Ticino7

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Cimiteri. Ombre di vita di Gilberto Isella; fotografie ©Daria Caversazio Hug

s’indovinano transiti, promesse di profondità sconosciute, di visioni che rompono certezze. Volti scaturiti da terre vischiose, o ricoperti di pellicole e piume, volti che talora lingueggiano come onde. Sembrano fare a meno di profili e margini, quasi a difesa dell’imponderabile. Emanazioni, vien da dire, del corpo vitale e amoroso d’un tempo, adesso affidato all’intermittenza del visibile. Simulacri, entità che in ogni modo non divorzieranno dalla luce. Ectoplasmi fotografici.

Luoghi 42

Da un nulla imperfetto, lo sguardo (per Daria Caverzasio) “MIRA”, ti sussurrava uno di loro. E tu anagrammavi “ARMI”. Ma era armato il tuo occhio, o in disarmo la sua mira?

L’ora incerta, i chiarori dell’alba sospesi. Qualcuno varca il cancello, col senso di colpa nascosto sotto le palpebre. Ma non saprà di averlo varcato, perché un cancello è cancellazione, uno smarcare atti e presenze. Guardiano di passi sfiancati, che non riescono a risuonare e si disperdono nel dormiveglia. Nemmeno si scorgono frontiere. Né qui, né lì, soltanto il cigolare a vuoto in uno spazio senza più limiti, orizzonti. “Entrare e uscire, una sola cosa”, questa la sentenza del cancello. Il passaggio, se avviene, è verso luoghi dove ogni testimonianza si riduce ad attriti minimali. Consegnata a marmi e graniti, pare ostaggio dell’immobilità, espressione di un nulla imperfetto. In realtà quei luoghi vibrano. Sono pervasi di trasparenze, baluginii gracili eppure ronzanti, punteggiature d’insetti. Sono luoghi di accoglienza: velati, una faccenda di palpiti. Lanciano occhiate sommesse, simili a quelle dei fiori che stanno per concludere la loro stagione. Dispensano pannelli di immagini fugaci, che appena insorte si confondono, si rifugiano in immagini gemelle. Gocce lunghe, pendenze speculari. Ne rimane l’ambiguo arcobaleno, il suo procedere vagabondo entro festoni di paesaggio in divenire, per un lento succedersi di toni e umori. Qualcosa che ha a che vedere con la magia: il vedere dei morti. Qualcuno varca il cancello, e già s’identifica al nuovo scenario. Volti trapassati, maschere algide attratte da un gioco che soltanto loro padroneggiano. Hanno oscure occhiaie, concavità impregnate di sgomento. Ma in quell’oscuro

Colui o ciò che è fotografato, scriveva Roland Barthes, è “una sorta di piccolo simulacro emesso dall’oggetto, che io chiamerei volentieri lo Spectrum della Fotografia, dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo «spettacolo» aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”. Le immagini – lampade, votive gibigianne – si alleano ai suoni mesti di chi ha lasciato la vita. Le partizioni sensoriali hanno perso legittimità per questo spettacolo. L’aria ha il suo bel tendersi: d’improvviso un mormorio gremito di nomi cari, concupiscenti: “Mamma Aldina, zio Fulgenzio, nonno Patrizio, nipotina Ida…”. Poi, ad accarezzare viluppi di litanie, ecco accenti felpati, sospiri, innominabili brezze. Un angelo si avvicina, con dolcezza ripone i nomi nella custodia dei volti, rifà il silenzio. Indica, in punta d’ala, un’apparizione. È il grande altro mentre svolge la sua sagoma e ne affida minuti lembi a pedine che scivolano su liquide scacchiere di riflessi. Sguardi moltiplicati, l’infinitezza di un unico sguardo diffuso. Poiché l’occhio del morto si dilata, crea aloni e luminelli che si propagano alle cose d’intorno, e nel contempo conquista a sé la loro onnivora superficie riverberante. E così nelle periferie del viso si staglia a ore alterne, anche se per opalescenze o velature, un porticato, un campanile, perfino quel cancello che, trasformatosi in sottile reticolo, ancora è lì a ricordare l’enigma della vita che collude con la morte. Dall’altrove i riverberi attingono armonie, forme e colori. Inventano memorie, leggende di rivisitazioni. Uno spicchio di cielo fa breccia nella testa, un’infilata di colonne risucchia nella sua prospettiva la mente forse solo assopita. Il tranquillo fluire e rifluire di larve, rese iridescenti dalla contiguità, disegna l’interfaccia tra il qui e i panneggi che avvolgono le lontananze cosmiche. Panneggi che spingono ai margini il volto defunto, e allo stesso tempo ne fanno il loro complemento più prezioso. Cancelli morbidi, emblemi di quel nulla imperfetto dal quale la vita costantemente riprende il cammino.


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