Promemoria - storie e figure della Memoteca Pian del Bruscolo, numero 1

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pagò con il formaggio. A Roma, però, la piccola Fernanda arriverà da sola: mi ha caricato in macchina, sa la gluptina [la gluppa, il fazzoletto a scacchi annodato agli angoli, utilizzato come rudimentale borsa], a Fabriano abbiamo preso il treno per Roma, poi io non l’ho più visto. Poco male, pensa Fernanda. A Roma mi aspetta la Tina, mia sorella, basterà scendere dal treno e tutto si sistema. In realtà Tina non ottiene dai suoi datori di lavoro il permesso per recarsi incontro alla sorellina (era l’ora di pranzo, e i signori non potevano interrompere): meno male che il controllore mi ha consegnata alla Polizia - vado per serva, gli ho detto - e con molta pazienza e un po’ di inventiva sono riusciti a ritrovare il nome della famiglia dove lavorava Tina. Finalmente Fernanda arriva a destinazione, ma in quel palazzo nobile resta per poco, giusto il tempo di accorgersi che vi abita una squilibrata - la chiamavano Gradisca - e fuggire, forzando con un coltello la serratura della stanza dove era stata rinchiusa. Finalmente Fernanda viene accolta dalla signora Adele Scarnecchia, donna di grande umanità (l’avevo conosciuta al mercato delle erbe, cercava una ragazza che l’aiutasse in casa), che nel tempo libero dalle faccende domestiche le insegna a leggere. Qualche tempo dopo l’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno 1940), Fernanda, ormai giovanetta, torna a casa. Per ripartire però quasi subito, stavolta con il padre e la sorella Rosa, alla volta della Germania in cerca di un lavoro sicuro e - dicono i volantini propagandistici - ben pagato. La Germania di Hitler cercava infatti nell’alleata Italia mussoliniana manodopera da destinare ai campi di lavoro e all’industria bellica. Fernanda e i suoi famigliari partono con un gruppo di persone dei dintorni di Pesaro, tra i quali Primo Marcolini di Sant’Angelo in Lizzola, suo futuro marito. Appena arrivati a Oschersleben [Oschersleben - Bode, nel Nord della Germania, uno dei campi-satellite di Buchenwald, dove altre testimonianze ricordano uno zuccherificio e successivamente una fabbrica di aeroplani], ci siamo resi conto che erano tutte bugie: ci trattavano come schiavi, lavoravamo nei campi dalle sei della mattina alle sei della sera, ci davano da mangiare un dito di latte, la mattina, e la sera una scodella di minestra, se la vogliamo chiamare così, una brodaglia con qualche pezzo di patata. E una pagnotta a testa, ogni settimana. Abitavamo in una caserma, con i letti a castello. Quando però sono arrivati i prigionieri di guerra, lì ho smesso di lamentarmi. Polacchi, slavi, francesi, inglesi: li ho visti morire vicino ai miei piedi, massacrati di botte. Cercavo di dar loro da mangiare qualche avanzo, si nutrivano di bucce di patate che trovavano per terra.

Anche in mezzo alle privazioni la vivace Fernanda non si perde d’animo: io ero la più piccola, lì dentro, ed ero molto curiosa. Mi intrufolavo dappertutto, negli ultimi mesi ho visto che sotto i prati, a Oschersleben, c’era un arsenale [probabilmente Fernanda allude alla fabbrica di aerei] ma questa curiosità mi costava cara, mi hanno persino condannata a una settimana di lavori forzati, cioè, si lavorava senza mangiare. Poverini, i sorveglianti, erano ragazzi anche loro, avevano diciotto-vent’anni. Anche se i rapporti con i prigionieri di guerra erano scarsi e pericolosi, sono riuscita a stringere amicizia con un capitano, e l’ho aiutato a evadere con altre due persone. Un po’ alla volta ho nascosto sottoterra i panni per lui e due suoi amici. Non ho voluto sapere i loro nomi, ma al momento di salutarli, ho chiesto al capitano di inviarmi, se si fossero salvati, una cartolina con tre puntini. Dopo tre mesi la cartolina è arrivata, immaginate che gioia, alla distribuzione della posta! Tra il 1942 e il 1943 (qui i ricordi si fanno malcerti), comunque prima del fatidico 8 Settembre 1943, Fernanda, il padre e la sorella tornano in Italia. Insieme con loro c’è anche stavolta Primo Marcolini, con il quale Fernanda si sposa nell’Aprile del 1944, dopo un fidanzamento di circa un anno. Qui in Italia era diventato peggio che in Germania, nel ’44 c’erano i tedeschi anche da noi, e rastrellavano le campagne in cerca di uomini e donne che lavorassero per loro. Per venti giorni mi hanno mandata alla stazione di Pesaro, a riempire delle taniche di petrolio: andavo a piedi, da Montelabbate a Pesaro e ritorno, non volevo salire sui loro camion. La guerra, i bombardamenti, lo sfollamento, il ritorno al castello di Montelabbate, dove Fernanda e Primo vivevano e nei cui pressi si occupavano di un podere; nel dopoguerra, qualche momento di benessere, guadagnato anche grazie all’incarico di bidella nella scuola di via Roma, della quale Fernanda Gambuti è oggi quasi un simbolo. E l’affetto di tutti i ragazzi del paese: Fernanda li conosce per nome e loro, ormai cresciuti, le si rivolgono come a una seconda nonna. Ma ecco, lo spazio è finito, e per stavolta dobbiamo fermarci qui. Certo a rileggerlo il racconto risente dei continui colpi di scena, la vicenda ha dell’incredibile: è la stessa Fernanda a suggerirlo, sottolineando più volte che si tratta della pura e semplice verità. Sicuro che è la verita. E comunque, anche se il selvaggio West non è dietro l’angolo, ci piace pensare che anche qui da noi, come direbbe John Ford, quando la leggenda diventa realtà, vince la leggenda.

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