Antologia Vieusseux

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L’Antologia Vieusseux è un periodico quadrimestrale di letteratura, storia, scienze e arti pubblicato dal Gabinetto Scientifico-Letterario G.P. Vieusseux di Firenze e tuttora in attività.

Indice Storia L’«Antologia Vieusseux». Nuova serie Note Bibliografia

Storia

Antologia Vieusseux Stato

ItaliaItalia

Lingua

italiano

Periodicità

quadrimestrale

Genere

rivista letteraria

Fondatore

Alessandro Bonsanti

Fondazione 1966 Sede

Piazza Strozzi Firenze

Editore

Gabinetto Vieusseux

ISSN

1124-3678

Sito web

www.vieusseux.it/ (http

s://www.vieusseux.it/) La rivista venne fondata da Alessandro Bonsanti nel 1966 presso il Gabinetto Vieusseux, con periodicità trimestrale, riallacciandosi all'esperienza della vecchia Antologia, il mensile pubblicato a Firenze (1821-1833) da Giovan Pietro Vieusseux e Gino Capponi, la più nota rivista italiana della prima metà del XIX secolo - la cui pubblicazione ebbe avvio nel gennaio del 1821, ad un anno esatto dall’apertura in palazzo Buondelmonti, in piazza Santa Trinita a Firenze, del Gabinetto scientifico letterario che del padre fondatore porta il nome.

Nell'editoriale del primo numero (gennaio-marzo 1966) Bonsanti, alla guida del Gabinetto dal 1941, illustrò il carattere del progetto: «Fin dall’immediato dopoguerra fu evidente che il Gabinetto G. P. Vieusseux doveva [...] tornare ad essere un Istituto dagli interessi culturali ampi, dinamici, attuali [...]. E fu anche chiaro che fra le iniziative da prendersi, la pubblicazione di un organo periodico, dove alcune ragioni di tipo ricorrente fra quelle che avevano spinto Gian Pietro Vieusseux a farsi editore dell’Antologia sarebbero apparse di nuovo valide, doveva avere la precedenza». A conferma dell’esplicita volontà di ispirarsi all’esperienza della vecchia «Antologia», sull’apertura del primo numero del nuovo periodico era riprodotta l’immagine della rivista ottocentesca, con una dettagliata scheda bibliografica e, nei numeri successivi, veniva proposto un «florilegio» degli articoli. La rivista intendeva trattare temi di ordine letterario e storico, sociale ed economico per offrire spunti di riflessione e approfondimento sulla contemporaneità con un approccio interdisciplinare, «evocatore di mondi lontani», come avrebbe scritto Giovanni Spadolini. Non a caso, dunque, tra i collaboratori troviamo nomi di intellettuali come Piero Barucci, Gianfranco Contini, Edoardo Boncinelli, Mario Luzi, Carlo Bo, Franco Cardini, Giovanni Spadolini, Domenico De Robertis, Michele Ranchetti, Luigi Baldacci, Alessandro Parronchi, Paola Barocchi, Eugenio Garin. Nel 1986, due anni dopo la morte di Alessandro Bonsanti (18 febbraio 1984), la rivista cessò le pubblicazioni. I motivi furono vari e la chiusura venne annunciata da Marino Raicich (che diresse il Gabinetto Vieusseux tra l’aprile 1980 e il dicembre 1984) nell’editoriale del penultimo numero: «Paradossalmente questa rivista, fondata da Bonsanti quando aveva compiuto sessanta anni, l’ultima sua rivista, dopo l’impresa giovanile di Solaria, dopo i frutti dell’età matura, Letteratura, Il Mondo, è stata la sua rivista di più lunga vita. In essa egli ha continuato ad esercitare in un più discreto recinto, con lucidità, l’antico suo mestiere: trovare collaboratori di sperimentata capacità tra i suoi compagni di strada e scoprire giovani e sconosciuti studiosi e avviarli al lavoro», i quali tutti «hanno scritto per noi senza nulla chiedere se non qualche pagina per ragionare e per testimoniare l’affetto a questo Istituto e forse, soprattutto, a Bonsanti». Dopo la breve esperienza della rivista «il Vieusseux» (21 numeri usciti dal gennaio 1988 al dicembre 1994), volta soprattutto alla riproduzione di documenti inediti conservati presso l’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux (tra cui, autografi di Giulia Beccaria, Giuseppe Montanelli, Eugenio Montale, Giuseppe De Robertis, Sandro Penna, Romano Bilenchi, Amelia Rosselli, Anna Banti, Vasco Pratolini), nel 1995 Enzo Siciliano, allora alla guida del Gabinetto, avviò le pubblicazioni di una nuova serie della «Antologia Vieusseux»


L’«Antologia Vieusseux». Nuova serie

La nuova serie dell’«Antologia Vieusseux», rivista del Gabinetto Vieusseux, venne quindi fondata sotto la direzione di Enzo Siciliano e la presidenza di Giovanni Ferrara nel 1995, con l’intenzione di rinnovare l’esperienza della rivista fondata da Bonsanti nel 1966, come si legge nell’articolo di apertura del primo numero: «Mi si lasci dire che, nel proporre il primo fascicolo della rinnovata “Antologia Vieusseux”, un fascicolo che accompagna il mio insediamento alla direzione del Gabinetto, la volontà di precisare quale fosse lo spirito che nutriva i suoi “padri fondatori” non mi è stata estranea. Anzi, è stata l’intenzione deliberata, – non tanto per un confronto con il presente, né per una rivendicazione d’attualità: quanto per un contributo di conoscenza, poiché la memoria è ciò che dà alla vita sostanza, e all’intelletto materia del comporre». Se il primo fascicolo fu dedicato a Vieusseux e al suo Gabinetto, presentando ricerche in corso, il secondo numero ospitò contributi su Pier Paolo Pasolini, in occasione del ventennale della scomparsa dello scrittore, di cui l’istituto conserva le carte. Il quadrimestrale si presenta articolato in rubriche, introdotte da un editoriale, che includono saggi, ricerche in corso, informazioni sulle attività culturali e i dibattiti organizzati dal Gabinetto Vieusseux nella Sala Ferri di Palazzo Strozzi. Dal 2006, sotto la direzione di Giovanni Gozzini, è stata rinnovata la rubrica “Note di lettura”, con recensioni e interventi su Arte, Economia, Filosofia, Letteratura italiana, Letterature comparate, Musica, Scienze e Storia. Nel corso della sua storia, la nuova serie della rivista ha ospitato, tra gli altri, contributi di Dario Bellezza, Rosanna Bettarini, Piero Bigongiari, Cesare Garboli, Eugenio Garin, Sergio Givone, Enzo Golino, Giorgio Luti, Mario Luzi, Maurizio Maggiani, Fosco Maraini, Pier Vincenzo Mengaldo, Ermanno Olmi, Alessandro Parronchi, Giuseppe Pontiggia, Giovanni Raboni, Enzo Siciliano, Andrea Zanzotto. Attualmente la rivista è diretta da Gloria Manghetti (direttore responsabile) e da un comitato di redazione. Viene pubblicata dalle Edizioni Polistampa di Firenze e aderisce a CRIC - Coordinamento delle riviste italiane di cultura, che promuove la diffusione e la lettura delle riviste culturali, in particolare nei circuiti educativi e dell'informazione, all'interno del territorio nazionale e all'estero. Fondato a Roma da Federico Coen nell'aprile 2003, CRIC è attualmente presieduto da Valdo Spini. La rivista è inserita nell'elenco delle riviste scientifiche ANVUR per l'area 10 e l'area 11

Articoli pubblicati sulla Rivista da Niccolò LUCARELLI

- D’Annunzio a Fiume: un’impresa patriottica e giornalistica su Antologia Vieusseux Anno 2019 – 75 – Annata: XXV – N. 75 - Il Giovane Malaparte alla Grande Guerra su Antologia Vieusseuex, Anno 2018 – Annata: XXIV – N. 70


Niccolò lucarelli

D’Annunzio a Fiume: un’impresa patriottica e giornalistica

«La vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intero dalla libertà». Così recita, al secondo comma, il Fondamento XIV della Carta del Carnaro promulgata l’8 settembre 1920. Accanto al testo strettamente giuridico di De Ambris, Gabriele D’Annunzio volle aggiungere il suo, aulico e denso di suggestioni poetiche, richiami alla Bellezza, alla Libertà, alla concordia civile. La tradizione e la rivoluzione s’incontrarono nell’ambito dell’Impresa di Fiume, una pagina di storia patria che nacque quasi per caso, sulle ceneri ancora calde della Grande Guerra, nella quale l’Italia uscì vittoriosa al fianco dell’Intesa. E a Versailles si trovò a dover gestire la controversa situazione della città di Fiume, che a rigor di termini non rientrava nelle spettanze, perché nell’aprile del 1915, al momento di siglare il Patto di Londra, non venne inserita fra le acquisizioni territoriali garantite in caso di esito favorevole del conflitto: in primo luogo soltanto metà della sua popolazione era di sangue italico, e in secondo la sopravvivenza dell’Impero Austro-Ungarico veniva data per sicura anche dopo le ostilità, e, persa Trieste, l’unico sbocco sull’Adriatico sarebbe rimasto appunto la città di Fiume. Con un gesto di cavalleria diplomatica, la questione fiumana venne così evitata. Almeno nelle intenzioni. Nella realtà, nel 1918, ancora prima dell’armistizio con l’Impero Austro-Ungarico, precisamente il 29 ottobre, si costituì a Fiume il Consiglio nazionale italiano, presieduto


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dal medico-chirurgo Antonio Grossich,1 il quale Consiglio si adoperò per far sì che la Conferenza di Versailles riconoscesse l’italianità della città. Ma in Francia il clima per l’Italia non era dei migliori; al tavolo delle trattative, il presidente americano Wilson era ben deciso a imporre i suoi 14 punti fra cui il principio di autodeterminazione dei popoli. Per questo motivo, il Patto di Londra veniva sostanzialmente sminuito, e gli unici tangibili guadagni territoriali per l’Italia furono il Trentino e il Friuli, su cui Wilson riconosceva specifici diritti al nostro Paese. Non così per Fiume. In aggiunta, la malaccorta scelta di Orlando e Sonnino di abbandonare le trattative, in segno di protesta contro la scarsa sensibilità verso le richieste italiane, non contribuì a migliorare la situazione. La città venne posta sotto la tutela provvisoria di una forza militare interalleata, a guida italiana, una scelta che dimostra anche la leggerezza con cui a Versailles si cercava di dirimere la spinosa questione; il generale Grazioli che comandava la piazza, acceso nazionalista, non dispiegò particolari energie per impedire le quotidiane manifestazioni irredentiste che quasi sempre finivano con incidenti più o meno gravi contro le pattuglie della forza interalleata. L’ennesimo di questi, il 6 luglio 1919, vide il linciaggio di nove militari francesi, episodio che provocò la forte reazione di Clemenceau, che chiese di porre Fiume sotto diretta amministrazione alleata. Fu

Antonio Grossich (1849 - 1926) è stato un medico e patriota italiano. Nato nell’istriana Draguccio si laureò in medicina a Vienna nel 1875. Dopo il servizio militare in Sanità nella campagna di Bosnia del 1877-78 rientrò a Vienna dove si specializzò in chirurgia e lavorò presso la clinica universitaria, da dove scelse di trasferirsi a Fiume alla metà degli anni Ottanta. Qui avviò anche la sua attività politica a difesa dell’identità italiana, aderendo nel 1897 al Partito Autonomista Fiumano e venendo eletto consigliere comunale l’anno successivo. Nel 1908 assurse alla fama mondiale, grazie all’invenzione della tintura di iodio, efficace disinfettante che tante volte contribuì a salvare nei conflitti del primo Novecento. Il 29 ottobre del 1919 fondò il Consiglio nazionale italiano e proclamò l’autonomia di Fiume. Attivo sostenitore dell’impresa dannunziana, dopo il «Natale di sangue», Grossich fu governatore provvisorio dello Stato libero di Fiume dal gennaio all’aprile 1921. Dopo l’annessione della città, per i suoi meriti scientifici e patriottici fu nominato Senatore del Regno nel 1923. Morì a Fiume il 1º ottobre 1926. 1


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allora che Host-Venturi,2 d’intesa con Grossich e gli altri membri del Consiglio nazionale italiano, preoccupato di veder svanire l’annessione, scrisse a D’Annunzio un’ultima, drammatica lettera che suonava come un appello alle armi, e lo invitava ad accorrere in soccorso della causa italiana. Non si dimenticava, infatti, come il Vate si fosse personalmente speso per l’intervento nel 1915 e avesse poi ideate e condotte numerose ed eroiche imprese di guerra. Venturi aveva costituito nella primavera del ’19 la Legione Fiumana, reclutando decine di volontari fra gli ex combattenti, e avviato un carteggio con D’Annunzio, che si era tradotto nella sua audace campagna stampa a sostegno della causa. In luglio, la situazione in città andava rapidamente evolvendo: i reparti italiani della forza interalleata mostravano apertamente di solidarizzare con i nazionalisti, così come i reparti dislocati in Istria. A questi si aggiungeva la Legione di Venturi, che aveva già preso contatti con il Reggimento Granatieri di Sardegna di stanza a Ronchi comandato dal Maggiore Carlo Reina. Insieme concertarono la spedizione su Fiume, offrendone il comando a D’Annunzio nei primi giorni di settembre. Il Vate accettò di slancio, conducendo la marcia delle truppe che entrarono trionfalmente in città nella notte fra l’11 e il 12, senza incontrare resistenza. Iniziava un’impresa politica e militare, che fu anche la sublimazione di un’utopia nella quale le questioni patriottiche si fondevano con quelle sociali. A Fiume italiana D’Annunzio lavorò al progetto di una società basata sull’estetica civile, un curioso ma affascinante mélange di Platone, Wilde, Nietzsche. All’esaltazione della vita eroica, D’Annunzio affiancava un sincero amor di Patria. Intellettuale decadente, lo animava la volontà di superare modelli socio-politici ormai desueti creando una sorta di moderna Atene,

2 Giovanni Host-Venturi (1898-1980) nacque Host-Ivessich a Fiume, ma nel 1915, volontario nell’Esercito Italiano, italianizzò il cognome per evitare rappresaglie ai familiari rimasti in Istria. Al fronte ottenne due Medaglie d’Argento al Valore nel 7° Reggimento Alpini, e una nel XIII Reparto d’Assalto degli Arditi. Nell’aprile del 1919 fondò la Legione Fiumana e indirizzò al Vate l’appello a difendere la causa nazionalista. Finita la Reggenza del Carnaro, aderì al Fascismo nel 1921 e dopo l’annessione della città fu Segretario Provinciale della Federazione Fascista di Fiume dal 1925 al 1928. Eletto deputato nel 1934, ricoprì vari incarichi ministeriali. Repubblichino, ma senza ruoli di rilievo, dopo la guerra lasciò l’Italia per l’Argentina, dove morì suicida nel 1980, addolorato per la scomparsa del figlio Franco per mano della dittatura militare.


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dove estetica, cittadinanza, arti e scienze potessero esprimersi all’interno di un contesto politico neo-umanistico di stampo, come vedremo, guerriero. Ma quella di Fiume fu anche un’impresa giornalistico-letteraria, per vari motivi: in primo luogo, perché la propaganda a mezzo stampa era uno dei mezzi più efficaci per guadagnare consensi alla causa; in secondo luogo perché, oltre che uomo d’armi, D’Annunzio era uomo di belle e ardenti lettere, e i suoi vibranti appelli patriottici erano anche un modo per tenere in esercizio il suo talento letterario. Il «Bollettino Ufficiale» del Comando di Fiume d’Italia fu l’organo giornalistico principale del governo cittadino, creato e diretto dallo stesso D’Annunzio subito dopo l’occupazione; un settimanale che veniva stampato nella tipografia cittadina ‘La Vedetta d’Italia’.3 Nelle quattro pagine che lo costituiscono, vi si trovano bollettini militari, corrispondenza, testimonianze di Arditi e semplici cittadini, ma soprattutto ci sono i pezzi di prosa artistico-politica del Vate in cui si ritrova lo stile magniloquente, fiero e ardimentoso che aveva caratterizzato la campagna interventista, così come le sue imprese belliche. Il primo numero uscì il 12 settembre del 1919 appena prima dell’entrata, riportando il titolo «Italia o morte!». E così si rivolgeva D’Annunzio ai lettori: Sì, l’Italia oggi conosce il disonore, e senza rossore, senza rivolta. Fisa (sic) al ventre cinico ed emblematico di chi la sbigottisce e la inganna, di chi la moralizza e la corrompe, di chi la esorta e la spossa, l’Italia non pur si volge al grido figliale (sic) che dal fondo del Quarnaro le ricorda una promessa d’amore e d’onore, un patto d’amore e d’onore, un pegno giurato ed inviolabile.4

Un modo per stigmatizzare l’atteggiamento di Roma e rivendicare i suoi meriti di patriota. L’esaltazione dell’impresa proseguiva il giorno dopo, sul secondo numero del bollettino (dal 19 settembre riprese la normale cadenza settimanale), che riportava ampi stralci Pubblicava anche l’omonimo quotidiano, sulle cui pagine scrisse il commediografo pratese Sem Benelli. 4 «Bollettino Ufficiale del Comando di Fiume d’Italia», 12 settembre 1919. 3


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dell’orazione pronunciata dal Vate, fra cui questo appello: Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile Fiume è oggi il segno della libertà; nel mondo folle e vile vi è una sola cosa pura: Fiume; vi è una sola verità: e questa è Fiume; vi è un solo amore: e questo è Fiume! Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo ad un mare di abiezione.5

Il terzo numero del Bollettino è un piccolo capolavoro di sintesi fra l’elegante e magniloquente prosa dannunziana e le esigenze della propaganda politica. Nei giorni delicatissimi immediatamente successivi alla presa di Fiume, il Vate aveva forte necessità di conquistare l’opinione pubblica, ma soprattutto di avere dalla sua tutti i reparti militari di stanza in Istria. Aprendo il Bollettino con l’eloquente titolo Hic manebimus optime, D’Annunzio v’inserisce una serie di appelli di ampio respiro, a cominciare da quello rivolto ai marinai d’Italia, ovvero agli equipaggi delle navi Dante Alighieri, Nullo, Mirabello e Abba – all’ancora nelle acque prospicienti la città –, dei quali cercava la fedeltà distogliendoli dall’obbedienza al governo di Roma, che voleva delegittimare l’azione su Fiume. Per questa ragione, il Vate si rivolse a loro con queste parole: Il conduttore senza vergogna,6 che oggi inganna e disonora l’Italia, ha creduto di poter vendere questo popolo eroico come un branco di schiavi. […] Ebbene no: l’Italia vera non vive del suo ventre ma della sua idea, non si può salvare secondo la carne ma secondo lo spirito. […] L’Esercito vittorioso si ricostituisce intorno a un grido di confessione che diventa un grido di creazione: “Italia o morte”.7

Un appello galvanizzante che si conclude con un crescendo rossiniano: Marinai d’Italia, fiore della nostra razza privilegiata, voi non potete disertare la grande causa. Come sempre io fui con voi, siate

«Bollettino Ufficiale del Comando di Fiume d’Italia», 13 settembre 1919. Francesco Saverio Nitti, nda. 7 «Bollettino Ufficiale del Comando di Fiume d’Italia», 19 settembre 1919. 5 6


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1. Bollettino Ufficiale del Comando di Fiume d’Italia, 19 settembre 1919.


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con me in questa prova estrema. Io vi dico, per giuramento di verità e di purità, che con me è la patria eterna.8

Parole avvolte di misticismo, volte a creare il clima di crociata per i destini dell’Italia, quasi un battesimo per quei marinai che aderendo alla causa sarebbero divenuti «soldati di D’Annunzio», anziché di Cristo. E quasi come un novello Salvatore si pone il Vate, che si presenta come vittima della pavidità e dell’ignavia del governo, che aveva anche ordinato di bloccare l’accesso verso Fiume di viveri e generi di prima necessità, nella speranza di una capitolazione per fame. Per questa ragione, chiamando i soldati italiani a non prendere le armi contro i Legionari fiumani, il Vate scrive ancora: I disertori non siamo noi. I disertori sono quelli che abbandonano Fiume nostra, quelli che la disconoscono, la respingono, la calunniano, commettendo il più turpe delitto di lesa Patria che sia mai stato commesso in Terra […]. Il vero esercito italiano è qui, formato da voi, combattenti senza macchia e senza paura […]. Aver fatto parte di questa audacissima impresa, o miei compagni, sarà per ciascuno il più puro titolo di gloria.9

Anche negli appelli alla popolazione civile, D’Annunzio sfodera il medesimo tono di crociata. Rivolgendosi ai triestini (cittadini redenti esattamente come i fiumani, e quindi ancora più sensibili nell’accogliere le sue parole), il Vate esordisce così: Fratelli, voi sapete omai (sic) quel che abbiamo fatto, con l’ispirazione e con la protezione del Dio nostro […] Non io soltanto ma tutti obbedimmo allo spirito e fummo da ogni miseria mondi […] I soldati omai non tengono la linea e non vanno a occuparla SE NON RICEVONO ORDINI DA ME. Quelli mandati contro me con le armi, passano alla mia parte con le armi. Il contagio dell’ardore e della generosità è subitaneo. Tutti sentono che l’Italia vera è qui e che i disertori sono dall’altra banda.10

Ibid. Ibid. 10 Ibid. 8 9


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Chiarito di avere l’appoggio delle truppe, D’Annunzio rivolge ai triestini l’appello al sostegno: Ma voi dovete dimostrare al sublime popolo di Fiume la vostra fraternità militante […] Raccogliete pel popolo di Fiume viveri e denaro […] Occorre che tutta la nazione perpetui la nostra lotta nelle più diverse forme, se non vuole sdraiarsi per sempre nell’abominio e nella vergogna.

E l’appello rivolto agli italiani si chiude con un vibrante richiamo a Garibaldi, la cui statura, è oggi quella di un uomo libero che marcia a fianco di uomini liberi. […] Nominare il suo nome non è lecito a chi tradisce il popolo, a chi disonora la patria. Come alla legione lombarda di Giacomo Medici su la porta di San Pancrazio,11 egli ci grida: “Vinceremo”.12

E D’Annunzio vinse la sua prima battaglia, perché il blocco, di fatto, non venne applicato dalle truppe italiane che avrebbero dovuto provvedervi, e a Fiume giunsero aiuti economici da ogni parte d’Italia, mentre gli Uscocchi assaltavano le navi da carico che incrociavano la rada, depredandole delle derrate alimentari o chiedendo un riscatto. Di particolare importanza strategica il numero 11 del Bollettino, uscito il 25 ottobre 1919: contiene un unico scritto dannunziano che occupa tutte le quattro pagine; si commemora l’imminente primo anniversario della Vittoria, ma soprattutto il lungo cammino che ha portato all’Impresa di Fiume. Il testo è un vibrante appello al voto per il plebiscito del 26, che avrebbe potuto sancire l’annessione; scelta non ovvia, perché in città si scontravano gli annessionisti, guidati

11 Il giugno 1849, quando le truppe francesi al comando del Maresciallo Nicolas Charles Oudinot attaccarono le difese della Repubblica Romana, Giacomo Medici, da solo, oppose strenua resistenza sparando sul nemico dal Bastione del Vascello. I francesi entrarono in città il 4 luglio, ma per l’eroismo dimostrato, la Repubblica assegnò a Medici la Medaglia d’Oro al Valor Militare (nda). 12 «Bollettino Ufficiale del Comando di Fiume d’Italia», 19 settembre 1919.


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2. Gabriele D’Annunzio fra i Legionari di Fiume.

da Riccardo Gigante,13 e gli autonomisti guidati da Riccardo Zanella.14 Stigmatizzato l’atteggiamento dei plenipotenziari italiani alla Conferenza di Versailles, il Vate sostiene le ragioni dell’annessione: Riccardo Gigante (1881-1945), nacque a Fiume e sin da giovanissimo manifestò sentimenti irredentisti, dirigendo nel 1907 il periodico «La Giovane Fiume»; volontario nel Regio Esercito nel 1915, ottenne la Croce di Guerra al Valor Militare. Fu sindaco della città dal novembre 1919 al dicembre 1920, e dopo l’annessione, aderendo al Partito Fascista, ne fu nominato Podestà dal 1930 al 1934. Caduto il regime, nel 1943 aderì alla Repubblica Sociale e divenne Governatore della Provincia di Fiume, sconfessando però, su «La Vedetta d’Italia», la politica di assimilazione forzata degli anni precedenti. Nonostante una condotta politica sobria e scevra di delitti e violenze, venne fucilato dai servizi segreti jugoslavi a Castua, il 4 maggio 1945. Il suo corpo, gettato in una foiba, è stato recuperato il 4 luglio 2018 e sepolto al Vittoriale degli Italiani. 14 Riccardo Zanella (1875-1959), nacque a Fiume e vi fondò l’Istituto di Studi Economici. Irredentista, nel 1901 divenne il capo del Partito Autonomista, cui impresse una virata in senso nazionalista. Eletto al Parlamento di Vienna nel 1905, con Gigante, promosse «La Giovane Fiume»; eletto Podestà nel 1914, la sua nomina subì il veto dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Con la Grande Guerra fu mandato sul fronte russo, dove quasi subito si consegnò prigioniero all’armata zarista, e nel 1916 poté trasferirsi a Roma dove fondò un Comitato Pro Fiume e Carnaro. Sostenne quindi l’occupazione dei Legionari di D’Annunzio, ma ne prese le distanze dopo alcuni episodi di violenza che li videro protagonisti. Si pose quindi in opposizione al Vate, e abbandonò la città nell’aprile del 1920, tornandovi tuttavia dall’ottobre del ’21 al marzo del ’22, come Presidente dello Stato Libero di Fiume. Alla sua caduta, si auto-esiliò in Jugoslavia, dove fu attivo antifascista. Nel secondo dopoguerra cercò di riesumare l’autonomia fiumana, anche in sede internazionale, ma senza successo. Scomparve a Roma nel 1959. 13


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Se Fiume diventasse città libera e non città della libera Italia, ogni impronta italiana scomparirebbe in breve giù giù per la riva orientale dell’Istria e per l’arcipelago; e la terra divota (sic) di San Vito avrebbe penato, lottato, sperato e aspettato invano.15

E ancora: La città diverrebbe «un covo di trafficatori, di sensali, di usurai, di politicastri e di bastardi. La sua bella faccia scolpita dalla passione e scavata dalle lacrime si abbrutirebbe […] La sua mano maschia, tesa verso la Patria nell’atto del dono perpetuo, si ritrarrebbe col sacchetto dei trenta denari. Tradirebbe se stessa.16

Con accento quasi apocalittico, quasi dovesse condurre un assalto alla baionetta, il Vate conclude il suo appello ai fiumani: Non v’è chiesto un voto: v’è chiesto un fuoco più forte d’ogni altro vostro fuoco, v’è chiesta una fiamma più alta di ogni altra vostra fiamma. V’è chiesta la fusione magnanima della concordia, per la nostra causa, per la causa che trascende il nostro numero e il nostro potere. […] Popolo di Fiume, non t’è chiesto il voto della scelta, il voto pel tuo ordine civico di domani. T’è chiesto il voto per un solo nome, il voto per la tua anima.17

Per quanto vibranti, a tratti anche melodrammatici, gli appelli di D’Annunzio da soli non sarebbero bastati, numeri alla mano, alla vittoria della causa nazionalista, che non poteva contare su una maggioranza certa e schiacciante. A ‘convincere’ gli autonomisti concorsero le incursioni dei Legionari, che inaugurarono campagne intimidatorie con l’utilizzo dell’olio di ricino (un metodo che sarebbe poi stato ripreso anche dai Fascisti): il 26 ottobre 1919, 6.999 votarono a favore e soltanto 156 furono contrari. Il problema però rimaneva: il governo italiano non voleva e non poteva annettersi Fiume. La situazione andava incontro a uno stallo, e un secondo

«Bollettino Ufficiale del Comando di Fiume d’Italia», 25 ottobre 1919. Ibid. 17 Ibid. 15 16


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plebiscito in dicembre fu invalidato per reciproche scorrettezze da entrambe le parti.18 È però un fatto che D’Annunzio stesse cominciando a perdere il controllo dell’indirizzo politico, e per mantenerlo ricorse anche alla commemorazione degli eroi della Grande Guerra, a cominciare, nel Bollettino numero 22, dalla figura Maggiore Giovanni Randaccio, intrecciando la sua vicenda con quella fiumana, come si evince da questo passaggio: Sono tuttora visibili le tracce del sangue vivo e del sangue morto; io tremai stamani sollevando il peso sacro del Tricolore (quello intriso del sangue di Randaccio, nda) che sarà portato per la città in rito di celebrazione gloriosa.19

D’Annunzio brandisce la parola come una spada, ma lo fa con la grazia con cui avrebbe ballato un minuetto, o condotta un’amante in un giro di valzer. Ma l’epilogo si avvicinava. Mentre a Fiume permaneva un clima di ostilità contro il governo italiano, a Roma Giovanni Giolitti assumeva di nuovo la carica di primo ministro; moderato, poco amico delle imprese e degli atti di forza, si affrettò ad aprire il dialogo con la Jugoslavia che portò, il 12 novembre 1920, al Trattato di Rapallo, con il quale si riconosceva a Fiume lo status di città libera (lo rimase fino al 1924 quando passò all’Italia). D’Annunzio intuì la situazione e dalle colonne del Bollettino (intitolato Lasciar Fiume è lasciare la vittoria), pur senza nominarlo, tuonava contro Giolitti, scrivendo: «C’è chi pensa che l’Italia non fu così vile neppure dopo Adua».20 E, in un crescendo rossiniano d’indignazione, attacca con tono paradossale la politica rinunciataria di Roma, che a suo dire sconfessa l’eroismo dei soldati italiani: Via da Valona! Via da Tripoli! Via da Fiume! Via dalla Dalmazia! Via dall’Istria, se occorra! Via dal Friuli, se lo Sloveno si

Queste le parole del Vate: «Mi sono state riferite e provate le irregolarità commesse da una parte e dall’altra durante la votazione plebiscitaria: le giudico di tale natura da togliere alla votazione ogni efficacia di decisione». 19 «Bollettino Ufficiale del Comando di Fiume d’Italia», 7 giugno 1920. 20 «Bollettino Ufficiale del Comando di Fiume d’Italia», 6 luglio 1920. 18


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muova! Il nostro giusto confine è quello della disfatta: è la Piave, rifatta femmina. […] Bisognerà, primo o poi, che rinculiamo fin là e che spianiamo il Montello disonorato dai morti.21

Parole in cui riecheggiava la stagione dell’interventismo, che però lasciarono spazio, poche settimane dopo, a un appello civile di più ampia portata, che fa di Fiume una questione spirituale più che politica: L’orizzonte della spiritualità di Fiume è vasto come la terra; va dalla Dalmazia alla Persia, dal Montenegro all’Egitto, dalla catalogna alle Indie, dall’Irlanda alla Cina, dalla Mesopotamia alla California. […] Giovani, liberiamoci. Rompiamo tutte le scorze, fendiamo tutte le croste. Incominciamo a rivivere. Incominciamo la vita nuova. Io non voglio logorarmi, né abbassarmi, né perdermi. Io voglio salvare la mia anima, come voi dovete salvare la vostra. Io voglio morire lottando. Non voglio morire languendo. Io non voglio cedere la mia primogenitura per un sacco di grano. Il grano io vado a prendermelo dove si trova. Domando alla città di vita un atto di vita. Fondiamo in Fiume d’Italia, nella Marca orientale d’Italia, lo Stato libero del Carnaro.22

E qui si può leggere tutta la determinazione del Vate nel cercare di far nascere una società nuova, più che un nuovo Stato, vicina all’esperienza tedesca dei Wandervögel cui si affiancava una decadente raffinatezza. Fra ottuagenari veterani garibaldini, nobildonne, prostitute, avventurieri, militari e intellettuali (anche un giovanissimo Giovanni Comisso), cadono i tabù e si teorizza la società moderna; in quella Fiume controversa nacquero quei costumi libertari che avrebbero segnato il secondo Novecento. Una vicenda che dimostra come D’Annunzio capisse le istanze del suo tempo e cercasse di trasmetterle all’uomo comune per elevarne lo spirito. L’8 settembre, con la Carta del Carnaro, il Vate provò ad aggiungere un altro tassello al suo mosaico politico, immaginando la compenetrazione fra istruzione scolastica e addestramento militare,

21 22

Ibid. «Bollettino Ufficiale del Comando di Fiume d’Italia», 12 agosto 1920.


D’Annunzio a Fiume: un’impresa patriottica e giornalistica

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già teorizzata prima della guerra, ma da nessuno tradotta in formula politica. Inoltre, grazie al ruolo riconosciuto alle corporazioni, le categorie produttive assumevano un ruolo importante all’interno dello Stato, una novità assoluta nell’Europa moderna, che poi il Fascismo tenterà senza molto successo di fare propria. A Fiume, D’Annunzio provò a creare una sorta di nuova Atene in armi, si potrebbe concludere. L’ultimo numero del Bollettino uscì il 12 settembre del 1920, quando ormai la tensione interna fra autonomisti e annessionisti aveva raggiunto livelli preoccupanti e le dimissioni di Giuriati da Capo di Gabinetto aumentarono l’incertezza. Con Giolitti al governo ben determinato ad applicare il Trattato di Rapallo, l’Esercito Italiano mandato a Fiume non ebbe più modo di solidarizzare con il Vate e i suoi Legionari ben decisi a continuare l’occupazione della città, e con la battaglia del cosiddetto «Natale di Sangue»,23 dal 24 al 29 dicembre 1920, ebbe ingloriosa fine quell’esperimento immaginato per costruire una società nuova, dando all’impresa non soltanto un carattere nazionalista, ma anche sociale, con l’obiettivo di ampio respiro di «rigenerare le istituzioni e la società italiana al di fuori dei partiti». D’Annunzio fallì perché le rivoluzioni pensate al di fuori delle ideologie non sono destinate a realizzarsi, ma questo non sminuisce la grandezza e il coraggio del suo pensiero.

23 «La Vedetta d’Italia» dedicò all’episodio un fascicolo straordinario, uscito il 26 dicembre, in cui si dava conto della situazione, ma soprattutto si riportava il lancio di una granata contro il Palazzo del Governo, che colpì la finestra della sala in cui si trovava D’Annunzio con due suoi ufficiali, e che rimase leggermente ferito alla testa.


NICCOLÒ LUCARELLI

Il giovane Malaparte alla Grande Guerra

Kurt Erich Suckert, dal 1925 divenuto Curzio Malaparte, è stato probabilmente l’intellettuale italiano più audace e controverso del Novecento, al punto che ancora oggi, a sessant’anni dalla scomparsa, i suoi scritti fanno discutere, accendono aspri dibattiti anche di natura ideologica, ma soprattutto sorprendono e affascinano per la lucidità di analisi politica. L’Italia giolittiana stava stretta a questo intellettuale che per via delle origini tedesche aveva respirato il protestantesimo, simpatizzava per il Partito Repubblicano e seguiva con interesse la questione operaia; vedeva nascere attorno a sé una società nuova, che aveva nella fabbrica il suo punto di riferimento. Ma questa portava con sé anche l’idea di una modernità dirompente, con le sue problematiche di adattamento di quella parte di ceto contadino che adesso si scopriva operaio, e idealmente si proiettava in Europa con l’adesione alla corrente socialista. Suckert/Malaparte fu un intellettuale che si formò sia sui banchi di scuola sia sul campo, a contatto con la società che cambiava. Alla sua formazione di scrittore e uomo di pensiero, contribuì in maniera sostanziale la Grande Guerra, dalla quale sono scaturiti i suoi primi scritti di carattere socio-politico, ma anche quelle schiette «pagine d’armi» e poesie intrise del rombo del cannone e del dolore per i Caduti. Come raccontò all’amico Armando Meoni, per lui quella guerra fu «un imperativo categorico», una necessità storica e personale; e, più in generale, la chiave di volta per salvare le sorti dell’Europa. In linea con Ardengo Soffici, che su «Lacerba» inveiva contro la barbarie tedesca, anche Suckert mal sopportava l’idea che questa potesse trionfare sulla cultura illuminista che aveva fornito un contributo essenziale al progresso civile europeo. Il suo slancio fu im-


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petuoso, al punto che, appena sedicenne, interruppe gli studi liceali e lasciò Prato per raggiungere avventurosamente i reparti di volontari comandati da Peppino Garibaldi (nipote del più celebre Giuseppe), in via di costituzione in Francia. Di questo episodio ha lasciato testimonianza nell’autobiografia, con una prosa incisiva, asciutta, pungente, dalla quale emerge il focoso temperamento toscano: Nell’inverno del 1914, mentre l’Italia era ancora neutrale, io piantavo in asso il Liceo Cicognini e, recatomi a Ventimiglia, attraversavo la frontiera a piedi, di notte, per arruolarmi in Francia nella Legione Garibaldina, che si stava organizzando ad Avignone e a Montélimar. […] La Legione era composta in grandissima parte di repubblicani, di sindacalisti, di anarchici.1

Suckert simpatizzava con i suoi commilitoni perché anche il suo interventismo era di matrice sindacalista-rivoluzionaria, sulla scia di Filippo Corridoni: la guerra rappresentava l’occasione sia per il completamento dell’Unità nazionale, sia per un profondo rinnovamento socio-politico italiano, del quale ne avrebbero beneficiato le masse operaie e contadine. Sicuramente, un cambiamento in Italia ci fu, come osservò anni dopo lo stesso Suckert: Se dovessi giudicarla oggi, direi che la Legione Garibaldina era composta di “fascisti”. […] Vi predominavano tutti quegli elementi politici e sociali che dovevo poi ritrovare nel Fascismo.2

Nella Legione, la sua prospettiva umana si dilatò in maniera considerevole: Ho di quell’esperienza un ricordo straordinario: non fu per me soltanto un’esperienza di guerra, ma un modo di conoscenza degli uomini. I nostri ufficiali, tranne i fratelli Garibaldi e pochi altri italiani […] erano tutti francesi, e i nostri sottufficiali erano legionari d’ogni nazionalità, inglesi, spagnoli, polacchi, alsaziani.3

C. MALAPARTE, Autobiografia, «Rinascita», luglio-settembre 1957, pp. 373-374. Ivi, p. 375. 3 Ivi. 1 2


Il giovane Malaparte alla Grande Guerra

Ovviamente, in Francia, data la sua giovane età, non fu impiegato al fronte, ma rinsaldò i suoi propositi interventisti, perché, come lui stesso afferma: Quando l’Italia entrò in guerra, la Legione Garibaldina fu sciolta, e noi tutti ritornammo in Italia per arruolarci nell’Esercito Italiano. Quasi tutti gli appartenenti alla Sezione giovanile pratese del Partito Repubblicano, cioè 23 giovani operai, si arruolarono con me nella Brigata Cacciatori delle Alpi.4

Suckert fu assegnato alla II Compagnia del II Battaglione, inserito nel 51° Reggimento Fanteria, che con il 52° costituiva la Brigata Alpi, schierata in Trentino. La sua fama di giovane letterato si era già consolidata a Prato, accresciuta dall’aura eroica dell’esperienza garibaldina in Francia. A lui, come ad altri volontari, il periodico pratese «La Patria» chiese di raccontare l’esperienza al fronte tramite brevi resoconti. Quelli del giovane Suckert, apparsi fra il luglio e il settembre del 1915, si distinguono per l’immediatezza fotografica delle scene che descrivono, per l’assenza di forme retoriche, e per quel sottile senso d’ironia che tradisce l’ebbrezza della gioventù: Carissimi concittadini, volete voi sapere qualcosa di noi volontari e, specialmente, di noi pratesi? È semplicissimo. Si sta bene, si ride, si canta e… si trema di febbre. Febbre di gioia, di speranza, d’attesa e d’impazienza. […] L’ordine di abbandonare Perugia è venuto, già siamo in treno, pigiati nei carri bestiame come l’uva. […] Dopo parecchie ore di viaggio entriamo in Toscana. Arezzo non ci fa buona impressione, perché incontriamo un po’ di freddezza e il padrone del buffet ci spellerebbe anche ove… non si potrebbe. Ma inoltrandosi nel Valdarno, tutto cambia: applausi e fiori, sventolio di bandiere, di fazzoletti e specialmente […] fiaschi di vino e panini ripieni. […] Dunque, dopo trentasei ore di treno, siamo finalmente arrivati a B[elluno], come ci è parsa dolce la parlata del Veneto! E come ci è parsa amara la lunga e faticosa marcia che […] abbiamo dovuto digerire per arrivare sino ad A[gordo]! Ma,

4

Ivi, p. 376.


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benché stanchi, l’allegria non ci vien meno. Di fronte alla superba bellezza di queste Alpi, di queste meravigliose Dolomiti in eterna contesa col vento e con le nebbie, come ci sentiamo deboli e piccoli. Con le Alpi d’Italia, intendiamoci, non con quelle d’Austria! Perché ci sentiamo forti abbastanza da ruinare ogni baluardo, ogni trincea, ogni fortezza, per giungere con la baionetta in canna sino alle porte di Vienna.5

Iniziò così un ideale dialogo fra Suckert e i suoi pratesi rimasti in città, che metteva puntualmente al corrente della situazione. Per questo la corrispondenza costituisce un interessante spaccato della routine di un reparto schierato in retroguardia, ma che non per questo era lontano dal rischio: Cose che di lontano fanno rabbrividire, ma che da vicino divertono e, a furia d’essere normali, annoiano. Figuratevi che per circa due settimane siamo stati aggregati a una batteria pesante, per l’avanzamento dei pezzi e pel trasporto delle munizioni. Fatiche terribili. Trainare per sentieri impraticabili, ripidissimi, fangosi (la mota che c’è fuor di porta del Serraglio, verso il Fabbricone, è niente in confronto!) un affusto del peso ci circa 40 quintali, e poi le ruote, e l’otturatore, e tutti i sacramenti possibili e immaginabili che completano una batteria da 149 o da 210, è certo più faticoso che sorbire un vermouth dallo Svizzero. […] Alla fine, terminato il lavoro di piazzamento, ci venne l’ordine di partire per le trincee di prima linea. Ed eccoci quassù, col fucile carico a portata di mano, seduti sui sacchetti di terra, nel fondo di una buia trincea. Gli austriaci, anzi, quei cani, sono a cinquanta passi innanzi a noi, ben nascosti, e abbaiano continuamente. Spesso, per divertirsi un po’, alziamo il berretto sulla canna del fucile; tre colpi e tre buchi al cappello. Perché tirano maledettamente bene questi tirolesi del malanno! […] Ma il giorno della vendetta verrà, giungerà il momento dell’assalto. Allora, occhio per occhio, dente per dente, senza pietà. E vendicheremo anche il povero Papini,6 morto là in faccia a noi, sotto i reticolati. “È caduto da eroe”, mi ha detto un caporale del 3°

«La Patria», 25 luglio 1915. Si tratta del Caporalmaggiore Amedeo Papini, nato a Prato il 7 settembre 1890 e caduto in Val Travignolo il 18 giugno 1915 (N.d.A.). 5 6


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Bersaglieri, un giovane dalla faccia aperta e franca. E così cadremo anche noi, se il destino vorrà.7

A leggerlo, vi si scorge la freddezza del veterano, nonostante Suckert fosse al fronte soltanto da poche settimane; con ironica leggerezza racconta la routine della guerra, ma a rendere ancora più vive quelle pagine, intervengono gli accenni alla fatica e ai rischi dei proiettili austriaci. Perché il coraggio, in fondo, non significa non avere paura, bensì saper dominare quella stessa paura, anche con quell’incoscienza che nasce dalla confidenza con il pericolo. Dagli scritti di guerra di Suckert si comprende come questi prendesse la guerra come un’esperienza di vita, in un momento cruciale per le sorti d’Europa. E la sua vena letteraria non fu soffocata dalla voce del cannone; in settembre trovò l’ispirazione per un componimento poetico in quartine a rima incrociata, Settembre sulle dolomiti, che inizia così: Pallido sole di settembre, questo è il giorno della gloria e del cimento. Lacrime no, ma se lo porti il vento, ogni pensiero, ogni ricordo mesto. Ché vo’ scagliare in faccia allo straniero, da questa rupe solitaria, il riso de’ miei verdi anni e illuminarmi il viso di lieto ardire, e d’impeto guerriero.8

L’impeto patriottico stinge appena, per citare Tomasi di Lampedusa, nella retorica del Tricolore, probabilmente dettato dalla volontà di mostrare ai concittadini in Toscana che l’animo dei volontari pratesi è ancora saldo nei propositi del «maggio radioso». Con il settembre del 1915, s’interrompe la corrispondenza di Suckert, per il quale l’esperienza di guerra s’intensifica in maniera drammatica; in ottobre, avrà infatti il ‘battesimo del fuoco’, nella cruenta battaglia che si svolse fra il 21 e il 29 ottobre, sulla linea Sasso di Mezzodì-Marmolada, all’interno delle operazioni per conquistare il Col di Lana. Un episodio rievocato l’anno successivo,

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«La Patria», 15 agosto 1915. «La Patria», 19 settembre 1915.


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quando, in ottobre, Suckert ottenne una licenza per sostenere la maturità presso il Liceo Cicognini, e per il tema d’italiano scelse di raccontare questo episodio di guerra. Si tratta di un documento di particolare interesse, perché ricostruisce nel dettaglio quegli assalti alla baionetta che costituivano il credo offensivo di Cadorna; e senza dover temere la censura militare, Suckert poté riferire tutte le difficoltà logistiche delle operazioni. Pur con stile documentario, il giovane allievo-ufficiale non si distacca mai dalla componente umana della guerra, né dalla vicinanza spirituale con i commilitoni, la comprensione per la loro sofferenza e il rammarico per i caduti, che molto spesso erano suoi coetanei e che conosceva tutti per nome. A causa della sciagurata strategia dell’attacco frontale scelta da Cadorna, gli attacchi si rivelavano autentici massacri: Saltati dunque fuori dalla trincea iniziammo gli sbalzi, accolti da una grandine di pallottole e di shrapnel. Per fortuna il tiro delle mitragliatrici nemiche non era ben aggiustato […] Ma giusto colpivano i cecchini annidati fra le rocce […]. I primi balzi procederono benissimo: poche perdite e ordine perfetto. Ma dopo qualche tempo il tiro delle mitragliatrici s’accorciò […] e poi c’investì in pieno.9

A complicare l’azione bellica, la conformazione montagnosa del terreno, che rendeva difficile avanzare in linea retta. E purtroppo le perdite non mancarono: Cadde l’aspirante Rossignoli, cadde Maronati, milanese, spirito franco e allegro, si piegò ferito Pierotti, studente delle Scuole Professionali di Prato, cadde un volontario di Pesaro, giunto la sera innanzi dal deposito di Perugia.10

Ad alleviare le difficoltà di un avanzamento in campo scoperto, il fuoco dei cannoni che, dalle retrovie, sparavano sulle posizioni austriache, distruggendo i loro pezzi e impedendo l’uscita dalle trincee dei reparti pronti al contrattacco:

E. SUCKERT RONCHI, Malaparte, vol. I (1905-1926), Città di Castello, Tibergraph 1991, p. 101. 10 Ivi, p. 102. 9


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Di sbalzo in sbalzo, aiutati e protetti dal tiro delle nostre meravigliose artiglierie da 75 dei nostri formidabili obici da 149 prolungati, riuscimmo a inerpicarci per qualche tratto su pel declivio nevoso del Belvedere. Nessuno indugiava, tutti si buttavano innanzi come corpi morti, gridando, bestemmiando, scherzando. Ci s’istigava l’un l’altro.11

Per citare Remarque, il cameratismo è quanto di più umanamente profondo sia nato dalla tragedia della guerra, e Suckert ce ne fornisce una testimonianza, narrando i reciprochi incoraggiamenti dei soldati all’attacco, sotto il fuoco nemico, continuamente sfiorati dalla morte. La sua narrazione è incalzante, e accompagna il lettore nelle varie fasi dell’attacco: Ma ad un tratto, senza che nessuno se l’aspettasse, alla nostra sinistra scoppiò rauca e miagolante la furia di una mitragliatrice […] Era una nostra Maxim della sezione di Monte Mescla che, trasportata fino alle trincee d’approccio e precisamente al Sasso della Morte (chiamato così perché v’erano rimaste uccise varie nostre pattuglie) batteva con mirabile precisione ed efficacia i camminamenti austriaci e i Kaiserjäger che dal Sasso Cappello raggiungevano di corsa, allo scoperto, le trincee del Belvedere. Povera e temeraria mitragliatrice! Che pochi colpi aggiustati delle batterie del Bambergerhaus la raggiunsero quasi subito, riducendola un gran groviglio di ferri contorti e fulminandole i serventi.12

Un breve episodio che rende la drammatica velocità con cui gli eventi si succedono in un combattimento, timore e speranza si alternano causando uno stress emotivo non facile da immaginare. Nonostante le difficoltà, l’avanzata proseguiva: Eravamo dunque riusciti a inerpicarci per qualche tratto sul declivio nevoso del Belvedere. Ma era impossibile procedere, poiché, stanchi e decimati, non avevamo più la forza di fare un passo su un

11 12

Ivi, p. 103. Ivi, p. 104.


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terreno così difficile […]. Per questo il Colonnello De Mancino13 […] inviò l’ordine di trincerarsi alla meglio sulla posizione e d’attendere rinforzi. Cosa che facemmo come il terreno permetteva, incitati dagli urli degli Alpini, che, dietro a noi, tra le rocce, alzavano in segno di gioia i berretti sulle canne dei fucili.14

Per il momento, l’avanzata italiana si fermò su quelle pendici, e il Col di Lana fu conquistato soltanto nell’aprile dell’anno successivo. Il reparto di Suckert fu impiegato soltanto in un’altra battaglia, quella della presa di Punta Serauta, il 30 aprile del 1916. Per il resto, la vita al fronte (meno attivo di quello isontino), prevedeva compiti di pattugliamento, manutenzione delle trincee e dei baraccamenti, esercitazioni di tiro. Questa situazione permise a Suckert di familiarizzare con i volontari del blocco repubblicano, molti dei quali istruiti quanto lui, ma anche con la truppa dei richiamati, di provenienza contadina e operaia, che sempre più gli fecero capire quali forze si agitavano sul fondo del popolo italiano. Dopo la crisi di Caporetto, l’attestamento sul Piave e la riorganizzazione dell’Esercito, la Brigata Alpi fu inserita nel II Corpo d’Armata comandato dal Generale Alberico Albricci, e inviata, nell’aprile del ’18, sul fronte occidentale, in appoggio agli eserciti inglese e francese impegnati nel contenere l’avanzata tedesca nella Champagne, verso Parigi. I reparti italiani dovevano sbarrare la

13

Amos Del Mancino (1862-1928), partecipa con il grado di Tenente Colonnello alla campagna di Libia nel 21° Reggimento Fanteria della Brigata Cremona. Promosso Colonnello, all’inizio della Grande Guerra è Comandante del 51° Reggimento Fanteria e rimase in carica fino al 28 novembre 1915. Per la sensibilità che ebbe nel risparmiare il più possibile la vita dei suoi soldati, come lascia intendere lo stesso Suckert, fu biasimato da Cadorna, che comunque lo destinò al comando della Brigata quello stesso dicembre, mantenendolo in carica fino al 18 settembre 1916 data in cui viene ferito gravemente durante i sanguinosi attacchi alle linee austriache del Monte Zebio, sull’Altopiano dei Sette Comuni. Promosso Maggiore Generale, ottenne il comando della Brigata Taro nell’ottobre 1916, che manterrà fino al 14 aprile 1917, quando passò alla 25ª Divisione. Ma per aver fallito lo sfondamento del fronte nemico, in luglio fu esonerato dall’incarico, colpevole anche di non aver riferito dell’uccisione sulla linea del comandante del I Battaglione del 151° Reggimento Fanteria, il Maggiore Marchese, da parte di uomini e ufficiali della Brigata Sassari (episodio raccontato anche da Lussu in Un anno sull’Altipiano). Trasferito nelle retrovie, fu posto al comando del presidio di Mestre e poi del campo di istruzione di Padula (Salerno). Congedato nel 1918, venne promosso Generale di Divisione nel 1923. (N.d.A.). 14 E. SUCKERT RONCHI, Malaparte, cit., p. 104.


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valle dell’Ardre proteggendo l’accesso a Epernay, nodo stradale che garantiva le comunicazioni tra Reims e la capitale. L’esercito tedesco riprese l’iniziativa fra il 23 e il 24 giugno, sferrando un attacco contro la Brigata Alpi per impadronirsi del saliente di Bligny. Fallito questo primo tentativo, per la resistenza dei soldati italiani, un mese dopo von Ludendorff scatenò la seconda Battaglia della Marna con largo impiego di gas e cannoni. Ma se le armate tedesche non riuscirono a passare, fu ancora merito dei militari italiani che resisterono con coraggio; un eroismo pagato con 10.915 uomini tra morti e feriti, un terzo dell’organico del Corpo d’Armata. In quella battaglia c’era anche il Tenente Suckert, a capo di una squadra di lanciafiamme, che rimase egli stesso intossicato dall’iprite. Per i Caduti italiani fu realizzato un apposito cimitero a Bligny, e quando, negli anni Venti, i contadini della Champagne chiesero il suo smantellamento, Suckert insorse contro questa mancanza di rispetto per chi si era sacrificato per la Francia, e scrisse il suo personale omaggio ai compagni caduti, il cui unico rimpianto è quello di non essere tornati in Patria, per la quale attribuisce loro una struggente nostalgia nella ballata I morti di Bligny giocano a carte: Gli Italiani giocano a scopone giocano a briscola e a zecchinetto, alla morra e a scassaquindici, e ogni tanto alzano gli occhi, guardano il grano maturo, e i compagni che tornan dai campi con la zappa sulla spalla: e il paese intorno ha già un viso italiano, ché l’Italiano semina il suo paese dovunque vada, i monti i fiumi il cielo il mare del suo paese. […] oh dappertutto è Italia, oh unica al mondo Italia, con le tue case le tue vigne i tuoi campi di grano, oh dappertutto è Italia dove son tombe italiane. Morire che importa? Morire per il nome mattutino d’Italia. Ma fossimo almeno caduti sulle rive del Piave, sulle rupi del Grappa: e non qui, non qui dove la gente ci dice: Qu’est que vous faites ici. Oh potessimo tornare tornare alle nostre case, a piedi, senza mangiare,


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senza bere, senza dormire, oh potessimo tornare tornare in Italia a morire.15

Ma ai sopravvissuti italiani non spettò un trattamento migliore, nella considerazione del proprio governo. La Grande Guerra si chiudeva per l’Italia con la vittoria militare, ma lasciava in eredità 651.000 caduti16 e circa 477.000 invalidi, mutilati o malati cronici. Si poneva così la questione del garantire un adeguato sostegno e il reinserimento nella vita civile a tutti i militari che avevano con sacrificio servita la Patria. La questione si poneva anche per tutti quei reduci che, pur non avendo riportate dal fronte gravi menomazioni, avvertivano la difficoltà del rientro nella vita civile, anche in virtù della crisi economica che aveva vista la chiusura di molti stabilimenti industriali. Come avrebbe reagito questa grande massa di uomini, se la classe dirigente avesse deluse le sue aspettative? Dove avrebbe diretta la sua forza d’urto? Kurt Suckert, con la capacità d’osservazione e la lucidità d’analisi che lo contraddistinguevano, aveva previsto il disagio in cui avrebbero versato i reduci già all’indomani di Caporetto, e fermò sulla pagina quelle riflessioni nel discusso ma acuto La rivolta dei santi maledetti, dove, sin dalle prime pagine, ravvisava nella sconfitta militare «un aspetto orrendo e sanguinoso […] di quella rivoluzione nazionale […] che è stata ripresa nel 1914 da noi interventisti, sindacalisti e repubblicani, volontari garibaldini sempre, nelle Argonne e sul Carso».17 Già in apertura, Suckert entrava nel cuore della questione: Di chi la colpa, dal momento che il popolo italiano […] aveva saputo custodire intatti alcuni principi di morale su cui poggiano la

C. MALAPARTE, L’Arcitaliano e tutte le altre poesie, a cura di E. Falqui, Firenze, Vallecchi 1963, pp. 200-201. 16 378.000 uccisi in azione o morti per le ferite riportate, 186.000 morti di malattie e 87.000 invalidi deceduti durante il periodo compreso tra il 12 novembre 1918 e il 30 aprile 1920 a causa delle ferite riportate in guerra. Cfr. G. MORTARA, La Salute pubblica in Italia durante e dopo la Guerra, Bari, Laterza 1925, pp. 28-29. 17 C. MALAPARTE, La rivolta dei santi maledetti, Roma, 1923, p. 7. La rivolta dei santi maledetti; con l’aggiunta di un Ritratto delle cose d’Italia degli eroi, del popolo, degli avvenimenti delle esperienze e inquietudini della nostra generazione / Curzio Suckert. - 2. ed. – Roma, Rassegna internazionale [1923]. 15


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famiglia, la Patria e lo Stato? Di chi la colpa, dal momento che il nostro miserabile popolo di lavoratori e di migratori, d’artigiani e di contadini, non guidato, non curato […], aveva saputo conservare intatti certi aspetti del coraggio individuale […] e dell’onestà?18

Un testo inusitato, che si scaglia con violenza contro le responsabilità dei comandi e rende giustizia ai combattenti, indagandone anche il retaggio socio-politico. Appellandoli nel titolo «santi maledetti», Suckert racchiuse in appena due parole tutto lo stato d’animo dei fanti: «I sintomi che hanno preceduto e accompagnato il fenomeno di Caporetto sono quelli di un perturbamento sociale. […] C’era del sanculotto, nel fante».19 Lo scoramento seguito a Caporetto è da ricercarsi nella sensazione di ‘tradimento’ che il soldato italiano sentiva di aver ricevuto dal Paese, dai suoi stessi superiori, così poco sensibili al valore della vita del soldato, mandato letteralmente al macello nel carnaio del Carso. Quando parlo di soldati, intendo i soldati di fanteria, i malvestiti, i laceri, i sudici, i buffi e miserabili soldati di fanteria. [...] Io voglio parlare di quella parte della nazione armata, che non aveva né penna né piume, né specialità di reclutamento o di addestramento, di quella rinfusa di popolo di tutte le regioni d’Italia, che non aveva tasche alle giubbe, né distintivi sgargianti, che non si “arrangiava” l’uniforme, che non si toglieva i “salamini”, che portava soltanto un numero al berretto e un paio di mostrine, che veniva sballottata senza posa da brigata a brigata, da reggimento a reggimento, da compagnia a compagnia, che era composta di artigiani e di operai, di braccianti e di lavoratori di ogni arte, di contadini soprattutto.20

Il corsivo dell’autore intende sottolineare il disagio dei più umili fra i soldati, che andavano all’attacco sotto il fuoco nemico senza (o quasi) che il loro eroismo fosse riconosciuto; eppure, lascia intendere Suckert, sono loro che sopportano lo sforzo maggiore del conflitto, con coraggio e stoica rassegnazione:

18

Ivi, p. 18. Ivi, p. 73. 20 Ivi, p. 41. 19


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Quando parlo di soldati, intendo i pazienti, i buoni, gli ignari soldati di fanteria, che raggruppati intorno ai migliori elementi della piccola borghesia italiana, hanno tracciato strade, scalato montagne, conquistato a furia di sangue trincee e trincee, ucciso senza odio e senza odio dato la vita, che hanno compiuto miracoli e sacrifici indicibili, che sono morti a migliaia senza capire e senza farsi capire. Parlo della fanteria; dove si entrava per destinazione o vocazione. O per punizione – come aveva stabilito Cadorna, il nemico della fanteria.21

L’abbandono delle linee sul Carso non era imputabile a fellonia, ma una necessità imposta dalla disorganizzazione del Comando Supremo. In quel breve ‘sciopero militare’ che seguì lo sfondamento del fronte e precedette la riorganizzazione al di qua del Piave, Suckert legge in primo luogo la rabbia dei soldati che si sentivano letteralmente abbandonati dal Comando Supremo, quell’insofferenza che tornerà nel dopoguerra, in primis sotto forma di malcontento dei semplici reduci, lasciati senza lavoro o assistenza sanitaria (migliaia di loro erano infatti invalidi o malati). Suckert inquadra Caporetto in una prospettiva europea, scorgendovi il medesimo potenziale rivoluzionario che ha scossa la Russia zarista. Le agitazioni e le insofferenze che si sono verificate in tutti gli eserciti europei nascevano tutti dalla stessa angoscia: «la sofferenza sociale della guerra».22 Sofferenza che sfociò nel clima rivoluzionario che investì l’Europa del primo dopoguerra. Seppur in larga parte domate nell’arco di un anno, rivolte del genere si verificarono in Germania, Francia, Ungheria, Austria. Rivolte ideologicamente vicine al socialismo. Anche in Italia, fallito il biennio rosso, la situazione evolse in maniera opposta. I motivi li spiega lo stesso Suckert, con due anni di anticipo: Fatalista, ma di un fatalismo latino, individualista (la formula del fatalismo italiano «Io me ne infischio» fa da contrappeso a quella del popolo russo «Tutto è niente»), il popolo italiano sentì la vita e la necessità di una rinascita non collettivamente, ma individualmente.23

21

Ivi, pp. 41-42. C. MALAPARTE, La rivolta dei santi maledetti, cit., p. 98. 23 Ivi, p. 100. 22


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Kurt Suckert in divisa da Volontario Garibaldino nel 1914, «Prato ieri», di Armando Meoni.


Niccolò Lucarelli

Parole che suonavano come un rimprovero, quale di fatto era, alla classe politica dell’epoca; né Orlando né Nitti, e tantomeno i loro successori, erano stati capaci di leggere le possibili conseguenze politiche della mancata soluzione della questione dei reduci; pareva a loro un normale episodio di natura sociale, intriso di pericoloso socialismo e repubblicanesimo. In Italia, la questione sociale ebbe i risvolti di una rivoluzione opposta a quella sovietica, dove alla lotta antiborghese si accostò il sentimento nazionalista alimentato dallo smacco della «vittoria mutilata»; avviata a Caporetto, sostenuta dagli Arditi e dal «Vate d’Italia» Gabriele D’Annunzio, questa rivolta sfuggì alla classe dirigente liberale e moderata del primo dopoguerra; non sfuggì a Benito Mussolini, che la utilizzerà per il suo disegno politico.


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