La fiducia nei saperi esperti in medicina e tecnoscienza.

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Aggiornato al 17.03.17 La fiducia nei saperi esperti in medicina e tecnoscienza. Una riflessione tra bioetica, comunicazione pubblica e partecipazione1 Silvia Camporesi Negli ultimi anni stiamo assistendo a livello globale a una crescita della mancanza di fiducia negli esperti, in vari settori: dalla salute alla medicina, dalle tecnoscienze alla politica. Tale mancanza di fiducia si configura come un problema etico, epistemologico e politico per le politiche pubbliche per la salute, per il benessere e per lo sviluppo ambientale ed economico. Di fronte a questa crescente mancanza di fiducia nella classe politica e nei mezzi d’informazione che veicolano i saperi esperti, come coinvolgere i cittadini nelle questioni che riguardano la salute pubblica? Come sviluppare un’efficace comunicazione su questi temi? In che modo questa fiducia è intesa e raccontata da esperti e pubblico? È possibile affermare che ci troviamo già, come alcuni sostengono, in un’epoca “post‐trust” (post‐fiducia) e quindi in un contesto in cui la partecipazione pubblica sta passando dalle sue forme più tradizionali a forme alternative e inedite? E con quali conseguenze? La riflessione di Silvia Camporesi si propone di sollevare un dibattito su questi temi. In particolare, nel contesto del seminario che ha tenuto presso la Fondazione Giannino Bassettui il 27 febbraio 2017, la discussione si è concentrata su tre temi: 1) i significati e le implicazioni sociali ed etiche della fiducia nel campo biomedico e in quello tecnoscientifico; 2) il ruolo della comunicazione pubblica in questo contesto; 3) l'analisi dei modi in cui il pubblico (non) partecipa e (non) investe nella conoscenza e il sapere degli esperti.

1 Questo testo e’ in parte una traduzione in parte una rielaborazione dell’articolo scritto con

Maria Vaccarella e Mark Davis (Camporesi, S., Vaccarella, M., & Davis, M. (2017). Investigating public trust in expert knowledge: Narrative, ethics, and engagement. Journal of Bioethical Inquiry, 14(1), 23‐30.) disponibile in forma open access qui: https://link.springer.com/article/10.1007/s11673‐016‐9767‐4

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Aggiornato al 17.03.17 La fiducia nei saperi esperti in medicina e tecnoscienza: i suoi significati e le sue denotazioni La percezione pubblica dell’affidabilità dei saperi degli esperti in medicina e tecnoscienza è fortemente influenzata dal modo in cui i media e gli esperti stessi raccontano le opportunità e le incertezze legate alle innovazioni tecnologiche. Ma a cosa ci riferiamo quando parliamo di ‘fiducia’? Secondo il sociologo britannico Anthony Giddens, nella sua opera “Le conseguenze della modernità: fiducia, sicurezza e pericolo”, la fiducia costituisce le fondamenta del self (dell’io) e della sicurezza ontologica – in altre parole, la fiducia si costruisce attraverso le relazioni primarie con le figure genitoriali. Sempre secondo Giddens, l’expertise e l’autorità della scienza diventano anch’esse oggetto di fiducia (o mancanza di fiducia), poichè ognuno di noi ‐ ogni giorno ‐ nelle situazioni e negli ambiti più diversi, si trova ad affrontare delle scelte. E l’azione di “scegliere” è condizionata dalla conoscenza posseduta da altri, ai quali dobbiamo riconoscere quella competenza per concedere (o non concedere) la fiducia. I sondaggi e altri approcci quantitativi si fondano sull’idea che la fiducia è ‘dicotomica’, ossia alta/bassa; presente/assente. Per esempio, il filosofo della politica americano Francis Fukuyama, autore (1995) di “Fiducia: come le virtù sociali contribuiscono alla creazione della prosperità’” (tra le altre opere famose di Fukuyama vale la pena citare “Il nostro futuro post‐umano”, del 2002) fa riferimento questa dicotomia quando descrive una società ad ‘alta’ e a ‘bassa’ fiducia. In bioetica, la fiducia è spesso chiamata in causa nell’ambito dell’etica della ricerca clinica. Per esempio, il medico e filosofo americano Edmund Pellegrino, uno dei fondatori della bioetica statunitense (al Kennedy Institute of Ethics della Georgetown University a Washington D.C., il primo istituto di bioetica nel mondo), descrive la ‘fiducia’ come una delle virtù fondamentali e inalienabili dei ‘bravi’ dottori. Nancy Kass, Jeremy Sugarman e Ruth Faden (anch’essi bioeticisti americani) definiscono la fiducia come una della fragili fondamenta della ricerca biomedica contemporanea. A questo proposito vale la pena ricordare che l’etica clinica è nata proprio in risposta ad alcuni noti scandali, come ad esempio l’esperimento sul corso naturale della sifilide condotto

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Aggiornato al 17.03.17 su individui afro‐americani a Tuskegee in Alabama tra l’inizio degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’70, e molti altri casi narrati dal medico ‘whistleblower’ Henry Beecher nel 1976. Tuttavia, come nelle scienze sociali, anche in bioetica esistono prospettive più critiche all’analisi del concetto di fiducia. La filosofa e bioeticista Onora O’Neill (dal 1999 Baronessa), di scuola kantiana, nelle sue “BBC Reith Lectures” ha smantellato tre affermazioni legate alla fiducia: a) che ci sia stato un ‘declino’ della fiducia pubblica; b) che dovremmo avere più fiducia pubblica; c) che dovremmo ricostruire una fiducia pubblica perduta. Nelle sue BBC Reith Lectures del 2002 ‐ le prestigiose lezioni che dal 1948 la BBC commissiona a esponenti importanti del mondo della filosfia, della scienza e della medicina, e a questo proposito consiglio di ascoltare quelle del filosofo Kwame Anthony Appiah nel 2016 sull’identità ‐ O’Neill si è spinta fino a dire che, se lo scopo della società fosse quello di avere “più’” fiducia, questo sarebbe uno scopo ‘stupido’, perché può comportare che la fiducia sia data a persone che non ne sono degne. Invece di aumentare la quantità netta di fiducia nella nostra società, dice O’Neill, dovremmo assicurarci di promuovere la qualità della “trustworthiness”, qui intesa come “affidabilità”, o per restare semanticamente vicino alla parola “trust”, con “l’essere degno di fiducia”. Secondo questa concezione è l’affidabilità, non la fiducia in sé, che dovrebbe stare alla base della responsabilità e dell’accountability (traducibile come l’obbligo personale di rispondere delle proprie azioni) nella vita pubblica. Anche secondo il teorico politico americano, Russell Hardin (nella sua opera del 2006, intitolata “Fiducia”), riferirsi alla fiducia come a qualcosa di più o meno presente (o assente) è nostalgico e utopico. Sempre secondo Hardin, l’idea che i sistemi di organizzazione collettivi e le società abbiano goduto di una fiducia ‘assoluta’ è errata, così come lo sono gli sforzi volti a restaurare una fiducia mal posta. Secondo questa concezione, le politiche sono sempre “post‐trust” (post‐fiducia) e di conseguenza sarebbe sbagliato assumere che, come nella politica, anche nella biopolitica la fiducia possa essere recuperata e incanalata verso un ideale assoluto, nello sforzo di proteggere e potenziare la salute degli individui e delle popolazioni.

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Aggiornato al 17.03.17 Ruoli della narrazione nella bioetica La bioetica opera su due dimensioni temporali: mentre l’oggetto della bioetica stessa è il futuro (la bioetica opera facendo previsioni sulle nuove tecnologie), il reale punto di influenza della bioetica è il presente (in quanto la bioetica ha come scopo la formulazione di politiche, linee guida e regolamentazioni, in inglese policy making). Citando il bioeticista israeliano Ari Shick: “il futuro immaginato diventa un aspetto del presente” e crea un’inversione causale, in cui è il futuro che crea il presente, e non viceversa. Questa enfasi sui tempi delle biotecnologie implica la narrazione. Il lavoro della narrazione delle biotecnologie è quindi quello di garantire il futuro, di colonizzarlo, e di dare forma alle azioni riguardanti tale futuro. Le complessità e la ricchezza di sfumature della narrazione, la sua ricchezza affettiva e la sua abilità di smuovere sia il narratore, sia l’ascoltatore, sono quindi intimamente connesse al processo di costruzione della bioetica. Una riflessione narrativa sui possibili scanri futuri porta a scegliere delle azioni, tra cui quelle di informare, di influenzare e di persuadere. Tuttavia la narrazione non media semplicemente la tecnologia. Come le narrazioni scientifiche, in generale, anche le narrazioni (bio)tecnologiche aiutano a costituire il potere e il significato della tecnologia. Nel seminario del 27 febbraio in Fondazione Bassetti ho presentato i risultati e le riflessioni di un simposio internazionale che ho coordinato insieme a Maria Vaccarella (Università di Bristol, UK) e Mark Davis (Monash University, Australia), successivamente pubblicato sul Journal of Bioethical Inquiry sotto forma di una special issue: “Investigating

Trust

in

expert

knowledge”

(disponibile

online

qui:

https://link.springer.com/journal/11673/14/1/page/1 ). Concepito come un progetto interdisciplinare che si nutre di bioetica, scienze sociali e delle discipline umanistiche legate alla medicina, la special issue adotta un approccio critico al tema della fiducia nei saperi esperti in medicina e tecnoscienza e ne esamina le ramificazioni sociali, culturali ed etiche in un contesto globale. In modi diversi, tutti i contributi di questo simposio si sono occupati delle relazioni tra narrazione, fiducia e “potere” (power).

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Aggiornato al 17.03.17 Presentatazione di tre contributi del simposio Il

contributo

di

Buchman

e

co‐autori

(disponibile

qui:

https://link.springer.com/article/10.1007/s11673‐016‐9761‐x ) si focalizza sul tema della fiducia nella relazione tra i pazienti con dolore cronico e i medici. Questi pazienti e questi esperti non sono alla pari dal punto di vista della produzione della conoscenza per il controllo del dolore cronico. Tutt’altro. In questo contesto la mancanza di fiducia verso il paziente affetto da dolore cronico – entra qui in gioco il concetto di ‘malingering’ (il fingersi malato), che negli Stati Uniti ha anche ripercussioni sul sistema legale e assicurativo – caratterizza le relazioni tra pazienti e medici. Buchman e colleghi adottano il concetto di ingiustizia epistemica, sviluppato dalla filosofa britannica Miranda Fricker (2007), secondo cui alcuni individui, o alcune categorie di individui, sono discriminati sistematicamente dalla produzione di conoscenza (alcuni esempi: donne in una società sessista, neri in una società razzista, etc.) come conseguenza di alcune – più o meno invisibili – gerarchie di potere. Si parla in questi casi di ‘violenza strutturale’. A questo proposito Buchman e co‐autori sottolineano come l’approccio dominante al trattamento del dolore cronico ‐ basato su una quantificazione oggettiva di un’esperienza impossibile da oggettivare ‐ dipenda da una gerarchia che colloca la conoscenza esperta al di sopra delle delle esperienze dei pazienti. Attraverso un’oggettivazione dell’esperienza incontrovertibilmente soggettiva del dolore, la competenza esperienziale di colui che soffre viene marginalizzata e non rispettata. Questa marginalizzazione, secondo gli autori, non è sempre giustificata, e Buchman e colleghi incoraggiano i medici ad assumere una prospettiva di ‘umiltà epistemica’ e a incorporare le narrazioni dei pazienti nella medicina ‘evidence based’. Un altro esempio di ingiustizia epistemica ci viene data dall’articolo di Edwell e Jack (Stati Uniti, disponibile qui: https://link.springer.com/article/10.1007/s11673‐016‐ 9762‐9 ), che sottolinea la centralità della narrazione rispetto alla fiducia nel contesto della diagnosi e del trattamento del diabete gestazionale. Al momento della diagnosi del diabete gestazionale, infatti, donne normalmente ritenute responsabili vengono implicitamente etichettate come ‘inaffidabili’ da medici e infermieri, e implicitamente incolpate – almeno in parte – di essere co‐responsabili della loro condizione. Combinando retorica e medicina narrativa, Edwell e Jack elaborano la categorizzazione frankiana delle narrazioni della malattia (restituzione, conquista, e caos). Edwell e Jack evidenziano che i medici corrono un rischio quando scelgono di non riconoscere l’esistenza di una controversia riguardante la diagnosi e il trattamento di una condizione

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Aggiornato al 17.03.17 (in questo caso, il diabete gestazionale), incertezza che può essere accertata dal paziente con una semplice ricerca online. Se questo accade, il rischio è che i medici smettano di essere percepiti come fonti di fiducia e di conoscenza. Come conseguenza della scoperta di una controversia medica e scientifica che era stata tenuta loro nascosta, infatti le stesse donne che erano state etichettate come inaffidabili, perdono la loro fiducia nel proprio medico e intraprendono spesso una narrativa ‘frankiana’ di conquista in cui diventano le protagoniste di una ricerca della soluzione al proprio caso. La loro ricerca diventa um modo per riappropriarsi della capacità di agire e di controllare la propria gravidanza, per ritornare ad essere soggetti ‘attivi’ dopo essere stati relegati dalla medicina a soggetti passivi, che devono solo aderire alle raccomandazioni degli esperti. In

un

altro

contesto,

Attwell

e

co‐autori

(Australia,

https://link.springer.com/article/10.1007/s11673‐016‐9756‐7)

disponbile mettono

qui: in

discussione le concezioni dicotomiche della fiducia rispetto al rifiuto delle vaccinazioni. Il loro contributo offre degli spunti interssanti per arrivare a comprendere il modo in cui coloro che rifiutano i vaccini raccontano le loro storie di scetticismo e resistenza e come essi si posizionano in relazione alla commercializzazione di Big Pharma e agli imperativi della salute pubblica riguardo alle immunizzazioni infantili. Questi scorci ci mettono in guardia da caratterizzazioni eccessivamente semplicistiche del rifiuto dei vaccini, e ci dissuadono dal mettere in atto la tendenza sopra‐citata che pone il sapere esperto in opposizione al punto di vista del pubblico. L’articolazione del concetto di fiducia nell’articolo di Attwell e coautori si basa sul lavoro del sociologo Giddens, citato precedentemente. Quello proposto è un concetto di fiducia fondamentalmente relazionale, in cui essa è concepita come una ‘rete’. Questo implica che la fiducia (o sfiducia) in un sistema ha un impatto sulla fiducia o sfiducia in altri sistemi ad esso collegati. In questo caso, la sfiducia nell’industria farmaceutica crea una sfiducia nel sistema delle vaccinazioni, fondato su Big Pharma. Per questo separare la fiducia negli individui dalla fiducia nei sistemi non è sempre possibile, per via del carattere intrinsicamente relazionale e mediato della fiducia. Genitori che rifiutano di vaccinare i propri figli vengono solitamente descritti come antagonisti alle linee guida per la salute pubblica, e spesso sono oggetto di stigma e marginalizzazione. Una strategia contro‐produttiva per la costruzione di comunicazione efficace dal punto di vista della salute pubblica (non si convince un genitore ‘anti‐vaxa’ colpevolizzandolo, o stigmatizzandolo, anzi, lo si allontana ancora di più dal sistema).

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Aggiornato al 17.03.17 Sempre riferendosi al lavoro del sociologo Giddens, Attwell e coautori concentrano la loro riflessione sul ruolo dei ‘punti di accesso’ ai sistemi dei saperi esperti a disposizione delal collettività o, in altre parole, agli spazi di incontro tra individui e istituzioni. Secondo questo approccio, i punti di accesso della biomedicina – come le relazioni paziente/dottore, il counselling genetico, i siti web per la riproduzione assistita, e così via – diventano luoghi importanti per la partecipazione della collettività alla vita pubblica. La concezione della partecipazione del pubblico alla costruzione dei saperi esperti in medicina e tecnoscienza attraverso ‘punti di accesso’ sposta l’attenzione da quello che gli individui e i pubblici non sanno (non conoscono), alle modalità con cui si imposta la comunicazione. Da questo punto di vista, per esempio, la promozione della vaccinazione per l’infanzia si può (e si deve) focalizzare sui vari modi in cui la collettività è coinvolta rispetto al tema dei vaccini. In questo contesto, il rifiuto delle vaccinazioni non deve essere respito sulla base di un presunto “deficit di conoscenza”. La “comprensione pubblica della scienza” ‐ in inglese nota come “public understanding of science (PUS)” ‐ indica infatti un approccio sorpassato alla comunicazione della scienza, secondo cui il pubblico ha un deficit di conoscenza scientifica che, una volta colmato, rende il pubblico docile (lo disciplinerà, direbbe Foucault) e disposto ad aderire a qualsiasi messaggio comunicato dagli esperti e a seguire qualsiasi tipo di raccomandazione. Tuttavia, le ricerche dimostrano che è importante riconoscere che le narrazioni dell’opposizione ai vaccini sono costruite anche su altri elementi e che i valori che stanno alla loro base devono essere tenuti in considerazione se si vuole sperare che le risposte delle politiche pubbliche siano efficaci. Il contributo di Attwell e co‐autori pone quindi importanti domande, per esempio su come la bioetica e i policy makers si sono perolpiù confrontati con i rifiuti di vaccinare: fino a che punto le risposte fondate sulla condanna di questo fenomeno possono essere efficaci? Non rischiano al contrario di essere controproduttive? Come interpretare i rifiuti dei vaccini dovuti non a una mancanza di fiducia del sapere esperto biomedico, ma a una mancanza di fiducia (non per niente, spesso giustificata!) nell’industria farmaceutica? RIFLESSIONI L’intento di questa special issue era proprio quello di mettere in discussione il fatto che una concezione dicotomica della fiducia nei saperi esperti in ambito biomedico possa essere utile per spiegarne la complessità. I contributi di questo simposio mostrano infatti che, per poterne articolare e catturare la complessità, dobbiamo abbandonare le

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Aggiornato al 17.03.17 nozioni dicotomiche di fiducia nei sistemi dei saperi esperti. Quello che emerge è che la fiducia è sempre necessariamente relazionale e mediata dai punti di accesso ai saperi. La fiducia non è quindi necessariamente posizionata in maniera antitetica alla sfiducia, ma è mediata da tali punti di accesso. Tutti i contributi di questo simposio sono anche volti, anche se in modi diversi, ad analizzare l’importanza della fiducia nei sistemi dei saperi esperti rispetto alla progettazione del futuro, individuale e collettivo. I saperi esperti, soprattutto quelli che nascono dalla scienza, hanno per definizione un carattere probabilistico e incerto. La fiducia, come sottolineato in precedenza, diventa particolarmente importante nelle occasioni in cui il futuro non può essere conosciuto con certezza, specialmente in seguito a una diagnosi o quando si discute delle implicazioni bioetiche e sociali di una nuova tecnologia. La fiducia, in questo senso, acquista un carattere ‘performativo’ che permette agli individui di muoversi e di mantenere la capacità di agire in un futuro privo di certezze. Questa caratteristica della fiducia – la sua relazione con il non sapere/ il non conoscere/ l’incertezza – è probabilmente uno degli aspetti più problematici legati al coinvolgimento della collettività nei saperi esperti (si faccia riferimento qui al caso del diabete gestazionale, ma anche delle tecnologie di ingegneria genetica). La conoscenza parziale, la valutazione provvisoria della probabilità di eventi futuri e la continua revisione dei presupposti stessi della conoscenza sono intrinseche alla ricerca scientifica, ma sono difficili da comunicare al pubblico, soprattutto quando si tratta di crisi o di emergenze legate alla salute pubblica (come per esempio le pandemie, citando il lavoro di Mark Davis). Tuttavia, si potrebbe anche aggiungere che comunicazioni che nascondono volutamente tali incertezze intrinsiche delle previsioni (come nel caso del diabete gestazionale) rischiano di essere controproducenti. I contributi di questo simposio mostrano anche come la fiducia alla base della biomedicina e della sanità non sia sempre necessariamente ‘benevola’: un approccio a‐ critico alla fiducia può diventare ‘disciplinare’ (alla Foucault) e di conseguenza può rinforzare asimmetrie epistemiche già intrinseche alla medicina. È necessaria quindi una nuova ‐ o rinnovata ‐ attenzione per evitare la ‘ri‐articolazione’ di tali asimmetrie epistemiche nelle forme di comunicazione della scienza, della bioetica e della partecipazione collettiva. I contributi di questo simposio sembrano indicare come le asimmetrie epistemiche, le gerarchie della conoscenza (dei saperi) e il rinvio, o differimento, dell’incertezza sono

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Aggiornato al 17.03.17 tutti fattori che contribuiscono alla contemporanes crisi dell’expertise. Dai contributi del simposio è emerso che il rifiuto dell’expertise può essere dovuto a un rifiuto del potere intrinseco di contesti come quello medico, che porta poi anche al rifiuto della conoscenza posseduta dagli esperti. Ne consegue che una ricerca acritica, o non sufficientemente critica, semplicemente volta a garantire e ed assicurare la fiducia nella scienza, nella tecnologia e nella medicina può essere anch’essa parte integrante del problema del rigetto dell’expertise. Per comprendere la crisi della fiducia nel sistema dei saperi esperti tipica dell’epoca in cui viviamo, è necessaria quindi un’analisi più approfondita. Crediamo che tale analisi, per essere efficace, debba focalizzarsi non tanto su quanto il pubblico si fidi degli esperti, della scienza e della medicina, ma su un’analisi dell’affidabilità dei comportamenti degli esperti stessi. Tale cambiamento di prospettiva aprirerebbe un nuovo orizzonte per studiare le pratiche diffuse nel contesto medico e scientifico (tra cui quelle connesse alle gerarchie di potere), il comportamento degli esperti e la natura delle competenze e delle conoscenze dei saperi esperti in scienza e medicina. Bibliografia selezionata

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