giraldi (epistolario inedito), in AA.VV., Prato e la rivoluzione toscana del 1859, Prato 1959, p. 129. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 C. Cesari, La campagna di Garibaldi nell’Italia Meridionale. (1860), Roma 1928.

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garibaldino: a sinistra, tra San Tammaro e Santa Maria Capua Vetere, era schierata la 16a Divisione Cosenz, composta da circa 4000 uomini; poco più a nord, nel settore di Sant’Angelo in Formis, alle pendici del Monte Tifata, era schierata la 17a Divisione (Medici) con altri 4000 effettivi; nei dintorni di Caserta stazionava la Brigata Sacchi (2000 uomini); la collina di Castelmorrone era presidiata dal battaglione Bersaglieri di Pilade Bronzetti (270 uomini); infine, sul lato destro, la 18a Divisione di Nino Bixio (5600 uomini) presidiava Ponti della Valle e gli accessi a Maddaloni; la 15a Divisione (4700 uomini) al comando di Türr, e dove militava Giraldi, era stata lasciata di riserva a Caserta. L’Esercito Napoletano ritentò l’attacco in direzione del centro dello schieramento nemico, fra Sant’Angelo e Santa Maria Capua Vetere, per romperlo e raggiungere così Caserta e Napoli. E l’impresa fu sfiorata, poiché i Cacciatori Napoletani accerchiarono Garibaldi mentre si stava spostando da Santa Maria a Sant’Angelo, e il Generale riuscì ad aprirsi la strada fino al Monte San Iorio grazie all’intervento della VII Compagnia della Spangaro, e riunendosi alla Divisione Medici guidò il contrattacco finale.

La Battaglia del Volturno in una stampa dell’epoca.

Giraldi ebbe un ruolo marginale nella battaglia del Volturno, poiché il grosso della sua Divisione fu lasciata di riserva, ma ciò non toglie che dalle 38

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lettere successive traspaia l’orgoglio di essere fra i volontari garibaldini e la soddisfazione per gli obiettivi raggiunti dopo altri aspri combattimenti, ai quali ovviamente prese parte. Da Caserta, dov’è acquartierato, così scrive il 16 ottobre ad Antonio Martini: «Noi siamo qui reduci dal campo (fino dalla notte del 14) ove siamo stati per venticinque giorni continuamente sotto i proiettili dei cannoni nemici, ma almeno sono state coronate di gloria le nostre fatiche»13. A entusiasmare Giraldi, anche la stima nella quale Giuseppe Garibaldi manifesta ai suoi volontari: «Questa mattina il Generale Garibaldi ha passato in rivista tutta la Divisione Türr e ci ha fatto un tale elogio da esserne veramente superbi. Ci ha detto (…) “con soldati come questi posso tentare qualunque impresa, sarò sempre sicuro della vittoria”. Il Battaglione ha risposto con calorosi applausi»14. Scorrendo la lettera, si ha modo di notare anche i personali successi del garibaldino pratese, poiché: «Nel defilare io col mio Battaglione, Garibaldi ha domandato il mio nome al mio Colonnello, forse mi farà Maggiore? Benché da un mese sia capo Battaglione, sono sempre Capitano, ma sono contentissimo anche così, perché ho trecento Franchi il mese di paga, un bellissimo cavallo sotto, e due foraggi per mantenerlo»15. In mezzo alle soddisfazioni materiali, Giraldi non nasconde il compiacimento per essere «benissimo veduto da tutta la Brigata, e specialmente dal Colonnello»16. Da notare, nella medesima lettera, il secco respingimento di certe polemiche sui dissapori fra volontari ed effettivi piemontesi (inviati nel frattempo da Cavour): «Il nostro campo lo cedemmo alle truppe piemontesi. In risposta ai ciarloni di costà, che parlano di difficoltà fra il nostro Esercito e quello Sardo Italiano, digli che tutte le truppe che sono nel già Regno di Napoli sono sotto gli ordini di Garibaldi!!»17. Fra le notizie personali, ne intercala alcune relative agli altri pratesi al fronte: «Margheri e mio fratello (Paolo, NdA), si sono portati egregiamente al fuoco»18. Il loro valore era stato ricompensato con la nomina a Luogotenenti. Frattanto, il 26 ottobre, le Province Meridionali venivano ufficialmente consegnate dal Generale Garibaldi a Sua Maestà Vittorio Emanuele II. La guerra era finita con la vittoria dei patrioti. Intanto, l’inserimento di Giraldi nell’organico della Divisione proseguiva con buoni risultati. In una lettera spedita da Napoli ad Antonio Martini, il 31 gennaio del 1861, scriveva come fosse stato ad Acerra, al seguito dell’ex comandante della Brigata, che adesso passato al comando dell’intera Divisione Türr, lo ha voluto nel suo Stato Maggiore: «Fece un Ordine del 13 Petri, Il Garibaldino Ferdinando Giraldi, p. 131. 14 Ibidem. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 17 Ibidem. 18 Ibidem.

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Giorno che mi nominò Capitano di Stato Maggiore generale, addetto allo Stato Maggiore della XV Divisione, e specialmente incaricato della cassa e dell’amministrazione»19. Un incarico di assoluta fiducia, che dimostra la stima della quale godeva il giovane pratese; anche le sue condizioni economiche hanno subito un miglioramento: riceve infatti 12,84 Franchi al giorno, ed è comodamente alloggiato all’Hotel delle Isole Britanniche, situato in Riviera di Chiaia, come riportato nella medesima lettera. Il soggiorno napoletano è però destinato a concludersi presto, poiché la Divisione Türr è stata destinata di guarnigione a Mondovì. L’ultima lettera dalla Campania, è datata 8 febbraio 1861, «Credi pure che mi duole a lasciare questo Paradiso Terrestre, con quattrocento Franchi il mese, con compagni veramente chich (sic) e altro»20. Rientrato in Piemonte, Giraldi prestò servizio nell’Esercito Italiano fino al luglio del medesimo anno, quando si congedò con il grado di Maggiore, promozione ottenuta per il comportamento tenuto sul campo di battaglia. Infatti, Giraldi fu tra i migliori combattenti che la città di Prato abbia dati al Risorgimento, e per il valore da lui dimostrato in combattimento fu anche decorato con la Medaglia al Valor Militare, conferitagli con Regio Decreto del 12 giugno 186121. Una volta tornato nella città natale, riprese l’attività di commerciante nella bottega del padre, fino a quando, il 6 ottobre 1871, costituì con il fratello la “Società Commerciale in nome collettivo Ferdinando ed Egisto Giraldi”, che si occupa principalmente della compravendita di legname22. Tuttavia, il 22 novembre 1885 si ritirò dalla società la cui attività venne proseguita dal solo fratello, sotto la dicitura “Ditta Egisto Giraldi”23. I motivi di tale scelta si devono rintracciare nell’impegno che lo assorbiva nella Banca Pratese, della quale, il 3 novembre 1877, era stato tra i fondatori. Costituita in società anonima, la banca aveva sede al civico 422 di via Magnolfi24; poco dopo, ne fu nominato direttore. La banca si sciolse il 15 novembre del 1891, contemporaneamente all’istituzione della sede pratese della Banca Nazionale nel Regno d’Italia25, all’interno della quale Giraldi fu confermato nella carica.

19 Ivi, p. 133. 20 Ibidem.

21 A.S.To, Fondo Ministero della Guerra, Esercito Italia Meridionale, ruoli matricolari, mazzo

4, registro 9, e mazzo 53, registro 244. 22 Archivio di Stato di Firenze (da ora in poi A.S.Fi), Camera di Commercio di Firenze, Registro delle Società: Banca dati nn. 1-3600, 1883-1923, p. 88. 23 A.S.Fi, Camera di Commercio di Firenze, Registro delle Società: Banca dati nn. 1-3600, 1883-1923, p. 88. 24 Ivi, p. 12. 25 Ibidem.

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«Dal Bisenzio al Volturno» Di Niccolò Lucarelli

Si spense a Prato, il 5 gennaio del 1893, e l’orazione funebre si tenne tre giorni dopo in Cattedrale. Alla commemorazione che si tenne quella sera stessa, rievocarono l’amico scomparso l’avvocato Ulpiano Pampaloni, il deputato, Cavaliere e avvocato Arturo Carpi, l’avvocato Osea Pini e l’amico Banco Tanini. Ferdinando Giraldi riposa al cimitero della Chiesanuova, e sulla tomba campeggia il suo busto scolpito dal suo concittadino Oreste Chilleri (18721926).

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«Dalle ceneri di questo conflitto nascerà un’Italia più forte» di Niccolò Lucarelli

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ell’ottica di una ridefinizione del rapporto dell’intellettuale e dell’artista con l’esistenza – che a sua volta risentiva del clima inquieto di fine Ottocento –, Ardengo Soffici sviluppa un sentire poetico di caratura “totale”, sulla scorta dell’avventura poetica, al limite del leggendario, del suo collega d’Oltralpe Arthur Rimbaud (1854-1891). In una simile euforia artistica, la Prima Guerra Mondiale venne salutata quale occasione per trovarvi quegli allori che sarebbero stati il degno coronamento a una vita “sopra le righe”, grazie a quel clima «meno ipocrita e meno borghese» imposto dalle dure condizioni della trincea, un’occasione per mettere alla prova la letteratura con la vita, per poter finalmente incidere con decisione sul corso degli eventi. Sin dal 1913, dalle pagine della rivista Lacerba, fondata a Firenze il 1 gennaio di quell’anno assieme a Giovanni Papini, Ardengo Soffici dichiara in maniera netta la sua adesione al nazionalismo. All’indomani della dichiarazione di guerra alla Serbia da parte dell’Austria, la rivista si getta immediatamente nel dibattito tra interventismo e neutralità, come Soffici aveva suggerito al collega: «Carissimo, gli avvenimenti che si svolgono in questo momento in Europa sono troppo gravi per poter fare a meno di occuparsene. (…) Credo dunque che Lacerba dovrebbe pigliar parte in qualunque modo alle manifestazioni spirituali del momento»1. Disgustato dalla mediocrità politica e sociale dell’Italia di Giolitti, Soffici cerca una realtà ben diversa, che nasca dalle ceneri di un profondo sconvolgimento quale appunto soltanto la guerra può portare; è attratto dalla dimensione epica della guerra, dove poteva trovare sfogo un’intera generazione di artisti, cresciuta nella convinzione della “morte di Dio”, nel mito Niccolò Lucarelli, giornalista culturale. 1 Lettera a Papini del 4 agosto 1914, in Giovanni Papini-Ardengo Soffici Carteggio Vol. II 1901-1915, Roma 1999.

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«Dalle ceneri di questo conflitto nascerà un’Italia più forte» di Niccolò Lucarelli Ardengo Soffici in divisa da ufficiale, Museo Soffici e del ‘900 italiano, Archivio fotografico.

della modernità e del Superuomo. Uno stato d’animo che non manca di esternare su Lacerba: «Socialista, neutrale, intervenzionista o indifferente, il pubblico italiano è anzitutto incosciente e nullo. Una piccola, pidocchiosa vita poveramente vissuta senza rischi e senza eroismi è il suo sogno supremo»2. Soffici auspica che l’Italia intervenga nel conflitto con eroico sforzo militare sul Carso e in Trentino, convinto del suo ruolo determinante per la vittoria della Triplice Intesa, e resta quindi profondamente deluso dal tiepido atteggiamento di Giolitti, incline alla neutralità. Ma al di là delle questioni legate all’irredentismo, la novità dell’atteggiamento di Soffici sta in un interventismo in chiave spiccatamente anti-tedesca, mentre la stampa italiana vedeva nell’Impero Asburgico il solo nemico da combattere. Il ragionamento di Soffici ha invece respiro europeo, poiché immagina, all’indomani del conflitto, una Germania che avverserebbe le mire espansionistiche italiane: «È la Germania che agogna e vuole Trieste, Pola, Fiume, il dominio sull’Adriatico. È la Germania che vuole Salonicco e l’Egeo»3, e più avanti la definisce un Paese «organismo di forze brute formidabili, incivili, indirizzate contro la libertà dei popoli d’Europa»4. Con simili parole, Soffici adombra il rischio che, anche in caso di una sconfitta austriaca e dell’ottenimento del Trentino, la Germania troverebbe un facile pretesto nello status di città libera assegnato a Trieste, per provocare l’Italia e trascinarla in un nuovo conflitto. Quindi, Soffici dà per certa la fine degli Asburgo, mentre ipotizza l’esistenza dell’Impero tedesco anche nel dopoguerra (sempre che l’Italia non si decida a intervenire). Particolarmente inquietanti, però, suonano le sue parole a proposito delle forze brute che avversano la libertà, parole che troveranno tragica attuazione negli anni della dittatura nazista. Per dirla con Manzoni, l’è chiara che l’intenderebbe ognuno: l’intervento italiano permetterà in primo luogo di chiudere onorevolmente la questione dell’irredentismo, e, in secondo, di liquidare la Germania ponendo le basi per il dominio di Roma nei Balcani e nell’Egeo. Lo stesso Soffici spiega la sua avversione per la Germania in modo, se vogliamo, appena pretestuoso: nel clima di fiducia e speranza portato dal progresso tecnologico e scientifico, che a sua volta aveva aperte le porte all’ottimismo della Belle Époque, («poche questioni ci sembravano ormai, se non insolute, 2 A. Soffici, Vomito, in «Lacerba», 3 gennaio 1915, n. 1 anno III. 3 Ibidem. 4 Ibidem.

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Ardengo Soffici guida una compagnia di fanteria, Museo Soffici e del ‘900 italiano, Archivio fotografico.

insolvibili»5), ai primi del Novecento, a suo dire, l’Europa sembrava aver raggiunto una particolare maturità sociale e politica, tale da non considerare più la guerra un mezzo degno della dialettica politica fra Stati, e la disciplina civile e militare apparivano concetti desueti. A rompere questo clima di concordia, quella che Soffici definisce “l’imbecillità tedesca”, che offusca il progresso sociale con il nazionalismo e la violenza. Il clima bellico che dal 1914 si respira nel Continente, è l’ovvia conseguenza della provocazione tedesca, così come il ritorno di concetti quali patria, disciplina, militarismo: «L’Europa, insomma, pensa, parla ed opera in un modo che i suoi nemici le hanno imposto»6. Ottenere Trento e Trieste per via di accomodamenti diplomatici, e in cambio della neutralità, costituirebbe per l’Italia un’ineffabile bassezza, oltre a macchiarsi di vigliaccheria per non aver contribuito alla definitiva liquidazione della Germania. In quest’ottica, con provocatorio paradosso, dalle pagine di Lacerba del 27 marzo, Soffici ammira l’atteggiamento dell’Austria, che continua a negare all’Italia ciò che questa non riesce a strapparle con le armi. A ridosso dell’entrata in guerra, Soffici è tra i firmatari dell’appello apparso su Lacerba il 15 maggio, in cui si ribadisce con forza la necessità di dichiarare guerra 5 A. Soffici, La vittoria della Germania, in «Lacerba» 17 gennaio 1915, n. 3 anno III. 6 Ibidem.

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«Dalle ceneri di questo conflitto nascerà un’Italia più forte» di Niccolò Lucarelli

Lacerba 11 maggio 1915

agli ex alleati della Triplice, e si incita il popolo a sollevarsi contro Giolitti e la sua pavida neutralità. Preso dall’euforia del clima che vede gli interventisti ormai trionfanti, con fare tutto italiano, Soffici contraddice quanto affermato pochi mesi prima circa le responsabilità della Germania: «Sebbene, indirettamente, l’Italia è stata quella che ha aperto con la guerra di Libia la presente conflagrazione capace di dare all’Europa un assetto più normale e soddisfacente, tutto fa credere che l’Italia, con la guerra imminente, potrà determinarne la fine»7. A ben guardare, la sbandierata concordia europea guastata dall’atteggiamento tedesco, è soltanto una scusa di comodo per giustificare in primo luogo le malaccorte mosse di politica estera dell’Italia, e in secondo i suoi tentativi di atteggiarsi a potenza militare di primo piano. Poco oltre, il nazionalismo di Soffici emerge nel severo commento ai tentativi diplomatici di Giolitti, intenzionato a risolvere la questione dell’irredentismo per via diplomatica: «Leggo e mi vengon raccontate assurdità schifose a proposito del Bülow e dell’offerta del Trentino che l’Italia accetterebbe come pourboire per la sua vigliaccheria. È possibile una tale infamia? (…) Quel Giolitti può essere ignobile davvero. (…) La vile canizza giolittiana, l’ignobile, losco, vomitativo Giolitti, gli analfabeti dell’Avanti, i preti, i giornalisti venduti, i generali bulowiani, (…) con che moneta pagheranno prossimamente, quando l’Italia (…) troverà il momento di fare i conti con essi?»8. A dichiarazione avvenuta, sull’ultimo numero di Lacerba, Soffici si congeda dai suoi lettori con veemente entusiasmo: «È difficile per ora calcolare la portata di questo atto che mette senz’altro la nostra nazione (sic) all’avanguardia dell’Europa: rallegriamoci intanto dei primi resultati. Giovanni Giolitti l’infame ruffiano, il famoso ladro, il sicario della barbarie, è stato debellato. (…) Alleggerita di questa zavorra, l’Italia nuova, la vera (…) potrà finalmente respirare ed agire»9. Pochi giorni dopo, coerentemente con quel fuoco dell’amor di Patria che ardeva in lui, Soffici partì volontario, e operò presso il Comando della Seconda Armata, un’esperienza della quale ci ha lasciato gli scritti Kobilek, e La ritirata dal Friuli. A onore del vero, al relativo riparo degli alti comandi, impiegò al fronte un po’ meno di quell’ardore che aveva dispiegato sulle pagine di Lacerba. Ma questa è un’altra storia. 7 A. Soffici, Sulla Soglia, in «Lacerba», 15 maggio 1915, anno III. 8 Ibidem.

9 A. Soffici, Memento, in «Lacerba», 22 maggio 1915, n.21 anno III.

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