JUST KIDS - #04 - Febbraio 2013

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JUST KIDS

#04

[UMBERTO MARIA GIARDINI] [JENNIFER GENTLE/VERDENA] [DIMARTINO] [NICOLO’ CARNESI] [LA NUIT]

NADAR SOLO. LE BUGIE DI ELISA. LENULA. THE CHARLESTONES. JENS LEKMAN. KEITH TIPPET/GIOVANNI MAIER. ERBA MATE. ALI’. TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI. MASSIMO BUBOLA. I segni tra le fiamme. Onirico Sguardo. Habana libre. Amore tossico. Mio zio Andrea voleva morire di tutto. Click Click. Cibum Abstracto. Io e te. La ballata dell’amore e dell’odio. Travolti dal destino, comunque. Quando Monicelli disse: “Non dire Speranza! Speranza è una brutta parola!”. 40 Gradi. Copia di senza nome.


SOMMARIO [ Musica ] INTERVISTE UMBERTO MARIA GIARDINI di Alina Dambrosio e Anurb Botwin JENNIFER GENTLE/VERDENA di Alina Dambrosio DIMARTINO di James Cook e Andrea Furlan NICOLO' CARNESI di James Cook LA NUIT di Massimo Miriani RECENSIONI NADAR SOLO’ DIVERSAMENTE, COME? di Antonio Asquino LE BUGIE DI ELISA - LE BUGIE DI ELISA di Antonio Asquino LENULA - PROFUMI D’EPOCA di Giulia Palummieri THE CHARLESTONES - OFF THE BEAT di Giulia Palummieri JENS LEKMAN - I KNOW WHAT LOVE ISN’T di Thomas Maspes KEITH TIPPET/GIOVANNI MAIER - TWO FOR JOYCE, LIVE IN TRIESTE di Luca Anzalone RECENSIONI DELICATE di Claudio Delicato ERBA MATE - THE JELLYFISH IS DEAD AND THE HURRICANE IS COMING ALI’ - LA RIVOLUZIONE NEL MONOLOCALE TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI - NEL GIARDINO DEI FANTASMI SUGGESTIONI di Andrea Furlan MASSIMO BUBOLA - IN ALTO I CUORI

cover by Avida Dollars JK | 2


JUST KIDS #04 [ Immaginario ] LA DIMENSIONE EROICA DEL MICROBO di Maura Esposito I segni tra le fiamme (un sogno infantile allo specchio) PUNTO FOCALE di Giulia Blasi Onirico Sguardo SOMMACCO di Luca Palladino Habana libre – ep. 3 *3 di 3 episodi di amori non consumati SOMMACCO di Giorgio Calabresi Amore tossico SOMMACCO di Francesca Gatti Rodorigo Mio zio Andrea voleva morire di tutto SBEVACCHIANDO PESSIMO VINO di Paolo Battista Click Click PIATTO GRAFFIATO di DanielaPeaceandlove Cibum Abstracto [ Cinema ] LO SPETTATORE PAGANTE di Antonio Asquino IO E TE di Bernardo Bertolucci LA BALLATA DELL’AMORE E DELL ‘ODIO di Alex De La Iglesia [ Teatro e Libri ] L’OCCHIO di Sabrina Tolve Travolti dal destino, comunque. Addio a Mariangela Melato [ SterilitA' del ben pensare ] LIBERTA’ E’ PARTECIPAZIONE di Claudio Avella Quando Monicelli disse: “Non dire Speranza! Speranza è una brutta parola!” BUONONONONOU B di Gianluca Conte 40 gradi SEX ON di Catherine Copia di senza nome

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REDAZIONE [SCRIVONO PER JUST KIDS] Andrea Furlan Antonio Asquino Anurb Botwin Alina Dambrosio Catherine Claudio Avella Claudio Delicato Cristiano Caggiula Francesca Gatti Rodorigo Francesco Odescalchi Giorgio Calabresi Giulia Blasi Giulia Palummieri James Cook Luca Anzalone Luca Palladino Massimo Miriani Maura Esposito Paolo Battista Sabrina Tolve Thomas Maspes

ringraziamo Ellebi per aver collaborato a questo numero e le persone che con il loro aiuto rendono possibile ogni numero

[DIREZIONE]

Anurb Botwin justkids.redazione@gmail.com [MUSICA]

James Cook justkids.james@gmail.com Andrea Furlan justkids.furlan@gmail.com [WEB]

issuu.com/justkidswebzine facebook.com/justkidswebzine justkidswebzine.tumblr.com [VERSIONE CARTACEA]

justkids.distribuzione@gmail.com [Just Kids non è una testata periodica o un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62/2001]

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JUST KIDS editoriale #04

di Anurb Botwin

Mi hanno detto: Cara, tanto per iniziare la passionalità è una cosa viscerale e non la puoi

imparare, puoi imparare solo a tirarla fuori e a goderne, ma se non c’è non la puoi inventare, insegnare, imparare. Questo nella musica, nell’arte in generale, nella vita, nella quotidianità, nel lavoro, nella vita di coppia, nel sesso, in tutto! E poi, dopo aver detto questo, mi hanno sottolineato quanto la musica fosse solo un vestito. E poi ho pensato che anche qui, in Just Kids, la musica è solo un vestito. Portato molto bene grazie a chi ha deciso di collaborare a questo progetto. Che poi in realtà non so neanche se sia esattamente un progetto o meno. Un progetto è una cosa che si studia a tavolino, che si scrive, che si definisce. Un progetto per me è come una cosa disegnata. Prendete un foglio, aggiungete una penna, chiedete in prestito delle dita alla prima mano che incontrate e iniziate a disegnare qualcosa. Ecco, per me un progetto è questo. Se poi al disegno aggiungi delle idee, diventa un progetto con delle idee. Se poi al progetto con delle idee aggiungi delle persone, diventa un progetto con delle idee e delle persone che magari si mettono insieme e fanno vivere quel foglio e quella penna da cui tutto è iniziato.

Bene. Cancellate tutto, perchè Just Kids non è nato così.

Non credo di avere delle idee molto chiare e precise su come sia nato Just Kids. Ma c’è, esiste e il grande dramma è che solitamente non ho mai tante idee per scrivere l’editoriale. E’ un problema e chiedo l’aiuto da casa perchè non credo che sia un problema che riuscirò a risolvere a breve. Succede sempre che quando si sta per chiudere il fatidico Just Kids #0X, mi viene il vuoto neuronale.

[e, come già detto nel numero precedente, a questo punto potete saltare ed andare alle pagine successive]

Però qualcosa adesso mi viene in mente. Ad esempio, mi vengono in mente le mail che ci sono arrivate in questi mesi da parte di chi ha pensato che Just Kids è un progetto interessante e mi viene in mente anche quando mi hanno scritto che invece è un progetto fallimentare (ebbene si)... Mi viene in mente Diego Mancino che al suo concerto per Breakfastnight ha parlato a tutti di Just Kids con una delicata forza che si addice solo a chi sa riempirsi sempre di meraviglia... Mi viene in mente l’entusiasmo di chi mi racconta della propria musica, delle proprie poesie e dei racconti. Mi vengono in mente le persone. Mi vengono in mente quelle che non ho avuto modo di incontrare e quelle senza le quali molte cose non sarebbero possibili. Ma più di tutte mi vengono in mente le persone che hanno bisogno di affezionarsi a un’idea meravigliosa. Qualunque essa sia.

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E pensandoci, mi vengono in mente cose troppo fitte di poesia per assecondare il mio senso cinico e infatti adesso, per ovviare a questa immotivata virata, mi sta venendo in mente un’immagine. tipo quella del serbatoio della benzina che sta lì e ti dice: “Attenzione, perchè se non mi tieni d’occhio può capitare che io vado giù e tu non te ne accorgi. E poi rimani a piedi. Quindi se te ne accorgi è meglio, perchè l’unico modo per non farmi andare giù e non rimanere a piedi, è tenermi d’occhio. Quindi tienimi d’occhio”. La lancetta cerca di fartelo capire ma può capitare che la sottovaluti. Ma non te ne accorgi. E allora capita che mentre sei in macchina e guidi e parli al telefono e fumi e ridi e guardi i passanti e vuoi mettere un cd e bestemmi perchè non trovi il cd e allora metti la radio e poi rispondi al messaggio e poi bestemmi di nuovo perchè non trovi la radio e poi rispondi alla mail e poi ricerchi il cd e poi ti accorgi che sei passata/o col rosso anche se nella tua testa era e rimarrà verde e intanto sei in ritardo e non ti sorprendi e nel frattempo il cd è partito e la radio pure e la sigaretta è finita e il cellulare si è scaricato...mentre fai tutte queste cose, quella lancetta è lì che non ti dice più niente. Non va giù, la lancetta. La lancetta rimane più o meno a metà, senza troppe ambizioni. Però la macchina a un certo punto si ferma perchè la benzina è finita. Ma la lancetta non scende giù. Rimane lì ferma, precisa. A metà. Come i mediocri, la lancetta rimane a metà. Rimane a metà di qualcosa. E ti ha preso in giro senza che tu ti sia accorto di niente. Perchè mentre eri impegnato a fare tutto il resto, la lancetta ha pensato bene di rimanere a metà, senza ambizione anche se la benzina è finita. E a volte ho la sensazione che nella musica italiana la lancetta sia a metà e la benzina sia finita e tu sei lì come in una macchina senza benzina, che però ha la lancetta a metà, e non capisci bene quello che sta accadendo. Allora inizio a pensare che la storia della lancetta e della benzina è un casino. Un pò ci penso, ma poi mi capita di incontrare persone bellissime. E costruiscono Just Kids.

Una lancetta,

BUONA LETTURA JK | 7


[ Musica ]

U M G

di Alina Dambrosio e Anurb Botwin

MBERTO ARIA IARDINI

|photograph by Alessandra Caccia

U

n nome diverso, una nuova identità, o meglio la riappropriazione della sua Identità, ma la sua musica resta una garanzia. Si tratta di

Umberto Maria Giardini,

ex Moltheni. Dopo qualche anno ritorna nella scena musicale, che ha per un po’ abbandonato, senza poche polemiche su quel mondo. Il suo ritorno è segnato dall’uscita di un nuovo album, “La dieta dell’imperatrice” , che lo stesso autore definisce “un disco volutamente scuro e senza un barlume di luce, forse anche emotiva.” In un periodo in cui non può raccontare della felicità, in un periodo in cui il livello dell’ascoltatore medio si è abbassato, Umberto Maria Giardini canta “l’amore antibiotico”con un’estetica decadente , ma ha tanto altro da dire, senza troppi giri di parole, schietto e deciso.

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[ INTERVISTE ]

U

na domanda che in molti ti hanno fatto e su cui non possiamo non ritornare. Il tuo ritorno è stato segnato, dopo un periodo lontano dalla scena musicale, da un cambio d’identità, o meglio ti sei riappropriato della tua identità. Cosa c’è di Moltheni in questo nuovo album? Non so quanto ci sia di Moltheni in questo nuovo lavoro che io vedo, in realtà, come un debutto. Il mio metodo di scrittura non è cambiato, nemmeno i miei gusti musicali nonchè l’approccio che uso verso l’osservazione di ciò che mi attrae e che poi riverso in maniera libera e traducibile in cio’ che scrivo. Moltheni sono io e Umberto Maria Giardini pure ma e’ come se non fossi nessuno dei due... non mi sono mai fatto troppe domande al riguardo, l’unica cosa che riconosco e che so, è che lavoro in una certa maniera, meticolosa, classica e visionaria. Quello che penso scrivo, e poi lo canto. Che rapporto hai con questa parte di te: è un fantasma da sopportare o un vecchio amico? No, nessun fantasma assolutamente. E’ una parte di me bellissima che non c’è più. E’ ciò che è stato, è il passato, che non tornerà mai più...null’altro. Qual è stato il percorso che ti ha portato ad abbandonare l’identità di Moltheni? Credo che gli elementi siano stati molteplici. Mi ero stancato in maniera davvero marcata di tutto cio’ che riguardava il settore, e a dir la verità ne sono già di nuovo schifato (sorride...). Gli addetti ai lavori, i musicisti stessi del giro indie, la maggior parte delle persone che circolano o si considerano parte integrante degli ambienti musicali sono scadentissime. Soprattutto nella morale e nell’etica...non parliamo poi di alcuni giornalisti che venderebbero la loro madre pur di dare 5 stelle alle band già conosciute e con una carriera lusinghiera alle spalle, sempre e comunque. In Italia non è importante ciò che dai, ma che ci sei...non è importante scrivere un disco bellissimo, l’importante è essere conosciuti e quindi leccati e osannati da tutti anche nel caso si realizzi un album scadente. Il modo esagerato e plateale con il quale alcuni italiani leccano il culo non esiste in nessuna altra parte del mondo. Moltheni aveva a mio avviso concluso il suo percorso naturale, non era pronosticabile tenerlo ancora in vita, ma aveva anche smosso acque che più in là troveranno un loro senso, legato ai cachet esagerati che bands, di cui voi siete tutti fan, guadagnano non-

chè alla editoria pilotata per gli interessi interni alle vendite. “La dieta dellimperatrice” è un album in cui confluiscono ricercatezza nello stile musicale e temi non estranei a Moltheni. Hai più volte spiegato il significato di questo titolo in cui pare ci sia stata una certa influenza di Anna Calvi...ci dici qualcosa in più rispetto al percorso che ha portato a questo titolo? No, in realtà Anna è stata una precisa consigliera nei suoni del nuovo ciclo e in piu’ la solita macchina da guerra (perfetta) nelle performance live che ho avuto la fortuna di seguire tante volte, e non solo in Italia. Il titolo dell’album è derivato come sempre succede per i miei lavori dalla mia immaginazione e da ciò che traduco quando penso a qualcosa che mi piace...occorreva un titolo che suscitasse e incoraggiasse lo spettatore nel prevedere un album e un ritorno diverso da ciò che era stato sia Moltheni negli anni addietro sia il progetto dell’anno precedente, Pineda. La dieta doveva preannunciare ciò che di fatto successivamente si è materializzato, ovvero un disco elegante, sobrio, maturo ma soprattutto composto...ordinato, con tutto nell’esatto posto dove deve essere una sorta di scommessa-patto fatta con Cooper, produttore del lavoro, e con Anna calvi che mi ha convinto di eliminare il basso. Hai definito questo disco noir, forse per le sfumature che prende nei tuoi testi un sentimento come l’amore? A tratti un pò decadentista? Si, anche. La dieta dell’imperatrice è un disco volutamente scuro e senza un barlume di luce, forse anche emotiva. Non sono più in grado di cantare e scrivere della felicità. lo trovo un compito arduo e comunque a me pressochè impossibile, almeno al momento. Questo album è noir nel suo dna, è nato così prima ancora di nascere, perchè prima di nascere nella mia testa già c’era. La tua poetica, tra le altre cose, evoca molto la natura. Qual è il tuo rapporto con essa? Oltre all’ispirazione a livello di testi o immagini, i suoni della natura ti influenzano a livello strumentale? La natura in realtà non ispira molto i miei testi, ma li protegge e li genera nel grembo, appunto, naturale. Cerco sempre di scrivere a contatto con essa, ma ad essere sinceri sono gli atteggiamenti di noi essere umani che mi ispirano di più. Senza la mia stupidita’ e

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[ Musica ] senza la mia arroganza verso le cose ingiuste io non In linea di massima no...c’è solo un pò più diffidenza riuscirei a scrivere un granchè, oppure scriverei come verso coloro che si occupano di musica e di consegli Zen Circus. guenza riservo meno fiducia. Per il resto non è cambiato nulla. Confido nei futuri musicisti italiani, ora alle Oltre ai cambiamenti che riguardano la tua per- scuole elementari ma che presto, nel giro di pochi sona e la tua musica, cosa trovi di diverso in anni, spazzeranno via tutti noi. questo ambiente rispetto a qualche anno fa? C’è ancora molto da cambiare secondo te? La tua campagna su Musicraiser ha scatenato diCredo che l’ambiente sia notevolmente peggiorato. verse polemiche soprattutto da parte di “giornaNegli anni addietro soprattutto alla fine degli anni 90 listi” del settore, di quelle persone che di certo era tutto molto piu’ stimolante. C’era davvero tanto non fanno la musica, ma la usano per descrivetanto pubblico ovunque, essere parte della scena per re e raccontare un mondo che sembra “perfetto cosi’ dire “alternativa italiana” era un privilegio e era proprio perchè irreale” (come ha scritto Emidio bello comunque pagarne le spese. Oggi fa schifo, e lo Clementi nel suo ultimo libro). Questo sarebbe fa poiche’ fanno schifo i suoi rappresentanti. un argomento da spulciare da ogni punto di viCi sono progetti che andrebbero davvero fatti suona- sta, cioè dal punto di vista dell’ascoltatore “mere in cantina, pero’ sotto chiave, e tantissimi altri che dio” (come lo hai definito tu prima), dal punto di non raggiungono il livello che meritano. Tutto questo vista di chi crea la discografia in Italia, di chi ne a causa sia del bassissimo livello del gusto popolare parla, di chi la produce etc etc. Ci piacerebbe che dell’ascoltatore medio, sia per gli amici di merende tu sfruttassi questo nostro spazio per raccontarci che diventano amici di altre merende. Apparentemen- le tue sensazioni e idee in merito... te tutti amici, poi ognuno si fa i cazzi suoi. Questo e’ La polemica scoppiata su Musicraiser è in fondo in l’indie in Italia. fondo non riconducibile all’operazione in se per se, che io considero onestissima e trasparente, ma alla Nell’ultimo periodo si sta assistendo al fiorire di sfacciataggine e alla risaputa arroganza di Federico tanti cantautori. Sono i fattori socio-politici, una Guglielmi, boss del “Il Mucchio”, una rivista romana società in cui rapporti umani sono sempre più del settore che si occupa di musica, cinema, letteratuvirtuali a far emergere queste voci/anime? Cosa ra, politica, e quant’altro. In linea di massima concorhanno in comune con i cantautori che hanno fatto do con l’idea di base di Emidio Clementi, tra l’altro mio storia nella tradizione musicale italiana? amico fraterno carissimo...poichè la musica in Italia è Di sicuro le vicende socio-politiche e della nostra vita di sicuro un pò enfatizzata, se non altro sotto alcuni inevitabilmente fanno confluire i sentimenti da una punti di vista. parte precisa dell’animo umano, è sempre stato così. Fare musica e portare in tour anno dopo anno un alPuò anche darsi che oggi nascano tanti cantautori, bum è estremamente diverso da ciò che si pensa dal proprio in riflesso a questo stato d’animo e di soffe- di fuori, ed è probabilmente giusto che sia così..nel renza dell’individuo...alcuni di loro sono bravissimi per senso..oggi chi fa il muisicsta non è più da considerarfortuna. si fortunato o privilegiato in qualcosa; io ad esempio sono sempre stato molto antipatico alla maggior parte Che effetto ti ha fatto ritornare a fare live? dei promoter nazionali, perchè l’approssimazione nelE’ stato bellissimo...quando suono, spesso mi guardo le cose e nella gestione del lavoro, mi irrita. La cona come sarò tra pochi anni...stanco, non più giovane sidero un male della nostra società che si ripercuote, e annoiato da tutto questo. Adoro l’effetto tecnico dei secondo il mio punto di vista, in ogni ambiente del concerti...suonare bene, avere serenità e padronanza lavoro stesso, compromettendo, anche se non appadella propria voce attraverso un microfono è una cosa rentemente, tutto ciò che poi ruota attorno a quella straordinaria, che far stare bene. Suonare dal vivo è realtà. per me come una medicina benefica, mi aiuta ad esse- Quando vengo trattato male, io ad esempio non sto re più giusto nella vita, mi fa sorridere. zitto, educatamente faccio valere i miei diritti. Facile immaginare quindi che non è tutto oro quel che brilC’è un nuovo approccio alla musica e a tutto ciò la, anzi, tutt’altro. Non parliamo poi dei Km, del lache comporta rispetto a prima? voro fisico che comporta una performance live prima

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[ INTERVISTE ] e dopo dei contrattempi che ti fanno allungare in maniera inverosimile i soundcheck, non nominiamo gli Hotel senza riscaldamenti (quando ci sono gli Hotel) piu’ mille altre cose, solo e sempre legate all’atteggiamento dei promoter superficiali che badano a risparmiare su tutto. Camerini in inverno senza finestre, stufette rotte, pernottamenti a decine di Km di distanza dal club, e il tutto a cachet davvero ridicoli. Per fortuna esistono anche e numerose persone splendide, sia tra i promoter stessi che tra coloro che lavorano per te, nonchè tra la gente che arriva per il live. Probabilmente la vera fortuna di questo lavoro è quella di incontrare persone speciali, educate e nonostante i mezzi, preziose e volenterose per questi ultimi presupposti io spesso mi sento fortunato. E’ indubbio che ognuno di noi cerca di fare il proprio lavoro con passione, coscienza e volonta’ di fare le cose in modo giusto e corretto, sia da parte di scrive musica sia da parte di chi la ospita e da parte di chi ne scrive le vicende. Secondo il mio modesto e personale parere che non deve essere necessariamente condiviso, ma preso come pretesto di riflessione, io penso che in Italia occorra da parte di tutti, riorganizzarsi un pò...Il mondo del lavoro, oramai in agonia, ha bisogno di un aiuto, ma certamente anche di un cambio di mentalità legittimato dalla situazione attuale di “non scelta”. Il nostro paese è rimasto indietro più degli altri anche per questo fattore legato al costume della società, e del manierismo con il quale si gestisce il lavoro. Lo stato non assicura oramai più niente, e come se non bastasse rincara la dose con le tasse, alte e quasi sempre ingiustificate, inventate, e’ come se vivessimo in una dittatura soft. E’ questo il motivo per il quale bisogna migliorarsi ma partendo da noi stessi attuando tutte quelle abitudini che non hanno mai contraddistinto l’italiano medio. La precisione, la buona organizzazione degli eventi, i dettagli. Anche quando anni e anni fa esistevano risorse economiche pazzesche rispetto ad oggi, io di persona vedevo porcate ovunque, e non credo di aver mai avuto una vista più sensibile degli altri. E’ indubbio che la discografia sia in crisi, come tutti i settori del resto, e ovunque ma la vera crisi è in noi che l’abbiamo generata, esistono popoli che non sono in crisi, chiediamoci il perchè... []

“femmina è la fame maschio il letame giungimi in ritardo ma nel farlo lascia almeno la tua mail” JK | 11


[ Musica ]

Jennifer gent di Alina Dambrosio

Circolo degli artisti, Roma. Intenta a leggere, attendo che i (Marco Fasolo e Liviano Mos) e i (o almeno 2/3 della band) arrivino. Non vi nascondo l'emozione… Di lì a poco andrò ad intervistare due tra i migliori gruppi italiani, per i quali provo una sorta di adorazione. La mia lettura è interrotta dall'arrivo improvviso di Alberto (cantante e chitarrista dei Verdena), che si catapulta sul palco sprizzando da tutti i pori l'energia e la voglia di suonare.

Jennifer Gentle Verdena

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[ INTERVISTE ]

ntle/VERDENA I Jennifer Gentle: band a sé, si è sempre discostata da correnti musicali in voga, una sorta di mosca bianca nel panorama musicale. I Verdena, l'esempio più emblematico di quanto e come si possa crescere musicalmente, proponendo dischi l'uno diverso dall'altro, di come ci si possa reinventare, mantenendo comunque una coerenza artistica libera da ogni tentazione di cedere al compromesso. Mi ritrovo nel backstage, sembra di chiacchierare con amici di vecchia data, persone semplicissime e fuori da ogni schema (nell’accezione più positiva del termine).

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[ Musica ]

I

Jennifer gentle e i Verdena insieme. Oltre all’amicizia e alla stima reciproca, cosa accomuna i due gruppi? C’è qualcosa di specifico in Alberto e Luca che ha portato a questa formazione? M (Marco Fasolo): Credo ci sia un certo background musicale che accomuna i due gruppi. Per quanto siano diverse la musica dei Verdena e quella dei Jennifer, lo spirito e la provenienza artistica di ognuno di noi sono abbastanza accostabili, anche se non uguali. Poi, da quando Luca, nel 2004, ci ha chiesto di aprire alcuni concerti dei Verdena, abbiamo cominciato a conoscerci, si è creato una sorta di contatto rivelatosi duraturo. Nel corso degli anni, con la line-up che cambiava, (fino a rimanere solo Liviano ed io), la conoscenza che si approfondiva e tutto il resto, ci è venuto quasi naturale “unirci”, la musica che ascoltiamo è simile, funziona bene e ci divertiamo. L (Luca Ferrari): E’ uno spirito, una sorta di etica che ci accomuna.

è dovuto al tipo di musica che proponete o è un vostro approccio a questo mondo? Può essere causato anche dal vostro genere forse troppo poco sperimentato in Italia? M: Secondo me non è questione di sperimentare, ma di curiosità musicale. Alla fine non facciamo musica seriale o d’avanguardia nel senso stretto del termine, si tratta di canzoni. Secondo me è solo una questione di provenienza, di ceppo d’origine delle idee, per cui ci si riconosce o meno in ciò che si ascolta. Poi c’è qualcosa che attira molto, in questo sono mosche bianche Luca, Alberto e Roberta, i loro testi sono piuttosto “distorti”, ma in modo interessante, molto evocativo piuttosto che dare messaggi, raccontare storie decadenti, perché l’immaginario dei Verdena non è decadentista. I ragazzi della tua (riferendosi alla sottoscritta n.d.r.) generazione si compiacciono molto ascoltando storie che raccontano situazioni terribili, di gente che sta malissimo, si strugge. Siccome questo modo di sentire a me non piace, preferisco non creare o raccontare storie che giudico prive di senso. Se dovessi scrivere un testo, mi piacerebbe che parlasse di qualcosa che probabilmente non arriverebbe alla maggior parte della gente. Credo questo perché noto che hanno molto riscontro stati d’animo che a me non smuovono nulla. Il fatto che non ci siano migliaia di persone che aderiscono all’immaginario dei Jennifer credo sia per questo, seguono altro e va bene così, non mi struggo nemmeno io, a mia volta.

Quanto le case discografiche determinano la musica dei gruppi (a livello di esigenze di marketing) o vi sentite totalmente liberi di esprimervi? M: Per quanto riguarda i Jennifer, fino al terzo disco ci siamo autoprodotti, poi è arrivata la Subpop. Non ci ha chiesto di cambiare o di diventare qualcos’altro, ci conoscevano già, eravamo già presenti nel mercato americano, anche se in piccolissima scala, quindi ci hanno semplicemente chiesto di continuare a fare musica, ma “uscendo” per loro da quel momento. L: Ci è andata bene, siamo con una major. Sin dall’inizio, però, abbiamo messo in chiaro che volevamo la direzione artistica. L’ambiente influenza la creatività? non per essere esterofili, ma siete abbastanza stimolati dal Prima e dopo la Subpop records. Che effetto fa panorama musicale italiano? Credete che all’eessere l’unica band italiana con un’etichetta che stero ci sia più sperimentazione? ha prodotto le più grandi rock band internazio- M: In Cina (dove siamo stati in tour nel 2007) si vive nali (tra tutti i nirvana)? Questa gratificazione ha una condizione a parte. Possiedono una grandissima portato più pressioni? cultura e tradizione musicale, che risale ai tempi delM: La nostra musica non è cambiata, si è semplice- la muraglia, delle pagode, ma la stanno sprecando, mente evoluta con il trascorrere del tempo e l’acqui- come succede anche qui, concedendo spazio agli stesizione di maturità. La Subpop riceve il master e lo reotipi della società occidentale. Adesso, c’è un’offermanda in stampa, non ha mai chiesto di modificare a ta culturale che è “la brutta copia, della brutta copia, posteriori qualcosa. dell’orribile copia di quella americana. Si stanno “occidentalizzando”… Si stanno Uccidentalizzando seconE’ dal 1999 che siete in attività, ormai dei ve- do me (che parole geniali!). terani, ma rispetto a band più popolari (conce- Del resto poi c’è anche il problema dei concerti che detemi il termine che non amo molto) voi siete costano troppo. Quando ci siamo esibiti noi, il conrimasti un gruppo di nicchia (e anche per questo certo era gratis, la gente è venuta a fiumi anche per ci piacete) almeno in Italia. Questo, secondo voi, quello. La canzone, poi, era conosciuta perché legata

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[ INTERVISTE ] a uno spot sull’uso del preservativo. E’ stata fatta una campagna pubblicitaria lunga e pedante, oserei dire, utilizzando la nostra canzone “I Do Dream You”. Però il mercato in Cina non si può tastare…anche se siamo stati il gruppo con maggior numero di download per la Subpop, non vuol dire nulla, in quel paese non c’è il diritto d’autore! Realtà del tutto diversa in America e Inghilterra, dove c’è un mercato, una realtà con la quale ti puoi confrontare, anche nel momento in cui decidi di cantare in inglese. Ho notato molta attenzione, al di là che piacesse o meno la nostra proposta. Interessante è vedere la gente che viene ai concerti: si tratta di musicisti che osservano il pedale che usi, ascoltano veramente quello che fai, ci entrano più dentro. Persone per le quali la musica è un bene primario, necessario per la vita di tutti i giorni. E’ uno svago del sabato sera, tanti sono interessatati, lì ti confronti davvero. Un gruppo più sconosciuto di noi, veramente una realtà da garage, fa date ogni giorno, certo in locali piccoli, ma suona, ha il suo pubblico, anche se ristretto, vende i suoi cd, le sue magliette autoprodotte. Si crea veramente un indotto, per quanto piccolo, anche per le realtà più misconosciute. Qui “devi farti il mazzo” fino a un certo punto, magari con la condanna di rimanere in uno strano limbo in cui non sei Eros Ramazzotti. I Jennifer Gentle sono tacciati di essere poco italiani per la scelta dell’inglese, per il tipo di sonorità. Quanto vi sentite italiani musicalmente parlando? M: Molto più di quanto si creda, nel senso che la scelta dell’inglese è dovuta al fatto che sono cresciuto ascoltando musica anglosassone o strumentale. Io credo che, non sempre, ma in certi punti, si possano ritrovare molte caratteristiche della tradizione italiana nella musica dei Jennifer. Poi, ovvio, c’è molto del pop inglese, ma ci sono momenti, ad esempio in “The midnight room”, in cui si sente il richiamo di alcuni tratti tipici che appartengono alla tradizione classica italiana, tipo le colonne sonore di film. Io sono orgoglioso di essere italiano, è che gli italiani non sono orgogliosi di esserlo, stanno sempre a rincorrere qualcos’altro. Io per primo mi impegno ad essere diverso a livello stilistico, ma perché sono nato con altri ascolti. Di italiano mi piace Battisti, non è che ascolto ”i Cani”, mi rifaccio ad altro. Però credo che ascoltando con attenzione la nostra musica, si possa trovare molto d’italico. Oltre che nello spirito, nell’approccio artigianale con cui produciamo i nostri lavori, c’è proprio

odore di manovalanza italiana nei dischi dei Jennifer, anche se con un occhio più allargato, uno sguardo più cosmopolita. Ho letto varie interviste ai Verdena in cui dici (Alberto) che hai bisogno di chiuderti nello studio “Henhouse”. Vivi in uno stato differente questo tipo di live (alla stregua di un concerto tra amici)? A (Alberto Ferrari): E’ un concerto con amici e in secondo luogo con il mio gruppo preferito italiano, quindi sono supermegacontento di suonare con loro. Non è mica vero che io, finita la tournée, mi chiudo in studio, mi piace mettermi a lavoro su un nuovo disco… Se e quanto influenza lo stato del pubblico le vostre esibizioni? A: Di brutto ovviamente, cambia tutto. M: Più passa il tempo, meno mi influenza. A: Ho visto che tu sei meno influenzato (rivolgendosi a Marco). Lui è riuscito ad estraniarsi da questo, ed è una “figata”…. M: Ti ripeto all’inizio un sacco. Ho imparato a conoscere come mi comporto sul palco, vedo che mi trasformo, in quell’ora e mezza entro in un altro mondo, vivo un altro stato d’animo, entro in un’altra realtà. Questa capacità è arrivata con il tempo, all’inizio era molto meno sviluppata, mi lasciavo più influenzare dagli agenti esterni, ora no…chiaro la differenza c’è tra un concerto in cui la gente si diverte e chi...”ti rutta in faccia”, non sono un’idiota!! Però se vedo che il pubblico si diverte meno di quanto vorrei, cerco di rimediare, se non altro per noi sul palco, voglio che sia un’occasione speciale, se la gente non la ritiene tale, cerco di creare all’interno di me stesso la condizione per cui la diventi almeno per noi. All’inizio ero più onanista in questo, più egoista, mi esibivo maggiormente per il mio piacere, ora lo faccio più anche per gli altri, però, paradossalmente, allo stesso tempo, oggi, mi influenzano di meno qualora non dovessero apprezzare. E’ strano, un equilibrio particolare al quale non sono arrivato del tutto, ma che sto conquistando. Chiaro se c’è la serata sfigata, in cui tutto ti rema contro, è più facile farsi influenzare, ma, mediamente, cerco di creare la condizione ideale. Oltre ai live. Siete al lavoro su nuovi progetti? A: Sì, stiamo lavorando ad un nuovo disco. E’ un album molto vario, completamente differente da Wow, il piano e la chitarra acustica non li ho ancora toccati, però

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[ Musica ] può essere che tra qualche mese cambieremo tutto e diventerà solo piano e chitarra, ma spero di no. Come ogni nostro lavoro è differente da quello precedente, potrebbe assomigliare a qualcosa, magari essere il risultato di un mix degli altri, devo riascoltare un pò il tutto, adesso siamo al 30-40% del progetto e stiamo procedendo abbastanza velocemente… Voci dicevano di un tour solo improntato su Wow, è vera quest’informazione? A: No, avevamo pensato solo a due date a teatro, in cui volevamo suonare tutti i pezzi così come nel disco, doveva essere qualcosa di molto veloce, però poi avevamo bisogno di parecchi musicisti, di più tempo e, alla fine , non se n’è fatto più nulla. La formazione è tornata quella originale? A: Sì siamo io, Luca e la Roby. Per me chi non si presenta in sala prove non fa parte del gruppo, nel senso che, se arrivi in studio e ti metti a suonare il piano, allora, fai parte della band... Ok, quindi verrò ad Albino! M: immagino chi leggerà l’intervista: ora verranno tutti ad Albino con lo strumento in saccoccia (n.d.r. Ridono!) A: In realtà non è così semplice … Invece per quanto riguarda i Jennifer cosa bolle in pentola? M: Sto scrivendo il nuovo disco, spero quanto prima di terminarlo. Poi sto lavorando a progetti in studio,di ampio respiro internazionale, che dovrebbero uscire in primavera … [] L’atmosfera che si crea una volta che, a fine intervista, salgono sul palco, sembra quasi confidenziale... lnteragiscono con il pubblico, inscenando persino una canzoncina sulla fine del mondo (sì, perché è il tanto temuto 21 dicembre, ma nessuno ci ha fatto caso, a parte Marco, ironizzando).Insieme reinterpretano i brani caleidoscopici dei Jennifer: Take My Hand, Liquid Coffee, No Mind in My Mind, tanto per citarne alcuni. Alberto non può non intonare una canzone degli amati Beatles (I’m so tired) e ci regala Caños, quasi violentando il microfono. I quattro amici sperimentano, si divertono, la sinergia che li lega, trapela. Due gruppi diversi, ma complici, fanno divertire e soprattutto si divertono, emozionano, improvvisano. Musica psichedelica allo stato puro, viaggi interminabili in mondi sconosciuti, accompagnati dalla particolare voce di Marco Fasolo e dalla voglia di suonare dei suoi tre compagni di viaggio. Insomma, una miscela esplosiva!

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dimartino

[ INTERVISTE ]

di James Cook e Andrea Furlan

Antonio Dimartino

Il 2012 per è stato un anno importante: con il suo secondo album "Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile" ha raccolto numerosi consensi, fino ad essere indicato da più parti come uno dei dischi italiani dell'anno. Lo abbiamo incontrato dopo un'affollata data al Magnolia e, tra le altre cose, abbiamo scoperto che le etichette "cantautore" e "indie" proprio non gli piacciono. Ecco nel dettaglio com'è andata...

|photograph by Starfooker

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[ Musica ]

D

imartino nasce dopo un’esperienza di circa 10 anni con i Famelika e sempre con Giusto e Simona. Parliamo di evoluzione o cambio di direzione? Ma no, evoluzione no, si tratta più di un cambio di rotta. A un certo punto ci siamo resi conto che dopo 10 anni le cose vengono chiamate storiche, ma in realtà forse semplicemente non funzionano. Abbiamo avuto un’occasione importantissima come il primo maggio a Piazza San Giovanni, nata praticamente dal nulla. Dopo quell’esperienza i rapporti tra noi sono un pò cambiati. È stata una situazione molto strana e pesante abbandonare i miei compagni di dieci anni. Quando ho iniziato con loro avevo 15-16 anni, è stata la prima opportunità che ho avuto di poter cantare le mie canzoni, praticamente una scuola. Abbiamo fatto di tutto: suonato nelle pizzerie, ai matrimoni, nelle balere…proposto nell’entroterra siciliano il rock progressive, condividendo la gavetta vera. Ora mi presento con il nome Dimartino forse per proteggermi dal fatto che, come diceva Carboni, “le band si sciolgono”.

Nei Dimartino c’è Simona che dal vivo non ti segue perché sta portando avanti anche il progetto Iotatola. Ti manca o Angelo Trabace la sostituisce perfettamente? Angelo ha un’individualità musicale di alta qualità, come anche Simona. In questi anni lei ha sviluppato un suo percorso come autrice molto bello insieme alle Iotatola. Abbiamo pensato di comune accordo che sarebbe stato meglio allontanarsi in modo da far vivere i due progetti autonomamente. Comunque continuiamo a scambiarci idee e nel loro prossimo disco ci sarà un mia canzone. Nel primo disco di Dimartino la produzione è di Cesare Basile, nel secondo c’è l’intervento di Dario Brunori. Praticamente due generazioni, per età e per formazione. E’ stato molto diverso il metodo di lavoro? Basile è molto istintivo, ha lavorato poco sugli arrangiamenti, dedicandosi di più ai suoni. Invece Brunori ha messo molto di suo negli arrangiamenti. Hanno gusti molto diversi e questo ha fatto si che i due dischi suonassero in modo molto diverso. Nel terzo disco mi

piacerebbe arrivare a una mediazione tra l’attitudine punk di Basile e la grazia di Brunori. Parlando sempre del rapporto tra i due dischi: “sarebbe bello…” è molto più omogeneo musicalmente, trovo molto validi anche i testi, quasi possano vivere di vita propria. Insomma, secondo me, si tratta di un lavoro decisamente più maturo. E’ successo qualcosa in questo periodo che ti ha portato a questo stato di grazia creativa? Il primo disco contiene molti pezzi che ho scritto quando avevo vent’anni, è quindi molto vario, come fosse una presentazione del mio lavoro negli ultimi sei anni. Questo album, invece, l’ho scritto praticamente in sei mesi, un periodo circoscritto, ed è più omogeneo anche per questo, anche nei testi. Il titolo del disco l’hai già spiegato tante volte, ma è davvero curioso: “Sarebbe bello non lasciarsi mai ma abbandonarsi ogni tanto è utile”. Lo hai scelto perché suonava bene o ci credi veramente? Io mi ci riconosco tantissimo. Per innamorarmi di si-

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[ INTERVISTE ] tuazioni o persone ho bisogno di staccarmene per un pò. Non dico solo nel rapporto di coppia, ma in quasi tutto quello che faccio. Anche all’università è stato così: volevo sempre cambiare corso, poi, quando mi allontanavo, desideravo tornarci di nuovo. Sono convinto del valore di questa frase, non ho trovato altre parole che rendessero altrettanto bene il contenuto del disco. Secondo me uno stacco di un certo periodo è fondamentale, insomma abbandonarsi è utile…

emergenti. Proprio due giorni fa ho registrato un contributo musicale per un film di un regista siciliano. Diciamo che, considerata la mia passione per il cinema, scrivere una colonna sonora sarebbe un passo per me molto importante.

A me queste parole fanno anche pensare un pò al titolo di un film di Lina Wertmuller… Io sono un fan di Lina Wertmuller. Quando guardavo i suoi film su retequattro ero sempre incuriosito dai titoli, che trovavo davvero geniali.

Come procede l’occupazione del teatro Garibaldi di Palermo? Il teatro è ancora occupato, la programmazione continua ed io lo frequento. Chiaramente l’occupazione è basata su un approccio politico, discussioni che dovrebbero portare ad una concezione “politica” del teatro. Con questo non intendendo farne una questione di sinistra o di destra, mi riferisco al senso dell’occupare, penso a quello che stiamo facendo materialmente. Quando sono in giro mi perdo assemblee, mi è difficile seguire assiduamente, e perdo un pochino il filo dei discorsi, ma sono vicinissimo a questo tipo di iniziative. Ho fatto l’occupazione del teatro Coppola e sto partecipando a questa…Magari non mi sento un musicista attivo, nel senso che non scrivo canzoni impegnate, non mi sento impegnato, ma come persona sono molto coinvolto. Non sono granché convinto che una canzone possa influire sulle scelte nel sociale. Non le vedo molto collegate le due cose, soprattutto in questo periodo storico. Non credo nemmeno che sarei in grado di scrivere canzoni di protesta.

Se potessi scegliere un regista per il quale lavorare, chi ti piacerebbe? Win Wenders.

“Io non parlo mai” è un testo che mi ha colpito molto e, se non erro, è un brano che hai scritto in un periodo precedente rispetto alla maggior parte dei pezzi di questo disco. Di cosa parla esattamente? Si, questo è un brano che avevo scritto nel 2005 che parla della possibilità dell’impossibilità. Ogni tanto credere a cose apparentemente impossibili da realizzare fa bene. Se, ad un certo punto, magari immerso nella tua precarietà, senti di non poter riuscire “a volare”, cioè realizzare cose che, per le leggi di gravità o dello stato sono ritenute impossibili, perché rinunciare? Perché non provare a renderle possibili?! Più o meno la canzone parla di questo, anche se in realtà io scrivo più per immagini. Lascio sempre aperte le possibilità d’interpretazione, non m’interessa molto creare una storia nettamente comprensibile, preferisco che ognuno vi cerchi il proprio personale significato. La stampa musicale ci abitua a fare classificazioni. Quando si riferisce a te due sono le parole Trovo che lo sviluppo di molti pezzi dell’ultimo che ricorrono più di frequente: indie e cantautodisco sia quasi “cinematografico”. Che rapporto re. Cosa ne pensi? Ti ci riconosci? hai con il cinema? Non mi piacciono né l’una né l’altra. Indie che vuol Sono molto appassionato di cinema ed ora lo sto an- dire? Non lo so e forse neanche mi interessa saperlo. che studiando. Non perché vorrei realizzare un film, Secondo me è solo una questione di passaggio, una ma perché m’interessa capire cosa succede prima. moda, magari tra un po’ lo chiameranno in un altro Secondo me la professione del regista è difficilissima, modo…Per quanto riguarda invece la parola cantauparagonabile a quella di un chirurgo. C’è un sacco di tore, diciamo che il termine è esplicativo di quello che lavoro dietro, devi intendertene di tantissime cose.. è un artista fa, ma in Italia questa parola è associata alla un’arte davvero molto alta. figura di un uomo con capelli lunghi e barba incolta. Non mi da fastidio, però non è nemmeno una definiTi piacerebbe scrivere una colonna sonora? zione in cui mi riconosco, la ritengo sempre piuttosto Si, mi piacerebbe moltissimo. In realtà sto inserendo fuorviante. canzoni mie in piccoli cortometraggi o film di registi

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[ Musica ] to mi piacciono molto, anche “L’ultima cena” (“ti perdo”), da cui io ho tratto “La penultima cena”. Ho letto che l'obiettivo della musica è comunicare a più persone quello che fai. Qualche tuo collega (e penso a Colapesce o a Gnut) ha provato a partecipare alle eliminatorie per Sanremo. Tu non ci hai pensato? Non ti ci vedresti sul palco dell’Ariston? Non ci ho mai provato forse perché non ho mai avuto la canzone adatta per andarci. Magari, se un giorno scriverò un pezzo che sentirò adatto per quel palco, ci proverò. Cosa ne pensi del disco di Colapesce? Mi piace molto e sta avendo i giusti riconoscimenti. Il 5 ottobre al Teatro San Vitale di Fontanellato (Pr) hai eseguito “bella figlia dell’amore” tratto dal rigoletto di Giuseppe Verdi. È una cover piuttosto strana… Gli organizzatori del festival Barezzi Live, mi hanno chiesto di riproporre un pezzo d’opera. All’inizio mi ha un po’ spaventato l’idea, poi Angelo ha suggerito quest’aria del Rigoletto e l’abbiamo arrangiata. Sono operazioni azzardate e difficili ma che mi stimolano molto a trovare soluzioni musicali nuove. Il teatro di Fontanellato è un gioiello come anche il festival. [] Una curiosità: che musica ascolti? Sul mio Ipod per adesso girano i Grizzly Bear, gli Arcade Fire, i Fanfarlo, i Wild Beasts, perché penso sia giusto capire e ascoltare i dischi che escono nel resto del mondo. Naturalmente ci sono le mie pietre miliari che sono i Radiohead, i Pink Floyd (sono cresciuto con Ummagumma) e un bel pò di prog inglese e italiano. Diciamo che i cantautori li ho scoperti molto più tardi. ”La buona novella” l’ho sentita a 22 anni. Sono anche appassionato di Vladimir Vysotsky e di un po’ di cantautori francesi. So che sei un fan di Franco Califano… Califano secondo me è un autore poco valutato nel panorama nazionale. Ha avuto un buon successo ma non è stato preso molto sul serio, forse perché anche lui ci ha messo del suo…Penso abbia scritto alcune canzoni bellissime. Ad esempio “La nevicata del 56”, composta per Mia Martini secondo me è bellissima, anche “un’estate fa…” Califano mi piace, in particolare alcuni brani del passaJK | 20


nicolo' carnesi

[ INTERVISTE ]

di James Cook

Nicolò Carnesi

è un giovane palermitano che certamente ha qualcosa da dire. Uno dei più interessanti autori della scena emergente italiana, il cui disco d’esordio, “Gli eroi non escono il sabato”, è stato uno dei lavori di cui si è parlato maggiormente nel 2012. Lo abbiamo incontrato prima di una delle sue recenti date milanesi per fare il punto su un periodo davvero luminoso per lui.

C

hi era Nicolò Carnesi prima che tutti si accorgessero di lui? In realtà è successo esattamente quello che succede un pò a tutti. Tu sei lì, scrivi canzoni e le porti in giro. Ovviamente, trovandomi in Sicilia, è stato più difficile farmi notare a livello nazionale. Quasi impossibile, senza dietro un nome, un ufficio stampa e un disco che rispondessero ai criteri canonici di visibilità. Concerti ne ho fatti tantissimi in Sicilia, ho seguito nuovi progetti, scritto molte canzoni, questo per anni…ma non succedeva nulla, tantomeno la possibilità di registrare un disco. Non ho mai pensato di lasciare ma ero un po’ sco-

|photograph by Noelia Suarez

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[ Musica ] raggiato, finché, un giorno,mi son detto: “Ho dei brani nuovi, li metto su youtube e vediamo che succede”… (comprendevano “avevo poca fantasia” che poi è finita nel mio primo disco). Da lì si è formata una piccola nicchia siciliana che ha iniziato ad ascoltare i miei video condividendoli su internet e a frequentare i miei concerti. Mi sono poi arrivate alcune richieste da parte di piccole etichette discografiche, tra cui la palermitana Malintenti che già conoscevo. Si è creato un vero e proprio progetto, un’idea. Il processo creativo è stato lunghissimo, è trascorso più di un anno nel quale ho scritto un sacco di canzoni. Addirittura, la mia idea iniziale era di pubblicare un doppio album…ma chi mai ha esordito con un doppio cd?? Nessuno, proposta improbabile da realizzare… Per pubblicizzare l’uscita del disco abbiamo anticipato un singolo con tanto di video: “Il colpo”, stampato in 45 giri. 500 copie che ora sono quasi esaurite, non verrà mai più ristampato, quindi, collezionisti, approfittate delle ultime disponibili… La cosa bella è che il video è piaciuto a rockit e da lì ha preso il via l’attenzione a livello nazionale. Si è stabilita una base minima di attesa, incrementata anche dall’ep pubblicato due mesi prima dell’album, che ha permesso al disco di “uscire” nel migliore dei modi. Ricordo che dopo l’uscita dell’ep le agenzie hanno cominciato a chiamarmi, il mio progetto ha iniziato a concretizzarsi, la mia musica a piacere.

Con Paolo Sorrentino sarebbe bellissimo. A livello mondiale invece, David Lynch, un regista che mi ha cambiato un po’ la vita… Ho letto che ti piace tantissimo ogni giorno scoprire musica nuova. Quali sono gli ultimi ascolti che ti hanno colpito? Un disco italiano che mi è piaciuto tanto è quello dei “Non voglio che clara”, scoperto solo di recente. A livello internazionale mi ha colpito l’album di Norah Jones, prodotto da Danger Mouse…il suo tocco si sente molto! Credo poi che l’ultimo album dei Tame Impala sia uno di quelli che ho ascoltato con più soddisfazione negli ultimi anni.

Nelle tue canzoni ti riveli un osservatore della realtà ironico e cinico. Le tue origini palermitane hanno influenzato questa attitudine? Naturalmente si, ognuno è il prodotto del luogo in cui vive e a sua volta ne viene influenzato. Il periodo in cui in Sicilia, e in particolare a Palermo, stava nascendo questo piccolo movimento musicale, per tutti è stato un bel momento di confronto…poi, naturalmente, ognuno ha preso la sua strada. Ho sempre coltivato il senso dell’ironia nella vita di tutti i giorni, anche in famiglia, con i miei genitori. E’ naturale, quindi, che i temi delle canzoni che scrivo vengano filtrati attraverso questo lato dominante del mio carattere. Ad esempio, penso a “levati”, un brano Ho letto che, nella tua adolescenza disegnavi che, forse, al primo ascolto fa semplicemente sorridefumetti e ti inventavi cortometraggi. Sei anche re, ma, in realtà, rappresenta al meglio il mio modo di appassionato di cinema? affrontare le situazioni e “vivere” le persone. Credo che per un certo periodo (dai 13 ai 17 anni), sia stato il mio interesse dominante. Guardavo fino a Il titolo del tuo album “Gli eroi non escono il sa5 film al giorno, scrivevo sceneggiature, cercavo con bato” sembra quasi una dichiarazione di antimezzi ridicoli di fare dei piccoli cortometraggi e intan- conformismo. Chi sono i tuoi eroi? to disegnavo, mi piaceva anche l’idea di fare fumetti. Su questo tema mi rifiuto di rispondere. Scusa, ma Non a caso ho frequentato il liceo artistico e l’accade- non ne posso veramente più di discuterne. Ho scritto mia di belle arti (anche se poi ho lasciato a metà…) una canzone che si intitola “Gli eroi non escono il sabato” che poi non ho messo nel disco, ma i concetti di Ti piacerebbe scrivere una colonna sonora? eroi e di sabato sera ricorrono spesso nel mio lavoro. Una volta l’ho fatto! Si trattava di un piccolo cortome- Ascoltandolo, secondo me, è più logico che ognuno traggio finanziato dalla comunità europea. Ho avuto a trovi da solo la propria singola risposta. Il titolo lancia che fare da vicino con un mondo davvero affascinante. una sorta di messaggio che ciascuno può interpretare Eravamo tutte persone senza curriculum ed è stato liberamente… bello sentire la propria colonna sonora al cinema, anche se il corto, a mio parere, era veramente bruttis- In un brano dici “cambio mestiere, divento ingesimo... gnere” è una battuta o ti pesa la precarietà del tuo essere artista? Con quale regista ti piacerebbe collaborare? Io ho la fortuna di avere alle spalle una famiglia che

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[ INTERVISTE ] mi ha sempre aiutato e mi permette di prendere quest’attività con un pò più di leggerezza. Se, dal punto di vista economico, mi ritrovassi a dover essere completamente indipendente, oggi non riuscirei a vivere la mia passione con questo stato d’animo…

fa piacere? In effetti, se facciamo il calcolo quest’anno, in Italia, penso di essere fra quelli che hanno fatto il maggior numero di esibizioni live. In ogni caso mi ha fatto piacere, ne sentivo proprio il bisogno. Comunque, anche nel periodo di attività più intensa, capitava sempre di Mi sono perso a Zanzibar parla di un viaggio ma tornare a casa, almeno una volta a settimana. Cerin realtà non sembra importante la destinazione, to, in alcuni momenti, la stanchezza si è sentita, ed è piuttosto le esperienze vissute nel viaggio stes- proprio in quelle occasioni che mi ha fatto veramente so… piacere rientrare in famiglia. A me piaceva l’idea, filtrata sempre dal mio senso dell’ironia, di utilizzare come punto di riferimento emo- Hai lavorato con diversi artisti italiani. Chi ti piativo un luogo esotico. Allo stesso tempo, però, stavo cerebbe ti telefonasse domani per una nuova colcercando di descrivere uno stato d’animo, una sorta laborazione? di idea utopica di felicità. Per il protagonista del mio Le collaborazioni sono sempre molto interessanti. pezzo Zanzibar rappresenta la felicità perché, proprio Franco Battiato, tra i cantautori, è il mio preferito. Mi lì, trova quello che sta cercando. Credo che, nella piacerebbe molto averci a che fare, vederlo all’opera. vita quotidiana, ognuno di noi cerchi un luogo o uno L’ho incontrato in un’occasione, ma non so se lui costato d’animo dove tornare o arrivare. La canzone è nosce quello che ho fatto. semplicemente una sorta di metafora per raccontare questo percorso. Cosa c’è nel futuro di Nicolò Carnesi? Altri concerti fino a marzo e poi la scrittura del nuovo Cosa c’entra in tutto questo “Itaca” di Konstan- disco. Ho già pronte un po’ di canzoni, ma ne voglio tinos Kavafis? scrivere altre per avere una maggiore scelta, poterle Quando ho inciso questa canzone (mi sono perso selezionare e pubblicare, poi, solo quelle che sento a Zanzibar, ndr.) l’ho fatta sentire a mia madre. Lei, ben amalgamate tra loro. ascoltandola più volte, ha trovato spontaneo colle- [ ] garla alla poesia di Kavafis, che io non conoscevo. In effetti, rileggendola, anche io vi ho riconosciuto lo stesso approccio. In tanti parlano di te come una promessa. Ora che dovrai pensare al secondo disco, ti senti libero di scrivere o ti pesa un pò quest’aspettativa? Sono abbastanza sereno. Certo mi fa piacere che la gente si interessi a quello che compongo, fondamentalmente lo faccio perché venga ascoltato. Questo disco l’ho scritto senza crearmi aspettative particolari, senza sapere in quanti l’avrebbero apprezzato. Ora un minimo di attesa c’è: ora esiste un pubblico che si aspetta qualcosa da me. Cerco di accantonare questo pensiero e scrivere ciò che mi piace...vorrei trovare un filo conduttore tra i due dischi, senza però pormi limiti. Sono alla ricerca di soluzioni nuove che mi appartengono e che nel primo disco non ho avuto modo di sviluppare. Nell’ultimo anno hai fatto tantissimi concerti girando praticamente tutta l’italia. Ti pesa restare così spesso lontano da casa o è una scelta che ti

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[ Musica ]

LA NUIT di Massimo Miriani

Se c’è una cosa che la musica rock ha generato negli anni, che ancor oggi vive ed è in continua evoluzione ed espansione, sicuramente è la voglia di formare una band con la quale suonare, esprimersi, comunicare insieme. Questo è il "virus" che ancora oggi colpisce giovani e meno giovani, li avvicina e li fa incontrare per creare qualcosa insieme. Ogni giorno, in tutto il mondo, nascono gruppi musicali che accarezzano il sogno di poter conquistare, grazie all’impegno profuso, un pubblico per il quale riuscire a diventare, un domani, punto di riferimento e interesse. Una delle band che ha attirato la mia attenzione è , formazione milanese composta da Giulio de Busti (voce), Marco Mangone (chitarra), Marco Aprigliano (basso) e Andrea Spinelli (batteria). Nel corso di 2 anni

La Nuit

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[ INTERVISTE ]

di intensa attività Live, i La Nuit hanno svolto il ruolo di Opening Act al fianco di grandi Artisti, tra i quali Love in Elevator, Bologna Violenta, Io? Drama, Lubjan… Vincitori del Bià Music Contest 2011 (grazie al voto di Manuel Agnelli degli Afterhours, presente in giuria) e reduci da esperienze come il live nel carcere Torre del Gallo di Pavia, i La Nuit necessitano costantemente di affrontare nuovi palchi, nuove esperienze, sempre a testa alta e con una grinta Live che è impossibile descrivere a parole. Insieme riescono creare un'alchimia unica ed affascinante, ruvida, reale, poetica. Ho assisto ad un loro Live presso l’East End Pub a Lambrate (Mi) ed ho colto l'occasione di porre loro alcune domande.

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[ Musica ] Quando e dove si formano i La Nuit? I La Nuit si formano in sala prove dall'incontro tra me (Marco) e Andrea. In origine abbiamo collaborato per formare una “coverband alternative”, ma dopo poche prove, l’evidente alchimia fra noi ci ha portati alla creazione di brani inediti e alla ricerca di nuovi elementi con le stesse nostre attitudini. E’ arrivato prima Giulio, che ha dato la sua forte impronta al gruppo, per finire con Marco Aprigliano.

programmazione di un nuovo progetto ma, in primo luogo, cercheremo un'etichetta con cui collaborare e, soprattutto, live,live,live,live!

Cosa ne pensate dell’attuale panorama musicale italiano? Viviamo in un periodo storico musicalmente molto difficile. Band già navigate trovano difficoltà e non ci sono spazi per gli emergenti. Per noi l'importante è continuare a suonare credendo in quello che facciamo. Esprimete la vostra musica attraverso un gene- [ ] re che descrivete rock crepuscolare. Cosa potete dirci in proposito? Per noi il crepuscolo ha sempre avuto un fascino particolare, rispecchia molto i nostri stati d'animo, ci riteniamo più "notturni. La luce che lotta contro il buio rappresenta quell'animosità interiore che noi 4 affrontiamo tutti i giorni. Cerchiamo la gioia tentando di esorcizzare le nostre paure. Nel panorama musicale italiano sono abbastanza note le difficoltà che ha un gruppo emergente per poter raggiungere visibilità. Qual’ è la vostra opinione in proposito ? Personalmente, avendo parecchi anni in più dei miei compagni , devo dirti che ho già sperimentato queste difficoltà. La vera sfida da affrontare, in Italia in questo momento, è il disinteresse della gente. Siamo tutti “struzzi”…le canzoni che parlano di problemi reali e autobiografici, come quelle che normalmente nascono nel panorama musicale alternativo, spaventano, invece di attirare! E’ più semplice ascoltare un gruppo che parla di cazzate!! Ultimamente nessuno vuole affrontare argomenti impegnativi (a qualsiasi livello...) Qual’è, secondo voi, la caratteristica più saliente che vi contraddistingue da altre band? Non ci permettiamo di dire se è meglio o peggio rispetto ad altri, ma quello che più sentiamo vivo nella nostra band, è la spontaneità dei testi e la fisicità della musica. Progetti per il futuro? Finalmente è in uscita il nostro primo disco interamente auto-prodotto, " introduzione al bimbo insonne ", che sarà presentato il 26 gennaio presso l'Arci Tambourine di Seregno. Suoneremo da spalla a due nomi molto noti del panorama indipendente italiano: Roberto Dell'Era e Rodrigo D'erasmo (Afterhours). Poco dopo la pubblicazione dell’album partirà la

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[ RECENSIONI ]

NADAR SOLO DIVERSAMENTE, COME? (Massive Art Studios, 2013)

di Antonio Asquino

Quanto conta saper scrivere un testo come si deve nel panorama italiano? Sempre troppo poco rispetto all’importanza che dovrebbe avere… Infatti se ne vedono i risultati nella banalità travestite (male) da poesia e nell’inutilità di gran parte delle band nostrane che popolano il panorama musicale. Tutto questo per dire che quando poi ci si trova ad ascoltare un gruppo come i Nadàr Solo, che invece ai testi dedica la giusta attenzione e sui quali costruisce una poetica ben delineata e ottimamente trasmessa, si corre un grosso rischio: quello di infilarli nel “calderone nostrano musicale” come un qualsiasi gruppo più o meno bravo. Questo, però, sarebbe sbagliatissimo, oltre che ingiusto, perché si tratta di una band in grado di comunicare come poche. Giunti alla terza fatica, i torinesi (che devono il loro nome a un film argentino uscito nel 2003, molto bello oltre che perfettamente in linea con l’idea alla base del gruppo) affilano le armi e colpiscono al cuore l’ascoltatore con undici brani intensi, diretti, testimonianza di una creatività urgente e degna di attenzione. E’ evidente, durante l’ascolto di tutto il disco, la ricerca da parte del trio di una cifra stilistica personale. Ricerca che si alimenta di una ritmica precisa e potente su cui si innestano chitarre ora avvolgenti, ora energiche. Si tratta di suoni che attingono al serbatoio del miglior rock nazionale e internazionale degli ultimi vent’anni abilmente declinato, a volte nelle sue forme più dirette, altre amalgamato con il pop d’autore. Le soluzioni d’arrangiamento adottate risultano spesso originali: alternanze di pieni e vuoti, esplosioni rabbiose e coinvolgenti, la quintessenza di ciò che s’intende nella storia del rock per “power-trio”, insomma.

Dei testi abbiamo già accennato in apertura ma è cosa buona e giusta ritornarci… La capacità di Matteo De Simone (che è anche scrittore ed ha pubblicato due romanzi, oltre ad essere basso e voce del gruppo) di dipingere una realtà desolante, su cui si stagliano figure che vivono spesso situazioni di sofferenza per storie finite, o nate male, è indiscutibile. L’abilità nel dosare ricordi, immagini e parallelismi tra mondo circostante e sfera intima è spesso di una bellezza disarmante. Risulta essere figlia, oltre che (ovviamente) delle esperienze personali, anche di un evidente amore per la letteratura e una formazione alla scuola della canzone d’autore (quella vecchia, quella vera intendo). Come spero abbiate capito, nel piccolo mondo postmoderno del cosiddetto “indie” italico, non sono cose esattamente all’ordine del giorno. La ricerca di cui scrivevo prima va a buon fine, il risultato è evidentemente meritevole di ascolti ripetuti e stima. Certo, a volersi travestire da dog-sitter e fare le pulci, si possono trovare qua e là riferimenti a gruppi come Verdena, Ministri, Beatles e successivi gruppi inglesi, nonché il già citato cantautorato. Tutto, però, assimilato, plasmato e trasformato dalla personalità e dalle abilità dei Nadàr Solo, lo si percepisce fin dal primo ascolto. Ci sono diversi brani memorabili: l’acclamato e già noto “Il vento”, “La ballata del giorno dopo”, delizioso il suo incedere negli arpeggi e nella melodia. C’è poi un gioiello dal nome “Le case senza porte”, pressoché recitata nelle strofe e culminante in un ritornello esplosivo dal retrogusto quasi stoner. “Quel sabato mattina” dall’atmosfera sospesa tra filastrocca e gusto british. “Le ali” col suo piglio danzereccio ed immediato. “Perso”, vera e propria epifania cantautorale e, dulcis in fundo, la ciliegina sulla torta che risponde al nome di “I tuoi orecchini”, il mio brano preferito in assoluto. Piccolo capolavoro sotto tutti i punti di vista: dalle strofe quasi declamate, all’incedere delle chitarre graffianti, dalla batteria che oltre a fornire un preciso supporto ritmico funge quasi da controcanto, fino alla

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[ Musica ] NADAR SOLO - DIVERSAMENTE, COME? 01. Non conto gli anni 02. Tra le piume 03. Il vento (Feat. Il Teatro Degli Orrori) 04. La ballata del giorno dopo 05. L’abbandono 06. Le case senza le porte 07. Quel sabato mattina 08. Maggio giugno luglio 09. Le ali 10. Perso 11. I tuoi orecchini

UST KIDS

melodia del ritornello che ti entra in testa usando come grimaldello chitarre cristalline. Questo è un signor disco che merita di arrivare a più orecchie possibili e, se così succederà, visto il valore indiscusso della musica che contiene, potrebbe essere l’occasione per consacrare i Nadàr Solo come uno dei gruppi italiani in circolazione più degni di nota: lo meriterebbero senza il minimo dubbio! []

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[ RECENSIONI ]

LE BUGIE DI ELISA LE BUGIE DI ELISA (Seahorse Records, 2013) di Antonio Asquino

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rovarsi di fronte un gruppo come i livornesi Le Bugie Di Elisa metterebbe a dura prova chiunque ascolti la musica esclusivamente per generi musicali e compartimenti stagni. Tra i solchi delle tredici tracce che compongono questo disco omonimo si potrebbe organizzare una caccia al tesoro per poi scovare ogni elemento del melting pot (o meglio: melting pop) musicale che è alla base di questa gustosa proposta. Il punto è che, invece, non mi sembra il caso di farlo, poiché si farebbe un torto prima a se stessi che al gruppo. Questa è musica che va sentita fluire, va assecondata nel suo svolgersi senza giocare a fare i detective della critica musicale. Personalmente, mi limito a dire che la voce della cantante Elisa Arcamone spesso raggiunge vette difficilmente udibili altrove che ricordano la migliore Antonella Ruggiero (per chi non sapesse di chi sto parlando consiglio di abbandonare i comodi lidi e le pose da “indieitaliota” tipo, per farsi una cultura musicale degli ultimi trent’anni almeno, anche se andare ulteriormente a ritroso non potrebbe che fare bene… Ad un certo punto, a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80, troverete un gruppo italiano chiamato Matia Bazar. Non è mai stato considerato abbastanza dalla critica, non ha nemmeno goduto del revisionismo postumo che tanto piace nel ventunesimo secolo. Nelle loro espressioni migliori i Matia Bazar hanno declinato un pop sopraffino di volta in volta mischiato ottimamente con tanti generi musicali. Lo stesso discorso si può fare per Le Bugie Di Elisa (e con questo chiudo la digressione che ho ritenuto però necessaria). I musicisti toscani riescono a trovare di volta in volta soluzioni di arrangiamento estrose e convincenti. Su di esse la voce della cantante modella sensazioni

da offrire all’ascoltatore interpretandole con un eclettismo mirabile. Ad ogni stato d’animo, insomma, corrisponde la sua specifica voce e, tutte, sono più che convincenti ed apprezzabili. L’intelligenza di questo gruppo sta nel dosare preziosismi tecnici e spiccatissime capacità melodiche senza mai risultare stucchevoli. Credibilissime sono le soluzioni adottate, sia quando i brani sono movimentati, sia quando il ritmo si fa più lento. C’è n’è per tutti i gusti: dal ritmo saltellante di “Sconsideratamente”, al lirismo di ”Riposa” (un esempio dei rimandi alla Ruggiero di cui sopra), dal pungente violino di “Il complice”, al riff e alla melodia a presa istantanea di “Quadri”, dall’incalzare ed esplodere di “L’artista”, alla ninna nanna avvolgente di “La luna guarda”, dal valzer travolgente di “La commedia della morte”, alla poesia in salsa pop di “La quiete”, dalle suggestioni hard rock di “4 Settembre” (qui va aggiunto anche un complimento per l’originalità e la delicatezza dimostrata nel trattare in modo così intelligente il tema dell’abuso sui minori) alla dolcezza d’autore di “Mente in lattice”. Insomma un lavoro che non presenta punti deboli: ottimi gli arrangiamenti, testi di tutto rispetto per la loro originalità e capacità evocativa di immagini, il tutto suonato e cantato benissimo. Spero prima o poi di verificarne la resa dal vivo ma quello che ho sentito da “Le bugie di Elisa” è un gran bel sentire. [] LE BUGIE DI ELISA - LE BUGIE DI ELISA 01. Sconsideratamente 02. Cristallo 03. Riposa 04. Il complice 05. Quadri 06. Ego 07. L’artista 08. La luna guarda 09. La commedia della morte 10. La quiete 11. 4 settembre 12. Mente in lattice 13. Vetro

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LENULA PROFUMI D’EPOCA

(Pelagònia Dischi/La Fabbrica, 2012) di Giulia Palummieri

Sono passati due anni dal primo Ep dei Lenula, due anni in cui si sono avvicendati chilometri di concerti ed un percorso di scrittura che li ha portati fino in una casa immersa nella prateria a registrare in presa diretta i brani di “Profumi d’epoca”. Un lavoro, questo, che a giudicare dall’approccio e dalle sole due settimane con cui è stato preparato non aspettava altro che essere suggellato su disco e, pertanto, con fremito ed emozione, mantiene intatte tutte le caratteristiche peculiari della spontaneità. Ma non aspettatevi certo di trovare tracce figlie della fretta o della noncuranza, perché al contrario questo debutto ufficiale del trio pugliese racchiude in sé note ben lungi dall’avvicinarsi al gusto del “tirar via”. Strutturato su un organico di 11 tracce, d’altro canto, tale lavoro non solo evidenzia quanto i tre siano capaci di non risparmiarsi ma, addirittura, porta alla luce colpi di scena e sperimentazioni non sempre consoni alla generale impronta cantautoral-rock. Varie ed interessanti, tali pregi non tarderanno a mettere in luce lo slancio verso nature psichedeliche, jazzistiche o cabaret-circensi, irrorando così di nuova vita anche i momenti più canonicamente strutturati e lasciando a noi tutto il beneficio della scoperta. Repentini quanto suggestivi, i cambi di atmosfera che inevitabilmente vengono a crearsi, infatti, diventano indice di tali valenti contaminazioni e con un dato slancio si rendono complici di un piacevole smarrimento tra sensazioni contrastanti. Con i dovuti scossoni del caso, d’altronde, chi si trova a posare l’orecchio su queste note avrà in gloria i lividi creati dal passare da momenti avvolgenti e melodiosi a quelli rabbiosi e ricchi di pathos plumbeo, sentendosi così soddisfatto dell’essere riuscito con un solo giro

ad armeggiare con riff di chitarre distorte, fisarmoniche, glockenspiel e quant’altro. Ben saldi sulle loro competenze tecniche e su un insolito mix di rimandi settantiani / tradizional-popolari i Lenula, per mezzo di vibrazioni poetiche dai cenni baudelairiani/rimbaudiani, ci offrono un viaggio nell’interiorità dell’uomo ma, rispettando le proprietà curative dell’antica pianta da cui prendono il nome, non risparmiano sollievi e spensieratezza. Dedizione per i particolari e voglia di mettersi in gioco sono quindi i punti di forza del trio, il quale dimostra di aver compiuto precisi passi avanti rispetto al loro ep adottando una formula più compatta e convincente. Se riuscissero a trovare una via in cui vengono meno gli “omaggi” legati fin troppo strettamente a Capossela o Ciampi (con annesse conseguenti perdite di originalità capaci di farci storcere il naso) ci prenderemmo la briga di consigliarli senza remore. Ciò non basta però a farci cambiare idea al riguardo ed a spendere giudizi positivi. Il resto sta a voi. []

LENULA - PROFUMI D’EPOCA 01. Notte d’inferno 02. All’interno 03. Dea dell’amore 04. Corsa al mondo 05. Promessa 06. Il naufragio 07. Stato di confusione 08. Fondo 09. Senza tempo 10. Modellando la notte 11. Profumi d’epoca

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THE CHARLESTONES OFF THE BEAT

(Moskow, 2012)

di Giulia Palummieri

Tanta energia, mood londinese dall’allure retrò e una massiccia dose di amore per quel brit-sound capace di ripercorrere senza riserve il meraviglioso lasso di tempo che da Sua Maestà i Beatles passa per gli XTC fino ad arrivare ai più recenti Oasis o alla recentissima onda/orda di Arctic Monkeys e simili. Se state già scappando a gambe levate, fermatevi, possibilmente in modo brusco e fate si che la forza di inerzia faccia continuare il vostro percorso quel tanto che basta per farvi sbattere contro un muro. Saranno le conseguenze di tale scontro poi a ricordarvi quanto anche il peggiore degli incontri possa riservare sorti migliori delle fughe ad occhi chiusi. Ok, siamo indubbiamente tutti un po’ saturi e le nostre orecchie non ce la fanno davvero più a sottoporsi all’ennesimo giro su queste coordinate, ma la curiosità spesso paga e pertanto eccoci qui a riscoprire il brivido dell’incanto e a ricordarci cosa può distinguere dalla massa una realtà pressoché identica a tante (troppe) altre. Arrivati a questo punto probabilmente vi starete chiedendo a chi/cosa si deve tale merito, allora premete play e semplice quanto fondamentale la risposta non tarderà ad arrivare. Parliamo ovviamente della passione tattile sciolta nella musica dai suoi fautori, in quanto, se da una parte i Charlestones hanno tutti gli strumenti per tirar fuori una valanga di preconcetti, dall’altra è innegabile sottolineare quanto tale elemento riesca a risollevare le loro sorti. Friulani all’anagrafe ma inglesi nel cuore pur non perdendo la propria identità e stando alla larga dal reato di pedissequa emulazione, i quattro, infatti, con il loro secondo lavoro, ci inondano di questo valido fattore chiave facendoci mettere da parte i pregiudizi dati

dalle note citate in apertura e lasciandoci assaporare solo ciò che stiamo ascoltando. Ecco qui, quindi, che dalla storia del pop assimilata dal quartetto esce fuori una buona commistione tra underground ed airplay avendo dalla loro parte gli aspetti formativi di tale background ed una data freschezza tipica della musica leggera esclusa dalla banalità. Tra tamburelli, voci accattivanti, pad, cori, chitarre a non finire, accordi melodici, ritornelli catchy e quant’altro, non cadrete solo vittime dei momenti ballerini, ma vi renderete conto, ascolto dopo ascolto, di quanto grigio ci sia in queste costruzioni multiformi. Cambiate prospettiva al vostro punto di osservazione e sarete pronti ad immergervi nel retrogusto introspettivo di “Off the Beat”. Se a tratti, passando in rassegna le singole tracce, svelano momenti più anonimi e privi di un vero fattore dominante idoneo a sostenere la vitalità motrice, nel complesso, date le buone qualità in crescendo, non si può non spezzare la famosa lancia a favore della band, fosse anche solo per la mezz’ora lieta passata insieme, Sparateli a volume altissimo e non avrete neanche voglia di pensare a quanta strada devono ancora percorrere per essere annoverati nella sancta sanctorum del genere. Godeteveli. [] THE CHARLESTONES - OFF THE BEAT 01. Off The Beat 02. Love Is A Cadillac 03. Energy 04. The Girl Who Came To Stay 05. She Was A Firework 06. Eager Beaver 07. Eager Beaver (reprise) 08. Let It All Hang Out 09. The Clue 10. Standing In the Prime Of Life

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Jens Lekman I Know What Love Isn’t (Secretly Canadian, 2012) di Thomas Maspes

Iniziare un disco con un brano strumentale di una dolcezza infinita, solo un romantico come Jens Lekman poteva farlo. Artisti come lui ne sono rimasti davvero pochi in giro. Jens è un piccolo artigiano di melodie pop di una delicatezza e di un’autenticità più unica che rara. Inizia la sua carriera musicale nel Duemila, pubblicando per circa quattro anni alcuni cd-r completamenti autoprodotti e solo nel 2004 trova nella Secretly Canadian un valido appoggio che lo porterà a pubblicare il suo primo disco nel 2005 con il titolo “Oh you’re so silent Jens”. Il successo mondiale arriverà però nel 2007 con il secondo cd intitolato “Night falls over Kortedala”. Dopo cinque anni di silenzio, in cui oltre ad affrontare l’improvvisa notorietà, dovrà superare qualche delusione sentimentale rifugiandosi anche a vivere nella lontana Australia, torna ora con questo “I know love isn’t”. E, meglio dirlo subito chiaramente, fa di nuovo centro. I suoni non si discostano molto dal precedente lavoro, rimanendo sempre leggeri e fatalmente sognanti. Ascoltando la sua musica sembra quasi di riuscire a scrutare il mondo stando seduti su di una nuvola soffice in viaggio verso un’eterna estate di piaceri soffusi. E anche se in questo nuovo disco Jens ci racconta i lati dolorosi dell’amore, la solitudine che si prova dopo la fine di una storia, la voglia di staccarsi dal mondo per perdersi e magari, poi, ritrovarsi nuovi, riesce a farlo senza rendere la sua musica particolarmente malinconica, ma riuscendo a mantenere quell’equilibrio fra melodie gioiose e liriche agrodolci che sono davvero il suo marchio di fabbrica. Tutti i brani del disco sono piccole perle scovate nei mari di qualche lontano pianeta dell’universo e portate qui su questa terra imperfetta per essere dona-

te a tutte le anime gentili e sensibili che sapranno e vorranno coglierle e custodirle nel proprio cuore. La sua voce da crooner è sempre in primo piano sia nei brani più movimentati e ricchi nell’arrangiamento, sia in quelli più lenti e quasi folk (la bellissima “I want a pair of cowboy boots”). La ricerca musicale si fa forse meno spinta e originale che nel passato, ma rimane comunque adorabile nel continuo tentativo di avvicinarsi alla melodia perfetta, con degli arrangiamenti che, pur nella loro complessità, sanno rimanere sempre sobri e mai sopra le righe. Jens ha sicuramente ereditato la passione per la bella melodia da un grande come Bart Bacharach, o da un un signore che di nome fa Brian Wilson. Anche certe aperture melodiche di un Morrissey non gli sono del tutto sconosciute. Ma il suo enorme talento lo ha aiutato senz’altro ad elaborare tutte queste influenze riuscendo a rendere la sua musica qualcosa di veramente unico e affascinante. Non siate pigri, cercatelo, ascoltatelo, il vostro cuore vi ringrazierà. []

JENS LEKMAN - I KNOW WHAT LOVE ISN’T 01. Every Little Hair Knows Your Name 02. Erica America 03. Become Someone Else’s 04. Some Dandruff On Your Shoulder 05. She Just Don’t Want To Be With You Anymore 06. I Want A Pair Of Cowboy Boots 07. The World Moves On 08. He End Of The World Is Bigger Than Love 09. I Know What Love Isn’t 10. Every Little Hair Knows Your Name

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KEITH TIPPET-GIOVANNI MAIER TWO FOR JOYCE LIVE IN TRIESTE (Long Song Records / Audioglobe) di Luca Anzalone

La carriera di Keith Tippett ha dell’incredibile. Per la qualità costantemente alta della produzione artistica, innanzitutto; per la varietà degli interessi e degli ambiti musicali esplorati, dall’art rock al jazz alla musica d’avanguardia. Come divulgatore, leader, creatore di progetti eccellenti, insegnante carismatico e di spessore. Molto meno dal punto di vista della visibilità e del successo di vendite, diversamente da altri, quasi omonimi, pianisti. Da cinque decenni il grande pianista inglese ha esplorato molte vie che portano all’essenza musicale: la ricerca assoluta dell’esibizione in solo, l’improvvisazione di gruppo, il lavoro di compositore e arrangiatore per piccoli e grandi ensemble. A renderlo maggiormente noto al pubblico ha fortemente contribuito la sua partecipazione come sideman di lusso a dischi storici dei King Crimson, come “In the Wake of Poseidon”, “Lizard” e “Islands”, e l’aver suonato in molti frangenti con musicisti membri di un gruppo di culto come i Soft Machine. Ugualmente importanti per la sua statura artistica, sono stati i progetti Centipede Orchestra, Ark, e Mujician, che gli hanno fatto guadagnare la stima e l’apprezzamento soprattutto da parte dei colleghi e degli addetti ai lavori. Il suo stile è personale ed eclettico, e si avvantaggia di una forte padronanza ritmica e di un linguaggio armonico ricchissimo e obliquo. Il pianismo di Tippett infatti è fortemente debitore nei confronti di autori di importanza cardinale come Debussy e Messiaen, dai quali assorbe la lezione di far respirare la musica come un organismo vivente, donandole quegli “accidenti”, quelle irregolarità che la rendono unica, e quegli accordi che dipingono in sfumature sempre diverse di colori i vari stati d’animo. Tutte queste qualità sono

pienamente in evidenza in questo interessantissimo disco in duo, registrato dal vivo a Trieste nel maggio 2012 nell’ambito della rassegna “Le Nuove Rotte del Jazz”. Il disco vede come co-protagonista il nostro Giovanni Maier, contrabbassista tra i più dotati e creativi, e musicista a tutto tondo. Anche Maier da più di vent’anni è votato a una vera e propria missione musicale, che oltre all’insegnamento e a vari progetti pregevoli come la Mosaic Orchestra, include dal ‘94 un “work in progress” sulle possibilità del contrabbasso solo (documentato in vari album), ed anche il lavoro per il teatro, il cinema e la danza. Tippett e Maier sono partner ideali e le loro visioni si sposano alla perfezione in questi 50 minuti di musica improvvisata, che compongono l’unica traccia del disco. Il titolo: “Two for Joyce – Live in Trieste”, suggerisce un chiaro riferimento allo “stream of counsciousness” di joyciana memoria, e al capolavoro ”Ulysses”, con tutti i rimandi del caso all’idea di viaggio ed esplorazione. E proprio di una piccola Odissea si tratta. Fin dall’inizio infatti i due musicisti instaurano un dialogo ed un ascolto reciproco che conducono a poco a poco l’ascoltatore ricettivo in territori conosciuti e sconosciuti, ma sempre affascinanti. Sono molti i ricordi e le citazioni evocate nel corso del concerto: i glissati di Charles Mingus e del suo basso parlante in duo con Max Roach; quelle sonorità metalliche figlie a un tempo del Clavicembalo ben Temperato di Bach e delle Sonatas and Interludes per piano preparato di John Cage; quei tetri carillion da fiera fin de siecle; i ritmi e i timbri del Gamelan; persino l’ironico, caustico richiamo all’arrangiamento più famoso di “Tea For Two”. Accanto al prevalente impeto ritmico, mai parossistico e sempre avvincente, non mancano lunghi momenti di seducente atmosfera, di affascinante mistero, nei quali gli strumenti propongono sonorità risonanti e impressionistiche, sensuali. Il bellissimo timbro del contrabbasso di Maier, profondo e corposo, sa rarefarsi e sussurrare, per poi tornare denso e percussivo. E Tippett, da grande maestro, ha un controllo assoluto sulle dinamiche dei

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[ Musica ] tasti e della pedaliera, erogando il volume e le masse sonore con gran senso di equilibrio. Come spesso accade nelle esibizioni in duo, specialmente se improvvisate, entrambi gli strumenti coinvolti, oltre a liberare la forma e concentrarsi sull’interplay, allargano il range delle proprie possibilità, uscendo dal proprio ruolo convenzionale e tirando fuori sonorità che sono appannaggio dell’intera sezione ritmica. Il piano di solito è il più avvantaggiato in questo processo: può facilmente diventare percussivo (essendo, di fatto, uno strumento a percussione di corde) e la mano sinistra può facilmente disegnare delle linee di basso. Inoltre il pianista può giocare a suo piacimento col timbro e la tonalità (o atonalità), anche inserendo oggetti all’interno del piano stesso, come fa spesso Tippett. Anche il basso può agevolmente diventare percussivo ed è potenzialmente uno strumento armonico, e Maier sfrutta appieno la gamma di queste possibilità esecutive. Alla fine del “viaggio”, quel che resta è un’appagante sensazione di pienezza nelle orecchie e di piacere intellettuale. I due partner si producono in una performance da incorniciare, riuscendo a tenere alta la tensione per tutta la durata del concerto e a dialogare con fantasia e intelligenza. E’ un altro capitolo pregevole dell’ormai lunga e gloriosa storia dell’improvvisazione free jazz europea, e vale sicuramente la pena acquistare ed ascoltare più volte questo disco, per coglierne anche gli aspetti nascosti. Non è un disco per tutti però: pur non essendo caratterizzato da quella cacofonia tipica di alcune produzioni free, ed essendo anzi molto melodico in alcuni episodi, resta decisamente al di fuori del main stream, e richiede un impegno di ascolto attivo per essere metabolizzato ed apprezzato pienamente. Unico appunto al titolo della rassegna, “Le Nuove Rotte del Jazz”; qui di nuovo c’è ben poco. Sono decenni, almeno dagli anni ‘60 che esiste questo tipo di improvvisazione, ed il linguaggio, pur avendo arricchito col tempo il proprio vocabolario, è rimasto lo stesso. Ma, naturalmente, la “novità” non è una condizione necessaria per fare dell’ottima musica. []

TIPPETT - TWO FOR JOYCE, LIVE IN TRIESTE “Two for Joyce - Live in Trieste” è il resoconto di una performance di 50 minuti di musica improvvisata.

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ERBA MATE THE JELLYFISH IS DEAD AND THE HURRICANE IS COMING (Blinde Proteus, 2012) di Claudio Delicato

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a prima cosa che mi viene in mente ascoltando “The jellyfish is dead and the hurricane is coming” è che gli Herba Mate sono il classico gruppo che non scopa quanto dovrebbe (o quantomeno non scopa ragazze abbastanza fiche), e questo è un fattore essenziale per creare il livello minimo necessario di empatia con l’ascoltatore e favorire un ascolto sereno del disco. Normalmente diffido dei gruppi che danno titoli troppo lunghi ai propri album (sono rimasto scottato a sedici anni quanto sorpresi la mia ragazza intenta a limonare con una copia piratata di “Everybody else is doing it, so why can’t we?” dei Cranberries), ma devo dire che gli Herba Mate mi hanno fatto ricredere: il loro disco è un adorabile pasticcio di stoner rock, linee vocali vagamente metalliche e qualche inquieto parlato in [inserire lingua dell’Europa dell’Est a seconda della popolazione accusata dell’ultimo stupro nei parchi romani riportato dal TG1]. Questa ristampa in vinile di “The jellyfish is dead and the hurricane is coming” (uscito nel 2009), curata dalla Blinde Proteus, capita a fagiuolo per dare la vetrina che merita a un gruppo ingiustamente relegato nelle gelose librerie di iTunes dei metallari di Predappio: ‘sti tre con gli strumenti ci sanno fare e dimostrano di portare a compimento il loro lavoro fottendosene dei gusti del grande pubblico, in un’era in cui gli album sembrano concepiti spulciando i top rated videos di YouTube. Per quanto gli Herba Mate paiano avere un rapporto complesso con la tastiera QWERTY – uno dei pezzi più riusciti dell’album si intitola (**) – mi sento di consigliare caldamente il loro disco, per la validità dei pezzi

e l’estrema cura con cui il progetto è presentato: l’artwork è di Eeviac (Bologna Violenta, Iosonouncane), l’edizione è limitata a 200 vinili e il mastering farebbe avere un orgasmo ai Motorhead. Oltre alla già citata (**), da segnalare l’accattivante “Nicotine”, la potenza di “1 to 65” e la schizofrenia sincopata di (***): tutto “The jellyfish is dead and the hurricane is coming” è un mix di riff che ti entrano in testa per non uscirne più, come un camionista ubriaco che centra in pieno la tua Nissan Micra all’uscita del casello per L’Aquila. []

HERBA MATE - THE JELLYFISH IS DEAD AND THE HURRICANE IS COMING 01. Machumba 02. Imargem 03. Aragosta vs. Panther 04. (**) 05. Nicotine 06. Bugs 07. 1 to 65 08. (***) 09. Sputnik

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ALI’ LA rivoluzione nel monolocale

(La Vigna Dischi, 2013) di Claudio Delicato

A

scoltare per la prima volta “La rivoluzione nel monolocale” è un’esperienza simile a quando il newsfeed di Facebook ti segnala che quella strafica che porta sempre a spasso il golden retriever nel giardino dove vai a farti le canne non è più “in a relationship” con quel borioso impiegato di banca di Torre Spaccata che ogni tanto si portava appresso e che più volte hai confuso con il cane: l’entusiasmo è troppo per non levare i pugni al cielo e urlare “finalmente, cazzo!” Finalmente un cantautorato maturo e senza fronzoli, malgrado il disco (prodotto da Colapesce) sia solo l’esordio di questo giovanotto di Catania. Finalmente una decina di canzoni curate ma semplici, che parlano di cose comuni come l’amore con un certo stile e una spiccata personalità: del resto non è un caso se nessuno ha ancora scritto un pezzo che sia rimasto nella storia parlando dei motori aeronautici a turboelica, e questo Alì sembra averlo capito, cosa non scontata in un’epoca in cui i gruppi indie paiono vergognarsi di raccontare emozioni semplici che accomunano tutti. Avete presente quando state cercando di scattare una fotografia di notte e l’amico che state cercando di ritrarre riesce per la prima volta a restare immobile nella posa che desiderate? In momenti come questo gridate concitati “ecco, così, fermo così,” una frase che rappresenta alla grande ciò che penso del disco di Alì. Questo ragazzo è riuscito a trovare un’alchimia perfetta e irripetibile tra gli elementi che compongono il suo disco: il timbro vocale è scazzato al punto giusto e non dà l’impressione di uno che sta cantando seduto sulla tazza del cesso, il missaggio è semplice ma piacevole e gli arrangiamenti sono di gran gusto.

“La rivoluzione nel monolocale” è un disco che scorre via che è una bellezza, raggiungendo i punti di massima espressione artistica in “Per la gioia di Woodoo”, “Cash” (credo che la frase “è giunto il sabato e ci si veste a cazzo” sarà la prima che insegnerò a mio figlio), lo splendido finale musicale di “Continuare a vendere oro” e la riuscita cover de “Il miglior sorriso della mia faccia” di Paolo Conte. Questo ragazzo spacca il culo, è una spanna sopra gli altri: datemi retta, dobbiamo tenercelo stretto perché quella che fa è una cosa molto semplice, ma ultimamente nessuno sembra più in grado di farla con il giusto sentimento. Imbracciare una cazzo di chitarra acustica e cantare. []

ALI’ - LA RIVOLUZIONE NEL MONOLOCALE 01. Armata fino ai denti 02. Per la gioia di Woodoo 03. Le nostre bocche incollate 04. Maggio 05. Cash 06. Continuare a vendere oro 07. New York 08. Il miglior sorriso della mia faccia (cover di Paolo Conte) 09. Roulette 10. Racconti di viaggio

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[ RECENSIONI DELICATE ]

i tre allegri ragazzi morti il giardino dei fantasmi (La Tempesta Dischi, 2012) di Claudio Delicato

Non ho avuto il tempo di diventare rockstar, ché in Italia i tempi sono da elefanti, chi ce la fa non ascolta la mia musica,” recita il testo di “I cacciatori”. Paiono quasi profetici questi versi per i Tre Allegri Ragazzi Morti, giunti al settimo album in studio con questo “Nel giardino dei fantasmi”. Devo dire la verità, non sono un fan accanito dei TARM, in primo luogo perché non sono mai riuscito a rimorchiare una ragazza proponendole l’ascolto di un loro pezzo, e poi perché nei loro dischi non trovo mai più di una o due canzoni che mi piacciano davvero. Detto ciò, stimo comunque Toffolo & C. perché li reputo per certi versi la Federica Sciarelli della musica indipendente: piaccia o non piaccia, quello che propongono da quasi vent’anni è un prodotto coerente, asciutto e indifferente alle logiche del mercato di massa, che è riuscito a scavarsi meritatamente una nicchia di fedeli fan. La musica dei Tre Allegri Ragazzi Morti non è per tutti, dato il tono malinconico-adolescenziale di buona parte dei pezzi, in cui è facile rispecchiarsi se avevi dai quindici ai vent’anni quando Kurt Cobain si è sparato in bocca; “Nel giardino dei fantasmi” non fa eccezione e propone undici pezzi romantici ma non troppo, politici ma non troppo, seri ma non troppo, che a mio parere trovano i massimi livelli espressivi negli episodi reggaeggianti. A questo proposito, “La mia vita senza te” e “Alle anime perse” sono senza dubbio i passaggi più suggestivi del disco e fanno pensare che quando i TARM azzeccano il ritornello potrebbero andare avanti a ripeterlo per ore senza mai stancare l’ascoltatore, un po’ come fa Vittorio Sgarbi con i suoi “capra, capra, capra!”

Con “Nel giardino dei fantasmi” e alla luce della sua carriera millenaria, la band di Pordenone conferma l’impressione di fare la musica che ama per il puro piacere di farla, rimanendo ai margini dei canali mainstream malgrado abbia dimostrato di essere avanguardista su molte cose: pensate al fatto che celano il loro volto da vent’anni e vi friggano le orecchie se avete mai creduto che l’anonimato de I Cani fosse una novità. []

I TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI - IL GIARDINO DEI FANTASMI 01. Come mi guardi tu 02. I cacciatori 03. Bugiardo 04. La mia vita senza te 05. Alle anime perse 06. La fine del giorno 07. La via di casa 08. Bene che sia 09. E poi si canta 10. Il nuovo ordine 11. Di che cosa parla veramente una canzone?

Claudio Delicato è anche JK | 37 qui: www.ciclofrenia.it


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MASSIMO BUBOLA in alto i cuori (Eccher music – 2013)

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n alto i cuori quando il cielo è muto E anche la pioggia non ti ascolterà In alto i cuori se ti senti smarrito Perché qualcuno ti ritroverà.

di Andrea Furlan

T

ralasciando i tre ottimi brani recanti la sua firma contenuti nell’epopea tex-mex-western Chupadero! della Barnetti Bros Band, il supergruppo cui, sotto mentite spoglie, ha partecipato insieme ad Andrea Parodi, Massimiliano Larocca e l’americano Jono Manson, sono passati quattro anni da Ballate di terra & acqua, l’ultimo lavoro che Massimo Bubola aveva pubblicato a suo nome. Tanto abbiamo dovuto aspettare, ma la lunga attesa è stata finalmente premiata dall’arrivo di In alto i cuori, una raccolta di undici, nuove, intense, instantsongs con le quali si fa interprete dell’Italia di oggi, e ne dipinge un quadro allo stesso tempo affascinante per le intrinseche qualità musicali e spietato nell’indicarne i difetti. Come altre volte in passato, basti solo ricordare Don Raffae’ scritta a quattro mani con Fabrizio De Andrè, lo sguardo lucido dell’autore veronese si posa su temi sociali di scottante attualità. Un episodio di cronaca, avvenuto lo scorso anno a Roma, è lo spunto per Hanno sparato a un angelo,

l’emozionante brano d’apertura del disco. Durante una rapina viene uccisa, insieme al papà che la teneva in braccio, una bambina di soli nove mesi, “un angelo che ancora non sapeva gli abissi del mondo, la bestia che si cela”. Non c’è più limite alla barbarie dilagante, “non possiamo credere che morta sia Pietà”, canta la voce accorata dell’autore, anche lui padre di un bambino piccolo,“cosa possiamo dire se non abbiamo voce, noi che non sappiamo stare ai piedi della croce”. L’assoluta banalità del male impressiona per la mediocrità insensata di chi lo commette, diceva con acume la filosofa tedesca Hannah Arendt. Si resta esterefatti e ammutoliti, aggiunge Bubola, soli nell’affrontare il dolore, senza più l’aiuto consolatorio di una comunità con cui condividerlo. “Cosa possiamo scrivere, se non abbiamo più pagine”, continua, come se non ci fossero più parole disponibili. Naturalmente sono molte le cose da dire e lui riesce a trovare le parole più adatte per farlo con levità, mediante liriche che, nonostante il tema sia tragico, comunicano con commossa semplicità l’indignazione suscitata da una giovane vita spenta sul nascere. “Con i suoi piedi piccoli ancora non volava, con le sue ali tenere ancora non camminava”, quanta grazia e tenerezza in questi versi usati per raccontare “un bocciolo di sposa” ! Questo primo brano fotografa con precisione la realtà e determina lo stato delle cose, il punto di partenza per analizzare i nostri tempi. Perché siamo arrivati a tanto, quali sono le cause del degrado morale che stiamo vivendo? Le risposte non tardano ad arrivare e Un paese finto punta il dito contro la finzione che si è ormai impossessata delle nostre vite, complice prima di tutto la televisione, palcoscenico di troppi “finti profeti profondi”. Anche il cuore non sa più distinguere i sentimenti, solo il male, purtroppo, è vero. Bisogna

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[ SUGGESTIONI ] cantare e portare la croce non fa che rincarare la dose “questo al pubblico piace, le sconfitte, le lacrime, la pietà, la finzione son più vere in televisione”. Per combattere l’appiattimento culturale “bisogna avere buoni ricordi e un po’ d’infinito negli occhi”. Arriviamo al punto cruciale del disco, Analogico-Digitale, il blues lento e ipnotico nel cui testo, scritto insieme a Beppe Grillo, si fa netta la distinzione fra due mondi, quello contadino, ormai perduto, e quello attuale, virtuale e spettrale. La voce e i suoni si fanno duri, la chitarra incalza, il ritmo cresce e strofa dopo strofa sale la tensione. Cosa resta da fare? A morte i tiranni indica la strada,“c’è sempre una speranza per il popolo sconfitto che la giustizia un giorno vincerà” , anche se siamo ancora qui, dopo diecimila anni, “a combattere col regno dei grandi disinganni” ! Un altro brano di stringente attualità è Tasse sui sogni in cui, sulle note di uno spoglio rock’n’roll, si srotola un copioso elenco di tasse, alcune reali altre fittizzie, sarcasticamente descritte in tutta la loro assurdità. Viene lasciato per ultima In alto i cuori, la canzone che da il titolo all’album, il vademecum di resistenza civile, l’appello di Massimo Bubola agli uomini di buona volontà perché trovino uno scatto d’orgoglio e superino l’impasse di questi tempi difficili. Del cantautore veronese, da quarant’anni sulla scena italiana e certamente una delle nostre firme migliori, conosciamo già il suo notevole talento di compositore. Anche In alto i cuori non sfugge quindi alla regola di brani dai testi di grande dignità letteraria abbinati ad uno stile musicale unico nel suo genere. Il tratto distintivo del disco è come sempre il folk-rock elettroacustico delle ballate di evidente derivazione americana, che però Bubola interpreta con una sensibilità e un gusto per la melodia tutto italiano. Se le ballate sono l’espressione prediletta dall’autore, l’accompagnamento ideale dei suoi racconti, quando questi si fanno più arrabbiati, sono le chitarre a diventare più incisive ed è l’attitudine rock del Cavaliere Elettrico a prendere il sopravvento e a condurre le danze. Ad affiancare il musicista veronese è sempre la Eccher Band, composta da bravi e fidati musicisti quali Simone Chivilò e Enrico Mantovani alle chitarre, Piero Trevisan al basso, Virginio Bellingardo alla batteria e Lucia Miller alla voce. Lo stesso Chivilò è anche il produttore, insieme al titolare, di tutto il lavoro. Gli undici brani di In alto i cuori, passano agilmente, come abbiamo visto, dal folk, al blues e al rock’n’roll e compongono un intenso mosaico all’interno del quale spiccano alcune gemme

come l’emozionante ritratto di una generazione di Al capolinea dei sogni, la corsa nella notte di Una canzone che mi spacca il cuore resa avvincente da una stupenda linea di chitarra e la conclusiva In alto i cuori, una preghiera che ci incita a non perdere le speranze. L’autore di Marabel, Il cielo d’Irlanda e Niente passa invano continua così il suo viaggio nella musica e nella cultura italiana con grande intelligenza e autorevolezza. In alto i cuori è perciò un’altra grande prova d’autore di Massimo Bubola e la possiamo tranquillamente annoverare tra le sue opere più importanti. Spegnete quindi la televisione e seguite il suo invito, queste canzoni vi accompagneranno per molto tempo! []

MASSIMO BUBOLA - IN ALTO I CUORI 01. Hanno sparato a un angelo 02. Un paese finto 03. Cantare e portare la croce 04. Al capolinea dei sogni 05. Lacrime parallele 06. Analogico digitale 07. A morte i tiranni 08. Tasse sui sogni 09. Una canzone che mi spacca il cuore 10. Ridammi indietro 11. In alto i cuori

Andrea Furlan è anche qui: .it JK | 39 andreafurlan.blogspot


JUST KIDS

justkidswebzine.tumblr.com/compilation

POLAR FOR THE MASSES ITALICO

NADAR SOLO DIVERSAMENTE, COME?

MERZBOW, PANDI E GUSTAFSSON CUTS

NIAGARA OTTO

VALENTINA GRAVILI ARRIVIAMO TARDI OVUNQUE

FREI 2013: ODISSEA NELLO SPIAZZO

DR. U ALIENI ALIENATI

SULA VENTREBIANCO VIA LA FACCIA

TRACKLIST

LE BUGIE DI ELISA LE BUGIE DI ELISA

01. POLAR FOR THE MASSES - ITALICO 02. NADAR SOLO - IL VENTO (ft IL TEATRO DEGLI ORRORI) 03. MERZBOW, PANDI E GUSTAFSSON - LIKE RAZOR BLADES IN THE DARK 04. NIAGARA - SEAL 05. VALENTINA GRAVILI - IL FINIMONDO 06. FREI - L’UNIVERSO DA QUI 07. DR. U - CALL ME 08. SULA VENTREBIANCO - RUN UP 09. LE BUGIE DI ELISA - SCONSIDERATAMENTE 10. NAKED TRUTH - DUST

NAKED TRUTH OUROBOROS

POLAR FOR THE MASSES - ITALICO Davide e Jordan colpiscono duro. Il rock, cantato in italiano, come nessuno l’ha mai suonato. Ti sembra musica elettronica? Indie all’italiana? Tutto sbagliato: è noise, è rock, è ipnosi, è denuncia sociale a base di drone-music. NADAR SOLO - DIVERSAMENTE, COME? Il secondo album della band conferma la sua attitudine da power trio ma anche il grande spessore dei testi. La musica -semplice, vitale, a volte solare e altre cupa- racconta le emozioni che preparano la tempesta che verrà. MERZBOW, PANDI E GUSTAFSSON - CUTS Un assalto sonico di proporzioni epiche: convoglia la potenza del grind noise con un'elettronica feroce, rieccheggiando Lou Reed, John Coltrane e Sonic Youth. NIAGARA - OTTO Un mix di pop sperimentale ed electronica dove voci riverberate, rumori, loop si fondono in un intreccio psichedelico con rimandi ai Beatles e ai Flaming Lips. VALENTINA GRAVILI - ARRIVIAMO TARDI OVUNQUE Valentina Gravili muove il suo cantautorato in un territorio popolato di chitarre acustiche cupe e sanguigne. Una voce che ti lacera e ti entra sotto la pelle declinata su testi amari. FREI - 2013: ODISSEA NELLO SPIAZZO Frei torna a scrutare la volta stellata del Pop: a volte con impeto graffiante, altre pacato e posato, traduce in note i misteri e le bellezze dell'universo... DR. U - ALIENI ALIENATI Rock italiano dal suono crudo ma melodico. Impressionante la guest-list: Earl Slick (David Bowie, NY Dolls), Shane Gibson (Korn), Tony Franklin (Whitesnake, Jimmy Page), e molti altri. SULA VENTREBIANCO - VIA LA FACCIA Una sequenza di canzoni che giocano attorno alle sfumature del rock: da sonorità distorte ad ariose ballate riverberate, da sponde metriche volutamente nervose a melodie eteree, nessun brano è uguale ad un altro. LE BUGIE DI ELISA - LE BUGIE DI ELISA Suoni a volte ai limiti del prog, accompagnati da una voce prima piccola poi potente. Ironia, rabbia, consapevolezza, romanticismo e filastrocche: ogni brano è un piccolo sentiero emotivo. NAKED TRUTH - OUROBOROS Dal jazz post-Miles Davis al rock progressivo strumentale ad atmosfere di stampo Ambient... con Graham Haynes (figlio di Roy Haynes), Pat Mastelotto (King Crimson, Stickmen), Roy Powell (Interstatic), Lorenzo Feliciati.



[ Immaginario ]

LA DIMENSION MICR di Maura Esposito

i segni tra le fiamme

(un sogno infantile allo specchio) un tempo, se ben ricordo la madonna del dispiacere nomade, stoica e speciale assisteva gli illuminati: <prenez mon couer> (è chiuso nel reliquiario del mio ventre) un tempo se ben ricordo un milione di seni protesi verso di me come lumache: <apri l'armadio del delitto di famiglia> (è dietro la tua x) scheletri blu fosforescente falangi a cupola mescolano la zuppa prodotta non sono abbastanza pesante affondarvi come dovrei cosÏ la guardo scorrere sotto di

di giganti, da mia madre per me.

un tempo se ben ricordo: anemoni blu bussano sulle mie palpebre mentre sogno le immagini dei santi e degli impazziti e tutte le parole in ordine sparso colonna sonora: archetti di violino sui denti stridono musica barocca, arioso concerto di scricchiolii il cuore mangiato dai cavalli in rivolta carta che assorbe le macchie sul tavolo: i segnali tra le fiamme.

Per le opere di Maura Esposito www.teatrobalocco.blogspot .it JK | 42 stocavarius@hotmail.it


[ LA DIMENSIONE EROICA DEL MICROBO ]

NE EROICA DEL OBO #04

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[ Immaginario ]

PUNTO FOCALE di Giulia Blasi

F

#04

Onirico

are un sogno. Svegliarsi sentendo il ricordo ancora così vicino, da poter quasi toccare quello che si è visto. Cercare di immaginare quale poteva essere quel particolare che ora sfugge. Sentire cose nuove, ed ascoltare l’ immaginazione che mostra scenari mai visti. Abbandonarsi alle sugestioni lasciando fluire quel mondo interiore che portiamo dentro. Se si trovasse la giusta frequenza potremmo sbloccare i nostri sensi con una nuova danza. Potremmo creare una nuova vegetazione per la terra, se solo la sentissimo di più; la renderemmo più splendida e magnifica vivendo in comunione con quello che ci circonda, sentendo le cose a prescindere dallo spazio e dal tempo e vivendo senza contrastare la nostra natura. Ascolta la musica del battito del tamburo, gli spiriti si muoveranno dietro la sua pelle. Perduti nella complicata fantasia del manto del tapiro ritroveremmo quell’ebrezza perduta. Ed ogni ricosa ritroverebbe quel colore ormai sfumato. La linfa tornerebbe

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"Ching", 2012, 65x80 cm, Acrylic on cardboad (Giulia Blasi)


[ PUNTO FOCALE ]

C

redo nei colori, nella magia delle sensazioni. Grande maestra la Natura, ci regala parti di se. Non possiamo capire la grandezza di ogni seme che germoglia, ma soffermandoci su di esso, la sua scintilla illuminerà i nostri occhi. Comunemente all'esperienza estatica, l'arte smuove un grosso carico di immagini che trasporta lo spettatore in uno stato psichico di svincolamento dalla realtà, d'entusiasmo e di commozione misto a senso di rapimento. Mentre dipingo mi abbandono completamente a me stessa e al mezzo che ho scelto; mi lascio trasportare dalle frequenze dei colori e dai loro movimenti. Ogni tecnica corrisponde ad una sfaccettatura di me, ed è bello lasciarsi andare ai segni che per una serie di circostanze irripetibili si creano. Rappresentazioni uniche, perchè frutto dell'assoluto attimo in cui tu vivevi in quel segno.

Sguardo

a luccicare per mostrarci nuovamente i colori reali. Unire il conscio all’inconscio, Apollo e Dioniso, l’ordine e il caos per prepararci ad una dolce metamorfosi. L’armonica unione tra uomo e natura è aspettata come grado superiore in cui, questo vicendevole scambio è parte integrante della vita. Sentire di far parte dello stormo di uccelli che si muove coordinato... percepire il crescere delle piume. Sfiorandomi il naso l’ho riconosciuto in un becco, che così perfetto taglia l’aria aprendo un varco nel cielo che permette al mio corpo il passaggio in un altra dimensione. Sono scivolata nel fiume più lungo del mondo, e l’infinità varietà di forme e colori dei muschi che crescevano sulle sue rive mi rendeva estremamente felice. Vedevo l’acqua scavare la materia lasciando una traccia. Sottili striature nella roccia. Allora ho acceso un incenso... voglio inebriarmi col suo profumo spezziato, aspettando la calma che mi cullerà di nuovo. []

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"Sidus", 2012, 65x80 cm, Acrylic on cardboad (Giulia Blasi)


[ Immaginario ]

sOMMACCO

#04 di Giorgio Calabresi, Luca Palladino, Francesca Gatti Rodorigo Sommacco è immaginario adamantino. Sommacco è la necessità di buttare fuori le storie che popolano dentro noi. Sommacco è la necessità di mettere le mani in pasta per raffreddare i pensieri, perchè se no poi scoppiano. La nostra casa è il Mediterraneo.

HABANA LIBRE – EP. 3 *3 di 3 episodi di amori non consumati di Luca Palladino

P

atricia sta facendo la fila per entrare nel complejo cultural Bertolt Brecht, ché vuole ballare. Si è iscritta da poco all’università, biologia. Patricia è una studentessa all’Università dell’Habana. Patricia ha una pelle che neanche il cosmetico te la fa così; sembra che il sole l’abbia accarezzata per sempre. Patricia ha gli occhi neri neri che non ti puoi nemmeno specchiare per quanto sono belli, non ci riesci ad entrare neanche se ti accompagnano coattivamente. Patricia si è drammaticamente bucata i lobi così tanto che ora puoi vedere dall’altra parte, e si è messa l’ombretto che non aveva proprietario dai tempi belli della musica leggera italiana (finalmente un ombretto come si deve). Patricia mi guarda di uno sguardo polisemico e io non so che significato darci, né che fare. Tutto preso da una spavalderia introvabile nemmeno se la cerchi con la lente d’ingrandimento, le chiedo se le piacciono le file. Lei sembra non capire la domanda oppure fa finta di non aver capito, sta di fatto che si è voltata e mi dà le sue spalle belle come se fosse opportuno farlo. Non posso fare a meno di richiamare la sua attenzione, le dichiaro apertamente che voglio passare il tempo, e non solo lo spazio, con lei, da adesso fino a quando non entreremo nel locale dove si balla e anche di più se è per questo. Patricia mi sorride di un sorriso complicato da risolvere, un grattacapo irragionevole, t’imbarazza per quanto è complicato. Come quando a scuola ti capitava di non riuscirlo proprio a dire alla lavagna che lo sapevi. Un sorriso che ti ingarbuglia nella scena muta, dove regna lo stato confusionale; una

matassa troppo aggrovigliata per sperare di trovare il bandolo. Entriamo nel locale e siamo ancora insieme perché certe volte succede. Dico a Patricia che non so ballare, e anche Patricia mi dice che non sa come si fa a ballare. Tuttavia si muove con un’intensità tale che dio gliela manda buona. Mi ha appena detto che devo lasciarmi andare alla musica e “bum-bum-bum”. Che ognissanti mi sia testimone se non dico la verità che quando ha espresso l’onomatopeismo di cui sopra io non mi sia sciolto come un ghiacciolo, il che è proprio inusuale. Ci vuole la passione, il sangue nelle vene. Ci vuole venere di venerdì, e la domenica mattina. Ci vuole l’aria fredda del nord che pizzica il volto mentre cammini, una mattina d’inverno col sole. Ci vuole la rumba, e la mia insegnante di italiano che sapeva raccontare certe storie di tempi passati così bene che mi ritrovavano sempre a bocca aperta. Esistono dei momenti nella nostra vita in cui noi entriamo in una immagine che ci culla e ci allontana da tutto il resto attorno a noi. Patricia mi ha fatto entrare nella culla e la spinge. Patricia mi culla con i suoi gesti che rispondono a ordini dettati dai suoi occhi superbi. Ed è confortevole davvero tornare nella culla. Sono un uomo, tragicamente un uomo. Propongo a Patricia di bere qualcosa e lei mi asseconda. Ed è bello che mi assecondi. Cerco di farla partecipe delle mie considerazioni circa il motivo per il quale io sia impaurito di tutta questa gente attorno a me. Perché sono tanti e troppi sogni da realizzare come una volta mi disse un’amica mia a scuola, precisamente all’intervallo mentre passeggiavamo: “come

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[SOMMACCO] si farà a realizzare tutti questi sogni?”, mi disse. E io rimasi a bocca aperta come adesso ripensandoci insieme a Patricia. Ci sono tanti sogni che vagano attorno a noi, sogni che non si realizzeranno mai e non è mica giusto che i palloncini che quella volta abbandonammo al cielo siano scoppiati. Non so come sia finito a parlare di ingiustizia essendo io dentro ad una culla, attualmente. Il fatto è che vorrei moltiplicare le culle. Sono generoso come Patricia che mi ha appena lasciato la sua borsetta, ché deve andare in bagno. C’è una certa intimità che si attua quando succede che la ragazza che ti piace ti assegna il compito di custodire la sua borsetta che non so spiegarla. Perché arriva sempre così all’improvviso che quando stai per svelare a te stesso il significato di questa pura intimità, lei esce dal bagno. Riconsegno a Patricia la sua borsetta e le chiedo se le va di uscire dal locale e lei risponde affermativamente e usciamo e siamo seduti in un parchetto di fronte al Bertolt Brecht, complejo cultural. Patricia decide di fumarsi una sigaretta ed è difficile da capire perché certe persone non riescono

|photograph by Simone Raineri

AMORE TOSSICO di Giorgio Calabresi

proprio ad essere sgradevoli neanche quando ti soffiano il fumo in faccia. Patricia impone il suo profumo schietto, la sua pelle non si fa catturare dal cattivo odore del tabacco. O meglio, il tabacco si fa da parte volontariamente perché rispetta la bellezza. Io la osservo d’incredulità e sento che succederà qualcosa “entre nous”. Organi che avevo dimenticato esistessero me lo fanno presente. Deve scattare un certo meccanismo dentro di noi quando stai per compiere un passo verso la felicità, lo senti fisicamente che sta succedendo qualcosa dentro te: quel meccanismo di diastole e sistole funziona davvero, e voglio approfittare per ringraziare questo meccanismo perfetto che lavora ininterrottamente, spesso a mia insaputa e gratis. Mi sento “libre” e senza neanche sapere come, io e Patricia siamo sempre più vicini, sempre più vicini, sempre più vicini e sempre più vicini; ed io non so mica se ci stiamo baciando. []

L

’ ultima dose decise di farsela un sabato pomeriggio di pioggia. Aveva notato come ogni volta che stava per spararsene un po’ in vena veniva a piovere, a volte anche col sole, ma ormai non aveva più la forza di attribuire significati mistici alla cosa, giunto a quel punto non credeva più in niente. Una parte di non ti voglio più, due di così fa troppo male e l’ultimo ti voglio ancora bene, sciolte insieme a a due gocce di limone, fuse dentro a un cucchiaino arroventato. Il laccio stringe, la vena s’ingrossa e l’ago scompare dentro. Nessuna pietà, nessuna poesia neanche quella dannata, solo silenzio. L’oblio entra in circolo, il sangue esce e svuota il presente. Lei se ne stava li vicino a lui ad aspettare il suo turno, ultima prova d’amore intossicato, due cuori e una siringa per

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spazzarli via. Ancora una insieme prima di vivere o morire si dissero, ancora una e poi addio, ognuno per la sua strada a consumarsi in un altro modo a perdersi dentro l’ abitudine di un’assenza col retrogusto di metadone. Ti voglio ancora bene, mi dispiace. Ciao []


|photograph by Dannyhennesy

[ Immaginario ]

MIO ZIO ANDREA VUOLE MORIRE DI TUTTO di Francesca Gatti Rodorigo

M

io zio Andrea vuole morire di tutto. Si alza al mattino in cerca di estasi rapide e sistematicamente ripetute: un caffè, poi un altro. Un saint honoré di cui lecca la chantilly da dentro ogni bignè staccato con le mani dalla massa compatta. Con le dita sciroppate sfoglia le pagine del giornale di ieri. Il “110” del décolleté della donna che a pagina 40 annuncia strepitosi orgasmi gli si copia sul polpastrello del dito medio che Andrea si infila in bocca. Il “110” si trasferisce sulla lingua, l’inchiostro nero e acre si mescola al dolce del glucosio che Andrea butta giù in gola, deciso a ripassare il sapore complesso dell’amore. Mio zio Andrea si fa di qualcosa ed esce di casa nel primo pomeriggio, a maniche corte. Il sole sparito e una pioggia fine che bagna dentro e fuori, tutto e tutti. Attraversa alla cieca la strada e scende in metro. Stalingrad, cunicoli, cambi di linea, scalinate di ferro che smistano in 6 o 7 direzioni gente che sta digerendo. Andrea aguzza l’olfatto ipersensibilizzato e riscrive il menu di chi gli passa vicino: la Cesar Salade da asporto della panetteria appena fuori, una tartare di salmone con aneto e cipolla tagliati grossolanamente, troppo guacamole per una manciata di tortillas, un kebab, un caffè e una sigaretta, un amaro che non ha chiuso un pasto ma era il pasto. Andrea scende a Montreuil e sale le scale rotte che lo portano dal suo “110”. []

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[SBEVACCHIANDO PESSIMO VINO]

sbevacchiando pessimo vino #04

di Paolo Battista

Click Click

C

iao pà, come stai? Sto alla grande, cosa c’è? Niente volevo salutarti. Mmmhhh...non ci credo, sei il solito scansafatiche. Ah, vedo che stai bene. Che c’è questa volta? Niente pà, forse ho trovato lavoro. Ma quale lavoro, sei il solito buono a nulla. Chissà da chi avrò preso pà, tu che dici? Io dico che sei il solito rompicoglioni. Ma è un lavoro a contratto pà. Dici sempre così ma alla fine non riesci a fare neanche il cameriere. Va bene pà, lascia perdere. Lascia perdere un cazzo. Lascia perdere pà. Lo so io, è quella poesia da femminucce che ti ha reso un buono a nulla. Ok pà, vedo che non te la passi male. Io la mia pensione ce l’ho. Lascia perdere pà, la mamma come sta? Tua madre è una stronza, mi ha mollato. Come ti ha mollato? Si cazzo, se n’è andata. Ma come? Quando? Perché non mi avete chiamato?

Cosa avresti potuto fare tu? Non lo so pà, ma adesso la mamma dov’è? E’ da sua sorella. E’ da zia Marta? Si da quella strega del cazzo. E tu come stai pà? Io vado alla grande, e poi non sono affari tuoi. Sicuro pà? T’ho detto che non sono affari tuoi, lasciami in pace. Va bene, come vuoi, ma senti un po’, avrei bisogno di un prestito almeno fino al primo stipendio. Lo sapevo io, sei il solito buono a nulla. Ti restituisco tutto appena mi pagano. Se ti pagano, ma tanto sappiamo come andrà a finire. Che cazzo pà, sempre la stessa storia. Non posso aiutarti, è un periodo del cazzo. Che cazzo pà, vedo che stai alla grande. Se è per soldi non chiamare più. Va bene pà, a mai più.

Click. Click. Tu Tu Tu Tu

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[ Immaginario ] Ciao zi’, c’è mamma? Cosa vuoi, tua madre sta male. Ma c’è la mamma si o no? T’ho detto che sta male. Cazzo zia, t’ho detto fammi parlare con lei. Okokok, non ti far venire un infarto. Pronto? Pronto mà, come stai? Sto bene. Papà m’ha detto tutto. Hai sentito tua padre? Si, dice che te ne sei andata. Tuo padre è il solito animale. Che ci vuoi fare mà, lo conosci. Lo sai cos’ha fatto stavolta? Cosa mà, cos’ha fatto? Dice che è andato con una di quelle. Ma chi te l’ha detto mà, ne sei sicura? Certo che ne sono sicura. E come fai ad esserne sicura? T’ho detto che sono sicura. Va bene mà, se lo dici tu. Lo dico io, e lo dice anche il suo conto in banca. In che senso mà, come il suo conto in banca? Si, quell’animale di tuo padre ha speso tutti i soldi che avevamo messo da parte…per quella lì. Sei sicura mà? Certo che sono sicura. Ma di chi stai parlando mà, quella lì chi? Quella lì, una di quelle che stanno sulla strada. Ma cosa ne sai tu mà? Lo so, ti dico che il conto è in rosso, e tutto per quella lì. Ma come fai a saperlo mà? Lo so e basta, e tu non provare a difenderlo. Ma no mà, e solo che mi preoccupo per te, per voi. Ma io sto bene, non c’è niente da preoccuparsi. Sei sicura mà, zia dice che stai male. Tua zia la conosci, esagera sempre. Se lo dici tu. E tu invece come stai? Forse ho trovato lavoro. ………………………… Forse mi fanno un contratto. ………………………aaaah si. Senti mà, non è che potresti darmi un po’ di soldi, almeno fino a quando non mi pagano. Sempre che ti pagano. Certo che mi pagano mà. …………………………mmhhhh, non lo so!

Dai mà, poi te li restituisco. Sempre la stessa storia con te, tuo padre che t’ha detto? Dice che sono il solito rompicoglioni. Non posso aiutarti, mi dispiace, tuo padre ha speso tutto. Che cazzo mà, non voglio mica la luna. Sempre la stessa storia, t’ho detto che non c’è più niente. Come più niente, ha speso proprio tutto. Tuttotutto, ce l’ha tutti quella putt….mmmhhhhhh, lascia perdere va. Lascia stare mà, ti chiamo domani. Chiamami da tua zia che a casa non ci torno più. Ok mà, come dici tu, ciao mà.

Ciao. Click Clik Tu Tu Tu Tu []

Paolo Battista è anche qui: issuu.com/pasticherivista JK | 50 paolobattista.wordpress.com


[ PIATTO GRAFFIATO ]

PIATTO GRAFFIATO #04 di Daniela PeaceandLove

U

na rubrica culinaria... Sì,capisco che sono una professionista della cucina, ma sinceramente le rubriche di cucina dei magazine le salto sempre. Sarà perchè le affronto con occhio critico, perchè nelle ricette ci sono troppi errori, perchè tutti diventano cuochi appena varcano i salotti televisivi e la cucina non è quello, sarà per altri motivi leggermente contorti ma non le leggo mai. Resta il fatto che la cucina va di moda, se ne parla...e quindi parliamone! Rifletto sul fatto che io non sarò mai di moda e farò di tutto per mai esserlo, la cucina non è moda; è esperienza, fascino, storia, cultura. La moda passa e a volte si ricorda, il cibo e la sua trasformazione possono regalare esperienze indelebili: chi di voi non ricorda quel piatto che solo nonna o mamma sapeva fare così bene? Decido di parlarvi di cucina a modo mio, attraverso personaggi, storia, libri, film, canzoni, viaggi; vabbè vi spadellerò pure qualche ricetta... mia o di altri, e se di altri vi citerò sicuramente le fonti. Io vi assicuro che in cucina “la ricetta” è l'ultima cosa da sapere, in cucina ci vuole la conoscenza vera, non casuale. Cito Joyce, e questo pensiero racchiude molto: Dio fece il cibo, il diavolo, i cuochi. Un cuoco ne sa una più del diavolo.

CIBUM ABSTRACTO

E

sistono delle dimensioni in cui il cibo, argomento di proprietà universale molto fisica e allettante cambia forma. Accade quando incontra la filosofia, allora la gola si quieta, si educa a ascolta e siamo tutti invasi da una sorta di educazione alimentare, e accade nella cucina moderna, non di tutti( per fortuna dico io),ma di alcuni chef, si parla di cucina molecolare e di cucina destrutturata. MODIFICARE è la parola d’ordine, le due tecniche sono cose comunque distinte. Destrutturare, ossia disorganizzare o scomporre una struttura (ricetta in questo caso) nota, con il fine di riproporre un piatto della tradizione. Un esempio banale: crema al mascarpone con savoiardo, perle al caffè e brina di cacao amaro. Notate gli ingredienti di un semplice tiramisù, presentati però in modo diverso, con varie consistenze e temperature, l’insieme del piatto comunque vi riporterà alla pietanza tradizionale in questo caso il tiramisù. Si utilizza applicare questo tipo di tecnica nel riadattare e rinnovare piatti della tradizione. Se ne migliora la leggerezza, l’aspetto visivo. Si cambiano consistenze, temperature…si adatta il piatto della tradizione ai nostri tempi in un certo senso. Cosa molto diversa è la cucina molecolare, qua entriamo in laJK | 51


[ Immaginario ] boratorio…lo chef incontra un chimico, un fisico…qua la cucina prende una forma di astrattismo ed il cibo non è più il mezzo per cui un corpo risponde e funziona ma diventa esperienza, non ci si nutre di cucina molecolare. Qua si scopre che con un albume d’uovo si ottiene un metro cubo di meringa, che in una perla si può racchiudere il sapore esplosivo di un melone maturo da lasciar sospesa in una flute di consommè di prosciutto Serrano, che non si frigge solo nei grassi ma anche in una miscela di zuccheri…. E’ una cucina molto costosa, dove gli errori non sono concessi, dove la tecnica e la precisione non danno spazio all’imprevisto. E’ una cucina in cui il godimento e la succulenza si accantonano per venir soppiantate dallo stupore. Esperienze, parentesi gastronomiche per bocche sazie di tutto e bisognose di novità, ed il cibo diventa astratto. Io, che da sempre voto “resistenza gastronomica”, alzo il mio calice di vino e continuo a cercare radici, storia, adatto la tradizione al tempo in cui viviamo e demonizzo il momento in cui racchiuderemo ricordi di fragranze in capsule colorate. Tra gli chef famosi che tra i primi applicarono e studiarono la cucina molecolare cito i famosissimi , Ferran Andrià ed Ettore Bocchia. [ ]

Dal Satyricon di Petronio “Il banchetto di Trimalcione” dove il cibo era tutto, tranne che astratto: me: un pesce da una vulva, un colombo da un pezzo La cena di lardo, una tortora da un prosciutto, una gallina da E' Encolpio, quindi, che ci introduce alla cena di Tri- una pancetta. Il gusto per il travestimento dei cibi non malcione, un liberto diventato ricchissimo, quello che sarà stato sconosciuto ai romani, ma qui raggiunge noi chiameremmo "un uomo che si è fatto da sé". Alla livelli davvero estremi. sua ascesa sociale, tuttavia, non è corrisposta un'a- Insomma, enigmi, travestimenti e finzioni sono gli inscesa intellettuale, perciò questo ricco possidente esi- gredienti di questa cena. bisce lo sfarzo in cui vive, ma non dimostra alcuna Vediamo, allora, quali tipi di espedienti vengono usati raffinatezza, e quando ostenta la propria cultura non per stupire con il cibo. fa altro che riportare citazioni imparate a memoria, …L’antipasto con cui si apre la cena si presenta così: che però confonde inevitabilmente, visto che si vanta nel mezzo del vassoio c'è un asinello di bronzo corindi non essere mai stato a scuola dai filosofi. zio con due bisacce piene l'una di olive bianche, l'altra Anche la sua famosa cena rispecchia questa tendenza di olive nere; sopra l'asinello, due piatti che portano all'ostentazione, perché è impostata come un susse- inciso il nome di Trimalcione e il loro peso d'argenguirsi di piatti studiati attentamente per stupire: cibi to; ponticelli saldati gli uni agli altri sostengono ghiri costruiti come scatole cinesi, con una sorpresa dentro conditi con miele e papavero. C'è poi una graticola l'altra; cibi che hanno un certo aspetto e poi si rive- d'argento, con salsicce calde sopra e, sotto, prugne lano tutt'altra cosa; Trimalcione e i servi che recita- di Siria e chicchi di melagrane per imitare la brace… no come su un palco, a sottolineare la teatralità delle E' una portata, questa, che si serve di un oggetto portate. Non a caso il cuoco viene presentato con il decorativo (l'asinello di bronzo), è costruita con la nome di Dedalo: cuoco architetto, di cui sono esaltate complessità di una vera e propria architettura (i ponle straordinarie possibilità creative; sa infatti realizza- ticelli), e offre il suggestivo effetto illusionistico di prure qualunque piatto a partire da diverse materie pri- gne e chicchi di melagrane che imitano la brace scura JK | 52


[ PIATTO GRAFFIATO ] e incandescente. …Mentre i convitati sono ancora all'antipasto, viene servito un grande vassoio che porta una cesta e una gallina di legno con le ali aperte a ventaglio "come fanno quando covano". Due schiavi frugano nella paglia e tirano fuori uova di pavone che distribuiscono ai commensali. Dopo questo "colpo di scena", Trimalcione si dichiara preoccupato che le uova di pavone covate da una gallina possano contenere il pulcino, e invita tutti a controllare: si spezza il guscio, fatto con densa farina, e si trova un grasso beccafico che nuota in un rosso d'uovo pepato… Questo piatto è una sorpresa continua. Come il precedente, si serve di un oggetto decorativo (la gallina di legno). Non di poco conto, tra l'altro, è l'attenzione per la posizione delle ali, perché chi ha realizzato questo oggetto non ha proposto soltanto una gallina, ma una gallina intenta a covare. Gli schiavi, allora, frugano nella paglia, come se si trovassero in un'aia, ed ecco, per la prima volta, un colpo di scena: uova di pavone covate da una gallina! Ed è il turno di Trimalcione, che recita la sua parte fingendo preoccupazione e creando tensione tra i convitati per quello che si può trovare nelle uova; e sortisce l'effetto sperato, perché il narratore confessa che per poco non buttò via quello che aveva nel piatto, poiché gli sembrava di vedere già un pulcino ben formato. Ma non è un vero guscio, è fatto di farina, quindi il cibo non è quello che sembra, è un'illusione. Tanto è vero che, rompendo il presunto uovo, si trova un beccafico nel rosso d'uovo: un altro colpo di scena basato sull'effetto delle scatole cinesi, una sorpresa dentro l'altra. … La portata successiva non risponde alle aspettative dei commensali, eppure li colpisce per lo spettacolo che offre. E' un grande trionfo da tavola, con i 12 segni dello zodiaco disposti in cerchio e, su ciascuno, un cibo che allude a quel segno: ceci cornuti (Ariete), una bistecca di manzo (Toro), testicoli e rognoni (Gemelli), una corona (Cancro; è il segno di Trimalcione, che non ha voluto rappresentarlo con delle vivande per non gravare sulla sua stella), fichi d'Africa (Leone), una vulva di scrofetta (Vergine), una bilancia che porta una torta in un piatto e una focaccia in un altro (Bilancia), un pesciolino di mare (Scorpione), un corvo (Sagittario), una locusta di mare (Capricorno), un'oca (Acquario), due triglie (Pesci). Al centro del trionfo, una zolla tagliata con la sua erba sostiene un favo di miele, perché la madre terra è al centro di tutto e racchiude in sé ogni dolcezza. A questo punto, quattro servi tolgono la parte superiore del trionfo e compa-

re un vassoio con pollame ingrassato, ventresche di scrofa e, in mezzo, una lepre con le ali posizionate in modo da raffigurare Pegaso. Agli angoli, quattro satiri con piccoli otri versano salsa piccante su alcuni pesci che nuotano. La sorpresa è apprezzata, scaccia il poco entusiasmo con cui era stata accolta la portata e tutti si mettono ad applaudire… I commensali sembrano soddisfatti solo quando viene presentata loro la sorpresa, che si basa sul gioco delle scatole cinesi: un'intera scenografia nascosta all'interno della parte centrale del trionfo. Un aspetto che non va trascurato è che Trimalcione spiega le caratteristiche dei nati sotto ciascun segno: il cibo, quindi, non è solo delizia degli occhi e del palato, ma anche arricchimento intellettuale, perché portatrice di una simbologia che può richiedere una spiegazione. Non è comunque nostro compito valutare la profondità della simbologia di questi piatti, perché Trimalcione si presenta come un uomo grossolano e poco colto, quindi non ci si può aspettare una spiegazione raffinata. … Iniziano i preparativi per la nuova portata. Vengono distesi sui letti tappeti raffiguranti scene di caccia: reti e cacciatori in agguato. Poi, compare una muta di cani di Laconia che corre ovunque. Finalmente, viene servito un grande vassoio con un enorme cinghiale con un berretto in testa; dalle zanne pendono due cestelli di foglie di palma intrecciate: uno pieno di datteri freschi, l'altro di secchi. Intorno, porcellini di pasta dura sembrano attaccati alle mammelle e indicano quindi che il cinghiale è femmina. Un gigante vestito con un gabbano da caccia si fa avanti e colpisce il fianco del cinghiale, e dalla ferita esce uno stormo di tordi, subito catturati dagli uccellatori. Trimalcione chiede di vedere di quali ghiande si è nutrito l'animale, e vengono serviti, in parti uguali, datteri freschi e secchi… Il tema di questa portata viene enfatizzato in tutti i modi: non solo i tappeti, ma addirittura i cani proiettano i commensali in una battuta di caccia. E' come se venisse cambiato lo sfondo della scena per un nuovo atto teatrale. E la teatralità, alla cena di Trimalcione, è di casa, come viene ulteriormente sottolineata dal taglio della carne, compiuta dal gigante vestito da cacciatore. Un nuovo colpo di scena, quindi, con il volo dei tordi, non solo per l'effetto delle scatole cinesi (i tordi dentro al cinghiale), ma proprio per la spettacolarità del librarsi in volo degli uccelli. I porcellini di pasta dura sono un altro esempio di perizia dell'arte culinaria, la cui funzione non secondaria è quella di chiarire il sesso femminile del cinghiale. Per servire i datteri

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[ Immaginario ] viene usato un pretesto, cioè la richiesta di Trimalcione di vedere le ghiande di cui si è cibato l'animale: il padrone di casa è sempre complice dello spettacolo che è in scena. Come la portata precedente, anche questa richiede una spiegazione, seppure venga dichiarata superflua: il cinghiale è stato presentato con il berretto da liberto perché, servito il giorno prima come ultima portata, non era stato mangiato dai commensali ormai sazi; è, dunque, un liberto. A questo punto, Trimalcione affranca uno schiavetto che raffigura Bacco, sottolineando questo gesto con l'esortazione "Dioniso, sii Libero", un gioco di parole basato sul fatto che Dioniso e Libero sono due appellativi di Bacco. La scena, dunque, va ben oltre il tema della caccia e la complessa scenografia per rappresentarla; culmina con un atto di teatrale generosità del padrone di casa. … I commensali non sospettavano di essere soltanto a metà di "quel cammino di delizie": vengono portati tre maiali bianchi vivi. Saranno gli ospiti a scegliere quale cucinare. In realtà, poi, a decidere è Trimalcione, che opta per il più grosso, perché i suoi cuochi "son capaci di mettervi in casseruola un vitello intero". Poco dopo, il maiale viene servito e tutti sono stupiti della rapidità dell'esecuzione. Ad un tratto, Trimalcione inizia a imprecare perché si è accorto che il maiale non è stato sventrato e vuole punire il cuoco che, piagnucolando, ammette di essersene dimenticato. Allora Trimalcione lo invita a sventrarlo lì, davanti a tutti: ed ecco che, dai tagli, escono salsicce e sanguinacci… La scena è stata ben studiata: la presentazione dei maiali ancora vivi, la scelta del più grosso da cucinare e la rapidità della cottura creano le condizioni per rendere credibile l'indignazione di Trimalcione che, a ragione, si infuria per la mancanza di attenzione del cuoco; entrambi, qui, recitano una parte: il padrone indignato e il cuoco colpevole e desolato. A sciogliere la tensione è un ennesimo colpo di scena, che segue di nuovo lo schema delle scatole cinesi: il maiale che contiene salsicce e sanguinacci. Non sono le viscere che ci si aspetterebbe di vedere; ancora una volta, il cibo non è quello che sembra, è un'illusione. Il gioco sembra particolarmente riuscito, perché salsicce e sanguinacci si prestano bene a rappresentare le interiora. Il cuoco riceve l'applauso della servitù. … Su un vassoio di 200 libbre viene portato un vitello con un elmo in testa. Uno, proprio come Aiace pazzo (sono appena stati narrati episodi omerici), taglia a pezzi l'animale, lavora di taglio e punta e offre le fette

disposte sulla spada ai commensali stupefatti… In questo episodio non c'è alcun colpo di scena, né finzione. Lo stupore dei commensali è dato dall'abilità con cui "l'Aiace pazzo" lavora la carne per servirla. Se si può parlare di teatralità dell'azione, la si deve riferire ai modi con cui viene svolta, perché non è sostenuta da alcuna costruzione preparata ad hoc. Certamente, il racconto della follia di Aiace l'ha anticipata e ha creato il giusto clima per realizzare quel taglio forsennato della carne. … Sulla tavola è posto un trofeo colmo di torte con, in mezzo, un Priapo di pasticceria che, secondo l'uso, porta in grembo uva e frutti di ogni genere, simbolo di fecondità. I commensali stendono avidamente le mani su tanta abbondanza quando torta e frutta, appena sfiorate, gettano fuori schizzi di zafferano… Ritroviamo qui sia l'uso della pasticceria per rappresentare un soggetto simbolico, sia un nuovo effetto sorpresa: è facile immaginare la vivacità della scena quando i commensali, intenti a prendere dolce e frutta, si vedono schizzare di zafferano. … I commensali sono sazi perché, al solo ricordo dei manicaretti, al narratore si rovescia ancora lo stomaco. Ma Trimalcione insiste affinché ciascuno mangi una gallina ingrassata e disossata, con contorno di uova d'oca incappucciate. … Poi, un altro piatto sapientemente preparato: tordi di fior di farina ripieni di uva passa e noci, a cui seguono mele cotogne irte di spine così da sembrare ricci. Infine, un piatto che ha l'apparenza di un'oca ingrassata circondata da pesci e uccelli di ogni tipo: il tutto preparato con carne di maiale. Tutti questi piatti sono basati sull'apparenza: i tordi in realtà sono fatti di farina, i ricci sono mele cotogne, e anche oca, pesci e uccelli non sono quello che sembrano. Si tratta di giochi illusionistici, trasformazioni, sperimentazioni. … Infine, entrano due schiavi che sembrano avere litigato presso la fontana e, con un randello, distruggono ciascuno l'anfora dell'altro. Rimangono tutti sbigottiti quando dalle anfore cadono ostriche e pesci pettine che uno schiavo raccoglie su un vassoio e distribuisce. I due schiavi sono i nuovi attori che entrano in scena: il loro litigio è una finzione che crea confusione, tensione e prepara un altro colpo di scena; la rottura delle anfore, che sembra il culmine della discussione, in realtà è l'espediente per servire ostriche e pesci, che fanno il loro ingresso seguendo l'ormai consueto schema delle scatole cinesi…. []

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[ PIATTO GRAFFIATO ] Pasticcio di mele e pane raffermo

Mettere il latte in un pentolino assieme alle spezie, il miele e lo zucchero e portare a bollore, spegnere e unire la buccia dell’arancio grattugiata, coprire lasciando in infusione per 5 minuti. Nel frattempo sminuzzare il pane in una ciotola, filtrarvi il latte sopra e mescolare bene. Imburrare e cospargere di pane grattugiato una tortiera o una pirofila da forno. Sbucciare e tagliare a pezzetti le mele, unirle al pane ammorbidito, unire la farina e mescolare bene. Dividere i tuorli dagli albumi, unire i tuorli al composto di mele e dopo delicatamente gli albumi semimontati a neve. Amalgamare il tutto e passarlo nello stampo, cuocere in forno preriscaldato a 170° per 45 min, il centro del dolce dovrà esser asciutto. Servire nello stampo, senza capovolgere cospargendo di zucchero a velo o semolato. Ottimo se accompagnate al dolce tiepido una pallina di gelato alla cannella, zenzero o pinolata. 4 mele (Jonathan o renette sono le più indicate) 300 gr di pane raffermo 4 uova 300 gr di latte 2 cucchiai di miele di acacia 150 gr di zucchero 2 cucchiai di farina 1 pezzetto di cannella in stecca 1 arancio non trattato 3 chiodi di garofano 1 stella d’anice Burro Pane grattugiato

Pain perdu …ovvero recupero in dolcezza del pane raffermo Buono, indiscutibilmente buono. Da mangiare caldo, appena fatto obbligatoriamente, accompagnato da della frutta scottata in padella, una composta non troppo dolce, ina crema alla nocciola... Presente nelle colazioni continentali ( french toast, a volte li trovate farciti), nei brunch assieme a preparazioni salate, oggi viene riproposto con il nome di pain perdu, il francese fa subito “piatto fa chef”… In realtà è un piatto dei tempi passati, quando non si buttava via niente e bastava un po’ di zucchero e burro per far sorridere gli occhi a tavola. I piatti che si continuano a tramandare, che non muoiono e che non cambiano, io li chiamo i piatti della resistenza, quelli che sono stati buoni un tempo, sono buoni oggi, hanno la storia dentro. Battere bene uova e latte in un piatto fondo. Mettere una bella noce di burro burro in una padella antiaderente e far sciogliere dolcemente. Passare le fette di pane da entrambe i lati nel composto di latte e uova senza ammollarle troppo. Alzare la fiamma e scaldare bene il burro facendo attenzione a non bruciarlo, mettervi un paio di fette di pane e friggerle da entrambi i lati fino ad una buona doratura. Scolare e passare su carta assorbente, cospargere di zucchero da entrambi i lati. Se vedete che il burro scarseggia in padella aggiungetene un pochino e fate sempre scaldare. Potete utilizzare lo zucchero a velo oppure ( a mio avviso migliore) lo zucchero semolato, se vi piacciono i sapori speziati mescolate lo zucchero con un pizzico di anice e zenzero in polvere.

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8 fette di pane raffermo (o più a piacere vostro) 2 uova 250 gr di latte Burro Zucchero


[ Cinema ]

LO SPETTATORE PAGANTE di Antonio Asquino

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IO E TE regia di Bernardo Bertolucci uesto film rappresenta il ritorno di Bertolucci ,a nove anni di distanza da “The Dreamers” e dopo una malattia che l’ha costretto su una sedia a rotelle e diciamo subito a malincuore che purtroppo il ritorno non è all’altezza né delle sue opere migliori né delle aspettative . La storia è mutuata dal libro omonimo di Niccolò Ammaniti e di per sé sarebbe una storia perfettamente in linea con le tematiche abituali del regista: la diversità, l’isolamento, il distacco dal resto del mondo (in questo caso dal mondo degli adulti), la scoperta delle emozioni e degli slanci affettivi adolescenziali ma tutto rimane a un livello troppo psicologicamente narcisista e autoreferenziale e poco cinematografico malgrado anche la scelta interessante dell’ambientazione nello spazio angusto di un garage-cantina. La storia è quella di Lorenzo, un quattordicenne introverso che si rinchiude pieno di provviste e con un formicaio per una settimana in una cantina fingendo di essere in settimana bianca con la scuola. A stravolgere i suoi piani è la sorellastra Olivia (personaggio abbastanza stereotipato in realtà) che cerca di disintossicarsi dall’eroina. Bertolucci cade nel classico problema formale che appartiene a buona parte del cinema italiano: i film che non sono film ma diventano di volta in volta documentari,servizi del telegiornale, manuali comportamentali e/o sentimentali, manifesti di retorica pseudorivoluzionari, mostre di fotografia o in questo caso: diario mascherato (male) da trattato psicologico. Un film che è povero dal punto di vista visivo che non ha un punto di vista e che riesce a recuperarlo solo di tanto in tanto in qualche sguardo dei due protagonisti (comunque moto bravi, in particolar modo Tea Falco) e in qualche movimento di macchina (pochissimi validi in realtà) che aderisce

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|photograph by Roddy Murray


[ LO SPETTATORE PAGANTE ] ai corpi ma che quando si lascia prendere la mano in scene di isteria esagerata o reazioni teatraleggianti risulta lo stesso stucchevole. Da sottolineare in positivo la fotografia di Fabio Cianchetti e ,come già scritto, l’interpretazione dei debuttanti Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco che fanno ben sperare per il prosieguo della loro carriera. Questa pellicola è tradita dai troppi buchi di sceneggiatura, dai dialoghi decisamente approssimativi e da una regia piatta ,punta molto (troppo!) sugli sviluppi emozionali e psicologici riuscendoci raramente, poche scene memorabili e nessuna che rimarrà, forse qualche primo piano dei due protagonisti, forse il finale e sicuramente l’armadillo, la cosa più originale del film. []

LA BALLATA DELL’AMORE E DELL’ODIO regia di Alex De La Iglesia enza indugi scriviamo subito che questo film è una meraviglia assoluta sotto tutti i punti di vista, un capolavoro colossale e uno dei film più belli che io abbia mai visto , chi l’avesse visto e non fosse d’accordo può tranquillamente passare oltre, tanto più che seguiranno solo lodi sperticate. Il cinema di Alex De La Iglesia (lui si’ che è uno degno di essere chiamato “regista” , una volta tanto!) aveva raggiunto picchi di genialità visiva,contenutistica ed emozionale già in passato ma qui ha superato se stesso, questo film sarebbe da prendere ad esempio ma non solo per semplici motivi tecnico-tematici ma perché si respira aria di invenzione in ogni nanosecondo, una libertà, una anarchia travolgente e di una bellezza stordente che alla fine ti lascia un senso di piacere indescrivibile, un brivido di quelli che raramente un film anche quando è splendido, riesce a trasmetterti. Partiamo dalla trama: la storia è ambientata durante gli anni settanta nel bel mezzo della dittatura di Franco (con un breve prologo che si svolge durante la guerra civile spagnola), Javier, personaggio goffo e timido, malinconico e decisamente ingenuo decide di seguire le orme del padre (scomparso durante la guerra) come “pagliaccio triste” e viene adottato dal circo come spalla del “clown allegro” Sergio, bravissimo con i bambini ma in privato personaggio sgradevole, umorale, alcolizzato, iracondo che è innamorato in modo possessivo e folle di Natalia, l’acrobata. Javier inizierà a frequentare la ragazza riuscendo in parte

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a suscitare la sua attenzione anche un po’ pietosa. L’ indecisione di Natalia tra il naturale trasporto per il giovane e il rapporto viziato con Sergio, scatenerà una serie di eventi drammatici che produrranno una sarabanda di follia e un crescendo delirante di avvenimenti e comportamenti rovinosi per tutti. Sullo sfondo la vita del circo e i suoi artisti scalcinati, nella grottesca lotta quotidiana per la sopravvivenza con sulle spalle tutta la difficoltà e il peso della dittatura e della guerra. De la Iglesia dirige con maestria e genio esplosivo un film straordinario (da intendersi proprio nel senso letterale oltre che come aggettivo), di lavori del genere ne viene fuori uno al decennio quando va bene, è fuori dall’ordinario la totale libertà di giocare con la storia e con lo svolgimento della trama in assoluta libertà, è fuori dall’ordinario creare e rappresentare con tale sapienza una gamma vastissima di stati d’animo, spesso nello stesso momento, è fuori dall’ordinario fare un film che richiama nello stesso tempo il miglior Bunuel, l’espressionismo, il fantastico, Orson Welles (solo per citare i riferimenti più noti che incontrerete al suo interno), è fuori dall’ordinario il montaggio onirico e motore per sublimi voli pindarici , è fuori dall’ordinario la fotografia cupa, lucida emagniloquente nelle scene (tante) più ricche di pathos. Il circo diventa chiara riduzione in scala del mondo e sua immagine speculare, i suoi abitanti sono preda delle pulsioni più immediate e più grevi, sprofondano nell’incubo con una sospensione dell’incredulità, richiesta e agevolata dal regista , che ha del miracoloso, è fin troppo facile la metafora del clown ma tanto è facile ed evidente tanto più è vero e i pagliacci sono ovunque, soprattutto nelle gerarchie politiche e militari di quella sottospecie di stato che era la Spagna (e non solo, come noi italiani ben sapevamo e sappiamo ancora), tutto passa dallo sguardo allucinato, geniale e visionario del regista e diventa puro piacere grondante cinema. “Balada triste de trompeta” (titolo originale) è una meraviglia a trecentosessanta gradi, un picco difficilmente raggiungibile di arte filmica dove tutto è in perfetto equilibrio, dove la metafora si fa carne che sanguina e svela, in parallelo, la sciagura dei protagonisti e quella di una nazione in ginocchio, raccoglie lo spettatore e lo porta su di una montagna russa che farà cambiare il suo punto di vista migliaia di volte per poi affidare il suo ritorno dal viaggio, al veicolo delle sue più pure emozioni, alle sue paure, ai suoi sogni più reconditi. Sarebbe superfluo ma è da segnalare anche la prova magistrale di tutto il cast con una menzione particolare per Carlos Areces nel

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[ Cinema ] ruolo di Javier, vero mattatore e personaggio memorabile in ogni sua manifestazione, nel suo crescendo delirante e appassionato risulta maschera unica e stupefacente. La nota dolente davvero è relativa alla schifosa e vergognosa distribuzione italiana di questo capolavoro, la pellicola arriva nella nostra penisola dimenticata dagli dei del cinema con ben due anni di ritardo dalla data di produzione e fa ancora più specie se si pensa che sono trascorsi due anni anche dalla vittoria del Leone D’Argento, per la migliore regia, conferito ad Alex De La Iglesia, alla Mostra del Cinema di Venezia (premiato da Quentin Tarantino, allora presidente di giuria). In Italia è uscito nel 2012 e solo in otto sale ,praticamente il nulla e io fortunatamente sono riuscito a vederlo (anche perché lo aspettavo da due anni e appena è arrivato a Roma mi ci sono fiondato) ma purtroppo molti che sarebbero rimasti abbacinati dalla bellezza di questo film ancora non sono riusciti a fruirne e un po’ li invidio per quando gli succederà. Questo (e non esagero per niente dicendolo) è uno dei film più belli e interessanti della storia del cinema, da vedere a tutti i costi,recuperatelo in dvd, scaricatelo illegalmente , mettete i soldi da parte e andatelo a vedere in un qualsiasi paese del mondo lo proiettino, se siete amanti del cinema non potrete che goderne intensamente senza sosta dal primo all’ultimo secondo. []

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l’OCCHIO di Sabrina Tolve

[ L’occhio ]

#04

TRAVOLTI DAL DESTINO, COMUNQUE. Addio a Mariangela Melato

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n’immagine, una sola. In panni chiari di una tv in bianco e nero. Una collana, spalline nere. Il capo coperto del medesimo manto, il viso contrito, le braccia sollevate. È un’immagine muta, la mia. È un’espressione mordace e tagliente, silenziosa, perché io la ricordo così. È la mia Mariangela Melato. È la mia Cassandra. Silenziosa, lei è scivolata via, divorata da dentro. Perché mi piace pensare che nulla, dall’esterno, avrebbe potuto scalfirla, non il mondo, non le persone. Solo l’inquietudine, un’inquietudine veemente che è diventato altro. E, lentamente, l’ha portata lontano. Della Melato, fondamentalmente, in me resta lo sguardo luminoso. La voce roca, la risata a volte grottesca e quell’urlo, profondissimo, che si sente dalle viscere quando si ha di fronte un attore. Un Attore. Lei è stata quarant’anni di teatro, di cinema, di televisione. La Melato è sempre stata, per me, l’emblema di quel che è la passione. Sforzi e sacrifici, affanni e poi non fermarsi, avere l’umiltà d’imparare e arricchirsi e migliorarsi, e migliorare chi è al proprio fianco e avere l’eleganza e la delicatezza di rendersi conto della fragilità del Sogno e sfiorarlo appena e rispettarlo e non volgarizzarlo, non ridicolizzarlo. Quanta forza ci vuole? E quanta lotta, quanto coraggio? Un Attore combatte sempre. Sempre. Sa che il mondo, in qualche modo, secondo qualche rituale arcano, si può cambiare. L’Attore può farlo. E chiamatela allora catarsi drammatica, risata dello scherno, esorcismo. In qualche modo, l’Alchimia del teatro è tutto questo. E deve avere degli ottimi attori – sacerdoti, per potersi aprire a nuovi mondi. Lei non fu solo sacerdotessa. Lei fu la veggente che amò ed ebbe, pure, la forza dell’odio. La mia Cassandra. La mia Melato. []

“Bella? Ma no, JK | 59 ero strana”


[ Sterilita' del benpensare ]

LIBERTA’ E’ PARTECIPAZIONE #04 di Claudio Avella Quando Monicelli disse: “Non dire Speranza! Speranza è una brutta parola!”

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'ultima volta vi ho lasciato con un po' di “suspence”: avevo promesso che dopo le doverose introduzioni fatte sulla democrazia partecipativa e sui processi partecipativi, avrei portato qualche esempio concreto. L'esempio che ho scelto è abbastanza banale e inflazionato in letteratura, anzi, forse se qualche addetto ai lavori leggesse questo articolo ne avrebbe le scatole abbastanza piene. Ma l'ho scelto comunque per la sua rappresentatività. Parlare di democrazia partecipativa non è affar semplice per diversi motivi, per cui, dovendo portare un primo esempio concreto, mi sembra abbastanza naturale parlare di un'esperienza. Essa continua da oltre venti anni e ha visto un coinvolgimento di persone che è andato crescendo nel tempo, passando, da poche decine di persone nei primi anni, fino a giungere all'ingente cifra di quindicimila persone di oggi. Sto parlando dell'esperienza del Bilancio Partecipativo di Porto Alegre, in Brasile. Porto Alegre è la capitale dello Stato del Rio Grande do Sul. Conta una popolazione di quasi un milione e mezzo di abitanti, che diventano oltre cinque milioni se si comprende tutta l'area metropolitana. È stata, tra l'altro, molte volte dal 2001 a oggi la città ospitante del Forum Sociale Mondiale (vi ricordate? prima del G8 di Genova se ne parlava tanto), l'ultimo è stato proprio poche settimane fa. Il Bilancio Partecipativo è uno strumento difficile da definire in maniera univoca. Consiste, sostanzialmente in un'apertura delle istituzioni alla popolazione, un percorso di dialogo sociale, allo scopo di definire, insieme a quest'ultima, le

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[ LIBERTA’ E’ PERTCIPAZIONE ] priorità di investimento della città e quindi gli indirizzi economico/finanziari dell'amministrazione comunale. L'esperienza di Porto Alegre, nonostante non sia la prima esperienza del genere in Brasile, è sicuramente la più famosa. I motivi sono molteplici: innanzitutto per la radicalità con cui ha preso piede il meccanismo, infatti per alcuni anni il Bilancio Partecipativo ha riguardato percentuali vicine al 100% degli investimenti annuali; per la continuità dell'esperienza, che va avanti dal 1989; per il largo coinvolgimento della classe politica e della popolazione ed il conseguente raggiungimento di risultati concreti; per la capacità di estendere le metodologie utilizzate, anche ad altri strumenti di programmazione, come la pianificazione urbana; inoltre la città di Porto Alegre ha dato un forte contributo all'interno delle reti internazionali di diplomazia tra le città. Il Bilancio Partecipativo in Brasile nasce in un contesto particolare: nel 1988 ci furono le prime elezioni democratiche, dopo un ventennio di dittatura. Si sentiva quindi l'esigenza di ristabilire la fiducia delle persone nella politica, evitare l'ingovernabilità delle città e raggiungere una maggiore giustizia sociale. Si iniziò così in molte città a sperimentare questo strumento , che nel 1989 sbarcò anche a Porto Alegre. In realtà già nel 1985 i movimenti sociali presenti nello Stato del Rio Grande do Sul avevano negoziato con i partiti la possibilità di rinnovare i metodi di gestione del territorio: così nella Costituzione dello Stato e nello Statuto della città di Porto Alegre veniva introdotta la partecipazione attiva dei cittadini nella gestione e nella programmazione delle risorse economiche e finanziarie. Questa richiesta da parte dei movimenti e delle associazioni divenne determinante, un discriminante affinché i partiti che si candidavano alla guida del comune avessero l'appoggio dei movimenti associativi locali. In questo modo venne gettato il primo seme per l'affermazione in seguito del Bilancio Partecipativo. Il Bilancio Partecipativo si declinò quindi in una discussione democratica sulle priorità di bilancio del comune e sull'articolazione dettagliata del piano annuale degli investimenti da effettuare. La discussione vede la partecipazione attiva delle organizzazioni della società civile e dei portatori di interesse in generale, ma anche dei rappresentanti municipali, che, pur avendo diritto di fare proposte, non hanno diritto di voto sulla gerarchizzazione delle priorità. Il fatto che i rappresentanti municipali non abbiano diritto di voto è un fattore fondamentale, infatti il Bilancio Partecipativo, non ha valore giuridico, ma

solo consultivo. D'altra parte furono gli stessi partecipanti al Bilancio che decisero, dopo una lunga discussione, di lasciare il Bilancio Partecipativo fuori dalla sfera giuridica. Questa scelta avvenne anche perché la percentuale di partecipanti non ha mai superato soglie del 5%-7% nelle assemblee di quartiere. Percentuali apparentemente così basse, non lo sono poi così tanto: a Porto Alegre partecipano, comunque, quindicimila persone circa al processo partecipativo! Ogni anno il Bilancio Partecipativo di Porto Alegre è il risultato di una discussione e un lavoro continuo che viene portato avanti costantemente e assiduamente, con diversi incontri a scadenze regolari all'interno dei quartieri. Uno dei grandi punti di forza di questo strumento sta anche nell'autoregolamentazione: ogni anno, dopo la redazione del Bilancio, le regole organizzative vengono riviste e modificate dal Comune e dai partecipanti al processo, allo scopo di migliorare di volta in volta le metodologie. Ad esempio tra il 1989 e il 1994 la discussione verteva soprattutto su alcune tematiche piuttosto limitate: case popolari, infrastrutture di base, pavimentazione stradale, regolazione fondiaria dei quartieri nati illegalmente. Fu nel 1994 che l'amministrazione stessa decise di estendere la discussione proponendo alcuni assi tematici, come quello ambientale. Insomma il Bilancio Partecipativo veniva esteso ed organizzato in modo che le discussioni venissero svolte su due assi distinti: quello territoriale (ogni quartiere ha il suo gruppo di lavoro o discussione), e quello tematico (ogni gruppo di lavoro sviluppa la discussione attorno a una tematica particolare, come l'ambiente, la gestione dei rifiuti, ecc...). Venne deciso anche di applicare la metodologia alla redazione del Piano di Sviluppo Economico e del Piano Regolatore Urbanistico. La sintesi delle priorità e la loro gerarchizzazione viene poi fatta in base alla quota di popolazione, alle carenze infrastrutturali e alle offerte dei servizi nei diversi quartieri della città, in modo da rispettare il principio di raggiungimento di una maggiore giustizia sociale. Se nel Bilancio Partecipativo la parola chiave è appunto Partecipazione, non posso non citare il fatto che negli anni il rinnovamento dei partecipanti è stato molto alto, del 60%-70% fino al 2004. In particolare è interessante osservare che la partecipazione maggiore viene proprio dalle persone provenienti dalle classi più povere. Il fatto poi che i partecipanti, in meno di vent'anni siano passati da poche centinaia nel 1989 a 18.500 nel 2001 e a 15.000 ancora oggi, dimostra

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UST KIDS

[ Sterilita' del benpensare ] il fatto che il processo ha avuto l'effetto di stabilire una certa fiducia nel sistema politico, soprattutto per il fatto che fino al 2004 il tasso di opere previste dal Bilancio Partecipativo e realizzate era del'80%. Dico fino al 2004 perché il 2005 ha segnato un momento di svolta in negativo per questa esperienza: il cambio di amministrazione comunale e meccanismi di cooptazione dei partecipanti al Bilancio Partecipativo all'interno dei partiti, hanno fatto perdere parte del peso di questo strumento. Nel 2005, per esempio il tasso di opere effettivamente realizzate passò al 52% e il tasso di turn-over è sceso al 35%. Nonostante questo è innegabile quanto questa esperienza segni un'importante tappa nella storia della Democrazia. La longevità del Bilancio Partecipativo a Porto Alegre è innegabile ed è soprattutto il frutto di un lavoro assiduo da parte di tutti i partecipanti. Il fatto che questi siano andati aumentando e che le amministrazioni abbiano tenuto in conto in maniera concreta delle indicazioni dei cittadini di Porto Alegre, sta a significare che esistono delle forme di politica e di gestione della cosa pubblica diverse da quelle a cui siamo assuefatti. Non serve sperare che arrivino, perché, come disse il maestro Monicelli, “Speranza è una brutta parola”, ma si può partecipare per ottenerle. []

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[ buononononouob ]

BUO NON ONONOUO B #04 di Gianluca Conte

40GRADI S

iam partiti molto presto. Per me era la prima volta che mi allontanavo così tanto da Brasov. Ma il fatto che nello stesso corriere ci fossero Bogdan, Adrian e un altro nostro amico, che ormai chiamavamo tutti “Paolo”, per il fatto che era già stato varie volte in Italia, mi confortava. Anzi sembrava quasi che stessimo andando in vacanza. Ci hanno raccontato che la Puglia è una terra bellissima, con tanto sole, olive meravigliose, tanti dolci, un bel mare, il vento e tanto pesce. Ho promesso a mio padre che prima di tornare a casa, con i soldi guadagnati, mi farò prima una bella mangiata di pesce in un ristorante sul mare. Il corriere è pieno. Ci fermiamo all’inizio dell’Italia, non ho capito dove, li sento parlare di Fruli o Frili, qualcosa del genere e lì cambiamo corriere, nessuno di noi ha capito perché. Comunque sul corriere c’è entusiasmo. Anche se si sta andando a lavorare duramente, lo stiamo facendo per le nostre famiglie. E poi, scherza Bogdan, “che vogliamo di più? Torneremo abbronzantissimi col sole che c’è quaggiù”. Ci fermiamo vicino Foggia. Ah, Foggia. Qui ci giocava uno dei nostri miti, Dan Petrescu. Sembrerà stupido ma questa cosa mi fa sentire un po’ più a casa. A dir la verità non è come me l’aspettavo. Dormiamo tutti insieme in un grosso stanzone con dei materassi brutti e un po’ rotti. La prima notte mi faceva un po’ ridere ritrovarmi con i miei amici e insieme a tanti altri che non conoscevo ammucchiati in uno stanzone, aveva il suo fascino. Il lavoro è più duro di quanto pensassi. Il primo giorno che siamo arrivati nei campi, l’odore di bruciato mi riempiva le narici e sorridevo contento di stare lì. Mi è sempre piaciuto lavorare nei campi, a stretto contatto con la natura, graffiarmi coi rami, buttarmi per terra, mangiare i frutti direttamente dall’albero. Ma queste sensazioni bucoliche sono durate troppo poco. Il sole che c’è quaggiù, aveva ragione Bogdan, è fortissimo, 40 gradi che ti spaccano la schiena, e di soldi a fine giornata nemmeno l’ombra. Ogni tanto succede qualcosa di strano. Uno di quelli che dormiva nello stanzone all’improvviso non lo vedi più. Anche Adrian un giorno non l’ho più visto; l’ho scorto allontanarsi insieme ad un signorone con i baffi e un bel cavallo. Mi hanno detto che è stato portato in un altro campo dove c’era bisogno di gente più muscolosa, ma mi pare strano che non sia mai venuto a salutarci. Per i primi giorni continuai a ripetermi di smetterla JK | 63


[ Sterilita' del benpensare ] di fare il piagnucolone e stringere i denti come tutti gli altri. In fondo si trattava di pochi mesi di lavoro e poi saremmo tornati con tanti soldi dalle nostre ragazze. Ma con il passare dei giorni la situazione mi piaceva sempre meno. Paolo si fece male ad una gamba, anche se mi sembra strano che non ci abbia raccontato come gli sia successo, lui sempre pieno di aneddoti, spesso anche inventati. La sera cercavo Bogdan per poterne parlare almeno con lui, capire cosa ne pensava di tutta questa strana situazione, ma lui mi rispondeva scocciato che era lì per lavorare e non aveva voglia di filosofare. Era tutto così surreale. Mi sembrava di essere io l’unico sbagliato lì dentro. Erano riusciti misteriosamente a cambiare anche la logica. Mi venivano in mente le parole dei miei amici a Brasov, quando seppero che partivo per l’Italia: mi chiedevano di portargli al ritorno la maglietta della Juve, la statuetta del Colosseo, qualcosa da mangiare, il più artistoide il poster di Sofia Loren. Ma io mi trovavo davvero in Italia? Cominciò a balenarmi la strana idea che io, alle soglie del 2000, ero uno “schiavo”. Cazzo più ci pensavo e più trovavo in qualsiasi momento della giornata altri dettagli che mi facevano credere di aver ragione. Volevo parlarne con gli altri, ma erano tutti talmente svuotati che non avrebbero capito e io non volevo farmi condizionare da loro, dovevo a tutti i costi rafforzare questa scoperta di essere uno schiavo. Cominciavano ad arrivare sui campi notizie strane. Raccontavano di vari suicidi tra gli stranieri venuti a lavorare sui campi e che fossero sepolti senza una lapide e uno straccio di nome e cognome. Non saprei dire perché ma iniziai ad essere ossessionato dal pensiero che forse anche Adrian e Paolo potessero essere tra quelli. E son sicuro che non sarebbero stati suicidi. Qualcuno cominciò finalmente a darmi timidamente ragione e qualcuno cominciò a preoccuparsi per noi. Oggi sono di nuovo a casa, nella mia Brasov, anche se ai miei amici non ho portato nulla di tutto ciò che mi hanno chiesto, e non ho mantenuto la promessa fatta a mio padre. Io da allora mi sento il vomito ogni volta che sento pronunciare la frase “il lavoro nobilita l’uomo”. Per il lavoro io mi sono ridotto a verme, e i caporali non possono di certo essere chiamati uomini. []

Gianluca Conte è Mezzafemmina ed è anche qui: JK | 64 www.mezzafemmina.it


[ Sex ON]

sEX ON di Catherine

#04

Copia di senza nome #auncertopunto #manoncièdatodisaperequale

“I single, ecco il punto, sono vittime di una discriminazione falsamente addolorata da parte di sposi, fidanzati, accoppiati. Sono l'unica minoranza sessuale che non ha ancora alzato la testa e protestato per rivendicare i suoi diritti, ma è ora di cominciare a farlo. Ho 33 anni, vedo gente, qualche volta ci vado a letto, ma non ho una relazione fissa, sto perfettamente bene da sola, perché devo sentirmi una disadattata?” (La Repubblica, tratta dall’articolo “Liberi e felici, perché i single sono odiati dalle coppie.”) “Per vivere bene da soli ci vuole talento, inteso come creatività, energia, curiosità, socievolezza. La gente che vive da sola è naturalmente più portata a socializzare: visitare gli amici, unirsi a gruppi sociali e alla fine creare una città più attiva e dinamica. Insomma una società adulta di adulti. Ed eccoci al punto: è davvero da tutti questa possibilità?” (Corriere della Sera, tratta dall’articolo “Il talento di Miss Single.”) “I don’t think that’s the fantasy. My point is that, today we cycle in and out of different living arrangements: we live alone, then we live with a partner, we live alone again, we shack up with someone again. In modern lives, living alone is the more desirable state. It’s very hard to get private space. When I lived alone, I had complete control over my social life. I could stay out as late as I wanted, sleep in as late as I wanted. No one ever told me my shower was too long. Those are wonderful things.” (The New York Times, tratta dall’articolo “Single, and loving it.”) “Ho dovuto mentire dicendo che sono fidanzata. Lui mi ha detto: sono felice per te, te lo meriti. Avrei voluto rispondergli: coglioXX nessuno meriterebbe una rottura di cazXX come un fidanzamento! Il punto è che dirlo forse non era il caso.” (Cit. censurata tratta da una lunga serie di conversazioni patologiche tra Anurb Botwin e la sottoscritta)

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ichiarazione d’intenti: non voglio schierarmi.

Ci ho messo un po’ prima di decidere se affrontare o no il nodo della questione. Ci sono voluti giorni di riflessione, consultazione di fonti, ponderazione degli obiettivi e (soprattutto) di sentita auto interrogazione su come diavolo la penso in proposito. Bene, il cervello fuma, il tema scotta e i punti interrogativi hanno deciso di darsi fuoco. Per questo eccomi, partendo da qualche citazione di chi ci ha provato prima di me

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[ Sterilita' del benpensare ] e ispirandomi al materiale umano a disposizione, mi lascerò andare fluttuante tra le mie innumerevoli interpretazioni, come al solito, cercando di capirci qualcosa un po’ alla volta mentre scrivo. E, come al solito, guardandomi bene dal rischiare di scrivere cose comprensibili. Semplificando, la base del discorso consiste essenzialmente in un’opposizione: meglio fare con o meglio fare senza? Attenzione all’istintiva voglia di risposta secca perché il nodo della questione di cui si diceva risiede esattamente nell’immenso, indeterminato e lunatico spazio neutrale tra le parti. Il cosiddetto “centro” che fa sempre comodo nei casi di panico da presa di posizione, ma che se mal gestito ha lo svantaggio di provocare un poco rassicurante senso di temporaneità psicologica e affettiva. Perché “centro” equivale a dubbio. Un piede dentro e un piede fuori. Oggi sì e domani non so. “Centro” equivale a limbo delle convinzioni e delle intenzioni dove l’eccezione non conferma la regola, piuttosto è la regola. Probabilmente esiste, vive e prospera un discreto numero di persone che una posizione netta già ce l’ha. Single convinti o accoppiati da sempre che, giustamente, non hanno né motivo né voglia di partecipare al dilemma. Un po’ come dire credo oppure non credo. La fede è opinabile ma non discutibile. Ed è irrazionale tanto quanto la teoria del caos. Poi, comunque, c’è anche l’esercito degli atei senza un dio delle relazioni interpersonali che dopo averle provate tutte crede soltanto in quanto sia crudele dover scegliere definitivamente e subito tra il giorno e la notte. L’aggravante è che si parte da condizioni impari, perché il giudice non è imparziale. Il giudice sono gli altri, siamo noi, è lo specchio in camera poggiato a terra e mai attaccato al muro, è il collega trentacinquenne con moglie e figli perché è normale, sono gli amici ultra fidanzati velatamente insoddisfatti, è la folla di parenti che ogni santa ricorrenza rimane nell’attesa speranzosa di non vederci arrivare tragicamente e spavaldamente da soli. Riassumendo in modo volutamente superficiale l’evoluzione socioculturale dei fatti, si potrebbero descrivere gli ultimi decenni come passaggio attraverso una serie di fasi: dall’era delle zitelle e degli scapoli, all’era del sesso libero e promiscuo tra i fiori, all’era del monolocale con entrata indipendente e angolo cottura poco utilizzato. È chiaro che temi importanti come libertà sessuale e legittimità delle più diverse scelte di

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[ Sex ON] vita hanno sempre avuto i loro audaci e autorevoli sostenitori, ed è chiaro che se adesso fossimo nel 1500 si arrostirebbero più streghe che kebab. Tornando a oggi, in ogni caso, la situazione rimane precaria. Ma va? La bella notizia è che grazie al buon senso di qualcuno sulla carta d’identità non è più obbligatorio spiattellare lo stato civile ma, nonostante le cose rispetto al passato vadano decisamente meglio, l’idea di coppia rimane un’ossessione. Non esistono single, più che altro esistono persone prima e dopo la coppia, sarebbe a dire in cerca oppure appena mollati. Forse, ma dico forse, ai single manca una discreta letteratura che li definisca come tali. Non sto dicendo che single è meglio, ma se andare in giro in tandem non avesse quest’assoluto ruolo di supremazia si potrebbe scegliere con meno ansia e frequentare i supermercati da soli più serenamente. È anche vero che forse, ma dico forse, non tutti sono davvero capaci di vivere nel mondo non accompagnati perché, se la quantità è accoppiata, potrebbe essere che la qualità è single. Mi chiedo, perché non si riesce ad accettare lo stare da soli come stato autosufficiente? Come fattibile e realizzabile alternativa? Secoli di storie, romanzi e telefilm dimostrano che la condivisione è inevitabile e che presto o tardi si diventa cretini, in senso buono. Opporre resistenza serve al massimo per guadagnare tempo, ma volente o nolente il destino è in coppia. Oh santo cielo, no. Detto così sembra una punizione ineluttabile. Pensiamo a una possibilità ibrida, a un part-time orizzontale o verticale, coppia ma non troppo, il venerdì sera sì e il sabato sera no. Pensiamoci e tiriamo un sospiro di sollievo. Non si può negare il valore unico della totale indipendenza, la sensazione di benessere che si prova senza avere orari e impegni che non siano esclusivamente i nostri, il piacere di decidere all’ultimo momento cosa fare nel fine settimana e poi uscire con chi ci pare oppure se serve rimanere nell’assoluta solitudine e beatitudine dei sensi con il cellulare staccato. Inutile nascondersi dietro l’illusione che tutto possa rimanere uguale anche insieme a un’altra persona, perché essere completamente liberi di farsi i fatti propri quando si è in due è fisiologicamente impossibile. Il guaio è che se malauguratamente i vermi solitari dovessero trasformarsi in farfalle nello stomaco, dai weekend folli di Thelma & Louise a friggere polpette indossando il burka, il passo è molto breve. Si dice che a un certo punto prospettive e bisogni dovrebbero cambiare, che c’è un tempo per tutto. E

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[ Sterilita' del benpensare ] se non fosse così? Un’altra ipotesi potrebbe essere azzardare la pericolosissima suddivisione del popolo umano in animali da coppia e non animali da coppia. La predisposizione verso l’una o l’altra condizione magari esiste veramente e il caso nasce quando la gente, per forza di cose o perché lo vuole, sceglie di agire contro la propria natura.

Va bene, time out.

Mi ha preso la foga del ditino impazzito sulla tastiera. Non rileggo su per non realizzare amaramente di aver superato il numero di battute consentite. Intimamente però so bene di non disporre di sufficiente spazio per cambiare argomento con stile, quindi mi tocca fare una delle cose che più mi caratterizzano, ossia saltare all’improvviso e a occhi chiusi verso un altro contesto logicamente collegato al precedente ma più che altro solo nella mia testa. Dove sono finiti gli Uomini? E le donne? Sono invisibili? Si sono estinti dai luoghi reali e immaginari delle relazioni? Hanno rinunciato ai sogni? A nuove visioni del mondo? Non fanno più le cose con passione? Non cercano più storie impegnate? Sentimenti sporadici, moltiplicazione degli incontri una tantum, ottimismi, pessimismi, follie, tattiche e vanità. Il sesso senza amore che non è un problema e l’amore senza sesso che è il vero problema. Butto giù un po’ di spunti per spiegare meglio che preferire se fare con oppure fare senza è un’esperienza interiore, oltre che esteriore, di tutto rispetto. Fondamentalmente (e in questo momento io ne sono la prova) anche stare da soli in camera da letto è un’esperienza sociale. Potrebbe essere quindi che quel che manca è lo spirito di iniziativa, la voglia di rischiare di stare insieme o di non stare insieme. Perché le due cose hanno i loro vantaggi ma nello stesso tempo le loro fregature. Che senso ha ostinarsi a non stare insieme se poi si prova piacere a cucinare per qualcuno? Che senso ha ostinarsi a stare insieme se poi ci si diletta a fantasticare (e non solo) su un’intrigante Cleopatra o su un affascinante Marco Antonio dall’altro lato della chat? Tutta la menata sugli uomini sempre più irresponsabili e impauriti da donne sempre più indipendenti e sicure alla fine è una leggenda? Probabilmente l’unica realtà da prendere per buona è la verità di uomini e di donne che a un certo punto s’innamorano e decidono di condividere, poi, a un altro un certo punto, decidono di non essere innamorati e di non condividere più. Prima di chiedersi se conviene la mono porzione oppure il formato famiglia, allora, si potrebbe pensare di impegnarsi a TROVARE IL PROPRIO POSTO NEL MONDO, dovunque e con chiunque esso sia. Celebrare il proprio stato civile, qualunque esso sia. Onorare il prossimo che abbiamo scelto, che sia un’altra persona, oppure un chiwawa, oppure un costosissimo mac, oppure una praticissima macchinetta del caffè. Non c’è niente che si vuole o non si vuole per sempre. Piuttosto che schierarsi a favore di questa o

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[ Sex ON] quella condizione sarebbe quindi il caso di godere dei benefici dell’una o dell’altra finché durano. Oh santo cielo, no. Le mie argomentazioni stanno prendendo una piega così conciliante e pacata che non mi riconosco più. Dovrei compensare tutte queste buone intenzioni con una dichiarazione pubblica e scandalosa su quanto in realtà io mi senta a mio agio nel ruolo di multiplayer sentimentale. Ma non lo farò. E non l’ho appena fatto. Era per dire. La posizione migliore è quella che ci fa stare bene, la posizione che ci fa stare bene è quella che dipende solo e soltanto dalle scelte consapevoli. Anche se spesso le scelte consapevoli sono indirizzate e influenzate da una serie di disagevoli e improbabili circostanze. Temo che innumerevoli e non numerabili parole non siano bastate per abbattere l’opposizione, forse l’hanno un poco distesa, forse si può trovare un compromesso. Comunque sia nell’attesa di una risoluzione (considerando che mai arriverà) ci è concesso di rimanere in mezzo a questa eterna lotta tra desiderio di libertà e bisogno di appartenenza, occupando in un modo o nell’altro il nostro tempo emotivo e apprezzando anche l’incoerenza tra irriducibili convinzioni ed eventuali fatalità.

P.s.

Ho la tentazione di cancellare tutto e riscrivere dall’inizio perché in realtà la foga del ditino mi ha portato lontanissimo dal punto in cui credevo di arrivare. Penso cose che non pensavo di pensare. Cancellerei tutto per sostenere la tesi originaria che narrava di single più creativi della controparte accoppiata e di donne più intelligenti della controparte apparentemente virile. Riscriverei e sarei un po’ più spietata. Riscriverei ma finirei per auto dedicarmi un’apologia. Ho messo in pausa insensibilità e cinismo. Ma sia chiaro, trattasi solo di una tregua lunga un numero mensile.

P.p.s.

A proposito del suddetto titolo. Inizialmente “A un certo punto” sarebbe dovuto essere il titolo ufficiale. Successivamente causa pigrizia il file word di riferimento non è mai stato rinominato, rimanendo “Copia di senza nome” per una decina di giorni sul mio desktop. Non ho potuto farne a meno. Anche le cose si affezionano ai nomi e soprattutto io mi affeziono alle cose dopo avergli dato un nome. Anche le cose, insieme alle persone, devono trovare il loro posto nel mondo. Come un anello a forma di uccello che si chiama Vincenzo. Anello oppure uccello che sia, si chiama Vincenzo.

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JUST KIDS

#04

Era stato su una delle riviste americane della sua musa finnica Hilkka che Sasà aveva letto dei reading dei poeti newyorkesi, accompagnati da rocker e jazzisti, e queste due sciammannate che suonavano per strada le loro chitarre elettriche, collegandole a un piccolo amplificatore, gli sembrarono l’ingrediente giusto per portar spettatori agli incontri di Stille, al momento regolarmente disertati. Intendiamoci non che Chiara e Lucente Luna - si chiamavano così per davvero - fossero un granchè, anzi, da un punto di vista musicale - posso tranquillamente affermarlo, data la mia competenza suonavano unoschifo, ma avevano un loro modo “particolare” di fare schifo. (Romanzo irresistibile della mia vita vera, Gaetano Cappelli)

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JUST KIDS

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