i.OVO n°022 - Marzo 2013

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DENTRO AL CONTEMPORANEO

funzionare, vengono buttati via e sostituiti con quelli nuovi, più belli, perché funzionanti in modo migliore. A tutta questa mancanza di amabilità, passività, emozione, Benjamin – nel Dialogo sull’amore suggerisce di assumersi un impegno etico: l’amore che alberga senza desiderio nel nostro petto, come obiettivo forse, non come anelito poiché il desiderio senz’anima, essendo infinito, è il motore del capitalismo, in quanto, desiderando ciò che ci manca, una volta colmata la mancanza, sentiamo il bisogno di riempirne un’altra il cui vuoto si è immediatamente fatto sentire dopo essersi appena appagati, e così via, in una catena soffocante e senza fine, rimanendo sospesi tra ciò a cui si anela e l’impossibilità di raggiungerlo. Ma c’è un risvolto dietro questo grigiore del desiderio-prigione, un elevarsi dell’anima nel desiderare che intesse il desiderio stesso di “una fodera di seta dai più smaglianti colori” (Benjamin, I passages di Parigi): la seta delicata e luminosa del desiderio come risorsa, dove quella risorsa è la scintilla di vita che fa risplendere le cose in tutta la loro bellezza, ma che per sfavillare non deve aspettarsi qualcosa o rivendicare qualcosa, ma semplicemente illuminare il contingente, l’accidentale, facendolo così venire a sé, con quella dolcezza che solo le cose che delicatamente svaniscono lasciano nel loro perdersi, una dolcezza estranea al desiderio “a catena”, la quale non ammette attimi di fragilità. Il desiderio come risorsa è l’amore per Benjamin, come riluce ancora dal suo Dialogo sull’amore amore che “ […] non

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ha diritto di proprietà. L’unico diritto dell’amore è la manifestazione […] alla disponibilità della manifestazione”. Questa manifestazione, la sua disponibilità è un gesto anche non previsto, impulsivo, se è veramente un gesto d’amore e, per questa amabilità, ai margini di ogni ordine dato, di ogni modello interiore o esteriore a cui adeguarsi, della Legge del Padre, lacaniana, delle leggi giuridiche, delle leggi sottese al “saper vivere”, che regolano le “buone maniere” come se cortesia e gentilezza avessero bisogno d’essere insegnate per essere sentite e non il contrario. L’amabilità, quest’amore cristallino, senza desiderio, intendendo quest’ultimo come tensione ad un fine, l’amore è, quindi, benjaminianamente, l’esitazione della tensione, la cui forma patetica, del mancato incontro con noi stessi, dove non coincidiamo con le nostre aspettative, né con le aspettative degli altri su di noi, appare e scompare, affiora e sprofonda nei momenti di pausa totale. Forma patetica, che porta in sé un warburghiano pathos: uno sprofondare in se stessa, in quanto gesto trattenuto, mai stato anche se ci siamo predisposti ad esso, a rispondere a ciò che gli altri chiedono, vogliono, vedono di noi. Promessa che non sarà mai possibile mantenere, perché sempre e comunque tradita, in quanto riflettente il sentire altrui e non avendo origine dalla nostra interiorità. Silvia Migliaccio Una versione integrale dell’articolo sarà pubblicata su www.iovo.it


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