i.OVO n°022 - Marzo 2013

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DENTRO AL CONTEMPORANEO

Un’incantata amabilità: l’etica delle immagini A cosa non si obbedisce? Non si obbedisce ad un’imposizione, un ordine, un comando, una legge. Cosa vuol dire disubbidire? Non fare ciò che è stato chiesto, rifiutarsi, dire “No, grazie”. La disubbidienza mette in crisi ed è in questa sua faglia che disubbidendo viene ad aprirsi che è possibile sentirsi liberi. Ma, nel vivere non c’è né assoluta libertà, né assoluta necessità: come affrontare la questione allora? Semplice a dirsi e (in questo caso) anche a farsi: predisporsi all’attesa. Stare in attesa. Esitare. “Esitazione” che non è sinonimo di “incertezza”: l’incertezza infatti si risolve in una decisione, l’esitazione invece, in quanto tale, ci sospende, ci fa stare fermi in una soglia. L’esperienza della soglia quindi è ciò che mette in crisi la logica decisionista alla Carl Schmitt, nonché l’impulso in sottotraccia che muove la società contemporanea: quello della prestazione che fa dire “sì” o “no”, decidere appunto, scegliere e con ciò, simultaneamente, quale rovescio della decisione selezionare, scartare illuminando ciò che ci interessa e lasciando in ombra ciò che non ci riguarda, o che ci sembra non riguardarci. In tutto questo però qualcosa sfugge: davvero la vita è fatta di scelte? Non è, forse questa, una posizione troppo netta suscettibile a fanatismo, violenza ed

a giustificare e sorreggere ogni orrore presente, passato e futuro? La libertà di non obbedire, di dire quel “No, grazie” è un gesto che pone su una soglia: “che fare?”. Già “che fare?”. L’esitazione sospende il giudizio, non conosce direzione, è un naufragare, è un dramma. Ma davvero il dramma è qualcosa di insopportabile? Credo di no. Forse è lo sprofondare nelle emozioni, la nostra amabilità, insomma la libertà più bella: quella dell’innocenza della vita che la disubbidienza ai dispositivi abbaglianti della prestazione ci fa vedere. In Metafisica della gioventù Walter Benjamin parla di “inoperosità” la quale è quel “No grazie”, quella forma di disubbidienza all’imperativo categorico capitalistico del “Tu devi fare”, il quale se rispettato va a denotare, insieme ad una moralità laboriosa, una fiducia nel progresso e nel futuro: non di sogno, che soprattutto se ad occhi aperti, conforta e scalda il cuore interponendosi, nel guardare, come una filigrana, a ciò che ci è vicino – ma utopico – quindi sempre un po’ più lontano rispetto a noi, quale orizzonte irraggiungibile, – fiducia capitalistica tanto cieca quanto disumanizzante, poiché, a lungo andare, rende automi umani. Atrofizzati nell’anima, dagli occhi ciechi che riflettono assenze, isolati: come vecchi giocattoli rotti che, smettendo di


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