Guardare i luoghi | Iacopo Zetti (a cura di)

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Guardare i luoghi a cura di iacopo zetti

Ricerca e didattica come contributo alla cultura collettiva



dida

La serie di pubblicazioni scientifiche DIDATesi ospita i risultati delle tesi di laurea condotte all’interno della Scuola di Architettura dell’Università di Firenze che, per l’interesse dei temi trattati, le peculiari modalità di ricerca adottate e l’originalità degli esiti conseguiti nell’ambito del progetto dell’architettura, del territorio, del paesaggio e del design, meritano di essere diffusi al di fuori delle aule universitarie. Le tesi di laurea, che sempre meno si connotano come esercizi accademici, sviluppano in molti casi la continua sperimentazione che unisce ricerca, formazione e progetto nel Dipartimento di Architettura. Spesso le tesi esprimono nel modo più efficace la relazione di cooperazione che il DIDA intrattiene sia con altre Università che con i territori, con le loro Associazioni, ONG, Amministrazioni, Enti ed imprese. Le pubblicazioni scientifiche DIDATesi sono soggette ad una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari, affidata ad un apposito Comitato Scientifico del Dipartimento, secondo i criteri della comunità scientifica internazionale e dell’editore Firenze University Press. Tutte le pubblicazioni sono inoltre open access sul Web, per favorire una comunicazione e valutazione più ampia ed effettiva, aperta a tutta la comunità scientifica internazionale.


progetto grafico

didacommunicationlab Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Susanna Cerri Giacomo Dallatorre

didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2021 ISBN 978-8-83338-145-9

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset


Guardare i luoghi. a cura di iacopo zetti

Ricerca e didattica come contributo alla cultura collettiva



Indice

Introduzione Il valore essenziale dell’errore. Come le tesi aiutano a riflettere sulla didattica e sulla ricerca Iacopo Zetti

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Storia del territorio e della città

17

Calenzano tra terra ed acqua: mulini, mugnai ed altre specificità del mondo contadino dal XVI al XX secolo Jessica Leonardi, Giulia Notarangelo

19

La costruzione di un territorio e delle sue città nella Pianura Padana. I casi di Sabbioneta e Riavolo Mantovano Alessandro Pedrazzoli

27

Studio della formazione dello spazio urbano in una città della Toscana: Massa Marittima. Evoluzione storica e morfogenesi Fabio Iacometti

35

Oltre la ricostruzione. La valle del Belice tra spreco e pianificazione Angela Maria Lo Brutto

45

Per una analisi della qualità della città e dei territori. Modelli ed esperienze

53

La “Tranquillity map” della regione Toscana. Uno strumento per la valutazione della qualità dei luoghi Giulio Donati Sarti

55

Interpretare la città da una strada: la biografia di Via Borghini a Bibbiena come metodo di progetto Arianna Lippi

67

Piani e progetti senza barriere. Linee guida per una città più accessibile e inclusiva Alessia Rosu

75

Tra globale e locale, come cambia lo spazio urbano per effetto della turistificazione deregolamentata. Il caso del quartiere Oltrarno a Firenze Vittoria Ridolfi

83

Crescita e decrescita urbana: applicazione del modello del ciclo di vita urbano in Toscana Jonathan Nucci

91

Abitare sospeso. I migranti africani nella piana di Gioia Tauro. Tra campi pianificati e autogestione Diletta Vecchiarelli

101

Paura e criminalità a Firenze: proposta metodologica per lo studio dei due fenomeni e delle loro correlazioni Claudio Catapano

109


Ambiente, sostenibilità, resilienza

117

Dissesto idrogeologico nel bacino del fiume Misa: ripartire dagli usi del suolo per un governo del territorio più sostenibile Agnese Turchi

119

Resilienza sociale per la conservazione della “civitas” nel caso di disastri ambientali, sismici e idrogeologici: il caso di Norcia Arianna Brestuglia La sostenibilità in un quartiere fiorentino: l’Isolotto; una nuova definizione dei flussi di materia-energia per una città più autosufficiente Giulia Ballerini

131

139

Tecnica urbanistica e politiche di piano

147

Distretto biologico, pianificazione e partecipazione. Il caso di Fiesole Giulia Fiorentini

149

La cooperazione intercomunale per la gestione del territorio: una risorsa, una necessità Francesca Golia

157

Riqualificazione: strategie e proposte operative

165

Street art e urbanistica: consigli per l’uso Sarah Melchiorre

167

Un progetto integrato per la riqualificazione della città marocchina contemporanea: il caso di Sefrou Omobolanle Adebajo, Chiara Tanturli

179

Rigenerazione urbana in contesti estremi. Una proposta per Taranto Paolo Ceramia

189

Riqualificazione urbana tra identità locale e partecipazione degli abitanti: il barrio cabanyal a Valencia Melania Marino

199




Iacopo Zetti Scuola di Architettura Università Degli Studi di Firenze

Il valore essenziale dell’errore. Come le tesi aiutano a riflettere sulla didattica e sulla ricerca Ognuno di noi, curatori della serie dei volumi che riportano i saggi tratti dalle tesi nei due corsi di laurea in “pianificazione della città, del territorio e del paesaggio” e “pianificazione e progettazione della città e del territorio”, ricorda certamente il giorno della propria difesa della tesi come un giorno importante del suo percorso culturale, così come credo la stragrande maggioranza dei laureati in generale. Personalmente ho avuto l’opportunità di una lungo dibattito sui contenuti del mio lavoro, ben oltre i limiti di tempo che oggi l’affrettarsi delle scadenze accademiche impongono, con una commissione molto pluridisciplinare che mi diede l’opportunità di sviscerarne i differenti aspetti teorici. Ancora oggi sono grato di quella opportunità. La mia vicenda personale ha ovviamente scarso rilievo nel contesto di questo volume, la utilizzo solamente per evidenziare due aspetti che la produzione e la discussione della tesi di laurea ha e che, a mio modo di vedere, vale la pena di sottolineare. Il primo è che la tesi di laurea è un momento altamente formativo. Forse apparirà scontato, magari di più ai docenti che agli (ex)studenti, ma la possibilità di poter costruire un lavoro molto personalizzato e di doverlo sostenere in una sede di dibattito pubblico non ha tanto il valore della prova, che trovo secondario, quanto quello della partecipazione alla produzione di cultura intesa come fatto collettivo. Questo rende consapevoli più di ogni passaggio precedente del valore che il produrre cultura, ripeto collettiva, ha, ed è un necessario elemento di crescita. Il secondo merita più spazio ed è legato al rapporto fra didattica e ricerca. Le tesi sono per definizione elementi che costituiscono un ponte fra questi due mondi che l’università tiene tradizionalmenBibliografia

te connessi. Ogni studente va alla ricerca di una sua dimensione di indagine che raccolga il suo in-

Kuhn T. (1962), The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago press, Chicago.

teresse e spesso, facendolo si collega ad un campo di ricerca specifico. Ovviamente ogni tesi deriva

Magnaghi A. a cura di (2005), La rappresentazione identitaria del territorio. Atlanti, codici, figure, paradigmi per il progetto locale, Alinea, Firenze.

so di studi. Mi pare di poter notare però che le tesi migliori hanno un atteggiamento che non defi-

Morin E. (2001), I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano. Rodari G. (1973), Grammatica della fantasia: introduzione all’arte di inventare storie, Torino, Einaudi.

anche da un rapporto con relatore o relatori e, tramite loro e tramite la letteratura, con un pregresnirei critico in senso stretto (hanno anche quell’aspetto naturalmente), ma che definirei, con una citazione implicita che rivelerò più avanti, disobbediente. Ogni tesi ben fatta in effetti si colloca nel solco di un metodo di lavoro, lo testa, lo sfrutta, a volte lo completa, ma ogni tesi veramente interessante commette degli ‘errori’, mi si passi il termine poco scientifico: svicola. Come detto poc’anzi la tesi è il primo momento in cui l’accompagnamento del docente si attenua e l’autonomia emerge, almeno per la dimensione che ogni lavoro sa acquisire. Ho udito in passato alcuni docenti lamentare che questo produce allentamento del

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controllo metodologico e disciplinare e ciò è probabilmente vero, ma permet-

Anche nel momento in cui i lavori di ricerca trattano temi più teorici lo fanno

te anche alcune deviazioni da linee di ricerca consolidate (la tesi appunto svi-

sempre in relazione ad un territorio, una situazione, una occasione specifica.

cola), che ci indicano uno dei principi essenziali che Edgar Morin pone alla ba-

Mi pare interessante sottolineare questo aspetto non tanto perché testimo-

se dell’educazione del futuro (Morin 2001): il principio di incertezza. Il rischio

nia dell’impegno sociale del nostro insegnamento, che porta gli studenti ed

che tutti noi docenti corriamo infatti è quello, anche involontario, di rifugiarci

i docenti a confrontarsi con problemi e comunità precise; quanto per sottoli-

nei paradigmi e, a volte di contribuire ad irrigidirli (uso il concetto di paradig-

neare il legame che i pedagogisti indicano come necessario tra contestualiz-

ma nella precisa accezione che ne da Thomas Kuhn nel suo famoso libro “La

zazione e processi cognitivi in quanto tali. Ovviamente l’aspetto del coinvol-

struttura delle rivoluzioni scientifiche” del 1962). Eppure dovremmo ricorda-

gimento sociale è essenziale, ma non lo tratterò qui dandolo per assodato.

re che le idee che comunichiamo e che abbiamo in piccola parte contribuito a

Piuttosto mi pare di poter sottolineare che il coinvolgimento forte con il ter-

formare, obbediscono ad una legge semplice nel campo della didattica: “dob-

ritorio, il rapporto fisico e sensoriale con i luoghi che il nostro lavoro compor-

biamo riconoscere come degne di fiducia solo le idee che comportano l’idea

ta non ha solo un valore per la pianificazione, ma è un fattore essenziale della

che il reale resiste all’idea” (Morin 2001, p.30). Esiste dunque una complessi-

cognizione e, in questo senso, dell’evoluzione sociale e culturale. Forse, esa-

tà dei problemi che trattiamo (lo si ricordi nei nostri corsi di laurea sono pro-

gerando un po’, si potrebbe dire che ha un valore etico.

blemi socio-culturali e non di sola razionalità tecnologica) che ci fa muovere in un terreno di incertezze. Questo non significa che ciò che insegniamo non

Capitolo 1: Storia del territorio e della città

si possa appoggiare su isole solide, ma credo implichi la consapevolezza che

Il primo raggruppamento contiene i testi che, in misura diversa, fanno tutti ri-

ciò che comunichiamo è una strategia di ricerca riflessiva e non un protocol-

ferimento ad una dimensione storica dei territori e degli studi ad essi dedicati.

lo di indagine certo. Le tesi spesso lo indicano, magari con segnali ancora po-

I temi affrontati ci ricordano che quello che noi oggi vediamo e viviamo nella

co consapevoli, con accenni, con le deviazioni che la creatività tanto legata

contemporaneità è spesso l’esito di vicende che hanno coinvolto le comunità

all’età della mente permette, con la disobbedienza rispetto a canoni più rigi-

locali intorno a funzioni di vita quotidiana, capaci di concretizzare una struttura

di di produzione che professionisti e ricercatori incontreranno in seguito. I pri-

territoriale, delle figure territoriali (Magnaghi 2005).

mi germi di innovazione passano spesso anche da qui, poiché, come scrive-

Jessica Leonardi e Giulia Notarangelo documentano come questo sia avvenuto

va moti anni fa Gianni Rodari “il mondo, sono i disobbedienti che lo mandano

grazie alla presenza dei mugnai nel territorio di Calenzano. Lo fanno traccian-

avanti!” (Rodari 1973, p.131). Anche e soprattutto il mondo delle idee.

do una intera storia del territorio attraverso gli edifici che li ospitavano nel lavoro e nella vita e le vicende delle famiglie. La precisione dello studio serve a ren-

Contenuti in cinque parti ed un prologo

dere conto del legame strettissimo fra economia, società locale e caratteristi-

I testi che compongono questo volume sono divisi in cinque capitoli. Ovvia-

che dei luoghi che è stata all’origine di quell’identità che oggi noi riconosciamo.

mente non trattandosi di saggi programmati la loro suddivisione e distribuzio-

Un’identità che al termine del saggio diviene strategia di progetto e di ri-valo-

ne nasce a posteriori ed è opera di chi ha curato la raccolta. Mi pare di poter dire

rizzazione di risorse agricole, ma anche storiche e sociali, oltre che soggetto di

però che anche il ricorrere di alcune questioni sia indicativo di un lavoro di ricerca

un progetto di sostenibilità territoriale ed ambientale, dove le due sono, ovvia-

che i corsi di laurea sviluppano rispetto a tematiche talvolta più classiche del-

mente, strettamente interconnesse.

la pianificazione, altre volte più di frontiera, ma sempre in una dimensione ri-

In altri contesti le vicende storiche affrontate sono maggiormente connesse a

flessiva e mirata all’evoluzione. Commento di seguito brevemente i vari campi

figure di spicco come nel caso affrontato da Alessandro Pedrazzoli che descri-

di interesse che le tesi evidenziano, ma prima mi pare di poter indicare un dato

ve una vicenda legata a Vespasiano Gonzaga dal punto di vista dell’impatto che

che emerge da una lettura trasversale. Per la natura dei nostri studi, ma anche

questo ha avuto sulla struttura urbana e territoriale dei luoghi che governava.

per l’impostazione culturale che nel tempo è stata costruita dal corsi di laurea,

Pedrazzoli applica uno schema di lettura, per così dire, narrativo all’ambiente

le tesi sono sempre fortemente legate ad un contesto.

costruito, leggendo Sabbioneta e Rivarolo attraverso le sequenze urbane che


caratterizzano maggiormente le due città. La storia del tessuto diventa così

la narrazione di costruire quadri interpretativi; la criticità di fenomeni nuovi

strumento di analisi delle caratteristiche pregnanti lo spazio urbano, nella sua

e non prima conosciuti per dimensione e pervasività in ambito urbano; la di-

struttura, ma soprattutto nella sua natura sociale e quindi, nel suo significato

rompenza di alcuni temi che stanno sulla frontiera delle politiche e, spesso,

tramandato fino alle generazioni attuali.

delle retoriche.

In tempi molto più recenti un personaggio particolare come Danilo Dolci ed

Dentro questo panorama generale Giulio Donati Sarti ci ricorda due paradossi

una vicenda drammatica come il terremoto del Belice sono al centro del lavo-

legati a strumenti e tecniche attuali: come troppe volte le potenzialità dei si-

ro di Angela Maria Lo Brutto. Il suo saggio ripercorre la storia della ricostruzio-

stemi informativi territoriali vengano sottoutilizzate considerando la carto-

ne a valle di una sintetica descrizione delle vicende di lunga durata che hanno

grafia digitale ed i geodatabase meri sistemi elettronici per gestire un’infor-

portato alla formazione della struttura territoriale di quest’area. La presen-

mazione che rimane tradizionale; come la disponibilità di grandi banche dati

za di Danilo Dolci, delle sue importanti lotte e scioperi alla rovescia e dei lavori

e la loro facile accessibilità, al contrario, possa essere alla base di un loro uso

da lui coordinati per lo sviluppo locale autodeterminato da parte delle comu-

che finisce, attraverso complicati algoritmi, per dimostrare ciò che l’occhio

nità, costituisce lo sfondo culturale, ma anche politico e sociale che permette

coglie con facilità su una mappa. La tesi di Donati Sarti ha il merito di inter-

una critica ancor più significativa delle scelte politiche sulla ricostruzione che,

pretare una domanda di ricerca che necessita prima di un ragionamento te-

la tesi sostiene, hanno finito per determinare un distacco delle comunità lo-

orico sul concetto di tranquillità, sulla sua soggettività, ma anche sugli ele-

cali dal proprio territorio.

menti che la ostacolano; per poi progettare un percorso di interrogazione dei

Anche nel caso di Massa Marittima affrontato da Fabio Iacometti esiste un

dati che ci dica qualcosa di nuovo sulla relazione fra la qualità della nostra vita

personaggio di riferimento, anche se non per il luogo, quanto per il metodo di

e le prestazioni che il territorio in cui la trascorriamo ci mette a disposizione,

lavoro scelto per la sperimentazione. Iacometti applica infatti la lettura tipolo-

sempre che non ci accaniamo a peggiorarne le condizioni materiali.

gica di Saverio Muratori, mostrando come il centro di Massa sia un organismo

Arianna Lippi legge la vicenda commerciale di via Borghi a Bibbiena per mo-

che nel tempo si è trasformato in maniera continuativa, con un forte tasso di

strare come le variazioni del mondo produttivo e soprattutto la riorganizza-

variazione fino a tutto l’800. Con questo vuole sostenere che la presunta sta-

zione del commercio verso la grande distribuzione, abbiano influito negati-

ticità dei centri storici è concetto, ma più illusione, recente, mentre l’interioriz-

vamente prima sui fondi dedicati al piccolo commercio lungo strada e poi,

zazione di regole morfo-tipologiche e di relazione con l’ambiente ha garantito

conseguentemente, su tutta la vita pubblica che intorno ad essi si organiz-

nel tempo equilibrio e sviluppo coerente degli organismi urbani, proprio in pre-

zava. Con un approccio narrativo, che però si trasforma in analisi precisa gra-

senza di trasformazioni continue. Gli equilibri dunque che hanno permesso la

zie ad una struttura guida per la lettura, indaga i termini temporali e funzio-

conservazione ed il tramandarsi dei contesti storici sono da sempre dinamici,

nali della questione per poi costruire un progetto strategico di rilancio (con un

mentre la staticità dell’ambiente costruito non ha prodotto luoghi, al massi-

margine di utopia forse, ma come è giusto avvenga in una tesi).

mo conservato oggetti, sempre un po’ da museo.

Alessia Rosu affronta il tema dell’accessibilità partendo da una ricognizione a 360 gradi sulle varie forme in cui questa si esplica, sia dal punto di vista

Capitolo 2: Per una analisi della qualità della città e dei territori. Modelli

delle normative che delle forme del diritto nazionale ed internazionale. Ana-

ed esperienze

lizza poi una serie di casi in cui tale tematica è stata affrontata e risolta po-

L’analisi dei contesti e dei fenomeni urbani e territoriali è il capitolo più cor-

sitivamente traendone, secondo un metodo innovativo, una serie di suggeri-

poso del volume a testimonianza che il nostro ambito disciplinare ha neces-

menti di progetto. Usa alcuni spunti per una sperimentazione finale applica-

sità di un sempre significativo sforzo di comprensione dei fenomeni e degli

ta al contesto del percorso fra stazione ferroviaria ed ex sede del corso di stu-

ambienti che tratta. In questo quadro mi pare interessante notare che den-

di ad Empoli, nonché per la sede stessa. Il tema dell’accessibilità

tro questo capitolo di studi urbani si leggono atteggiamenti differenziati, che

diventa infine un occasione per discutere della più generale que-

indagano le potenzialità di tecniche e strumenti innovativi; la capacità del-

stione dell’uso dello spazio pubblico e dei diritti che in esso si con-

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cretizzano, dove un certo margine ideale, declinato come accessibilità asso-

zando il motore e le forme dell’informalizzazione della residenza, ma anche le

luta, aiuta ad immaginare una città per tutti, dove ogni tipologia di abitante

potenzialità che talvolta si trovano in tali insediamenti. A conclusione del lavo-

trovi il proprio spazio di vita confortevole.

ro avanza una proposta, o per lo meno un atteggiamento progettuale, per af-

Vittoria Ridolfi si confronta con una criticità di frontiera per le città d’arte og-

frontare un tema oggi sempre più politicamente delicato e spinto nell’area del

gi. Il suo lavoro prende in considerazione la diffusione di B&B e Airbnb a Firen-

controllo di pubblica sicurezza piuttosto che dei diritti e della giustizia sociale.

ze ed in particolare nel quartiere di Santo Spirito che, come emerge dalle in-

Chiude il capitolo Claudio Catapano affrontando il tema della sicurezza urba-

dagini dirette, vede una particolare densità di tali attività. Lo studio di caso,

na. Quest’ultimo è divenuto di attualità ben oltre lo stretto novero del dibat-

che ha una buona dotazione di dati originali, porta ad una riflessione genera-

tito scientifico e trova oggi spazio sulla stampa e sui media anche molto oltre

le sulla turistificazione del centro storico, che viene connessa con i fenome-

le reali problematiche, essendo terreno di scontro politico ed elettorale. La tesi

ni di spopolamento e sradicamento da parte delle popolazioni di lungo corso,

si pone in un’ottica non ideologica, bensì di attenta analisi di dati rilevati diret-

con tutte le conseguenze negative che questo ha per la vita in città. Il saggio

tamente e provenienti da fonti certe, per elaborare un quadro delle possibili re-

termina con una proposta, che, data la complessità non solo socio-economi-

lazioni fra atti criminali, percezione di insicurezza e caratteristiche dello spazio

ca, ma anche normativa e amministrativa del tema, finisce inevitabilmente

urbano. Il lavoro affronta il tema secondo due filoni di interesse. Il primo è me-

per dover rimanere al livello di principi generali, ma che ha il merito di suggeri-

todologico poiché sperimenta una tecnica per la ricerca di correlazioni fra spa-

re un dibattito che appare inevitabile per chi voglia preoccuparsi della vivibili-

zio e avvenimenti delittuosi, piccoli crimini prevalentemente, che dallo spazio

tà di Firenze nello specifico e delle città d’arte in generale.

sono in qualche modo influenzati nel loro svilupparsi e distribuirsi in diverse zo-

Jonathan Nucci ci propone un quadro analitico delle dinamiche di crescita e di

ne della città (con Firenze come caso studio). Il secondo è legato alle correlazio-

contrazione dei principali agglomerati urbani toscani (i capoluoghi di provincia)

ni fra spazio e reati che dimostra essere presenti a conferma di alcuni legami

dagli anni ‘50 ad oggi. Il risultato di questa operazione è duplice: verificare se il

facili a supporsi, ma anche di altri che confuta mostrando come la percezione

modello descrittivo elaborato da Klaassen e sperimentato da Van den Berg ne-

comune possa essere distorta da paure individuali e retoriche pubbliche.

gli anni ‘80 è ancora valido o comunque produce un quadro analitico di interesse quando applicato nel contesto oggetto di studio; produrre un quadro inter-

Capitolo 3: Ambiente, sostenibilità, resilienza

pretativo della situazione della città toscana alla luce di tale modello e delle di-

I temi ambientali sono da tempo un elemento centrale di confronto di qual-

namiche demografiche ed economiche di oltre mezzo secolo. In questa direzio-

siasi studio territoriale. Il nostro campo di lavoro specifico li tratta da una

ne la tesi ci fornisce un’immagine dei cicli spaziali delle urbanizzazioni che, ba-

prospettiva che tradizionalmente sta fra le tecniche e le verifiche di compa-

sandosi su dinamiche demografiche note, li caratterizza e organizza per cluster

tibilità delle previsioni. Più interessante però mi pare l’atteggiamento, che

e categorie. Un’applicazione di un classico tema di analisi della geografia nove-

emerge anche dai lavori qui pubblicati, di chi li assume come prospettiva di

centesca alla definizione di modelli insediativi regionali, che la pianificazione di

ricerca nell’ipotesi di una interdisciplinarità che ci guida verso un’evoluzio-

area vasta non può più evitare di prendere in considerazione.

ne continua del campo di azione degli urbanisti.

Sulla frontiera dei temi che coinvolgono i corpi degli esclusi nella durezza che

In questa direzione Agnese Turchi illustra come un bacino idrografico sia il

la contemporaneità non pare in grado di evitare e talvolta neanche di mitiga-

contesto ideale per sperimentare come strumento di pianificazione l’appli-

re, Diletta Vecchiarelli ci propone una riflessione sul tema delle migrazioni for-

cazione di una lettura geomorfologica e idrologica del territorio. Cosciente

zate che raggiungono il nostro Paese (nel contesto europeo) e del sistema di

che gli equilibri ambientali in generale, ed il funzionamento del ciclo delle

ospitalità/gestione che, in quanto scarsamente funzionante, è all’origine o al-

acque, sono elementi irrinunciabili per una corretta gestione del territorio e

meno concausa, della formazione di ampi insediamenti informali in tutta Ita-

mettendo in evidenza quanto i delicati meccanismi di autoregolazione dei

lia. Dopo aver indagato il tema degli insediamenti provvisori in termini quanti-

sistemi naturali siano essenziali, propone di utilizzare deflusso delle acque

tativi e qualitativi, si concentra sulla situazione dell’area di Gioia Tauro, analiz-

e permeabilità dei suoli come strumenti di progetto territoriale.


Così un parametro tecnico diviene strumento strategico, non tanto nella sua

e più in dettaglio sulla relazione fra un distretto biologico, la cui formazione

dimensione quantitativa, ma soprattutto nel suo legame con la struttura

ha avuto la possibilità di osservare, ed il processo di formazione di un piano

dello spazio urbano e non urbano, ovvero nel suo essere elemento di raccordo

strutturale al quale ha partecipato in qualità di tirocinante nell’ufficio urbani-

fra sistemi ambientali e struttura dello spazio costruito.

stica del Comune di Fiesole. I distretti biologici non sono in assoluto una no-

Arianna Brestuglia affronta il tema della resilienza analizzando come un

vità, ma far coincidere il percorso di formazione di uno di questi con la proget-

cambiamento traumatico dell’urbs abbia impatti, talvolta ancora più dra-

tazione di un parco agricolo e con la costruzione delle scelte di pianificazione

stici, sulla civitas e come la naturale capacità di resilienza delle popolazioni

strategica a scala comunale, è sicuramente una vicenda che permette di spe-

che, da lungo tempo, hanno a che fare con il sisma vada aiutata e sostenu-

rimentare come uno strumento di gestione del territorio rurale, nato dal bas-

ta con politiche sostantive di supporto e con sicurezza e rapidità nelle azio-

so e con il coinvolgimento dell’amministrazione comunale, diventi parte di

ni di ricostruzione (e non solo di ricostruzione materiale, ma anche e so-

uno statuto, di un patto collettivo per il futuro del territorio stesso. Il saggio

prattutto ricostruzione dei servizi, degli spazi collettivi, dei legami fra sin-

non solo analizza questa vicenda, ma entra nel merito con alcune proposte

goli, società e ambiente costruito).

che presuppongono una evoluzione, ancor più strategica e progettuale, del

La vicenda del terremoto in Umbria del 2016 viene analizzata proprio dal pun-

distretto e del patto con il territorio che ne costituisce il centro.

to di vista delle necessarie strategie di governance che possono evitare gli ef-

Il tema dei confini comunali come limite al livello strutturale delle scelte vie-

fetti più disastrosi di abbandono e sradicamento, quelli sì ancora più deva-

ne ripreso da Francesca Golia. Il suo saggio analizza le molte contraddizioni

stanti della caduta degli edifici che il sisma ha causato.

che ad oggi sussistono nell’ambito dell’iniziativa di pianificazione struttura-

Tornando in area fiorentina Giulia Ballerini propone un percorso di efficien-

le di livello sovracomunale. Pone infatti in risalto per prima cosa l’aleatorietà

tamento energetico e di riuso delle acque meteoriche attraverso l’uso di tec-

di un quadro politico/amministrativo che può determinare il mutare di scelte

nologie di avanguardia e lo fa mediante un caso studio ed un progetto per il

nel corso dei processi di pianificazione, senza che questo porti alcuno svan-

quartiere dell’Isolotto. In questo senso vuole indagare se e come sia possibile

taggio a chi abbandona la strada di copianificazione intrapresa. In secondo

inserire tale tipo di misure in un contesto consolidato, tipico di tante periferie

luogo evidenzia come gli stessi strumenti normativi non siano adeguati e in-

italiane. Il suo contributo più interessante è, a mio modo di vedere, più che la

troducano alcune contraddizioni nelle pratiche, poiché non comportano alcun

proposta tecnologica, la stima di fabbisogni e potenzialità rispetto ad ener-

tipo di scalarità nelle procedure e nei compiti della pianificazione strutturale,

gia e acqua in un contesto urbano consolidato. Partendo da dati statistici di

in dipendenza dal fatto che sia comunale o sovracomunale.

disponibilità comune, utilizzati secondo un flusso di lavoro replicabile fornisce infatti spunti per una strategia di analisi che permette di integrare nella

Capitolo 5: Riqualificazione: strategie e proposte operative

gestione dell’urbanistica considerazioni energetiche, anche oltre la semplice

Il tema della riqualificazione è inevitabilmente presente in una fase storica in

applicazione di normative di riferimento.

cui gli urbanistici si trovano a lavorare sempre più spesso in quello che è stato definito paesaggio con rovine da Piercarlo Palermo (2009). Il problema, con-

Capitolo 4: Tecnica urbanistica e politiche di piano

cettualmente simile, varia e si adatta quando concepito in termini di strate-

Le scelte di governance sono evidentemente una componente essenziale

gie in diversi contesti, come i lavori pubblicati mostrano. Rimane l’obiettivo,

dell’attività di pianificazione ed i lavori che si sono trovati più direttamente a

comune ai vari autori, di tracciare una strada che permetta di ricostituire spa-

contatto con processi di elaborazione di piani illustrano quanto le scelte stra-

zi di urbanità là dove la parola città ha conservato il suo senso di urbs e perdu-

tegiche abbiano a che fare con questo livello di progettazione. Nel campo del-

to quello di civitas.

la gestione equilibrata e sostenibile del territorio rurale Giulia Fiorentini, par-

Sarah Melchiorre ci propone di considerare la street art come mo-

tendo dal racconto della formazione del Distretto biologico di Fiesole, svilup-

tore di riqualificazione, evidenziando prima il quadro normativo,

pa una serie di considerazioni generali sugli strumenti di governance pattizia,

ma anche sociale e politico, che in parte ostacola ed in parte so-

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stiene questa pratica (anche se le due posizioni non hanno spesso la stes-

e gli esiti, affrontando anche, se pure in maniera rapida, ma non superficiale,

sa forza). Delinea alcuni tratti storici dell’evoluzione di tale forma artistica,

il tema della sostenibilità degli interventi. Un lavoro che ha il pregio di essere

in generale e nel contesto italiano, per poi passare all’illustrazione di una se-

concreto, ma senza rinunciare a progettare una soluzione decisa e chiara per

rie di casi internazionali e nazionali in cui il centro dell’attenzione non è sta-

il miglioramento della qualità della vita dei cittadini di Taranto.

to solo l’opera in quanto tale, ma il suo valore per il coinvolgimento di una

Il tema degli insediamenti informali torna in un contesto europeo con il la-

comunità intera e come forza motrice di processi di riappropriazione di spa-

voro di Melania Marino. Il suo saggio lo affronta rispetto ad alcune dinami-

zi di vita in città. Il lavoro finisce distillando i migliori insegnamenti che le

che di trasformazione che non sono solo legate alla povertà di popolazio-

esperienze studiate suggeriscono, per poi delineare una sorta di roadmap

ni di nuovo inurbamento, bensì di comunità impoverite da trasformazio-

per esperienze simili che vogliano dialogare con politiche e processi di riqua-

ni a guida pubblica che non tengono conto della tradizione culturale e delle

lificazione a scala di quartiere.

condizioni socio-economiche di un villaggio antico, ormai inglobato dall’e-

Omobolanle Adebajo e Chiara Tanturli si confrontano con lo spazio della città

spansione recente della città di Valencia. Sostiene così che applicare un at-

marocchina tradizionale, ma anche con le sue espansioni del periodo del pro-

teggiamento da recupero di insediamento marginale in un contesto dove,

tettorato francese e con i quartieri contemporanei. Il loro primo scopo è co-

usualmente, si è trattato di rigenerazione urbana in termini favorevoli ad

struire un quadro conoscitivo che trae vantaggio dalla metodologia di anali-

un mercato speculativo, porta in primo piano il concetto di patrimonio lo-

si consolidata nel corso di laurea e che riprende gli studi tipici di tante indagi-

cale (appunto sociale prima di tutto), come strumento di corretta pianifica-

ni contenute nella pianificazione toscana. Così facendo però il confronto con

zione, volta non solo a preservare una identità di lunga durata, ma anche a

una situazione tanto diversa da quanto a noi più consueto, pone nuovi inter-

consentire inclusività per nuove comunità.

rogativi sul come comportarsi e su cosa significhi definire un patrimonio territoriale in situazioni complesse e lontane dalla nostra esperienza. Un metodo attento ed un atteggiamento aperto portano le due autrici a comprendere molti degli elementi di crisi, ma anche di potenzialità della città di Sefrou ed a costruire linee guida per la sua trasformazione derivate dall’osservazione delle caratteristiche del luogo. Il metodo territorialista, a cui il lavoro si richiama, ha dunque la capacità di adattarsi a contesti differenti rispetto a quelli in cui è nato, ma se applicato con sensibilità ed apertura verso stili di planning (e di vita) differenti. Paola Caramia si confronta con uno dei luoghi più noti del nostro Paese per tematiche ambientali, socio-economiche e di riuso. Il suo lavoro analizza le problematiche derivanti dalla localizzazione del centro siderurgico ILVA a Taranto e di molte attività produttive connesse, sia dal punto di vista dell’inquinamento, che delle questioni urbanistiche generate dal processo di rapida industrializzazione e conseguente urbanizzazione. Evitando una ipotesi radicale di sostituzione, si pone il problema di attivare strategie di mitigazione progressiva degli impatti, verso l’eliminazione delle negatività sanitarie, e di riqualificazione complessiva dell’insediamento e del territorio circostante. Dopo lo studio della situazione e di alcune best practice suggerisce una strategia generale, quattro azioni specifiche ed identifica i contesti di possibile loro applicazione


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Storia del territorio e della città


Fig. 1 Il patrimonio territoriale


Calenzano tra terra e acqua: mulini, mugnai ed altre specificità del mondo contadino dal XVI al XX secolo Jessica Leonardi Giulia Notarangelo

Introduzione Il presente lavoro si inserisce in un ambito di antropologia storica all’interno di un contesto di Pianificazione territoriale: i presupposti del lavoro stesso non possono che essere l’analisi del territorio mediante il metodo storico/antropologico. Il territorio di studio è rappresentato dal Comune di Calenzano: dopo aver preliminarmente individuato delle emergenze storiche/architettoniche sul lungo periodo identificate come “permanenze” sulla lunga durata, abbiamo analizzato l’economia agricola locale in parte sviluppatasi intorno all’elemento strutturante del territorio costituito dal sistema idrografico. Lo scopo del lavoro è stato, quindi, quello di conoscere le suddette permanenze costituite da Pievi, Ville Fattorie e Mulini e di concentrare l’analisi proprio sui Mulini, cercando di valutare la continuità della loro presenza sul territorio o le eventuali rotture temporali che si sono verificate sul lungo periodo, con l’intento di capire se potessero rappresentare una significativa specificità da valorizzare. La rete degli opifici idraulici è stata ricostruita su una linea del tempo dal XVI al XX secolo. Contesto territoriale di riferimento Il territorio di studio risulta al confine tra le Province di Firenze e di Prato e

condivide con i Comuni limitrofi caratteristiche morfologiche e idrogeologiche. Ricade tra i comuni nel bacino del Fiume Arno: quasi tutti i corsi d’acqua riscontrabili sul territorio sfociano nel Fiume Bisenzio ed il Torrente Marina risulta uno dei suoi affluenti principali. La Val di Marina è una “Piccola vallecola che prese il nome da due fiumane, le quali scaturiscono dal monte delle Croci. La così detta Val di Marina ha il monte Morello al suo levante e quello della Calvana a ponente. Le due fiumane corrono quasi parallele per il cammino di circa otto miglia toscane da settentrione a ostro-libeccio in mezzo al territorio comunitativo di Calenzano fino a che nel piano di Sesto esse perdono il loro nome e si vuotano entrambe nel fiume Bisenzio, la Marinella a Capalle e la Marina a Campi” (Repetti E., 1841, 56). L’acqua, nel corso del tempo, ha gradualmente modellato il nostro pianeta e tuttora, con la sua costante azione, continua a modellare il territorio e ad influenzare l’uomo nei processi di formazione e di trasformazione del paesaggio. In questo contesto territoriale i torrenti, rivi, ruscelli e fossi presentano un regime incostante caratterizzato da piene temporanee e lunghi periodi di secca, ma costituiscono un solido sistema per l’insediamento di forme di

vita vegetale e animale e per attività umane. Tra tutti, il Torrente Marina, rappresenta il corpo idrico maggiore. L’evoluzione storica dei mulini nel territorio di Calenzano Lo studio della rete degli opifici idraulici presenti sul Torrente Marina e sui suoi affluenti è stato il punto di partenza. Per ogni mulino alimentato ad acqua, presente sul territorio almeno dal XVI secolo, è stato possibile ricostruire con certezza localizzazione, caratteristiche tecniche e modifiche alle strutture sul lungo periodo. Nelle Carte dei Capitani di Parte Guelfa (1580), le cartografie più remote da noi consultate, una per ogni popolo della Comunità di Calenzano, sono rappresentati gli edifici lungo i corsi d’acqua con i nomi rispettivi: Molino, Mulinaccio, Molinuzzo ecc. Tutti i mulini erano della tipologia a ruota orizzontale: soltanto il Mulino di Sommaia, oggi con destinazione residenziale, mostra una ruota in ferro verticale. Non sappiamo però quando sia stata posizionata e se abbia mai funzionato per il suo scopo o se sia stata installata soltanto per un valore estetico dell’immobile. Sicuramente sono tutti mulini da cereali. L’unica informazione sulla trasformazione dei mulini da grano in altra tipologia di mulino è quella relativa

Corso di Laurea Magistrale in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio Relatore: Prof.ssa Lucia Carle Aprile 2018

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alla trasformazione in frantoio per le olive del Molino del Lice. Né gli Statuti generali, nè la prima stesura del 1411 neanche le successive versioni redatte dal 1418 fino al 1569, riportano articoli inerenti i Mulini ed il loro utilizzo. Ciò potrebbe far ipotizzare che non vi sia stata necessità di regolamentare un’attività che probabilmente non creava alcun genere di problematiche nel periodo studiato, nè il bisogno per i mugnai di effettuare accordi particolari tra loro, o per la Comunità di derimere le questioni delle acque. Diversi secoli dopo, a seguito dell’istituzione della Tassa sul macinato nel 1869, anche il Comune di Calenzano verrà invitato ad aderire al Consorzio dei Mugnaj della Provincia di Firenze. Come dall’estratto della deliberazione di Assemblea (Firenze 4 settembre 1869, sotto la presidenza di Faustino Cerri), la massima utilità dell’adesione al consorzio è la finalità di una corretta esazione della tassa sul macinato. Il progetto di Statuto prevedeva: “...I sottoscritti Mugnaj esercenti nella Provincia di Firenze, si costituitscono fra loro in società allo scopo di formare un Consorzio per la riscossione e pagamento della Tassa di Macinazione stabilita colla legge del 7 luglio 1868 alle seguenti condizioni:....di non ammettere nel proprio mulino alla macinatura generi sottoposti a tassa se non dopo pesato regolarmente il genere, e aver ricevuta la corrispondente Bolletta che il ricorrente avrà precedentemente provvista, o avrà ad esso Mugnajo pagata….appena fatta la macinazione dovrà dividere la Bolletta, metà ne consegnerà come riscontro al ricorrente, e l’altra metà avra cura di riporla insieme al contante d’importo per spezzati in apposita Cassetta…” 1. In epoca moderna si trova, invece, una relazione relativa a danni causa-

ti da un Mulino firmata dall’Agente di Strade Simone Masoni, incaricato dai Signori Ufficiali de’ Fiumi della Città di Firenze, che il 12 ottobre 1650 ed il 3 novembre dello stesso anno si reca sul Fiume Marina sotto il Mulino di Cosimo Lepri: “...mi fu commesso che io mi trasferissi sul fiume della Marina sotto il Mulino del Signor Cosimo Lepri a vedere alcuni danni che à causato le piogge della settimana passata e per ordinaza quanto sia di necessità di piu’ di quello che fu ordinato nelle settimane passate….primieramente si faccia una cassonata sotto al mulino e dove principia quel muro vecchio e dove l’acqua di detto fiume se volta e inonda molti campi…” 2. I mulini presenti sul territorio erano per la maggior parte mulini piccoli a 2 massimo 3 palmenti: “...In quel periodo il molino base era un mulino a 2 palmenti ed in alcuni casi era a 3... Per mandare un mulino a 2 palmenti si usavano 2 mugnai….la farina veniva macinata in 2 tempi per sfruttare meglio il prodotto: in una volta sola la farina è sporca di crusca e la crusca è infarinata. I due palmenti servivano proprio per fare la doppia macinatura. La macinazione bassa, ad un palmento, veniva utilizzata a fini agricoli per l’alimentazione del bestiame….” (M. Borgioli, a. 69, Intervista del 27 Febbraio 2018). Il 1 Marzo del 1698 i Capitani di Parte Guelfa ordinano un censimento di tutti gli edifici che si servono di acqua pubblica. Il Messo della Lega di Calenzano Domenico Celli al giorno 17 marzo 1699 (termine di compilazione della lista) ne individua 13: 3 risultano “...con dua palmenti”, 9 “...a uno palmento”, e di un altro non ci sono informazioni. La stessa lista effettuata da Pietro Buontalenti della Podesteria di Campi, terminata il 31 marzo dello stesso anno individua, invece, 14 mulini di cui 5 a due palmenti e 9 ad uno solo3.

La tassazione relativa, invece, al periodo 1782-1789 relativa “ai mulini, alle cartiere e a tutti gli edifizi ad acqua che agivano sull’acqua dei fiumi, delli fossati e rii pubblici” individua 13 mulini di cui 1 a 3 palmenti, 3 a 2 palmenti ed i restanti 9 ad un solo palmento4. Da notare che l’unico mulino che risulta a 3 palmenti, palmento che ha incrementato nei 90 anni intercorsi tra il censimento e le tasse, risulta quello ubicato lungo il Fiume Marina in Loc. Ponte alla Valle. Si tratta del primo mulino a Calenzano che verrà alimentato a corrente mediante un apparecchio della potenza di 20 lampadine nel 1904 (Lamberini, 1987, 271). Forse la sua funzione a servizio del Castello in epoca moderna, e la sua ubicazione, così prossima alla parte piana e piu’ facilmente coltivabile del Comune, e agevolmente raggiungibile dalla viabilità, hanno contribuito a investimenti costanti e ripetuti per garantirne la presenza sulla lunga durata. Dalla Statistica dei Mulini del 1868 risultano 16 mulini presenti nel territorio di cui 14 di proprietari che danno in affitto la struttura ad altrettanti mugnai. Soltanto in 1 caso il mugnaio risulta anche proprietario del mulino presso cui macina ed in un altro caso un mugnaio è proprietario di un altro mulino dato in affitto. Dei 16 mulini soltanto 3 risultano con 1 palmento, 11 con 2 palmenti, uno a 3 palmenti e 1 a 4 palmenti. Da notare ancora che il Mulino in Loc. Ponte alla Valle risulta aver incrementato ulteriormente il numero di palmenti da 3 (rispetto alla tassazione di 100 anni prima) a 4. Tutti risultano del tipo a ritrecine5. La Lista dei diritti di Licenza del 1871 individua 15 o 16 mulini con altrettanti mugnai senza precisare, però, se gli stessi risultano anche proprietari della struttura o soltanto esercenti l’attività molitoria6.

Nel Censimento degli opifici del 1911 risultano attivi soltanto 9 mulini e nel 1918 gli esercenti risultano 6 ed il mugnaio Tommaso Mannini sembra tenerne a fitto 3 diversi7. Le licenze degli anni successivi, dal 1928 al 1941, forniscono ulteriori informazioni anche in merito alla tipologia delle macine ed alla loro dimensione8. Nel 1928 le licenze rilasciate per la macinazione dei cereali risultano 13, nell’anno successivo 12 perchè il mugnaio Guido Parenti di Carraia “rinunzia alla rinnovazione”. Nel 1931 e nel 1934 sono presenti 11 licenze per altrettanti mulini. Nelle richieste di licenza relative all’anno 1939 sono descritte per ogni mulino il numero dei palmenti, il diametro delle macine ed il numero di giri che puo’ compiere in un minuto e l’eventuale presenza del motore. E’, comunque, interessante considerare che i mulini esistenti appunto nel 1939 risultano ancora tutti alimentati a forza idraulica. Sono quasi tutti dotati di un motore per aumentare il numero dei giri delle macine rispetto a quando veniva utilizzata l’acqua come unica fonte di energia. Anche Romano Buonaiuti, nell’intervista rilasciata in merito al Molino della Nave, ricorda che pochi anni prima della sua chiusura questo era stato dotato di una turbina per aumentarne la produttività9. Nel 1940 e 1941 i Mulini presenti risultano 9. L’ultimo documento consultato è il censimento della popolazione e dell’industria del 196110 dal quale risultano ancora attivi solo 4 mulini per la macinazione dei cereali: il Molino dei Fratelli Bini di Elio e Giotto Bini (nell’attuale Via Puccini e che ha avviato la sua attività dopo la chiusura da parte di Giulio Bini del Molino in Località Ponte alla Valle, gestito in precedenza dai Fratelli Borgioli); il Mulino di Antonio Matucci alla


Fig. 2 Linea del tempo dei Mulini dal XVI al XX secolo nel territorio di Calenzano

Ginoriana; il Mulino di S. Bartolo di Toccafondi Urbano; il Molino Eredi Bongianni Giuseppe ovvero Mulino di Baroncoli. Oltre alle informazioni suddette è stato possibile ricostruire la successione dei vari proprietari dei mulini durante i secoli: i primi proprietari dei mulini di Calenzano sono stati in prevalenza enti ecclesiastici. Nel periodo in cui si andava strutturando il Sistema delle Pievi, le Chiese o direttamente i pievani e gli abati, si assumevano gli alti costi di costruzione del mulino.

Successivamente, nel XVI o XVII secolo, la proprietà dei mulini ha seguito la proprietà delle ville fattorie limitrofe. I casi in cui il mugnaio è risultato anche proprietario del mulino sono rari a Calenzano: un caso nel 1693 e altri due in periodi successivi, nel 1868 e nel 1869. L’aver ricostruito i periodi di funzionamento di ogni mulino presente sul territorio ha permesso di accertare una lenta, ma progressiva riduzione dei mulini a palmenti nel corso dei secoli dal XVI al XX.

Sono state, inizialmente, ipotizzate diverse cause che, a seconda dei secoli, potevano aver determinato la fine di questi opifici: malattie e carestie, numerose e note, che si sono susseguite dal XIII secolo in poi anche nell’area fiorentina, tecnologie sopravvenute o nuove imposizioni fiscali con le relative difficoltà di applicazione. L’analisi effettuata ha però attestato un periodo preciso in cui collocare questa riduzione: nelle prime fonti da noi analizzate, che risalgono al 1580, sono emersi 22 mulini; le ulti-

me fonti relative al censimento degli opifici nel 1961 riportano un numero di mulini attivi pari a 4. In un periodo intermedio, nell’anno 1868, erano ancora presenti e funzionanti 16 mulini e nel 1939 ancora 10. Possiamo, quindi, affermare che la riduzione piu’ consistente di questi opifici sia avvenuta dal 1868 in poi ed attribuire la causa all’avvento di nuove tecnologie. I pochi mulini ancora funzionanti a metà dello scorso secolo si sono adegua21 ti, invece, alle nuove tec-


Fig. 3 Linea del tempo dei Mugnai dal 1549 al 1963 a Calenzano pagina successiva Fig. 4 I Buonaiuti nel popolo di S.Severo a Legri

nologie, mediante l’installazione di motori elettrici da utilizzare in aggiunta all’energia idraulica dei corpi idrici. Con l’aiuto della linea del tempo che evidenzia la permanenza o l’abbandono dei diversi mulini operanti nei diversi Popoli della Comunità di Calenzano per 5 secoli, è stato possibile effettuare delle osservazioni circa la distribuzione spaziale dei mulini stessi. Il popolo nel quale i mulini sono stati piu’ numerosi rispetto agli altri è quello di San Severo a Legri. Le informazioni geologiche e geomorfologiche del territorio permettono di spiegare almeno in parte questa dislocazione: le caratteristiche carsiche dei Monti della Calvana e l’elevata fratturazione del terreno evidenziano la maggior circolazione idrica sotterranea rispetto a quella superficiale.

Questa ipotesi parrebbe confermata anche dalla presenza di numerosi punti di captazione per l’acqua potabile nella Piana dove il Torrente Marina ha una portata ridotta e dove, invece, la circolazione sotterranea è molto copiosa. Tale riduzione del deflusso supeficiale a favore di quello sotterraneo, spiegherebbe il perché della scarsa numerosità di Mulini lungo il corso del Torrente Marina. Al contrario nella zona di Legri, caratterizzata da terreni argillitici o scarso carsismo, il deflusso superficiale è abbondante permettendo, così, l’alimentazione di piu’ mulini contemporaneamente. I Mulini lungo la Marinella di Legri, oltre ad essere piu’ numerosi, erano quelli a funzionamento annuale ed in un caso soltanto nel periodo estivo.

Le famiglie dei mugnai a Calenzano Dall’analisi dei documenti fiscali, delle licenze di esercizio e di altri dati rilevati dai registri matrimoniali sono stati individuati i nominativi dei vari mugnai che hanno prestato la loro attività nel territorio di Calenzano anche risiedendovi. Le famiglie sono state attribuite ai diversi Popoli della Comunità soltanto fino al 1865, quando si inizia a fare riferimento al Comune e non piu’ alla Comunità. Una volta individuati i nominativi dei vari mugnai che hanno prestato la loro attività nel territorio di Calenzano e che hanno continuato a risiedervi sono stati isolati i cognomi dei mugnai presenti per periodi superiori al decennio. Nella ricerca effettuata, infatti, i cognomi rinvenuti risultano in numero maggiore.

Ai fini di individuare quelli piu’ significativi come presenza nel territorio fra questi sono stati scartati quelli che, vista la breve presenza del cognome nelle varie fonti, probabilmente non hanno potuto trasferire la professione ai propri figli. Non sappiamo se ciò sia dovuto al fatto che gli stessi operavano al mulino come aiutanti e non come “titolari di licenza” o se la motivazione della loro “breve carriera” sia dovuta ad altro. Siamo partite dalla figura del mugnaio considerando le relative scelte matrimoniali per identificare anche l’eventuale presenza di strategie matrimoniali precise. Un’analisi quantitativa ha permesso di appurare, inoltre, alcune differenze sull’età matrimoniale e sul numero dei figli, a seconda dei secoli considerati.


Nel XIX secolo, per esempio, gli uomini che svolgevano la professione di mugnaio si sposavano ad un’età media di 28 anni mentre nel XX secolo l’età media di matrimonio era di 30 anni e mezzo per gli uomini e di 26 per le donne. Rispetto alle ricostruzioni effettuate, che potrebbero però risultare parziali, è stato calcolato il numero medio di figli rilevando un valore pari a 7 figli nel XVII secolo, a 5 nel XVIII per poi risalire a 7 nel XIX. L’aumentare ed il diminuire del numero dei figli è risultato in linea con l’andamento della popolazione complessiva nella Comunità nei periodi considerati. Per quanto attiene, invece, le aree matrimoniali è stato verificato che Calenzano è un esempio di come i matrimoni tra mugnai si collocassero globalmente

nell’ambito di un orizzonte relativo, cioè tendenzialmente legato all’ambito della vita quotidiana, con alcuni casi di estensione ai territori circostanti. Ogni Mulino, in quanto anche abitazione del mugnaio, ed ogni casa colonica dei contadini avevano uno spazio proprio di ogni famiglia: spazi diversi e stabili per ogni insediamento, ma collegati tra loro proprio dall’ elemento strutturante del territorio costituito dalla viabilità. Troviamo qualche caso in cui lo sposo risulta provenire da località esterne alla Comunità di Calenzano: nel periodo che va dal 1809 (anno in cui compaiono le professioni degli sposi nei registri matrimoniali) al 1873, per esempio, in almeno 16 matrimoni lo sposo era forestiero e in 12 svolgeva la professione di mugnaio mentre in 5 era la spo-

sa che lavorava come mugnaia. Dopo aver effettuato l’analisi quantitativa sopra accennata si è voluto indagare le permanenze sulla lunga durata di alcune famiglie di mugnai rispetto ad altre, in alcuni casi anche su piu’ popoli contemporaneamente. Abbiamo, quindi, cercato di effettuare una ricostruzione genealogica di alcune di queste, in particolare i Buti, i Novelli e i Buonaiuti presenti su più popoli sin dal 1693 analizzando le modalità di trasmissione generazionale del mulino e dell’attività molitoria in essa svolta. Questa scelta è dettata non solo dai legami che intercorrono tra questi nuclei familiari ma è soprattutto finalizzata alla permanenza e gestione di più mulini sul territorio. Dalle ricostruzioni sono emerse una con-

tinuità nel tempo, un’endogamia del mestiere di padre in figlio, l’apparizione di donne mugnaie e la maggior permanenza in termini di lunga durata sul territorio della famiglia Buonaiuti nel Popolo di S.Severo a Legri, dal 1549 al 1963. Alcuni componenti di questa famiglia si ritroveranno a svolgere ruoli importanti all’interno della Comunità come Deputati alla riscossione della tassa sul macinato (Giovan Battista di Evangelista) e Ufficiali di Comunità (Buonaiuto di Bastiano). Pur di rimanere all’interno dell’ambiente del mulino e mantenere legami stretti con la famiglia del rispettivo coniuge costituiti da tempo, una volta rimasti vedovi, ci si 23 risposa anche con un altro


componente del nucleo familiare come Fedele Toccafondi che alla morte della moglie Teresa Buonaiuti, si sposerà con Rosa, sorella di Teresa. Guardando al futuro: specificità del territorio da valorizzare Dall’analisi condotta è, poi, scaturita l’ipotesi di verificare la fattibilità di un progetto di valorizzazione delle specificità del mondo contadino: ci siamo chieste se fosse possibile valorizzare le colture autoctone coltivate per secoli in questa area, i Grani antichi utilizzando tecniche proprie specifiche, legate al contratto di mezzadria in Toscana e così ben conosciute dai contadini. Da qui la stesura di “Linee Guida per la coltivazione di grani autoctoni” da condividere e diffondere con i soggetti che potranno essere coinvolti nella fase progettuale vera e propria mediante un percorso di creazione della partnership da noi proposto. Valorizzare queste colture significa necessariamente valorizzare e diffondere le tradizioni alimentari che prevedono l’utilizzo della farina ottenuta dalla macinazione di questi grani autoctoni e, quindi, far funzionare nuovamente qualcuna delle strutture protagoniste del nostro lavoro, i mulini, per produrla. Il risultato auspicabile sarebbe quello di riutilizzare una parte del patrimonio esistente rispettandone le caratteristiche architettoniche e tecnologiche originali. La fattibilità della proposta di valorizzazione è stata valutata anche in funzione delle recenti scelte di Pianificazione Urbanistica, sia a livello Comunale che Sovracomunale, che sono state effettuate con la chiara intenzione di una tutela e, soprattutto, di una valorizzazione del patrimonio ambientale e delle strutture idrauliche ancora presenti. La proposta progettuale non è stata sviluppa-

ta sull’intero territorio comunale ma su un’area pianeggiante che si sviluppa intorno al Torrente Marina, corso idrico che taglia longitudinalmente tutto il territorio, e compresa dagli Strumenti di Pianificazione suddetti all’interno del Parco Agricolo di Travalle, del Parco della Marina e nel parco Agricolo della Piana Fiorentina. Al suo interno, infatti, risultano ubicati 2 mulini, attualmente in disponibilità dell’Amministrazione Comunale, che rappresentano le porte di accesso a questi Parchi: quello di Valigarri 2 e quello del Lice. L’intento di questa valorizzazione è anche dettato dalla possibilità di “ripristinare” una continuità con l’economia agricola del territorio, permessa da un tessuto sociale che sembra già sostenere e nutrire esperienze legate ai saperi ed all’alimentazione tipica della Toscana contadina. Citiamo ad esempio: l’esperienza del Podere Montisi azienda agricola biologica e biodinamica che produce grani antichi e autoctoni dal 2012 all’interno del parco di Travalle, nell’area limitrofa ai due molini suddetti; la costituzione del Gruppo di Acquisto Solidale di Calenzano, nato da un progetto di alcune famiglie con l’intento di valorizzare il legame con il proprio territorio, incentivare e promuovere le tradizioni agricole e gastronomiche locali; la presenza di alcuni esercizi di Panificazione che, sollecitati anche dalla propria clientela, panificano quotidianamente con farine di grani antichi. Conclusioni Il nostro progetto vuole coniugare gli interessi di clienti alimentari e “culturali” che scelgono prodotti di qualità e, possibilmente, con minimo impatto ambientale, con quelli dei produttori che, nonostante le basse rese derivanti dalla semina dei grani autoctoni, credono nella

validità di produrre beni e alimenti con elevate caratteristiche nutrizionali e salutistiche. I grani antichi, caratterizzati da elevata rusticità e conseguente adattabilità ambientale, rappresentano un prodotto ideale per lo studio e lo sviluppo di filiere corte. Abbiamo evidenziato l’importanza di due aspetti fondamentali per la buona riuscita del progetto: • il coinvolgimento di soggetti pubblici quali l’Amministrazione Comunale. In molti casi infatti le filiere corte si basano su rapporti e reti informali, ma per la realizzabilità del progetto e per l’accesso ai finanziamenti anche Regionali il soggetto finanziante ha la necessità di individuare una figura giuridica a cui erogare dei fondi. Da qui la proposta di una partnership pubblico-privata al fine di garantire l’adeguatezza degli eventuali beneficiari di contributi pubblici; • l’adesione da parte di tutti i soggetti coinvolti al Disciplinare/ Linee Guida che descrivono le modalità di produzione dei grani autoctoni per garantire la genuinità e la veridicità circa le caratteristiche del prodotto che verranno pubblicizzate. Il concetto di filiera corta evoca il concetto di prossimità intesa come geografica, ma anche sociale ed economica. Non si tratta, infatti, soltanto della distanza fisica tra produttori e consumatori ma soprattutto del rapporto di comunicazione, di condivisione di saperi e di valore di un territorio che avviene sempre tra i suddetti soggetti. La filiera corta rappresenta un ritorno alla produzione di prodotti anche nelle cinture peri-urbane e nelle aree abbandonate dal punto di vista agricolo per rispondere alla domanda di prodotti locali e di qualità e che non trova attualmente risposta

per la resistenza di alcuni agricoltori a convertirsi ai processi innovativi dell’agricoltura biologica. Come conseguenza dell’attivazione di una filiera corta di prodotti locali e di qualità si riscontra la condivisione di ulteriori valori del prodotto quali la sostenibilità, la biodiversità e la tradizione culturale. Il rapporto di fiducia tra produttore e consumatore nasce proprio dalla qualità, tipicità e unicità del prodotto, ma il cliente risulta sicuramente attirato anche dal minor impatto ambientale legato alla sua produzione. Viene a crearsi una sorta di fidelizzazione tra produttore e consumatore: le aziende agricole sono locali ed i clienti hanno con loro un rapporto diretto che permette anche una sorta di educazione alimentare. Un avvicinamento al mondo rurale permette inoltre una riappropriazione di certe conoscenze legate alle modalità di produzione, alle pratiche agricole ed alla stagionalità e peculiarità dei prodotti. Come evidenziato da Barbara Pastore, proprietaria del Podere Montisi, è necessario che l’Agricoltura sia caratterizzata da una Multifunzionalità per far fronte a difficoltà impreviste e garantire, comunque, la sopravvivenza delle aziende agricole. I prodotti venduti nella Filiera Corta possono rappresentare per l’azienda anche una produzione collaterale ad integrazione di quella primaria che garantisce il reddito principale. Si verificherebbe, così, un incremento del reddito dell’agricoltore che nel caso della vendita locale potrebbe anche incidere in maniera diretta sul prezzo di vendita. Anche i piccoli produttori, come quelli che solitamente coltivano per l’autoconsumo, in caso di eccedenze, potrebbero partecipare alla Filiera. L’assenza di intermediazione potrebbe garantire anche per il cliente una riduzione del prezzo di acqui-


sto con una convenienza maggiore rispetto all’acquisto effettuato tramite i mercati tradizionali. Il rapporto diretto, inoltre, e la consapevolezza nella scelta del prodotto permettono di responsabilizzare il cliente rispetto ai propri comportamenti di consumo. Gli impatti ambientali di un’agricoltura che produce con sistemi biologici o biodinamici prodotti di qualità locale risultano inferiori rispetto a quelli dovuti all’agricoltura tradizionale: possiamo citare la riduzione di impatti sulla componente Aria, per la riduzione delle tratte di trasporto del prodotto finito, o quelli sulla componente Acqua, stante l’assenza di prodotti chimici. Suddetti aspetti concorrono in un circolo virtuoso di sviluppo territoriale locale da condividere con la cittadinanza e con i turisti all’interno di quel Museo Diffuso che l’area di intervento deve diventare.

Note

Bibliografia

1 Estratto della deliberazione di Assemblea del Consorzio dei Mugnaj della Provincia di Firenze riunitasi a Firenze il 4 settembre 1869. 2 Archivio di Stato di Firenze, Capitani di Parte, nn. neri F. 1061 n. 532. Ripari al Fiume Marina presso il mulino di Cosimo Lepri, a. 1650. 3 ASF, Capitani di Parte, nn. neri F. 1759 s.c. e n. 109. Censimento di tutti gli edifici che si servono dell’acqua pubblica per agire, aa. 1698-99. 4 ASF, Camera Comunità e Luoghi Pii, F. 839, s.c. Tasse dei Mulini, aa. 1782-1789. 5 Archivio Comunale Calenzano, Postunitario, Serie III, Parte I c, Imposte, tasse, rendite e imposizioni, F. 26. 6 ACC, Postunitario, Serie III, Parte I c, Imposte, tasse, rendite e imposizioni, F. 26. 7 ACC, Postunitario, Serie III, Parte III e, Agricoltura, industria e commercio, F. 370, a. 1917-1918. 8 ACC, Archivio Post Unitario, Serie II, F. 383. 9 Intervista a Romano Buonaiuti, a. 80, 25 Aprile 2018. 10 ACC, Archivio Post Unitario, Serie XX/2, F. 1.

Carle L., 2012, Dinamiche identitarie. Antropologia storica territori, Firenze University press, Firenze Lamberini D., 1987, Calenzano e la Val di Marina – Storia di un territorio fiorentino. Volume 1: La lettura del territorio, Volume 2: Documentazione e Archivio, Cassa dei risparmi e depositi di Prato, Prato Repetti E., 1841, Dizionario geografico fisico storico della Toscana. Volume 1. 18331846, presso l’autore editore, Firenze

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Fig. 1 Uso del suolo al 1774 del territorio di Sabbioneta.

Fig. 2 Uso del suolo al 1774 del territorio di Rivarolo Mantovano.


La costruzione di un territorio e delle sue città nella pianura padana. I casi di Sabbioneta e Rivarolo Mantovano.

Alessandro Pedrazzoli

Introduzione L’articolo cerca di applicare una visione territorialista all’analisi dei centri consolidati di Sabbioneta e Rivarolo Mantovano e del loro territorio aperto. Ho tentato di capire come il territorio sia stato strutturato da questi due centri e come a sua volta i centri urbani rispondano a un innovativo modello urbanistico. L’ambito di studio si concentra sui confini comunali di Sabbioneta e Rivarolo Mantovano, area meridionale della provincia di Mantova. Questi centri urbani, appartenenti alla compagine del ducato di Sabbioneta, devono molto all’agire di Vespasiano Gonzaga sia per le loro vicende storiche che per il loro aspetto/struttura. Vespasiano, principe architetto, al servizio della corona di Spagna, rifonda i due centri nella seconda metà del 500’ (Micara et al., 1970), riporta nella costruzione tutti gli aspetti più interessanti del panorama urbano europeo, conosciuti nei suoi viaggi (Amadè, 2013). L’obiettivo del lavoro è quello di superare la visione della semplice città ideale. Rivarolo e Sabbioneta appaiono chiaramente concepite come tali (Micara et al, 1970; Amadè, 2013), ma di fatto non riportano le caratteristiche di semplici oggetti calati su un territorio piatto, ma tessono profonde relazioni con la morfologia e con tutto il territorio circostante.

La ricerca si è basata su un primo studio di tipo bibliografico e uno di tipo documentale rivolto all’analisi del catasto teresiano. Il catasto, concepito durante il governo austriaco della Lombardia nel corso del XVIII secolo (Mioni e Rozzi, 1975), ha permesso di effettuare un buon ritratto della situazione di entrambi i centri urbani nel 1774, anno delle rilevazioni. Per ogni particella, sia urbana che extraurbana, è stato possibile identificare: il proprietario, la qualità intesa come destinazione d’uso, l’estensione e il valore capitale della particella. Attraverso il supporto di software GIS, è stato possibile perciò dare un riferimento geografico ad ogni singolo foglio che compone l’estratto catastale e comporre una panoramica degli usi del suolo urbani e extra urbani. È importante ribadire come attraverso questo strumento non si sia studiato il territorio come concepito ai tempi di Vespasiano, ma come piuttosto si siano osservati i risultati dei suoi atti di pianificazione. Ne risulta un caso peculiare dove entrambi i centri, pur essendo concepiti secondo un medesimo modello urbanistico dettato dalla tradizione classica e dalle ultime mode europee, presentano sia molti fattori in comune, che altrettanti differenti.

Lo studio del territorio agricolo Dall’analisi catastale è stato possibile studiare il territorio al di fuori della cinta muraria di Sabbioneta e Rivarolo Mantovano. I confini comunali, gli stessi del 1773, hanno permesso di delineare un ambito di studio e di di analizzare la qualità delle particelle agricole. È logico pensare che l’arato vitato corrisponda alla piantata padana1. Nel 500 la parte di campagna più vicina alle grosse vie di comunicazione era sicuramente più incline a tale uso del suolo, ma nel corso del 700, al momento delle rilevazioni catastali, la piantata padana è ormai diffusa su quasi tutto il territorio padano (Sereni, 1972). In questo contesto assumono molta importanza le qualità del prato e dell’orto. Queste rimandano all’organizzazione delle cascine che dal XV sec. risultano caratterizzate dalla presenza di prato che consentiva di avere una maggiore possibilità di pascolo, di letame e quindi di materiale di base per fertilizzare efficacemente il territorio agricolo (Sereni, 1972). Dal catasto si osserva un’area caratterizzata da seminativi semplici che circondava tutta la cinta fortificata di Sabbioneta. Questa zona, istituita da Vespasiano a fini difensivi e caratterizzata da un raggio che varia dai 700 metri ai 200 metri, ma mai inferiore a quest’ul-

Corso di Laurea Magistrale in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio Relatore: Prof. Claudio Saragosa

Co-relatore: Nora Annesi Febbraio 2018

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Fig. 3 Confronto della struttura viaria nei due centri urbani.

timi, è una testimonianza della cosiddetta tagliata. Di fatti dagli spalti delle mura era necessario poter osservare il nemico e attaccarlo (il tiro utile di un cannone rinascimentale era proprio 200 metri) senza che questo si nascondesse dietro a della vegetazione. La chiara presenza nel 1774 della area della tagliata non può essere vista solamente come un caso della legge d’inerzia del paesaggio agrario2. Può invece essere interpretato come un chiaro segno dell’importanza militare che Sabbioneta continuò ad avere anche dopo la fine del regno di Vespasiano. In questo territorio si innesta l’intervento di Vespasiano Gonzaga. Vespasiano oltre che a demolire e ricostruire le città del suo ducato, avrà a cuore anche di occuparsi del territorio esterno alle mura concentrandosi soprattutto sulla viabilità e idrologia. Vespasiano concepì nuove strade, larghe e dritte, riprendendo quelle utilizzate durante la centuriazione romana (Amadè, 2013; Ceccarelli, 2000). Questo ventaglio di strade, che ancora oggi si irradiano da Sabbioneta e Rivarolo Mantovano, si aprono formando una sorta di stella il cui centro corrisponde ai due centri urbani. Attraverso le strade Vespasiano continuò a mettere in atto un importante programma di regimentazione idraulica. Tutti i territori dell’Oltre Oglio difatti

erano terreni paludosi, e soggetti ad inondazioni e questo processo di sistemazione risultava strumento di supporto fisiologico al piccolo stato al fine di sopperire le frequenti carestie che colpivano il ducato (Amadè, 2013). Una delle più importanti azioni nella regimentazione idraulica fu quella di ripristinare la navigabilità del fiume Navarolo che, arrivando dal territorio Cremonese, lambiva i confini del ducato entrando sia negli ambiti di Rivarolo, ove vi era un porto, e Sabbioneta e culminava nel fiume Oglio e quindi nel Po. Era una fondamentale arteria di collegamento all’interno del ducato, tra Sabbioneta e Rivarolo Mantovano, ma soprattutto era il più veloce e sicuro metodo per raggiungere i cugini mantovani e al tempo stesso per esportare granaglie e ricevere il sale dal ducato estense (Amadè, 2013). A Vespasiano va inoltre attribuita la sistemazione del Naviglio, il quale portava da Sabbioneta al borgo rurale di Villa Pasquali per poi proseguire al fiume Cavo. Era presente un naviglio vecchio, che partiva dal baluardo di San Giovanni, e uno nuovo che nasceva da baluardo di San Giorgio e che scorreva parallelamente alla strada. È facile pensare che il naviglio vecchio sia quello realizzato da Lodovico Gonzaga, nonno di Vespasiano, mentre il naviglio nuovo sia quello

realizzato dal principe nel momento della costruzione e riallineamento del tessuto stradale. Questo Naviglio era un fondamentale collegamento del princeps per poter raggiungere la villa suburbana della Grangia, situata nel borgo rurale di Villa Pasquali. (Fig. 1; Fig. 2) Il modello urbano: L’urbs e gli spazi pubblici Sia Rivarolo Mantovano che Sabbioneta vengono progettate come un vero e proprio congegno, un manufatto, in cui uno dei principali scopi era l’invulnerabilità. Non sorprende quanto l’urbanistica militare abbia influenzato, in ogni sua parte la progettazione e l’effettiva realizzazione di queste. Una chiara caratteristica in comune si ritrova quindi nel tessuto viario cittadino che, in entrambi i casi, possiede una chiara impostazione ortogonale. L’ispirazione viene dalle antiche città Romane e come ogni città romana, a Sabbioneta possiamo riconoscere quindi un decumano nella strada monumentale, Via Giulia, ma non un cardo che rimane implicito. Allo stesso modo anche a Rivarolo Mantovano troviamo un cardo, che corrisponde alla strada della sequenza principale, mentre il decumano rimane implicito. Si ha quindi un superamento di questo modello, che Vespasiano imita ma

rielaborandolo e reinventandolo in una maniera originale e inventiva (Gozzi et al., 1993). Per esigenze dettate dall’urbanistica militare, nessuna strada attraversa tutto il borgo da parte a parte collegando le due porte del lato corto. L’urbanistica di Marco Vitruvio Pollione è chiaramente la diretta ispiratrice del disegno urbano di queste città. “Egli pare che prouedere si debba grandiosamente, che il nimico non habbia facile l’entrata ad oppugnare il muro, (…), e prouisto, che le vie non siano alle porte drizzate, ma per torto camino vadino alla sinistra, perché quando fatto sia, la destra parte di coloro che anderanno alla città, (…), sarà verso la muraglia”3. In queste frasi Daniele Barbaro, commentatore di Vitruvio, descrive ciò che esattamente si ritrova nei due centri. A Sabbioneta, per esempio, superata la porta ci si trova davanti a una baionetta, una curva a “L” in modo da poter disorientare il nemico che fosse penetrato nelle mura. Inoltre sono usatissimi gli incroci a “T” in tutto l’ambito urbano. La volontà di creare trivi piuttosto che quadrivi, risponde alla necessità di disorientare il nemico. Infine frequenti, con il medesimo fine, sono le strade senza uscita, soprattutto in corrispondenza dei tratti iniziali d’accesso alla città. Allo stesso modo a Rivarolo non sono presenti


Fig. 4 , Successione della piazza principale, della via monumentale e piazza di stato e del teatro di Sabbioneta.

Fig.5 successione della piazza principale di Rivarolo Mantovano.

strade che collegano le due principali porte, e queste si collegano solo attraverso svolte a “L” e “T”. (Fig. 3) Parlando della forma delle città arrivano ad assumere un’importanza fondamentale le successioni di spazi pubblici. Fin dalla formazione delle prime città, le piazze e le strade hanno vissuto un’evoluzione del tutto peculiare: sono state tematizzate dalla cittadinanza. Questo ha portato all’individuazione di significati originari diversi per ogni piazza o strada. Fondamentale è individuare i temi principali cittadini per poter comprendere la struttura urbana e studiare le sequenze urbane, ovvero le successioni di strade e piazze tematizzate (Romano, 2015). Questo modo di leggere la città è stato approfondito sui due centri consolidati di Sabbioneta e Rivarolo Mantovano, dove i percorsi sono delle vere e proprie impalcature della città, attorno alla quale si struttura tutto il modello concepito da Vespasiano. (Fig. 4)

teram, cioè relegando tutte le attività commerciali in quella determinata area. A renderla esplicita come tale saranno inoltre i portici. Questi, presenti su tre lati della piazza, perfino creando un loggiato al piano terra del palazzo ducale, sono una caratteristica imprescindibile di una piazza del mercato cittadina. Le botteghe necessitavano di una protezione dell’intemperie, per poter salvaguardare le proprie merci, così viene adoperato il portico che quindi inizia a caratterizzare tutte quelle porzioni di città adibite al commercio (Romano, 2015). Tuttavia piazza Ducale non è assolutamente assimilabile solo a una semplice piazza del mercato. Difatti questa è anche una piazza principale, essendo il centro della vita politica cittadina. Vi si trovano il palazzo Ducale, residenza del principe, il palazzo della Ragione e il palazzo del Comune. Il palazzo della Ragione era un’importante sede di magistrature pubbliche, vi risiedevano gli uffici del bargello, l’aula del consiglio comunale, l’aula di giustizia le carceri e altri uffici. Il palazzo comunale era la sede delle riunioni dei consigli cittadini, sia rurali che civili e vi si risiedeva il vicario generale, massima carica istituzionale dopo il principe5 (Gozzi et al, 1993). Vespasiano colloca consciamente il suo palazzo ducale nella piazza principale a dialogare con gli

Sabbioneta: Sequenza principale La sequenza principale di spazi pubblici è quella che partendo dalla strada principale del borgo vecchio incontra prima la piazzetta secondaria di San Rocco e in seguito confluisce nella piazza ducale e infine nella piazzetta conventuale della chiesa dell’Incoronata. L’antica strada prin-

cipale corrisponde a una delle vie principali dell’antico borgo sabbionetano. Qui la presenza di portici suggerisce la sua vocazione commerciale e suggerisce come questa fosse il centro degli scambi dell’antico borgo, in cui appunto era assente una piazza adibita alla funzione di mercato. Questa strada era anche il cuore della comunità ebraica sabbionetana e vi si collocavano i loro più importanti edifici: la sinagoga, l’università ebraica e anticamente il cimitero. L’antica via principale incontra la piazzetta secondaria di San Rocco in corrispondenza dell’innesto della piccola via trionfale, che la collega alla piazza d’armi. Proseguendo la sequenza arriva alla piazza principale della città: piazza Ducale. Piazza Ducale a Sabbioneta è il cuore della vita pubblica dei cittadini sabbionetani. Questa è innanzitutto la piazza del mercato della città. Fin dall’editto del 1562 addirittura non era permesso compiere affari se non nella piazza dove il principe aveva individuato il luogo del mercato: “Né sia ordito alcuno vendere cosa da mangiare, ne ortaggi, se non drento la medesima Terra, e Fortezza, e nella Piazza destinata, sotto la medesima pena, e vaglia supra”4. Vespasiano inventa piazza ducale come piazza del mercato, non esisteva nulla di simile nel borgo preesistente, e lo fa con una zonizzazione ante lit-

altri due edifici delle magistrature, volendo evitare ogni antagonismo. Vi è la volontà di rappresentare la figura ducale quasi come una magistratura necessaria della civitas. Tuttavia il rapporto non è simmetrico e il palazzo Ducale domina incontrastato tutta la piazza, ricordando al cittadino quale fosse la vera figura a comandare in città. La stessa progettazione di un palazzo municipale senza torre, cosa alquanto inusuale per l’epoca, è manifestazione di questa sottomissione della civitas rispetto al principe (Romano, 2016). Infine la grandezza del disegno urbano di questa piazza sta nel renderla anche una piazza monumentale. Vespasiano infatti progetta due schiere di case porticate con facciate uniformi che nella loro omogeneità incorniciano il palazzo ducale e ne elevano la monumentalità. Vespasiano conosceva benissimo l’esperienza spagnola di Valladolid. Qui in seguito a un incendio nel 1561 che distrusse completamente la città, ci si trovò di fronte la necessità di ricostruire completamente il centro dell’allora capitale spagnola. Anche in questo caso siamo di fronte a una piazza tematizzata con un mercato e con i principali edifici cittadini. Tuttavia Filippo II sancisce che anche le ca29 se comuni possano dare


una cornice appropriata e dignitosa alla nuova piazza. (Romano, 2015). Siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione nella progettazione delle piazze. Prima, infatti, per dare monumentalità era necessario un dialogo tra il palazzo comunale o ducale e quelli, eventuali, dei maggiorenti, ma con Valladolid si assiste alla legittimazione delle piazze monumentali rese tali dall’uniformità stilistica delle case comuni, che andando ad incorniciare il palazzo ducale ne elevano la sua grandezza (Romano, 2015). Vespasiano sarà uno dei primi a riuscire a comprendere questo passaggio e a realizzarlo nella sua città. L’idea di una piazza ad architettura uniforme comporta che le strade che sbucano in questa, presentino una continuità nelle proporzioni e ne possiedano lo steso stile. Questa pretesa si ritrova nella sezione di via Pretesti antistante alla piazza. Le case, seppur d’altezza più bassa, anche qui possiedono un aspetto uniforme e dei porticati in continuità con piazza ducale. Questo è un esempio della elevatissima cupidigia formale che Vespasiano mirava ad avere (Romano, 2016). Proseguendo la sequenza si arriva alla piccola piazza secondaria conventuale in cui si colloca la chiesa dell’Incoronata e il convento dell’ordine dei serviti. Questo edificio, realizzato a partire dal 1586, è a pianta centrale, seguendo il modello Bramantesco della chiesa di Santa Maria Addolorata di Lodi e di Santa Maria di Canepanova a Pavia, ed è posta come punto di fuga dell’asse prospettico della sequenza principale (Gozzi et al., 1993). La collocazione di questa chiesa, che diverrà il mausoleo di Vespasiano, all’interno delle mura porta dentro di sé un certo grado di trasgressione rispetto le mode europee. Difatti in molte città italiane, da Torino a Corte Maggiore, per poter sottolineare la

natura mortale del re, questo veniva seppellito lontano dal centro cittadino (Romano, 2016). Vespasiano fa il contrario, addirittura accentua questa cosa ponendo il proprio mausoleo sulla sequenza principale, quasi a voler legare ancora con più forza la sua figura con quella della sua Sabbioneta, anche una volta sopraggiunta la morte. Sabbioneta: La sequenza della strada monumentale e della piazza di stato Via Giulia, vero e proprio asse centrale di tutta la città, venne realizzata nel 1564 come vero e proprio asse monumentale della città e darà vita alla seconda sequenza di spazi pubblici. Le ispirazioni per realizzare questa strada vennero a Vespasiano dalle strade tematizzate di tutt’Europa, in particolare da Barcellona e Valencia ma soprattutto da Genova. Sicuramente Vespasiano conosceva benissimo Genova, dove si imbarcava per la Spagna, e quindi avrà sicuramente potuto vedere la costruzione della “Strada Nova” realizzata dall’architetto svizzero Bernardino Cantone tra il 1576 il 1580. Via Giulia era pensata come una strada cerimoniale dove si concentravano le case dei maggiorenti, che si concretizzavano con una tipologia a basamento e sottotetto a finestrelle, riprendendo le città vicine di Parma e Mantova. La strada infatti non collega le due porte e quindi non è aperta su tutto il territorio ma è caratterizzata da uno spazio visivo rigorosamente ben definito (Romano, 2016). Da un lato abbiamo l’edificio della zecca mentre dall’altro, con una brillante trovata, Vespasiano fa sporgere il teatro dal filo degli edifici sulla strada, restringendo il calibro della strada. La strada, prima del teatro, incontra la piazza di stato, dove si trova anche la statua d’Atena, ombelico e punto centrale di tutta la città.

La piazza di stato corrispondeva alla piazza d’armi, cuore militare della Sabbioneta fortezza. Qui si trovavano infatti l’antica rocca, l’armeria e alcune caserme dei soldati. Tuttavia il genio urbanistico di Vespasiano riuscirà a trasformare questa piazza d’armi nella piazza rappresentativa della sua radice dinastica e genealogica, in una vera e propria piazza di stato. Difatti egli accosterà a questi edifici funzionali alla difesa dello stato alcuni tra i più rappresentativi monumenti celebrativi della sua famiglia. Il nuovo palazzo giardino o casino del giacinto, delimitava la parte meridionale della piazza ed era la villa privata del principe architetto, indice della sua dimensione ludica e creativa (funzione analoga a quella di palazzo Te a Mantova). A chiudere ad est la piazza venne realizzata la galleria degli antichi. Questa, che riprendeva l’architettura dell’acquedotto romano di Segovia, si contrapponeva con uguale forza all’imponenza della rocca e divideva la piazza d’armi dai popolari quartieri meridionali e aveva quindi una chiara valenza urbanistica (Gozzi et al., 1993). Questa piazza rimaneva uno dei risultati più alti dell’idea di poter far tematizzare una piazza da un castello, controcorrente alle mode centrifughe di porre le fortezze ai margini dell’abitato e lontano dalle maggiori piazze, anche se oggigiorno risulta irrimediabilmente compromessa dall’abbattimento della rocca (Romano, 2015). Sabbioneta: il teatro Questo edificio realizzato, tra il 1588 e il 1590 da Vincenzo Scamozzi è da considerarsi il primo teatro stabile d’Europa posto in un edificio appositamente costruito. Nella sua realizzazione si concretizzano tutti i principi ispiratori che caratterizzano il Vespasiano architetto e urbanista.

La scena è una delle parti più interessanti dell’intera opera. Come afferma l’architetto Tommaso Temenza: “degno di lode e di riflessione è la scena. Imperocchè gli edifizi erano collocati in modo che il proscenio era una piazza, sulla quale mettevano capo tre strade, una maggiore nel mezzo e due minori sui lati, correggendo così l’errore di quegli che pretendono che il proscenio presso gli antichi rappresentasse una gran sala, o luogo interno di casa, o palazzo”6. Così Vespasiano come scena del suo nuovo teatro commissiona una vista di una piazza di una città da cui dipartiva una strada più grossa (una via monumentale?) e due più piccole dove si alternavano case nobili e borghesi. Questa è una vera e propria dichiarazione di intenti. Una rappresentazione di come sarebbe dovuta essere la città ideale di Vespasiano, certamente diversa da quella che si stava strutturando fuori, ma che ne richiama molti aspetti. Vespasiano, nel suo teatro, cita la sua principale fonte ispiratrice per tutta la costruzione della città. Lungo tutti i lati del edificio compare la scritta: ROMA QUANTA FUIT IPSA RUINA DOCET. (Quanto grande fu Roma, lo insegnano le sue rovine stesse). Questa inequivocabile frase rappresenta la dedica a quel modello o più in particolare a quel mondo che ha sicuramente ispirato il progetto della rifondazione di queste città. Infine in questo edificio si può vedere la cerniera tra le due successioni fino ad ora incontrate. Il teatro si trova sulla via Monumentale, a metà strada tra la piazza del popolo, la piazza principale, monumentale e del mercato, e la piazza di stato, quasi interamente riservata a celebrare la dinastia del Gonzaga e i suoi avi. Il teatro perciò diviene un vero e proprio punto d’incontro, tra il princeps e i suoi cittadini, tra la sfera aristocratica


QUALITÀ PARTICELLA

N. PARTICELLE SU 3464

PERCENTUALE SUL TOTALE

Arato vitato

1895

54,7%

Arato

779

22,5%

Prato

464

13,4%

Pascolo

232

6,8%

Prato vitato

31

0,9%

Orto

29

0,8%

Palude boscata

14

0,4%

Bosco dolce

12

0,3%

Pascolo boscato

6

0,2%

Tab. 1, Panoramica uso del suolo di Sabbioneta, 1774.

QUALITÀ PARTICELLA

N. PARTICELLE SU 3464

PERCENTUALE SUL TOTALE

CALATAFIMI

Araba-Sviluppo Medievale

< 40

CAMPOREALE

Fondazione 1779

< 40

CONTESSA ENTELLINA

Fondazione Arbëreshë 1450

41

GIBELLINA

Araba- Sviluppo XIV sec

> 90

MENFI

Araba- Restauro 1638

< 40

Tab. 2, Panoramica uso del suolo di Rivarolo Mantovano, 1774.

QUALITÀ DELLA PARTICELLA

% SABBIONETA

% RIVAROLO MANTOVANO

Arato vitato

55%

53%

Arato

22%

25%

Prato

13%

13%

Pascolo

7%

N. D.

Orto

0,8%

6%

Tab. 3, Confronto dati catastali dell’usso del suolo dei due comuni, 1774.

e quella più popolare, che si uniscono all’insegna dello spettacolo e della cultura. Anche in questo si ritrova l’estrema modernità e raffinatezza del progetto urbano di Vespasiano. Rivarolo Mantovano: la sequenza principale La sequenza principale nasce dalla cosiddetta Porta Parma, o Porta del cimitero. Questa direttrice era fondamentale per collegare la città alla località dosso Castello (Mortari, 2008). Questo dosso era il punto in cui era posizionato l’antico castello Gonzaghesco. Non è un caso, quindi, che Vespasiano orienti una delle entrate principali e l’inizio della sequenza principale del borgo verso questa zona. Si può leggere un segno di reverenza, forse addirittura di offerta di scusa,

verso quell’antico castello dei suoi avi che aveva impietosamente demolito. (Fig.5) Proseguendo per due isolati si raggiunge l’attuale piazza Finzi. Questa, cuore dell’intero centro urbano era innanzitutto la piazza principale. Qui si colloca infatti il Palazzo Pretorio, che chiude il lato nord, e che fa proseguire una diramazione della sequenza principale sotto la sua torre. Palazzo pretorio era il cuore amministrativo del centro urbano, essendo sede del podestà o del vicario o del pretore. Questa piazza è inoltre il cuore commerciale di Rivarolo. Lo testimoniano i portici che ornano tutti tre lati della piazza e che appunto andava a delineare un luogo adibito al commercio delle botteghe. Questa piazza era però anche il cuore monumentale dell’intero borgo. Qui si teneva, fin dal XVI

secolo il gioco del pallone, le parate militari e i tornei cavallereschi (Ghidetti, 1985). Osservando la morfologia della piazza è possibile ipotizzare che l’altezza uniforme delle abitazioni, soprattutto nella parte di sinistra, riprenda la strategia di Vespasiano di dare monumentalità agli spazi pubblici. Non si legge una chiara uniformità nella facciata probabilmente perché, le varie famiglie ebree che qui vi risiedevano, nel corso dei secoli arricchirono le facciate delle loro case seguendo il loro gusto personale. Rimaneva comunque standard l’altezza, il portico e la presenza di un sottotetto evidenziato da una fila di finestrelle. Conclusioni Come appunto ho cercato di dimostrare i centri di Sabbioneta e di Ri-

varolo Mantovano sono frutto di una sapiente e raffinata idea urbanistica e, seppur con molte e ovvie differenze, possono essere accomunati. Partendo dal territorio agricolo, l’analisi ha dimostrato una particolare corrispondenza tra i tessuti rilevati. Se ci si può aspettare una stessa percentuale nella piantata padana, sistemazione agricola di certo più diffusa ai tempi, stupisce il trovare estensioni così simili anche nelle altre qualità. Questa corrispondenza può trovare una spiegazione basata sulla vicinanza geografica di questi centri. I sistemi di produzione e di sostentamento erano di certo gli stessi, sia a Sabbioneta che a Rivarolo, nel 1773 e così anche i modi d’organizzare il territorio, seppur influenzato da fattori diversi come geologia 31 o preesistenze storiche.


Le analogie a livello urbano riguardano essenzialmente anche il reticolo viario. A Rivarolo si ritrova quella particolare forma delle strade e degli incroci che si trova a Sabbioneta. Vespasiano, seguendo gli scritti di Vitruvio, riordina completamente i due centri, costruendo un reticolo di strade ortogonali, citando quindi anche la città romana. Tuttavia prima di tutto Vespasiano è un soldato, perciò è chiaro che l’urbanistica militare influisca tanto nella struttura urbana. In entrambi i centri quindi si delinea un fitto sistema di incroci a T e L che, nei piani del Gonzaga, avrebbero certamente confuso il nemico una volta penetrato nelle porte. È importante ribadire, come a Rivarolo Mantovano, questo reticolo di strade sia meno ortodosso e sia essenzialmente un formalismo estetico. Il borgo infatti non aveva una cinta muraria con funzione difensiva e sarebbe stato facilmente preda di un esercito qualora attaccato. Possiamo quindi ipotizzare come l’impianto ortogona-

le e gli incroci ad L e T facciano parte del modus operandi del Vespasiano urbanista e che, come tale, abbia una ricorrenza in tutte le urbe ab condita da lui fondate. Inoltre in entrambe le città troviamo la piazza del mercato porticata a cui Vespasiano riesce a conferire monumentalità attraverso il conferire medesime proporzioni e forme alle case comuni. Questo espediente, probabilmente importato dalla Spagna è una delle qualità formali che più ci fanno comprendere la raffinatezza del disegno urbanistico di Vespasiano Gonzaga. Queste influenze Europee si esplicitano in una lettera al duca D’Alba, in cui Vespasiano scriverà: “En Sabioneda e labrado mucho y esta muy fuerte y de dentro como los mas alegres lugares de Alemagna”7. (Ho lavorato molto per fare di Sabbioneta una città molto forte all’esterno, e all’interno allegra come certi luoghi in Germania). Vespasiano è stato un europeo errante ante litteram, ha vagato per quasi tutta Italia e Europa, riportan-

do nella sua Sabbioneta e Rivarolo le novità e tutto quelle cose che lo hanno colpito, in campo architettonico e urbanistico. Il ritrovare nella Piazza monumentale la piazza di Valladolid, nella Via Giulia la Strada Nova genovese e le vie monumentali spagnole, nel teatro ducale il nuovo teatro di Vicenza sono solo alcuni degli esempi. Sabbioneta, insomma, è una città rinascimentale all’ultima moda, in cui Vespasiano riportava o costruiva una sua personale versione di ciò che lo aveva colpito in uno dei suoi molti viaggi. Questo strettissimo legame che si può vedere tra Vespasiano e Sabbioneta sarà la fortuna e la rovina della città. Alla morte del suo signore la città diverrà una delle tante piazzeforti lungo il Po, iniziando un periodo di decadenza dal quale, forse, non si riprenderà mai. Concludendo il mio studio, non posso non concedermi delle autocritiche. L’intero mio lavoro sicuramente necessità di una più approfondita analisi, in particolare nello studio del territorio esterno alle mura.

L’approfondire questo campo necessita di molto più tempo e conoscenze che al momento purtroppo non ho. In particolare, sarebbe interessante svelare cosa raccontino i catasti rispetto agli altri territori del ducato di Sabbioneta, come a Commessaggio o Bozzolo, ma anche fare un confronto con il territorio cremonese, allora assoggettato a un altro stato. Future ricerche dovrebbero andare ad implementare questi campi, lasciando perdere la questione, seppur ben più interessante, della città ideale, considerando soprattutto la sterminata bibliografia già presente in materia.


Note

Bibliografia

1 Così viene descritto il paesaggio della piantata padana da Leandro Alberti nella sua descrittione di tutta Italia (1537): “scendendo la via Emilia, e camminando per mezzo dell’amena campagna, questa appare ornata “di vaghi ordini di alberi dalle viti accompagnate”, come del reto per tutta la pianura Emiliana, fino alla Padusa “si veggono artificiosi ordini di alberi, sopra i quali sono le viti, che da ogni lato pendono (Sereni, Emilio. “Storia del paesaggio agrario italiano”, 1962, pp.177). 2 “Il paesaggio agrario, una volta fissato in determinate forme, tende a perpetuarle, anche quando siano scomparsi i rapporti tecnici, produttivi e sociali che ne han condizionato l’origine finché nuovi e più decisivi sviluppi di tali rapporti non vengono a sconvolgerle” (Emilio Sereni, storia del paesaggio agrario italiano, pp.52). 3 Barbaro, Daniele. “I Dieci Libri dell’Architettura di M. Vitruvio tradotti et commentati.” I dieci libri dell’architettura di M. Vitruvio, tradutti e commentati..., 1987, pp.47. 4 Ireneo Affò, vita di Vespasiano Gonzaga, pp.45-46 5 Di questi due edifici rimane solo la facciata esterna. Tutta l‘attuale disposizione interna è frutto della trasformazione in negozi e abitazioni della vecchia composizione interna. 6 Temanza, Tommaso. Vite dei più celebri architetti, e scultori veneziani che fiorirono nel secolo decimosesto, scritte da Tommaso Temanza... Libro primo [-secondo]. Nella stamperia di C. Palese, 1778, pp. 443. 7 Marten, Bettina. Le fortificazioni di Vespasiano Gonzaga per la corona spagnola, in “Civiltà mantovana”, n. 128, autunno, 2009, pp.30.

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Fig. 1 Evoluzione storica della città di Massa Marittima.


Sudio della formazione dello spazio urbano in una città della toscana: massa marittima. Evoluzione storica e morfogenesi

Fabio Iacometti

Introduzione L’obbiettivo di questo studio è quello di svelare le celate regole che caratterizzano i processi di formazione della città di Massa Marittima e, scendendo nel dettaglio, della formazione dei suoi spazi urbani. Partendo da un’analisi sviluppata attraverso una ricognizione storica degli eventi storici, ed in parte grazie ad ipotesi soggettive legate all’attenta osservazione della morfologia, la tesi ha cercato di individuare il processo di evoluzione della città a partire dalla sua fondazione. Analizzando con maggior dettaglio gli ultimi stadi dell’evoluzione urbana a partire dal 1825 fino ad oggi, ne emerge un nucleo storico molto dinamico. La città sembra essere cresciuta non solo attraverso l’inserimento di nuovi elementi sul territorio, ma anche attraverso la trasformazione di quelli esistenti, facendo emergere quanto poco sia rimasto di medioevale a Massa Marittima e come queste trasformazioni siano avvenute specialmente in relazione all’edilizia non specialistica. La successiva fase di analisi si concentra proprio sull’edilizia mutevole, composta da quegli edifici che, una volta raggruppati, prendono il nome di edilizia di base. Ogni edificio corrisponde a quel concetto di casa comune, chiamato anche tipo, varia-

bile con il tempo e lo spazio, che aveva in mente l’artefice ancor prima di costruire la sua stessa casa. Con il termine “concetto” si intende uno strumento ed un metodo, appreso inconsciamente dagli artefici tramite cognizioni derivate dalle esperienze dell’intorno spaziale (Caniggia, Maffei 1995, 47). Dallo studio emerge che è questo il motivo per cui nel centro consolidato di Massa l’edilizia abitativa sembra somigliarsi molto. In linea generale infatti gran parte dei centri storici sono caratterizzati da una disposizione complessa delle medesime tipologie edilizie che si ripetono. Dietro questa ripetizione è possibile individuare un disegno più grande, che equivale ad un metodo astratto di formazione delle città che era nella mente degli artefici prima ancora di costruire la città stessa. Gli edifici storici non sono solo abitazioni, ma elementi base che hanno dentro di sé i presupposti per essere componibili, in modo da formare lungo i percorsi gli aggregati e a sua volta gli spazi urbani (Ivi, 122-129). Al fine di assicurare una buona interpretazione dello spazio urbano è stato necessario non limitare la scala dell’aggregato ad un solo insieme di edifici, ma questo è stato considerato come un sottosistema della città stessa. L’analisi infatti mostra

che gli aggregati si relazionano tra loro in modo apparentemente inscindibile, e la piazza principale di Massa Marittima ne costituisce il migliore esempio. I risultati ed i metodi con cui sono state condotte le analisi possono essere presi ad esempio per lo studio di altri complessi urbani. La ripetizione dello studio consentirebbe di mostrare come i concetti ed i processi si modificano non solo col variare del tempo ma anche dello spazio, individuando l’identità di ogni insediamento. Evoluzione storica Massa Marittima è una città di circa 5700 abitanti dell’omonimo comune situato nella provincia di Grosseto. L’insediamento insiste sulle colline metallifere ad un’altitudine di 380 m s.l.m. Il centro storico è diviso in terzieri: Città vecchia, Borgo e Città nuova (Petrocchi 1990, 4). Città vecchia e borgo si trovano sulle pendici ad est del castello centrale, nella parte bassa. Città nuova si trova sull’altopiano ad ovest del castello, nella parte alta. Il castello regna sul poggio più alto, dominando fisicamente la città tra le mura. Una parte di territorio prima di divenire uno spazio urbano è sempre sede di una percorrenza, ed il luogo di solito prescelto per l’insediamento è

Corso di Laurea in Pianificazione della Città, del Territorio e del Paesaggio Relatore: Prof. Claudio Saragosa Co-relatore: Nora Annesi Febbraio 2018

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un promontorio, ossia un’emergenza (Caniggia, Maffei 1995, 221). A Massa Marittima il principio di fondazione potrebbe essere stato proprio questo, la città ha avuto inizio da una percorrenza che potrebbe aver portato interesse ad un’edificazione sul promontorio vicino, che rappresentava una vera e propria fortificazione naturale: la prima edificazione si ipotizza sia stata il castello sul poggio (Lombardi 1985, 12). I successivi sviluppi della città, come per la fondazione, sono avvenuti seguendo delle regole che venivano inconsciamente dettate dalla morfologia. Il nucleo storico di Massa ha un rapporto esclusivo con la propria base ambientale, l’edificato si adagia in modo quasi naturale sulle curve di livello tanto da rendere difficile scindere il confine tra natura e cultura, creando qualcosa di unico che prende il nome di paesaggio. È chiaro ora quanto sia importante un’analisi della morfologia per poter ipotizzare le dinamiche di formazione e di sviluppo di una città, soprattutto perché su queste dinamiche non si hanno dati certi, tranne per nozioni storiche e fonti cartografiche recenti, che sono stati molto molto utili per determinare l’evoluzione storica della città (Fig. 1). Le analisi realizzate hanno condotto all’identificazione di edifici la cui origine è certa, in colore nero, ed altri in cui invece la loro presenza è solo un’ipotesi, in colore grigio. Analisi della plasticità del centro storico L’aggettivo plasmabile associato al centro storico sta ad indicare che quest’ultimo è qualcosa in grado di cambiare forma e di modellarsi per adattarsi a esigenze che si presentano, quest’ultime dettate dalla società che si rappresenta nelle forme urbane della città. Il centro storico di Massa che vediamo oggi è frutto

della ricostruzione avvenuta dall’Ottocento fino ad inizio Novecento. Il termine ricostruzione identifica il processo grazie al quale il centro storico non è solo cresciuto attraverso l’inserimento di nuovi edifici, ma soprattutto grazie alla trasformazione di quelli che erano già presenti. La città è stata sottoposta ad interventi che hanno ampliato edifici esistenti, sia in altezza che in estensione, ed interventi che hanno demolito edifici per sostituirli con dei nuovi. Il momento temporale più vecchio di cui si sono ottenuti dati concreti è il 1825, anno in cui Massa Marittima viene tracciata in un una carta catastale (Mandelli 2009, 47). I dati mostrano che in quell’anno la città era di dimensioni ridotte rispetto ad oggi, vi risiedevano 2.840 persone (Repetti 1839, 115). La malaria aveva decimato la popolazione che già in quegli anni era aumentata rispetto secoli prima: nel 1742 Targioni Tozzetti definisce Massa un cadavere di città (Tozzetti 1751, 114). Il catasto particellare consente di capire come sia avvenuta la crescita urbana, ma soprattutto come sia cambiato l’aspetto e l’assetto del centro storico, non consente però di conoscere la situazione volumetrica della città di allora. Al fine di poter avere un’immagine volumetrica della città, lo studio si è integrato attraverso il reperimento di documenti in cui sono indicati il numero dei piani di quasi ogni edificio del 1825. Combinando i dati planimetrici e quelli altimetrici è stato possibile ottenere la quasi completa conoscenza dell’immagine della città al 1825. Confrontando la situazione volumetrica della città del 1825 con quella di oggi, è stato invece possibile conoscere l’innalzamento, ove avvenuto, di ogni singolo edificio. Ciò ha rivelato, che la città, oltre a svilupparsi orizzontalmente, è anche cresciuta verticalmente at-

traverso l’evoluzione dei singoli edifici (Fig. 2). Grazie alla raccolta di dati e alle ipotesi formulate è stato possibile realizzare una elaborazione tridimensionale della città di Massa Marittima per gli anni 1825 e 2017. Attraverso i dati catastali attuali sono stati estratti i dati relativi alle attuali altezze, mentre la situazione al 1825 è ipotizzata assumendo un’altezza standard di tre metri a piano, eccezion fatta per quegli edifici che hanno mantenuto lo stesso numero dei piani dal 1825 ad oggi e per i quali perciò è stato considerato valido il dato attuale. Per gli edifici privi di dati riferiti al numero dei piani del 1825 o per quelli demoliti e perciò inesistenti è stata assunta un’altezza standard di sei metri. Attraverso l’osservazione in serie di queste analisi ed elaborazioni è possibile visualizzare l’evoluzione e la dinamicità urbana (Fig. 2). In particolare, nell’analisi della trasformazione urbana, si può vedere nel dettaglio anche quali dinamiche evolutive si sono avute nella sua piazza principale: Piazza Garibaldi. Questo spazio, definito come una delle piazze medioevali più belle della Toscana, prende in realtà le sue conformazioni attuali solo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Inoltre, mediante l’osservazione della planimetria a volo d’uccello di Massa Marittima risalente al 1664 (D’amico 2016, 81), piazza Garibaldi non risulta caratterizzata da quelle configurazioni che possono definirla tale. L’armonia spaziale che caratterizza la piazza non è indicatrice di una simultaneità edificatoria, la spazio è stato oggetto di stratificazioni avvenute in diverse fasi distribuite in un arco temporale di 700 anni. La qualità estetica della piazza, data dall’equilibrio dei suoi elementi, è riscontrabile in tutto lo spazio urbano ed è ben visibile compiendo un cambio di scala. Nella piazza, così

come nella città, la composizione armonica dei suoi elementi è rimasta inalterata nel corso dei secoli. Analisi dei morfotipi Il primo passo di questa analisi è stato quello di esaminare i tipi edilizi riconoscibili della città di Massa Marittima. Il concetto di tipo è stato introdotto dall’architetto Saverio Muratori negli anni 50 del Novecento, egli ha dato una definizione del tipo che sarà molto di più di una semplice analisi a posteriori, ma bensì una sintesi a priori. Per “riconoscibili” si fa riferimento a quei tipi edilizi che rispecchiano l’edilizia di base e che sono frutto di una categorizzazione di modelli simili derivanti dagli stessi concetti di casa. Molte case dei centri storici sono simili perché derivavano da un concetto di casa comune (il tipo) che c’era nella mente degli artefici prima di costruire la loro stessa casa. L’artefice non pensava a come realizzare la sua casa, c’era un unico metodo e con coscienza spontanea la faceva e basta. Il tipo, oltre ad essere uno schema non riduttivo dell’edificio, è prima di tutto un metodo, uno strumento che varia con lo spazio ed il tempo. Il tipo non era mai stabile e maturo, si evolveva sempre per rispondere sempre ed in modo migliore alle nuove esigenze della società che si presentavano (Caniggia, Maffei 1995, 47). “Il tipo […] è evento reale che si incontra nell’esperienza quotidiana di una città”. “Nessun tipo si identifica con una forma anche se tutte le forme architettoniche sono riconducibili a dei tipi”. È possibile quindi oggi risalire al tipo dal tipo edilizio (Pigafetta 1990, 96 – Rossi 1966, 34). L’analisi ha permesso di dimostrare le teorie della scuola muratoriana attraverso lo studio dell’evoluzione morfo-tipologica massetana, ottenuta grazie


Fig. 2 La plasticità del centro storico.

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all’astrazione di tutti quei tipi edilizi simili che sono stati riconosciuti a Massa Marittima (Fig. 3). Gli edifici, se anche variano, preservano comunque nelle loro forme una certa continuità: in ogni modello che è cresciuto è spesso visibile e riconducibile il suo modello anteriore. L’evoluzione del tipo non si è avuta però solamente dalla trasformazione di edifici esistenti, ma è avvenuta soprattutto nel caso di edifici che sono stati costruiti ex novo e quindi direttamente aggiornati al concetto di casa esistente. I tipi a, b e c (Fig. 3) risultano essere di un numero tale nell’area urbana che la loro forma e struttura non può essere facilmente estratta ed identificata con sicurezza. Tuttavia, nel processo tipologico si è sempre mantenuta una certa continuità, che quindi permette di mostrare ancora il tipo matrice che si cela dentro (Caniggia, Maffei 1995, 52 - 59). È dal tipo matrice che è scaturita la crescita del tipo, evoluzione avvenuta specialmente per raddoppi della cellula elementare, sia in profondità che in altezza. I raddoppi sono una conseguenza delle tecniche costruttive, legate dalla necessità di mantenere inalterati i muri perimetrali degli edifici. Una volta analizzata l’evoluzione tipologica di Massa è stato possibile identificare per ogni edificio il tipo da cui è scaturito (Fig. 3). A quasi ogni edificio è stato attribuito il concetto di casa da cui si è generato e ha preso forma, ogni edificio a cui è stato attribuito un tipo non è però uguale al tipo stesso, perché il concetto si è dispiegato, concretizzandosi in qualcosa di unico che ha assorbito influenze scaturite da personalizzazioni dell’artefice, fattori economici, tecnici e soprattutto morfologici. “Non si tratta di copiare, di riprodurre come se si trattasse di una produzione seriale, di stampare senza una

elasticità ed attenzione al contesto” (Saragosa 2016, 283). Se per studiare il tipo in una città non sono fondamentali i suoi rilievi murari, ma può bastare l’osservazione, al contrario per attribuire un tipo ad ogni singola tipologia edilizia sono necessari i suoi rilievi murari. I muri portanti non solo mostrano bene il confine dell’unità edilizia, ma mostrano anche di quale tipologia certamente si tratta, percependone più facilmente raddoppi ed evoluzioni. A causa dei motivi appena descritti, la localizzazione dei tipi può più propriamente essere descritta come un’interessante ipotesi che mostra come le tipologie edilizie, disponendosi con specifici criteri su dei percorsi, configurino lo spazio urbano. L’individuazione dei tipi mostra dove risiedono tipi più maturi, e quindi più recenti, e dove invece si sono stabiliti i tipi meno maturi. Si può sottolineare che è possibile trovare tipi più vecchi risiedenti in case edificate in momenti temporali recenti. I concetti derivano da momenti temporali diversi, non per forza però i tipi si dispiegano solo nel momento temporale in cui si sono generati: i modelli che si generano da un tipo possono essere realizzati anche in momenti temporali in cui già quel concetto è stato superato. Tale concetto emerge attraverso l’incrocio dei tipi attuali con gli edifici presenti a Massa Marittima nel 1825. Incrociando i dati si può vedere quali edifici erano presenti anche al 1825 e quali no, potendo così osservare che dei concetti di casa vecchi hanno preso le sembianze in edifici realizzati in anni recenti. I tipi variano secondo spazio e tempo, a sua volta anche i modelli si contestualizzano secondo spazio e tempo, assumendo proprie forme, stili e caratteri (Fig. 2).

Analisi della formazione dello spazio urbano L’analisi della formazione dello spazio urbano si è basata sulla decodifica delle regole che hanno generato la forma degli insediamenti. Il riconoscimento dei percorsi può far emergere le fasi di formazione di una città perché le strade vengono prima di qualsiasi edificazione. Caniggia e Maffei definiscono l’esistenza di tre tipologie di percorsi: il percorso matrice, il percorso d’impianto ed il percorso di collegamento. Il primo è tendenzialmente curvilineo, ed è quello che genera l’insediamento, da questo nascono i percorsi d’impianto che sono tendenzialmente ortogonali al primo, ed infine, per connettere i percorsi d’impianto, si generano i percorsi di collegamento, anche questi ortogonali ai precedenti, creando così gli isolati. L’ortogonalità derivava dal mantenere i lotti rettangolari, possibilmente con il lato corto sulla strada, in modo che questa servisse più edifici possibili (Caniggia, Maffei 1995, 132 - 135). Dall’analisi delle edificazioni fronte strada di Massa Marittima è stato possibile identificare le tipologie dei percorsi: i lotti e gli edifici mostreranno quasi sempre il loro fronte principale proprio sui percorsi che vengono prima e che sono quindi di gerarchia maggiore. La descrizione di Caniggia e Maffei fa riferimento ad un modello astratto che è nella mente dell’artefice prima di costruire gli aggregati stessi, i quali poi variano e si dispiegano a seconda del luogo e dell’intervallo temporale di riferimento, proprio come accade per il tipo. Il tipo è il concetto di casa che c’è nella mente dell’artefice prima di costruire la casa stessa, nello stesso momento c’è nella mente dell’artefice anche il concetto di tessuto, questo perché il tipo in sé, grazie ai suoi caratteri, accetta di essere aggregabile.

Una volta che il tipo si sarà dispiegato in un modello anche il concetto di tessuto si dispiegherà in un aggregato (Ivi, 122 - 129) (Fig. 4). In questa fase di analisi sono stati analizzati gli aggregati di Massa Marittima (Fig. 5). Al fine di assicurare una corretta interpretazione è necessario sottolineare come la definizione esatta di percorso matrice sia quel percorso che preesiste prima dell’insediamento. Secondo questa definizione la strada matrice che ha generato Massa Marittima dovrebbe essere quella che insiste lungo la strada più ad est, identificabile nell’attuale via Parenti. Il significato però più importante del percorso matrice non è tanto quello di preesistere all’insediamento ma quanto quello di strutturarlo, compito svolto in questa città non solo dal percorso più ad est, ma anche da tutti quei percorsi che sono gemmati dal primo. Per questo motivo a Massa Marittima si può dire che non esiste un solo percorso matrice. Attorno al nucleo storico ci sono tutti quei percorsi ed edifici che non possono essere definiti quali aggregati ma appunto solamente come strade ed edifici. Si hanno spazi in cui non ci sono più tipi di base e quindi modelli che non hanno più dentro di sé i presupposti per essere aggregabili e relazionati con altri edifici e percorsi, non ottenendo quindi un sottoinsieme complesso di elementi ma bensì un insieme di elementi causali. A Massa Marittima si possono principalmente identificare due aspetti morfologici differenti che hanno portato a due diversi modi di dispiegamento dei tessuti. Ad est del promontorio il territorio si caratterizza per una morfologia sinuosa, ad ovest, dove giace Città nuova, è riscontrabile invece una morfologia più pianeggiante. Ad est il concetto di tessuto ha subito più variazio-


ni, qui si può vedere che i percorsi principali seguono l’andamento planimetrico del territorio. La parte pianeggiante invece si caratterizza per la presenza di aggregati che rispecchiano molto le fasi di formazione di una città descritte da Caniggia e Maffei. I percorsi d’impianto crescono in modo ortogonale al percorso matrice, i percorsi di collegamento a sua volta si costituiscono in modo ortogonale ai percorsi di impianto, generando così nella Città nuova una serie di isolati. Diversamente nella città bassa i percorsi di collegamento non esistono, portando all’assenza di isolati in questa parte di città. A seguito delle analisi fatte è possibile perciò ipotizzare che Massa Marittima, ad esclusione di Città nuova, non è altro che un borgo lineare su strada. I piccoli insediamenti collinari spesso si estendono in lunghezza lungo un percorso di crinale o di mezzacosta, che, una volta generato un insediamento, determina gemmazioni di nuove strade tendenzialmente parallele a quella matrice, collegate da trasversali ortogonali di maggiore pendenza. Le città non sono composte solamente di strade e case, esistono delle relazioni che le legano, inoltre a volte queste ultime, formando dei grandi spazi aperti, sono in grado di dare forma a qualcosa di diverso: le piazze. In una diversa prospettiva la piazza può essere vista come un aggregato in cui il percorso si è allargato. Un aggregato si caratterizza per essere un sistema univoco e per essere in grado di relazionarsi con altri aggregati, determinando una notevole complessità dello spazio. Nel caso di Massa tale concetto è riscontrabile nel rapporto che c’è tra la piazza Garibaldi e la restante parte di città: quasi ogni via d’accesso alla piazza ha un punto di fuga che esalta la monumentalità delle strade che entrano in questo bellissimo

Fig. 3 L’evoluzione morfo-tipologica massetana in alto, i tipi riconoscibili nella città in basso.


spazio e l’edificio della piazza che ne fa da punto prospettico (Fig. 5). Dall’osservazione di questo fenomeno, è possibile individuare la grande capacità che possiede la città storica nel far dialogare e relazionare gli elementi che compongono i suoi tessuti. Gran parte dell’edilizia dei centri storici viene definita erroneamente spontanea, in realtà l’aggettivo spontaneo è connesso alla mancanza di un vero e proprio piano, ma non può essere affermato che la nascita e l’evoluzione di un sistema urbano sia dettato dal caso. Spontaneo è il modo in cui gli artefici realizzano le proprie case, ma risulta essere meno spontaneo come ogni elemento sia stato inserito in una specifica posizione al fine di determinare uno spazio complesso ed empatico. È stato più volte introdotto l’aggettivo complesso, senza spiegarne però bene il significato, sono tutte queste relazioni a dare la possibilità dell’uso di questo aggettivo mentre si parla di questi spazi. La parola complessità indica un sovrapporsi di elementi che messi insieme generano un’armonia senza eguali, un’armonia appagante che risponde ai bisogni psicologici dell’abitare dell’uomo. Se in quest’armonia di elementi si scende di dettaglio e si colgono i particolari costruttivi di ogni edificio si può individuare quell’unicità che li trasforma in ricchezza estetica. L’armonia del costruito può lasciare senza fiato ma le geometrie fini sono quelle che fanno vibrare l’anima. Conclusioni L’analisi condotta ha permesso di capire che il centro di Massa è estremamente legato ai caratteri della sua base ambientale. La difficoltà di trasformare il territorio, dovuta all’assenza di tecnologie avanzate, ha portato nel tempo a costruire insediamenti urbani che si adattasse-

ro al territorio e alla sua morfologia e non viceversa. La coevoluzione tra insediamento e territorio ha prodotto città irriproducibili e gran parte dei siti urbani storici si caratterizza per forme ed equilibri unici. Le città relazionandosi alle proprie basi ambientali divenivano anch’esse uniche. Questo rapporto si è perso attraverso un nuovo modo di realizzare la città, avvenuto, a Massa Marittima dopo l’inizio del 900, con un totale sganciamento delle regole che erano state tramandate. La parte di città esterna alle mura massetane tende quasi completamente a non seguire le regole morfologiche, andando a modificare il contesto in cui si insedia, facendo così del sito una mera superfice isotropa su cui appoggiare gli elementi. Sembra perciò che il distacco uomo-territorio abbia causato l’inizio della costruzione di città clone. Un altro elemento cardine che ha causato la trasformazione del concetto di città è assimilabile al singolo edificio che, non avendo più i presupposti per essere aggregabile, ha creato una città di frammenti, in cui gli elementi, non avendo più complicità con il sito, sembra galleggino sul territorio. Grazie allo studio di maggior dettaglio che è stato applicato alle ultime fasi dell’evoluzione della città, riferite agli anni che vanno dal 1825 ad oggi, si può vedere che il centro che viene definito storico di Massa è in realtà composto da elementi che risalgono all’Ottocento e per di più all’inizio del Novecento. Ciò che emerge è una straordinaria capacità dell’edificato ottocentesco e di inizio novecento di adattarsi al contesto preesistente e di non emergere come degli edifici decontestualizzati derivanti da una successiva costruzione. Tale capacità deriva dal criterio, ancora vivo ed evidente in questi manufatti, che prende il no-

Fig. 4 Il processo tipologico e la formazione della città.

me di processo tipologico (Caniggia, Maffei 1995, 76). Ciò ha prodotto modelli contemporanei al periodo di costruzione, ma che avessero comunque una continuità con l’operato più vecchio, facendo rimanere la città coerente a sé stessa ed unica. La città non è solo cresciuta, ma si è anche trasformata. L’edificato di Massa Marittima del 1825 era poco sviluppato e non aveva nemmeno occupato totalmente lo spazio tra le mura. Se si considera anche che la piccola città che è arrivata fino ad oggi non è nemmeno totalmente la stessa, poiché si è anche trasformata, allora si può dire in realtà che questo borgo medioevale ha veramente poco di edifici risalenti a quel periodo. I centri storici non sono immutevoli come se ciascun elemento che li compone fosse rimasto invariato dalla sua realizzazione, questa concezione è sbagliata, tutte le città storiche si sono sempre trasformate col tempo, si modificavano e si adattavano per soddisfare nuove esigenze che si presentavano. La convinzione che le città

non subivano cambiamenti è in realtà influenzata dall’attuale situazione di staticità che esiste oggi nelle città, facendo credere che tutto rimane invariato per sempre. Nei centri storici questa affermazione aumenta la sua veridicità, non perché questi non vengono più modificati, ma perché qui la staticità è espressa purtroppo da una situazione più vicina a quella di congelamento che di conservazione. La conservazione serve per preservare quegli elementi che sono in grado, una volta studiati e compresi, di dare delle regole da usare, adattare e trasmettere. Il congelamento è una situazione in cui vengono solamente tutelati gli elementi senza studiarne i contenuti, è proprio ciò che ha rotto il processo tipologico. Le città sono un concatenarsi di elementi ed aggregati, l’unità elementare delle città sono gli edifici. Questi, fino a qualche secolo fa non erano solo elementi per fare da dimora ad una o più famiglie, ma erano veri e propri oggetti per la composizione urbana.


41 Fig. 5 Gli aggregati di Massa Marittima.


La composizione dei centri storici mostra che le sue case sono tutte simili, questo perché derivavano da un concetto di casa comune. A Massa Marittima questo concetto si è tramandato ed è rimasto vivo fino agli inizi del Novecento, motivo per cui non si nota che la città è essenzialmente ottocentesca e inizio novecentesca. In un certo periodo storico, attribuibile forse a dopo l’inizio del Novecento, si è avuto un completo distaccamento dalle regole a Massa Marittima, qualcosa ha completamente rotto il processo di evoluzione del concetto di casa. La più grande debolezza dei nuovi modelli che si sono andati ad appoggiare sul territorio è prima di tutto di non avere più nessuna complicità con il sito e in secondo luogo non avere più dentro di sé nessun presupposto atto a formare aggregati. Nel tempo le dinamiche edificatorie e di rendita edilizia hanno portato a sottovalutare l’importanza delle facciate continue delle città, pensando che le facciate frammentate non avreb-

bero portato a nessun effetto negativo sulla qualità ed il forte senso di appartenenza che c’è negli spazi urbani: dalla compattezza dei fronti degli edifici scaturisce un disegno unitario, visibile sia dalla planimetria che nella terza dimensione. La compattezza dei fronti e dell’abitato favorisce inoltre, nelle strette vie dei centri storici, l’affollamento di persone che ne evoca la solidarietà degli individui, è questo che vuol dire senso di appartenenza, tale da soddisfare i bisogni psicologici dell’abitare (Saragosa 2011, 47). Nella città consolidata risiedono delle gerarchie attinenti ai processi di formazione della città, questa qualità non è visibile solamente dalla planimetria, ma si può notare soprattutto nella terza dimensione, quella della spazialità. È attraverso gli aggregati che si forma la città, a Massa questi concetti si sono dispiegati in due modi differenti. Nella parte alta gli aggregati si sono formati uno ortogonale all’altro, determinando la nascita degli isolati. Nella

parte bassa, essendo la morfologia più impetuosa, si sono andati solamente a creare degli aggregati lineari, non generando quindi l’isolato. Il centro di Massa, ad eccezione di Città nuova, non è altro che un borgo lineare su strada. Lo schema di aggregazione della Città nuova e di Borgo nella città di Massa Marittima è riconducibile a molti paesi e città che insistono su percorsi di crinale o di mezzacosta, come ad esempio lo sono S. Miniato e S. Gimignano (Caniggia, Maffei 1995, 169). La comprensione delle regole riguardanti la formazione della città e dei suoi singoli elementi non serve solo per avere consapevolezza della storia, ma per attuare queste e per operare ancora oggi. “Il territorio è un deposito di storia, rappresenta il passato della nostra civiltà, […] se dimenticassimo, o trascurassimo, questo aspetto della realtà a null’altro ci ridurremmo, e a null’altro ridurremmo la nostra civiltà che a una pianta senza radici: quella pianta che, dopo la fioritura, inevitabil-

mente inaridisce e muore” (Salzano 1998, 253). La studio si è impegnato nel riconoscere i processi di formazione della città di Massa Marittima e dei suoi spazi urbani. Dallo studio è emerso come questi ultimi siano il frutto di regole che vivono nelle esperienze della città, metodi che non rimangono invariati né con il tempo né con lo spazio. La ripetizione di questo studio in altri contesti urbani, e quindi ampliando il raggio dell’analisi ad un’intorno spaziale più ampio, consentirebbe di dimostrare che i concetti variano anche con lo spazio, permettendo di conseguenza di far emergere la vera identità che ogni insediamento cela.


Note

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Fig. 1 Un momento della Marcia per un Mondo Nuovo del 1967 (Foto: Toni Nicolini).


Oltre la Ricostruzione. La Valle del Belìce tra Spreco e Pianificazione

Un lungo processo di territorializzazione Definire il territorio della Valle del Belìce non è immediato, ripercorrendo la territorializzazione di lungo periodo non si trova nessun riferimento alla Valle del Belìce, non corrisponde, come ci si aspetterebbe, con il territorio del bacino idrografico dell’omonimo fiume Belìce, si inizia invece a definire come ambito territoriale solo dopo il terremoto. Si può dunque considerare come luogo di identificazione dei territori ampiamente danneggiati dal terremoto del 1968 e coinvolti nella conseguente ricostruzione. Bisogna considerare infatti che “il patrimonio territoriale della Valle del Belice dopo l’evento sismico è costituito da un insieme sinergico e indivisibile di valori ambientali, paesaggistici, storico-culturali preesistenti” oltre che “da nuovi assetti urbanistici, sociali ed economici” derivati appunto dal terremoto e dalla ricostruzione (Gallitano; Lotta; Picone; Schilleci, 2017). Per meglio comprendere il territorio, nella tesi si è dunque ripercorso il lungo processo di territorializzazione in quanto “Attraverso l’accumulo di atti territorializzanti nel tempo, lo spazio naturale si trasforma in territorio originando i ‘luoghi’, ambienti dell’uomo dotati di identità, personalità, individualità paesistica. Ogni luogo assume, in questa relazione di

Angela Maria Lo Brutto lunga durata fra insediamento umano e ambiente, una sua identità specifica data dalla particolarità degli elementi della relazione” (Magnaghi, 2001, pp.19-21). Il lungo processo di territorializzazione, viene ripercorso sin dalle prime notizie sulle popolazioni stabili, gli Elimi e i Sicani, a cui si deve l’edificazione di diversi centri urbani in stretta relazione e in posizione morfologicamente rilevante rispetto ai terreni coltivati (Segesta, Halicae, Erice). Con l’arrivo dei Greci e la fondazione di Selinunte (640 a.c.) si ha l’ultimo momento nella quale il territorio è rappresentato da società prettamente urbane; già dall’avvento dei Romani (264 a.c.) infatti, si diffonde il latifondo, che si traduce nella decadenza delle città e nella nascita di diversi centri rurali e che lega il possesso della terra al potere, isolando la comunità locale dal potere decisionale sul proprio territorio. Con i latifondi si diffonde lo sfruttamento delle terre coltivabili e questo determina un impoverimento graduale e costante della comunità contadina, che rappresenta sin da questi momenti, la maggiore classe sociale nel Belìce. Lo sfruttamento dei terreni agricoli da parte delle classi nobiliari prima e di quelle borghesi dopo, che si pongono come esclusivi proprietari, ne è la causa principale.

Tranne che per un relativamente breve periodo di innovazione delle tecniche e delle colture durante la dominazione araba (827-1091 d.p.), la mancanza di investimenti nel miglioramento fondiario e nelle tecniche di coltivazione, ha rappresentato la costante tendenza che dall’Età feudale si protrae fino agli anni ’50 del ‘900. Il territorio, in questi anni, è dunque investito da una estrema povertà della comunità locale, senza lavoro e senza possibilità alcuna di crescita e di sviluppo. Pochi contadini lavorano in un proprio appezzamento in enfiteusi, molti altri vengono sfruttati come braccianti dai “Gabelloti”1 dei latifondi. Nessun miglioramento del fondo, delle tecniche di coltivazione e di irrigazione è operato nel territorio da tempo, inoltre una mancanza totale di infrastrutture di collegamento dai centri, ne accentua l’isolamento. Si ha dunque un territorio interno e isolato, il cui il sistema insediativo si compone di diversi centri urbani rurali composti essenzialmente da edifici residenziali in cui vive una popolazione essenzialmente contadina. Mentre la rete infrastrutturale è rappresentata esclusivamente da pochissime strade carrabili e fatiscenti “trazzere”2.

Corso di Laurea Magistrale in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio Relatore: Prof. Claudio Saragosa Co-relatore: Filippo Schilleci Co-relatore: Nora Annesi Aprile 2019

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Fig. 2 Gli schemi rappresentano la modularità della Rete della Viabilità Carrabile nei Nuovi Centri Urbani.

Danilo Dolci, una proposta di Pianificazione Democratica e Partecipata «Se l’occhio non si esercita, non vede. Se la pelle non tocca, non sa. Se l’uomo non immagina, si spegne.» (Danilo Dolci, 1970) È nel 1952 che alla Sicilia Occidentale si lega la figura di Danilo Dolci, sociologo e poeta, definito da molti il Gandhi italiano, introduce nel territorio un processo di studi e lotte per lo sviluppo locale. Convinto sostenitore della non violenza dà vita a un’azione di studi e di ricerca svolgendo attività di intervento sociale per il riscatto della popolazione. L’obiettivo è quello di diffondere la conoscenza e la consapevolezza nella società locale così da creare i presupposti per uno sviluppo endogeno orientato all’auto-organizzazione. Dal suo arrivo, Dolci, inizia a comprendere che la povertà della popolazione è legata a pratiche consolidate di sfruttamento e di spreco delle risorse del territorio. Inizia da questa considerazione, un ampio periodo di rilevazione, di ricerca sociale.“Ho cominciato a porre domande perché non sapevo. Via via mi sono poi accorto che anche gli altri, a cui domandavo, in fondo non sapevano. O sapevano poco.

Chi era la persona a cui domandavo? E chi poteva essere? Che intendeva, ad esempio, per sviluppo, crescere? In quale contesto assumevano un senso (e quale senso?) le sue parole?” (Danilo Dolci, 1988, pag 13). Secondo Dolci, per risolvere un problema è necessario per prima prenderne coscienza, così da poter trovare soluzioni locali e adeguate a perseguire uno sviluppo positivo dalla risoluzione del problema stesso, “operando pubblicamente in tutte le diverse forme che possono venir suggerite dalle circostanze, dalla propria coscienza e dalla necessità: valendosi delle leggi buone quando esistono e contribuendo a realizzarne di nuove quando sono insufficienti.” (Danilo Dolci, 1968, pag 20). L’operato di Dolci in questi anni, può essere definito di ricerca/azione, ricerca delle reali condizioni del territorio, delle possibili soluzioni ai problemi evidenziati e di azione, fatta di inchieste e proteste, denunce pubbliche e richieste di aiuto alle amministrazioni competenti. Particolare rilievo ebbero nel campo dell’azione di Dolci, gli scioperi collettivi per la mancanza di lavoro, gli “scioperi alla rovescia”, nati dall’idea che se non si ha un lavoro

non ci si può astenere per sciopero, ma è possibile lavorare come forma di protesta. Uno degli scioperi alla rovescia con più impatto mediatico tra quelli organizzati e guidati da Dolci, fu lo sciopero del 1956 in cui un gruppo di braccianti disoccupati si riunirono per sistemare una vecchia trazzera di Partinico che versava in pessime condizioni. A seguito di tale siopero Dolci venne arrestato e processato (Centro di Sviluppo Creativo Danilo Dolci, feb 2, 2015). In una seconda fase, Dolci si circonda di un gruppo di volontari tra cui assistenti sociali, agronomi ed educatori, tramite diversi centri studi nel territorio, a Partinico, Corleone, Roccamena e Menfi, intraprende un lavoro maieutico di individuazione dei punti chiavi per intervenire sul territorio. L’esito di questo decennale movimento dal basso contro la povertà, il disagio, il sistema mafioso e i soprusi, delle lotte per ottenere delle migliori condizioni di vita, un accesso all’istruzione, la legalità e soprattutto la possibilità di decidere le sorti del proprio territorio (Badami; Picone; Schilleci, 2008) è la realizzazione di 25 piani di sviluppo comunali e un piano di sviluppo democratico che in-

teressa tutto il territorio della Sicilia occidentale, coinvolgendo in particolare tre corsi d’acqua, il Belice, il Carboj e lo Jato (Centro di Sviluppo Creativo Danilo Dolci, feb 27, 2015). Il piano si occupa in particolar modo di interventi finalizzati allo sviluppo agricolo, essendo il primo settore di occupazione lavorativa. Questo intenso momento di Pianificazione Territoriale locale, vede impegnati i comitati cittadini e le Amministrazioni comunali, insieme con i tecnici dei Centri Studi; inoltre si instaura una continua collaborazione tra i Comuni, che si riuniscono in assemblee intercomunali (Badami; Picone; Schilleci, 2008). Si avvia dunque un’esperienza di Pianificazione partecipata, sostenuta tramite l’individuazione e la formazione di pianificatori comunali e zonali a cui viene dedicato un intenso periodo di formazione, attraverso seminari intesivi tenuti dai docenti delle Facoltà di Architettura, Economia e Agraria dell’Università di Palermo. L’obiettivo principale è formare tecnici locali ed incentivare una lettura del territorio più vicina possibile alla visione della comunità locale, come afferma Lorenzo Barbera infatti:


NOME CENTRO URBANO

ORIGINE

DANNI %

POP 1961

EMIGRATI

MORTI

CALATAFIMI

Araba-Sviluppo Medievale

< 40

10775

2287

1

CAMPOREALE

Fondazione 1779

< 40

6093

827

-

CONTESSA ENTELLINA

Fondazione Arbëreshë 1450

41

2669

462

-

GIBELLINA

Araba- Sviluppo XIV sec

> 90

6410

1545

92

MENFI

Araba- Restauro 1638

< 40

12492

-

-

MONTEVAGO

Fondazione 1640

> 90

3008

-

86

PARTANNA

Araba- Sviluppo Medievale

60

13011

1656

14

POGGIOREALE

Fondazione 1642

> 90

2698

772

14

SALAPARUTA

Araba- Restauro XIV sec

> 90

2943

895

14

SALEMI

Araba- Sviluppo Medievale

48

15364

2324

2

SAMBUCA DI SICILIA

Araba- Sviluppo Medievale

< 40

7679

450

-

SANTA MARGHERITA BELICE

Araba- Restauro XVI-XVII sec

94

7811

-

12

SANTA NINFA

Fondazione 1605

87

5826

486

12

VITA

Fondazione XVII sec

< 40

3748

875

2

Tab. 1 La tabella riassume i dati sull’origine del centro urbano, sulla sua popolazione al 1968 (Fonte ISTAT) e sull’impatto del terremoto, danni, emigrati e morti.

“Se la conoscenza è solo una azione di tecnici non avrà nessun utile ricaduta sul territorio; se, invece, lo stesso territorio sarà letto, conosciuto e padroneggiato con gli occhi e l’intelligenza della gente che ci ha vissuto e ci vivrà, la conoscenza diverrà gravida di programmi e di progetti che diventeranno vita.” (Badami; Picone; Schilleci, 2008). Il Terremoto del 1968 e le proposte di ricostruzione dal basso “Io ricordo le macerie, il fango, l’oscurità, il battere della pioggia sulle tende, la febbre che era negli occhi dei sopravvissuti …” (Leonardo Sciascia, Gibellina, 15 Gennaio 1988) Nel Gennaio del 1968, ha inizio una sequenza sismica di lunga durata che coinvolge una vastissima area della Sicilia Occidentale, ricadente nelle Province di Palermo, Trapani e Agrigento, una zona “ritenuta non sismica dalle conoscenze scientifiche del tempo” (INGV Terremoti). A seguito delle scosse la distruzione è ampia e dai confini incerti e senza dubbio estesissimi, le fonti concordano sulla distruzione totale di Gibellina, Salaparuta, Montevago,

mentre per gli altri dettagli riguardanti danni e percentuali di distruzione, le voci sono molteplici e a volte contrastanti. Un elenco variabile di centri urbani viene indicato nell’evoluzione della legislazione statale per la ricostruzione, secondo quanto dichiarato dall’Istituto per lo Sviluppo dell’Edilizia Sociale (ISES) il terremoto ha interessato una vasta zona comprendente cinquantadue comuni, per una popolazione complessiva del 40% della popolazione, circa 100.000 abitanti (ISES, 1972). Nei territori dell’epicentro inoltre, si hanno frane e spaccature nel terreno che causano il collasso della rete infrastrutturale, viene interrotta la rete elettrica e le linee ferroviarie, la Castelvetrano - Alcamo e la Castelvetrano-Salaparuta dove crolla una galleria al km 29, crolla il ponte della strada da Salemi verso Agrigento e di connessione tra le aree colpite e Sciacca, rendendo l’intera area isolata e rendendo dunque difficoltoso anche l’arrivo dei soccorsi per almeno due giorni (Parrinello, 2015). Le strade principali erano dunque inutilizzabili, mentre la rete stradale minore che già versava in condizioni fatiscenti, spesso in

terra battuta era tra l’altro resa inagibile dalle condizioni meteo straordinarie dell’inverno del 1968 nel quale si sono susseguite piogge e nevicate. I soccorsi e il primo intervento tardarono dunque per una serie di concause, ma il fattore principale fu comunque la mancanza di un piano di intervento e le sovrapposizioni delle competenze e i conflitti tra il governo nazionale e regionale. I comuni maggiormente colpiti, con maggiore percentuale di crolli e che sono stati successivamente oggetto della ricostruzione, sono complessivamente quattordici; di questi centri urbani di medie e piccole dimensioni, al censimento dell’ISTAT del 1961 solo quattro presentavano una popolazione di oltre 10.000 abitanti. “Ogni centro urbano, dialogando con il paesaggio e integrandosi con la conformazione del suolo, possedeva una propria identità, che ne comunicava le origini, i processi di trasformazione, il ruolo economico, la composizione sociale degli abitanti e le loro relazioni.” (Cannarozzo, 2009). I centri colpiti avevano dunque ognuno una loro peculiarità con dei tratti comuni, un impianto urbano con strade tortuose e pochi assi principali, piaz-

ze e slarghi su cui sorgevano le chiese o gli edifici pubblici, che rappresentavano i punti di riferimento della vita di relazione delle comunità (Cannarozzo, 2009), isolati residenziali di dimensione variabile con abitazioni modeste su due piani. La distruzione causata dalla sequenza sismica fu devastante, diverse le vittime e ampie le perdite di popolazione anche dovute all’immediata immigrazione post-sisma, perdite rilevanti di patrimonio territoriale ed edilizio, che in molti casi ha significato l’abbandono e la demolizione di intere porzioni o della totalità dei centri abitati; dovuti a scelte connesse alle modalità di ricostruzione messe in atto dallo Stato con il beneplacito della Regione. La comunità locale viene infatti completamente esclusa dai processi decisionali riguardanti la ricostruzione, nonostante sia composta da “soggetti consapevoli e portatori di precise richieste nei confronti delle autorità: un programma di edilizia pubblica antisismica, un piano di interventi per lo sviluppo agricolo e industriale e la partecipazione delle comunità locali alla ricostruzione” (Parrinel47 lo, 2015).


Argomenti questi già contenuti e precedentemente tradotti nel Piano di Sviluppo Democratico derivato dal processo Dolci. Al momento del post-terremoto infatti, la comunità locale, dopo circa un decennio di studi e ricerche, aveva elaborato un piano di sviluppo, che con le opportune modifiche in relazione allo stato di emergenza e la necessità di una ricostruzione venne convertito e proposto come piano di ricostruzione e sviluppo democratico, piano che lega al suo interno aspetti di pianificazione agraria, Industriale, Economica e Urbanistica. Il Piano di Sviluppo Democratico, non ha come obiettivo esclusivamente la ricostruzione, ma si pone gli obiettivi della piena occupazione, l’aumento dei redditi e uno più alto tenore di vita. Quello che viene immaginato per le aree del Belìce, del Carboj e dello Jato, è un nuovo modello di territorio, una città-territorio dedita, visto la vocazione agricola, all’industria dell’agricoltura, fruita da un’ampia rete infrastrutturale che completa e definisce l’assetto territoriale della Sicilia Occidentale. Il ruolo della pianificazione territoriale/urbanistica è all’interno del piano democratico di sviluppo, quello di coordinare gli aspetti del piano di sviluppo agricolo-economico e di occuparsi della spazializzazione e del riferimento territoriale di ogni intervento; della pianificazione delle infrastrutture di mobilità, nonché della pianificazione e progettazione della ricostruzione dei centri urbani distrutti e danneggiati dal terremoto. Infatti è convinzione dei redattori del piano che la programmazione agricolo-economica non possa essere razionalizzata sul terreno a posteriori, bensì le due discipline, urbanistica ed economia, debbano lavorare insieme in maniera dialettica, in quanto un piano economico non può prescindere dalle dimensioni spazia-

li che devono essere organicamente collegate con il disegno del territorio. Per quanto riguarda gli aspetti prettamente urbani si punta ad una ricostruzione dei centri distrutti, che dovrà avvenire come ripristino dei preesistenti con regole di costruzione antisismica, rispettando il dimensionamento degli standard edilizi abitativi e urbanistici ma con l’obiettivo di puntare sulla qualità e sull’articolazione del linguaggio espressivo, in modo da raggiungere un’alta qualità urbana complessiva e superare il concetto di zooning funzionale. Il piano si basa sulla comprensione del funzionamento del sistema insediativo precedente, considerandone tutti gli aspetti, e di una ristrutturazione di quest’ultimo basandosi sulle previsioni di sviluppo economico e sociale. Il piano contiene dunque sia le indicazioni per la ricostruzione che per lo sviluppo agricolo-economico e tiene conto anche di altri aspetti territoriali, come il rimboschimento delle aree non coltivabili, la valorizzazione delle aree e centri di interesse storico, architettonico e naturalistico-paesaggistico, in modo da valorizzare il territorio nel suo complesso. Il piano democratico, se pure fermamente proposto dalla comunità locale, viene completamente escluso dalla ricostruzione, che seguirà logiche derivanti da decisioni endogene e perlopiù estranee al territorio e ai suoi caratteri intrinseci. La Ricostruzione di Stato, tentativi di industrializzazione di un territorio agricolo Pochi giorni dopo il terremoto sia la Regione che lo Stato iniziano a legiferare sulla ricostruzione, la Regione introduce due strumenti di propria competenza per la ricostruzione, il Piano Comprensoriale, che con le caratteristiche di un PRG tradizionale avrebbe dovuto abbracciare i terri-

tori di diversi Comuni e il Piano di Coordinamento territoriale n°8, che doveva programmare la ristrutturazione territoriale e lo sviluppo economico per l’intero territorio della Sicilia Occidentale coordinando tutta la ricostruzione (Parrinello, 2015). Lo stato, dal canto suo, si riferisce ad un’interpretazione centralistica del sistema degli interventi e degli aiuti, definiti a totale competenza del Ministero dei Lavori. Sia il Ministero che la Regione, affidano i piani di loro competenza all’ISES (Istituto per lo Sviluppo dell’Edilizia Sociale), così la ricostruzione ha avvio in maniera del tutto centralizzata e tra l’altro incompleta dopo che la Regione rinuncia al potere gerarchico sulla ricostruzione del piano comprensoriale. Con l’assenza di indicazioni di gerarchia superiore e con strumenti totalmente prodotti e gestiti dall’ISES, il piano di trasferimento di fatto diviene l’unico strumento attuato. Il trasferimento totale o parziale vengono decisi dall’ISES così come vengono stabilite le aree più o meno adatte alla costruzione del nuovo abitato (Cannarozzo, 2008). L’operazione di ricostruzione definita dallo stesso ISES (1972) “un esperimento”, ha l’obiettivo principale di uno sviluppo economico e sociale per il quale l’assetto del territorio prima del terremoto è ritenuto del tutto inidoneo (ISES, 1972). Viene così giustificato il piano di assetto territoriale che è di fatto un progetto di strade veloci e autostrade che consentano uno sviluppo del terziario e delle localizzazioni industriali (Renna; De Bonis; Gangemi, 1979). Secondo l’ISES è altresì necessario, eliminare ogni forma corrispondente al tradizionale vicinato, a tal proposito il centro urbano deve comporsi di una o più aree dedicate ai servizi pubblici, collegate tra loro e alle aree residenziali da percorsi pedonali.

Ogni centro urbano avrà dunque una viabilità pedonale e un secondo scheletro rappresentato dalla viabilità carrabile separata dalla pedonale in modo da connetterlo alle grandi infrastrutture territoriali (ISES, 1972). Per la realizzazione di ogni nuovo centro urbano da parte dei vari progettisti, vengono individuati e progettati dei moduli da ricomporre, che vengono considerati lo strumento di progettazione. Le “uniche differenze tra un paese e l’altro sono affidate al diverso disegno di piano, alle architetture degli edifici collettivi e pubblici” (Renna; De Bonis; Gangemi, 1979). La realizzazione dei centri urbani avviene dal 1969 al 1976, periodo nel quale vengono realizzati “enormi plastici a scala 1:1, con strade carrabili e pedonali asfaltate; il disegno dei marciapiedi, dei parcheggi, della segnaletica orizzontale e gli impianti di rete, l’unica tridimensionalità rappresentata dai cartelli stradali e dai lampioni, le cabine elettriche e qualche schiera di case disabitate” (Aprile, 2009). Una volta consegnate le nuove urbanizzazioni ai Comuni, sono le amministrazioni comunali e la popolazione a continuare la realizzazione del centro urbano; le amministrazioni si occupano da una parte di assegnare i lotti da edificare ai cittadini e dall’altra della realizzazione degli edifici pubblici. In diversi comuni si diffonde l’idea di Ludovico Corrao a Gibellina Nuova, di puntare sulla costruzione di architetture contemporanee di grandi nomi dell’architettura, con l’obiettivo di creare una nuova identità e di riempire i vuoti pubblici dell’impostazione urbana. I progetti e le realizzazioni derivanti da queste iniziative, danno vita a diverse esperienze e interpretazioni che non hanno però un coordinamento nel territorio, ma vengono gestite perlopiù a livello comunale se non del singolo progetto.


ORGANIGRAMMA DEI PIANI DELLA RICOSTRUZIONE COMPETENZA

REGIONE

NOME DEL PIANO

PIANO DI COORDINAMENTO TERRITORIALE

AFFIDAMENTO DEI LAVORI

ISES

STATO

PIANO COMPRENSORIALE

DP reg. 147/1968

LR 1/1968 LR 28/1969

Il piano si propone di coordinare la pianificazione definendo inoltre un programma di ristrutturazione territoriale e sviluppo economico per l’intero territorio della Sicilia Occidentale

Piano Regolatore Generale Intercomunale

PIANO DI TRASFERIMENTO

PROGRAMMA DI FABBRICAZIONE

ISES

ISES

LEGGI DI RIFERIMENTO

DESCRIZIONE

COMUNI

Piano e Progetto dei nuovi centri urbani trasferiti totalmente o parzialmente

PIANO PARTICOLAREGGIATO

L. 1150/1942 L. 756/1967 L. 47/1985 L. 71/1978

LR 6/1972

Allegato al Piano di Trasferimento, definisce spazialmente le previsioni del Regolamento Edilizio

Piano di ricostruzione e risanamento del centro storico colpito dal terremoto

Tab. 2 Organigramma dei Piani introdotti per la ricostruzione dallo Stato e dalla Regione.

Dunque i prodotti di questi lavori sono essenzialmente dovuti all’interpretazione del singolo progettista coinvolto. Ciò che ne risulta è un “segmentato distretto urbano di fabbriche e di spazi d’uso collettivo disomogenei” in cui si evince una “latitanza di frequentazioni umane” (Nobile; Sutera, 2012). Non si è riusciti ad assegnare nuove valenze ai diversi ambienti urbani, … pur mirando con consapevolezza alla qualificazione dei contesti, a prescindere dal valore delle architetture, queste non riescono a fare rete (Nobile; Sutera, 2012), rimanendo isolati nella loro autoreferenzialità. Inoltre si è avuto nella maggior parte dei casi una pessima esecuzione dei lavori, quando questi sono stati ultimati, non pochi i casi in cui l’esecuzione del progetto non è andata oltre la costruzione dello scheletro. Il Territorio Oggi La ricostruzione, distaccandosi totalmente dalle linee strategiche per lo sviluppo elaborate dalla comunità locale, ha significato un totale ribaltamento del sistema territoriale e insediativo, nonché dell’architettura dei centri urbani, che inevitabilmente si ripercuote sulla vita della comunità. La struttura insediativa della Valle del Belìce si compone di gran-

di infrastrutture che la connettono in alcuni punti con i maggiori centri della costa, e di una minuta rete infrastrutturale, poco curata, che connette i centri urbani tra loro. I centri urbani, nodi del sistema, presentano anch’essi caratteristiche derivate dalla ricostruzione, in prima analisi si distinguono in nuovi centri urbani derivati dai piani di trasferimento totale e centri urbani ricostruiti totalmente o in parte, con annesso una nuova porzione di centro urbano, spesso distante dal nucleo principale, derivato dai piani di trasferimento parziale. La rete delle infrastrutture per la mobilità territoriale, se da una parte è rappresentata dalla presenza delle grandi arterie ereditate dalla ricostruzione, in particolare l’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, dall’altra presenta delle rilevanti carenze nelle infrastrutture minori. Molti dei collegamenti sono spesso interrotti da frane e dissesti, continui i lavori di manutenzione, che però mancano di unacoordinamento a livello territoriale e dunque poco efficaci. La mobilità interna ne risulta irrimediabilmente difficoltosa e il territorio in uno stato di isolamento. I centri urbani d’altro canto si pongono come delle aree urbanizzate con degli immensi e inutilizzati vuoti, delle architetture contempo-

ranee firmate, mastodontiche, inutilizzate e spesso incomplete. Oggi i Comuni del Belìce hanno due tipi di problematiche differenti, i centri urbani totalmente trasferiti, come Gibellina, Poggioreale, Salaparuta e Montevago, si ritrovano a dover gestire un centro di grande estensione nel quale si trovano edifici residenziali e pubblici di proprietà comunale, strade, giardini a cui dedicare manutenzioni continue, mentre gli abitanti continuano a diminuire. Mentre i centri urbani che sono stati trasferiti parzialmente, si ritrovano oggi con due nuclei insediativi, quello storico e quello della ricostruzione che presenta le stesse caratteristiche dei centri urbani totalmente trasferiti. La particolarità di questi centri è il patrimonio edilizio di proprietà comunale, derivato dalla ricostruzione. Dopo il terremoto infatti, gli abitanti rimasti senza casa hanno avuto due possibilità, accedere ai fondi per ricostruire il proprio edificio o costruire un nuovo edificio nel nuovo nucleo urbano in cambio della cessione al comune del proprio edificio, opzione ovviamente più utilizzata. L’aspetto complessivo in tutto il territorio è quello dell’abbandono, sono infatti rilevanti le quantità di abitazioni non occupate, tra quelle nei centri antichi, più o meno danneggiate,

e quelle nei nuovi centri, costruite e mai abitate. La maggior parte delle case sono vuote, mentre il costo di mantenimento delle urbanizzazioni è molto elevato rispetto al numero effettivo degli utenti” (Gangemi, 2011). Un altro aspetto fondamentale da considerare è la pianificazione comunale, che viene definita dall’ultimo Rapporto sul territorio INU, in una “condizione di lenta agonia”. Gli strumenti di pianificazione comunale non risultano aggiornati, o del tutto assenti, situazione che può essere imputata alle effettive difficoltà economiche in cui versano i bilanci comunali, ma questo stallo pianificatorio che si ripercuote negativamente sul territorio (Gallitano; Lotta; Picone; Schilleci, 2017). Una diversa prospettiva si evince analizzando gli strumenti di programmazione, che delineano la tendenza ad un diverso approccio allo sviluppo locale. “Dalla fine degli anni ’90 e in modo più sistemico dagli anni 2000, numerosi partner pubblici e privati stanno sperimentando forme di coordinamento e concertazione attraverso strumenti di programmazione” (Gallitano; Lotta; Picone; Schilleci, 2017), patti territoriali, partecipazione a programmi europei Leader, e Leader Plus, a 49 PRUSST e a Piani Strate-


gici e anche di altre forme di coordinamento e della istituzione di Unioni dei Comuni (Cannarozzo, 2009). Questi strumenti sono finalizzati a favorire lo sviluppo del territorio, facendo leva sulle proprie risorse e aumentare dunque occupazione e qualità della vita. Conclusioni Considerando il territorio come risultante dei processi di territorializzazione, quest’ultimo rappresenta un patrimonio collettivo di luoghi dotati di una identità peculiare. La conoscenza e la coscienza di questi luoghi e dell’identità da parte della comunità locale ha un ruolo rilevante nella riappropriazione del potere decisionale sul territorio. Una comunità locale con una identità consapevole infatti è nelle condizioni di immaginare e perseguire, attraverso un lavoro di comunità nell’interesse del bene comune, uno sviluppo auto-sostenibile. Per ragioni che si legano in particolar modo all’evento sismico, ma anche alla conseguente rico-

struzione, la comunità locale belicina, ha costruito come generalmente accade, una nuova immagine del territorio, ovvero una nuova identificazione della Valle del Belìce, dove i confini geografici della valle mutano in quella che costituisce l’identificazione della società locale. Dal’altra parte è necessario considerare che l’eredità della ricostruzione, con la sovrapposizione di una nuova struttura territoriale e nuovi centri urbani con caratteristiche esogene, rappresenta un’importante limite alla realizzazione di un nuovo processo di riterritorializzazione, ma non è l’unica. È infatti una concausa di diverse problematiche correlate all’attuale gestione del territorio e a problemi strutturali con radici profonde, non solo di origine locale, tra i quali la mancata incentivazione e la complessa burocrazia e dispendiosità che accompagna la redazione di piani urbanistici comunali nella Regione siciliana. L’assenza di una struttura pianificatoria definita e la mancanza di aggiornamento dei piani urba-

nistici dei Comuni, evidenzia le difficoltà da parte delle amministrazioni comunali nella redazione degli stessi, ma sottolinea anche una mancata fiducia negli strumenti ordinari di gestione del territorio. La tendenza in atto rappresenta però anche la volontà di cooperazione che si evince nell’uso di strumenti di programmazione che hanno l’obbiettivo di favorire uno sviluppo locale, ma che si realizza in una sovrapposizione di reti tra attori pubblici e privati. Quello che si evince chiaramente è la mancanza di una strategia comune e condivisa che possa porsi come linea guida per ogni azione futura sul territorio. La necessità è dunque quella di effettuare un processo di profonda analisi e interpretazione, in modo da individuare ed esplicitare tutti gli elementi che compongono il patrimonio territoriale e lo statuto dei luoghi della valle del Belìce; così da definire in maniera condivisa e coerente uno scenario strategico che possa guidare uno sviluppo auto-sostenibile.


Note

Bibliografia

1 Figura diffusa in Sicilia nel XIX sec e nel primo cinquantennio del XX sec. Affittuario dei latifondi, tramite contratto chiamato Gabella. Gestisce la proprietà e ne subaffitta alcune sue parti. 2 Con il termine trazzera (sinonimo di tratturo), si intendono tutte le vie e le strade extraurbane, a cui viene aggiunto nel XIX sec la denominazione di regia, ovvero la via pubblica proprietà del Demanio Regio. Sono percorsi in terra battuta di dimensione variabile, che collegavano tra loro i centri urbani, rappresentando il tipo di collegamento stradale della Sicilia fino alla costruzione delle strade carrozzabili a partire al 1779 e delle Strade Statali del XX sec.

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51



Per una analisi della qualità della città e dei territori. Modelli ed esperienze


Fig.1 Tranquillity Map della regione Toscana.


La ‘Tranquillity Map’ della regione Toscana: uno strumento per la valutazione della qualità dei luoghi

Giulio Donati Sarti

La tranquillità Cosa è la tranquillità La tranquillità è uno stato d’animo soggettivo che attinge a un vasto numero di input sensoriali ed esperienziali e per questo risulta molto difficile da studiare (Jackson et al., 2008). Viene definita come uno stato di pace, di quiete che si percepisce quando non si hanno disturbi esterni (Jones, 2012). Un territorio si può quindi definire tranquillo quando ci consente di allontanarci dalla vita di tutti i giorni, fornendo un gradevole livello di input sensoriale che non implichi uno sforzo cognitivo se non quello di separarci da uno spazio mentale sovraffollato. Nonostante questo stato sia un’esperienza profondamente complessa e personale, ci sono dei luoghi in cui è più probabile che le persone provino una sensazione di tranquillità. Esiste, infatti, una correlazione tra la presenza di elementi naturali e lo stato di calma, di quiete e quindi di tranquillità (Davis, 2004). Risulta necessario effettuare una prima distinzione fra tranquillità assoluta e tranquillità relativa. Ci avviciniamo alla prima osservando, ad esempio, l’alba dalla vetta di una montagna, senza che nessun fattore, di alcun tipo, possa disturbare il nostro stato mentale. Parliamo, invece, di tranquillità relativa quando riusciamo a godere dei benefici del-

la tranquillità anche se in presenza di fattori di disturbo (McKenzie, 2017). In tutti gli studi successivi relativi alla mappatura della tranquillità sì è fatto riferimento alla tranquillità relativa. Le aree “relativamente tranquille” sono quelle che ottengono punteggi più alti per i fattori positivi e quelli più bassi per quelli negativi, quindi sono quelle dove le persone hanno più probabilità di provare un senso di “tranquillità”; intesa come possibilità di rilassarsi, raggiungere l’equilibrio mentale e diminuire lo stress. L’importanza della tranquillità nel governo del territorio Numerosi studi psicologici (Kaplan 1977, Davis 2004) hanno dimostrato come la tranquillità aumenta la possibilità di vivere una vita felice e per questo risulta indispensabile tutelarla e proteggerla proprio come la biodiversità, la qualità dell’aria, ecc. Essa infatti è continuamente minacciata dalle opere antropiche le quali modificano il paesaggio visivo e sonoro di aree estese. Gli aspetti qualitativi del paesaggio, tuttavia, essendo più difficili da misurare, risultano molto spesso trascurati rispetto ad altri indicatori ambientali che si basano su attributi tangibili; come la qualità dell’acqua, il consumo del suolo ecc.

Nel Regno Unito sono state svolte alcune ricerche con l’intento di definire un metodo per analizzare la tranquillità. All’interno del Government’s Regional Planning Guidace per il Nord Est dell’Inghilterra (2002 p. 50-51) la tranquillità è definita come un importante carattere della campagna e i piani di sviluppo, o qualunque altra strategia di intervento, devono mantenerla e incrementarla attraverso variazioni dell’uso del suolo, dell’organizzazione dei trasporti e del traffico. La tranquillità è intesa quindi come una condizione che crea benefici ad un’area, alle persone che la abitano1 e per questo va preservata ed estesa. Oltre agli effetti sul benessere psicofisico la tranquillità ha anche effetti importanti sull’economia del territorio. Il territorio rurale con i suoi paesaggi, lo spazio aperto e la tranquillità che emana rappresenta un’enorme risorsa ricreativa e il persistente uso del termine ‘tranquillità’ per la promozione turistica nelle aree rurali ne è la prova. Sempre più persone scelgono il turismo rurale con lo scopo di allontanarsi dalla routine giornaliera, e anche se risulta difficile quantificare i benefici monetari prodotti dagli spazi tranquilli è evidente la risorsa economica apportata dai turisti nelle aree rurali.

Corso di Laurea Triennale in Pianificazione della città, del territorio e del paesaggio Relatore: Prof. Fabio Lucchesi

Co-relatore: Fabio Nardini Aprile 2018

55


FATTORI ANALIZZABILI SENSO STIMOLATO

POSITIVI

NEGATIVI

VISTA (Visibilità…)

di ampi spazi di aree naturali dei boschi dei corsi d’acqua dei laghi del mare delle stelle

delle strade delle ferrovie delle aree industriali delle città degli aeroporti dei porti delle discariche delle aree estrattive del bagliore notturno

UDITO (Sentire…)

i suoni della natura il mare

il rumore urbano le attività industriali le macchine i treni gli aerei

Tab.1 Fattori analizzabili

Modello di riferimento per la sperimentazione applicata Struttura del modello Per realizzare la ‘Tranquillity Map’ relativa alla regione Toscana sono stati scelti numerosi fattori (oggetti e attività) considerati decisivi nella determinazione dello stato di tranquillità a scala regionale; dividendoli tra quelli che influiscono positivamente e quelli che influiscono negativamente sullo stato. Per facilitare la modellizzazione, i fattori, sono stati divisi tra: quelli che condizionano la tranquillità attraverso lo stimolo del senso della vista e quelli che la condizionano attraverso il senso dell’udito. Gli elementi da inserire nella valutazione della tranquillità a scala regionale sono numerosi e in alcuni casi difficili da determinare. Per questo motivo sono stati inseriti nell’analisi i soli fattori aventi informazioni sufficientemente omogenee per l’intero territorio regionale. Le informazioni georeferenziate riferite agli elementi territoriali (naturali e antropici) che entrano in gioco nella determinazione dello stato di tranquillità sono state estratte principalmente da tre banche dati riferite al territorio regionale e messe a disposizione gratuitamente da Regione Toscana:

• Cartografia Tecnica Regionale con livello di dettaglio 1:10.000 (ctr10k); • Uso e Copertura del Suolo della regione Toscana al 2013 (UCS) con livello di dettaglio 1:10.000; • DataBase Topografico Multiscala (DBT) con scala di dettaglio variabile da 1:2.000 (per le aree più urbanizzate e ritenute rilevanti a tale dettaglio) a 1:10.000. Una volta raccolte le informazioni disponibili relative al territorio regionale della Toscana sono stati selezionati i fattori che è possibile analizzare (Tab.1). Alcuni fattori sono stati divisi in sotto categorie poiché rappresentano elementi molto presenti sul territorio e risulta quindi necessario suddividerli per ponderare l’influenza che hanno sullo stato di tranquillità. Successivamente sono state scelte le tecniche di analisi da usare per configurare l’impatto dei fattori sulla tranquillità in base al senso stimolato. Gli elementi che influiscono sullo stato attraverso la vista sono analizzati tramite il modello della visibilità, mentre gli elementi che determinano la tranquillità attraverso l’udito sono studiati con il modello di propagazione del rumore. Vedere la tranquillità L’analisi della visibilità è uno strumento usato per conoscere, già dal-

la progettazione preliminare, come gli oggetti di progetto (un impianto eolico, un’infrastruttura ecc.) saranno visibili all’interno del territorio circostante o per analizzare ciò che è visibile da un belvedere (Fabrizio e Garnero, 2012). Più precisamente si parla di intervisibilità dato che se da un punto A si può vedere il punto B sarà possibile anche la relazione inversa. Si individuano quindi le “linee di vista” che partono dal punto preso in esame e raggiungono il suolo attraverso lo strumento GIS viewshed. L’analisi dell’intervisibilità può essere realizzata in modo parziale o generalizzato. Nel primo caso si simulano i bacini visivi di una serie di punti localizzati nel territorio mentre nell’analisi di tipo generalizzata o assoluta si prende in esame l’intero territorio interessato e si studiano le intrusioni visive delle singole porzioni di territorio; si misura cioè la “vulnerabilità visiva potenziale” di ciascun punto del suolo (Moretti e Lucchesi, 2014). In questo studio sono stati utilizzati entrambi i metodi in base ai fattori da valutare. Per determinare gli effetti di “ciò che si può vedere” sullo stato di tranquillità sono stati usati tre criteri diversi, a seconda del tipo di fattore e alla disponibilità dei dati: • visibilità con ponderazione in base alla distanza;

• visibilità notturna; • ampiezza di veduta. Visibilità con ponderazione in base alla distanza I fattori studiati tramite questo metodo vengono ponderati in base alla distanza a cui si trovano rispetto all’osservatore, in modo che l’impatto visivo degli elementi vicini sia maggiore. Per fare questa analisi sono state usate le tre fasce di visibilità adoperate per la realizzazione della carta dell’intervisibilità teorica allegata al Piano Paesaggistico della regione Toscana: • vista di dettaglio: 0 - 500 m in cui sono distinguibili i profili e le caratteristiche dei singoli componenti della scena; • vista di struttura: 500 - 5.000 m in cui è avvertibile la struttura paesaggistica e gli elementi singoli rispetto allo sfondo; • vista di sfondo: 5.000 – 12.000 m in cui si distinguono i profili, le sagome delle grandi masse e gli skyline territoriali. Per rendere più precisa l’analisi della visibilità sono state aggiunte al modello digitale del terreno le barriere: vegetali (boschi) e antropiche (edifici). La visibilità di un fattore in una determinata fascia visiva determina l’impatto che questo produce sul-


ELEMENTI

5.000 – 12.000 m

10

7

4

Fiumi Torrenti Laghi < 20 ha di superficie Aree naturali < 20 ha di superficie Aree urbane < 5.000 residenti Autostrade e superstrade Strade statali e provinciali Linee non elettrificate Linee elettrificate Aree industriali Aeroporti Porti Discariche Aree estrattive

10

7

4

Tab.2/3 Valori di ponderazione dei fattori positivi/negativi in base alla distanza dal punto di osservazione

la tranquillità, e quindi a ciascuna vista è stato associato un peso. Per fare una ponderazione maggiormente veritiera, sono stati divisi gli elementi territoriali più visibili (in base alle loro dimensioni) da quelli meno visibili (Tab.2). La scala usata va da 10 (forte impatto visivo) a 0 (impatto visivo nullo). Gli elementi territoriali più visibili mantengono una discreta importanza anche quando rientrano nei bacini visivi più lontani (vista di sfondo). Mentre quelli meno visibili hanno un ruolo nullo nelle viste di sfondo. I viewshed finali rappresentano la frequenza con cui da ciascuna porzione di territorio regionale (200 m x 200 m) si può vedere l’elemento analizzato. Un valore alto può essere generato da condizioni differenti: • nel bacino visivo della porzione di territorio entra molto frequentemente l’elemento analizzato; • nel bacino visivo della porzione di territorio entra meno frequentemente l’elemento analizzato, ma occupa la vista di dettaglio. Queste prime analisi della visibilità permettono di realizzare tre elaborati cartografici (fig.2): • Carta della visibilità dei fattori positivi. La quale ritrae i luoghi dai quali gli elementi territoriali considerati “positivi” sono visibili dall’occhio umano. Per rappresentare meglio

i luoghi tranquilli si è dato un punteggio di 15 all’interno di tutte le geometrie rappresentanti i fattori positivi dove l’uomo ha la possibilità di trovarsi (boschi e aree naturali). Inoltre, nel calcolo delle aree visivamente tranquille sono state aggiunte le aree rientranti nelle ultime due classi della carta dell’ampiezza di veduta (considerati luoghi dove è più facile raggiungere lo stato di tranquillità). Nella carta emerge il Monte Amiata, l’Alpe di Catenaia, il Monte Pisano, il Montalbano, alcuni crinali delle Alpi Apuane e le aree naturali (Parco Regionale della Maremma, San Rossore e Massaciuccoli, ecc.). La superficie delle aree dalle quali gli elementi considerati positivi entrano nel bacino visivo dell’osservatore è di circa 2.272.336 ha (circa il 99% della superficie regionale). • Carta della visibilità dei fattori negativi. L’elaborato rappresenta le porzioni della Toscana dalle quali gli elementi considerati avversi, in questo studio, entrano nella vista dell’osservatore. Alle aree industriali, estrattive, aeroportuali, portuali, discariche ed alle aree urbane è stato dato un punteggio di 15. Punteggio attribuito per rappresentare il massimo disturbo visivo che si ha quando ci troviamo all’in-

terno di questi luoghi. La superficie delle aree dalle quali uno o più fattori negativi entrano nel bacino visivo dell’osservatore è di circa 117.588 ha (circa il 5% della superficie regionale). • Carta di sintesi finale. Rappresenta i luoghi visivamente tranquilli, considerati quelli dai quali si possono vedere più elementi positivi con meno intrusioni visive antropiche. Per realizzare la carta delle aree visivamente tranquille della Toscana si sono sottratti i risultati, normalizzati, dei fattori visivi negativi da quelli positivi. Visibilità notturna L’inquinamento luminoso è un fenomeno che si verifica nelle regioni densamente popolate e indica lo schiarimento del cielo notturno a causa di fonti luminose artificiali che disperdono luce negli strati atmosferici (EURAC, 2014). Gli effetti provocati da un’eccessiva illuminazione possono portare numerosi danni all’uomo, alla flora e alla fauna. Tutte le specie viventi della Terra sono influenzate dall’alternarsi del giorno e della notte e l’eccesso di luce notturna può sconvolgere il ritmo fisico (ISPRA, 2011). Le due opzioni studiate attraverso il modello dell’inquinamento luminoso sono le seguenti:

• presenza dell’inquinamento luminoso; • possibilità di vedere le stelle. L’inquinamento luminoso è inteso come il bagliore del cielo e viene misurato, in modo approssimativo, in base alla popolazione e alla distanza dalle aree urbanizzate. Le aree in cui è probabile vedere le stelle durante una notte priva di nubi vengono determinate invertendo il risultato precedente. Per modellare l’inquinamento luminoso prodotto dai centri abitati si è fatto riferimento al seguente modello (Albers e Duriscoe, 2001): I = 11.300.000 x (P x R - 2,5) Dove: • I è l’inquinamento luminoso espresso in nanoLambert; • P è la popolazione della città; • R è la distanza dalla città espressa in metri. Le aree urbane sono state divise in sette classi in base alla popolazione, escludendo i centri urbani con meno di mille abitanti o le luci sparse in modo poco denso sul territorio, considerandole scarsamente impattanti a livello regionale. Per ogni classe è stato calcolato il valore medio di abitanti, poi usato nell’equazione per calcolare il bagliore del cielo. La diminuzione dell’inqui57 namento luminoso è stata

Negativi

500 – 5.000 m

Positivi

0 – 500 m

Boschi Mare Laghi > 20 ha di superficie Aree naturali > 20 ha di superficie Aree urbane > 5.000 residenti


POPOLAZIONE INTERVALLI (ABITANTI)

VALORE MEDIO

DISTANZA (METRI)

3.000

7.500

15.000

35.000

75.000

150.000

274.648

INQUINAMENTO LUMINOSO (NANOLAMBERT)

1.000 - 4.999

3.000

500

6.064

15.161

30.321

70.749

151.605

303.211

555.175

5.000 – 9.999

7.500

1.000

1.072

2.680

5.360

12.507

26.800

53.601

98.142

10.000 – 19.999

15.000

1.500

389

973

1.945

4.539

9.725

19.451

35.614

20.000 – 49.999

35.000

2.000

190

474

948

2.211

4.738

9.475

17.349

50.000 – 99.999

75.000

2.500

108

271

542

1.266

2.712

5.424

9.931

100.000 – 199.000

150.000

3.000

69

172

344

802

1.719

3.438

6.296

200.000 + (349.296 – Firenze)

274.648

3.500

47

117

234

546

1.169

2.339

4.282

4.000

34

84

168

391

838

1.675

3.067

4.500

25

62

125

291

624

1.248

2.285

5.000

19

48

96

224

479

959

1.756

5.500

15

38

76

176

378

756

1.383

6.000

12

30

61

142

304

608

1.113

6.500

10

25

50

116

249

498

911

Tab.3 Numero medio di residenti per ogni classe usata nello studio.

Tab.4 Diminuzione dell’inquinamento luminoso ogni 500 m.

calcolata ogni 500 m, in riferimento al valore medio indicato nella tabella 3. Quando il valore di luminanza scende al di sotto di 1.000 nL si suppone che di avere la possibilità di vedere le stelle. La carta dell’inquinamento luminoso della Toscana (fig.3) rappresenta i luoghi dove il bagliore notturno impedisce la vista delle stelle. Le aree più disturbate della Toscana si trovano a nord ovest (Firenze – Prato – Pistoia – Lucca – Pisa) e sul litorale tirrenico. Le aree maggiormente lontane dall’inquinamento luminoso, invece, sono situate sull’isola di Montecristo (circa 45 Km dal primo disturbo) e sull’isola di Capraia (circa 30 Km). L’area sulla penisola più lontana da disturbi visivi si trova in provincia di Grosseto, a circa 15 Km dalla prima fonte di luce.

La superficie della Toscana dalla quale la vista delle stelle è impedita dalla luce antropica è di circa 573.045 ha. Pari al 25% del territorio regionale. Ampiezza di veduta Aver la possibilità di vedere ampi spazi aperti è un fattore che contribuisce al raggiungimento dello stato di tranquillità. Tuttavia è necessario tener conto di una serie di condizioni: • guardando un’area vasta esistono maggiori probabilità di vedere oggetti che condizionano negativamente lo stato di tranquillità; • l’ampiezza della veduta è in stretta relazione dell’andamento del terreno, e non si prende in considerazione quello che è costruito o quello che cresce su esso (si parla perciò di intervisibilità teorica).

Per la valutazione dell’ampiezza di veduta (fig.4) si è realizzata un’analisi della visibilità di tipo generalizzato: i punti dai quali è stata fatta l’analisi non si riferiscono ad un fattore, ma sono generati da una griglia regolare avente passo 500 m. Si sono analizzati i bacini visivi di 91.950 punti situati all’interno della regione, impostando la visibilità massima di 12.000 m (vista di sfondo). Seguendo quanto fatto per la realizzazione della carta dell’intervisibilità teorica assoluta, contenuta nei materiali conoscitivi del Piano Paesaggistico della Toscana, è stato necessario mettere di nuovo in relazione il modello digitale del terreno con il risultato prima ottenuto. L’algoritmo scelto è il seguente: intervisibilità assoluta normalizzata * (modello digitale del terreno normalizzato)2

Con questo accorgimento si accentua il ruolo dei rilievi e viceversa si abbassa il ruolo dei lontani negli orizzonti di pianura, dando maggiore peso alla vista “dall’alto” nella determinazione dello stato di tranquillità (Moretti e Lucchesi, 2014). Sentire la tranquillità I suoni producono degli effetti sullo stato d’animo delle persone e quindi anche sulla tranquillità. Come enunciato dall’articolo 2 della Legge Quadro sull’Inquinamento Acustico 447/1995, l’inquinamento acustico è «l’introduzione di rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo e alle attività umane, pericolo per la salute, deterioramento degli ecosistemi, dei beni ma-


FREQUENZA (Hz) T (°C)

U,R,(%)

63

125

250

500

1000

2000

4000

8000

15

20

0,27

0,65

1,22

2,70

8,17

28,2

88,8

202,0

Tab.5 Coefficienti di assorbimento acustico dell’aria, espressi in dB/km, in riferimento alla norma norma ISO 9613-1.

SORGENTE DEL RUMORE

FREQUENZA MEDIA (Hz)

SORGENTE DEL RUMORE

FREQUENZA MEDIA (Hz)

ASSORBIMENTO ACUSTICO (Db/km)

ASSORBIMENTO ACUSTICO (Db/50m)

Macchine

~1.000

Autostrade, superstrade, strade statali e provinciali

1.000

8,17

0,41

Treni

~1.000

Rumore urbano

1.000

8,17

0,41

Treni

1.000

8,17

0,41

Attività industriali

1.000

8,17

0,41

Aerei

4.000

88,8

4,44

Macchinari industriali

Aerei

~1.000

~4.000

Tab.6 Frequenza media delle principali sorgenti di rumore.

teriali, dei monumenti, dell’ambiente abitativo o dell’ambiente esterno, o tale da interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi». Gli effetti vengono determinati attraverso tre metodi diversi in base al tipo di fattore e alla disponibilità dei dati: • modello acustico; • modello acustico ponderato in base alla frequenza; • modello acustico a seconda del contesto; • modello acustico derivato dalla combinazione dei datasets. La diffusione del suono prodotto da queste fonti viene modellata per l’intera regione Toscana con una risoluzione di 50 m x 50 m, non prendendo in considerazione condizioni ambientali difficilmente valutabili nel modello come: precipitazio-

Tab.7 Attenuazione di ciascuna sorgente di rumore per 1 km e ogni 50 m.

ni, direzione del vento prevalente ecc. Dati che dovrebbero essere usati qualora disponessimo di datasets accurati e dettagliati da cui attingere, per una modellizzazione della diffusione più accurata. Prima di andare nel dettaglio a studiare ciascun effetto è stato analizzato come si attenua il rumore in ambiente esterno. L’attenuazione totale è data dalla seguente formula: Atotal = Adiv + Aair + Aground + Amisc Dove: • Atotal: l’attenuazione totale; • Adiv: l’attenuazione in base alla distanza; • Aair: l’attenuazione dovuta all’assorbimento dell’aria; • Aground: l’attenuazione del suolo;

• Amisc: l’attenuazione causata da altri effetti come la riflessione delle superfici, fogliame, ecc. Ciascuna di queste variabili è stata studiata per valutare la metodologia da applicare per questo studio. Adiv: i suoni generati all’interno del campo acustico libero (assenza di superfici riflettenti o altamente assorbenti) si attenuano, con legge logaritmica, in funzione della distanza. Tale attenuazione si verifica poiché l’energia sonora si distribuisce su un fronte d’onda avente superficie che aumenta con la distanza. L’attenuazione di una sorgente sonora puntiforme (sorgente piccola rispetto alla lunghezza d’onda generata) è di 6,02 dB per ogni raddoppio di distanza. Per le sorgenti lineari (strade, ferrovie, ecc.) l’attenuazione che

si verifica è pari alla metà rispetto alle sorgenti puntuali, quindi di 3,01 dB al raddoppio della distanza. Aair: la velocità con cui l’atmosfera attenua l’energia sonora è variabile e dipende dalla frequenza del suono, dalla temperatura e dall’umidità atmosferica. Entro 250 m l’attenuazione atmosferica è insignificante (al di sotto di 1 dB), ma risulta estremamente significativa a distanze maggiori e specialmente a frequenze alte (> 2000 Hz). Sono stati raccolti i dati annuali per il 2017 della stazione meteorologica dell’aeroporto di Firenze: • temperatura media annuale: 15,6° C • umidità relativa media annuale: 20%. I coefficienti di assorbi59 mento acustico dell’area,


TIPO DI STRADA

LIMITE DI IMMISSIONE DIURNO (FASCIA A)

FATTORI

LIVELLO SONORO (dB)

ATT. TOT 50 m

DISTURBO (m)

Autostrade

70

Autostrade e superstrade

70

17,4

150

Strade extraurbane principali

70

Strade statali e provinciali

70

17,4

150

Strade extraurbane secondarie

70

Strade urbane di scorrimento

70

Sentire il rumore urbano

55

34,39

50

Strade urbane di quartiere

Definito dai Comuni Sentire le attività industriali

70

34,39

100

Strade locali

Definito dai Comuni

Tab.8 Limiti massimi di rumore secondo il sistema legislativo nazionale.

per questa combinazione di temperatura e umidità relativa, sono riportati nella tabella 5. La frequenza media prodotta dalle principali sorgenti di rumore è espressa nella tabella 6. Dal valore di attenuazione per km è stata ricavata l’attenuazione, ogni 50 m, per ciascun fattore di cui si è studiato il modello acustico (Tab.7). Aground e Amisc: l’attenuazione del rumore dovuta al suolo varia a seconda del tipo di materiale che incontra. Una superficie morbida come un prato comporta un assorbimento maggiore rispetto a superfici dure. Anche la presenza di vegetazione provoca un’attenuazione dell’energia sonora e fenomeni di diffrazione; che portano alla deformazione delle direzioni di propagazione delle onde sonore. Questi effetti non sono stati inclusi nel modello perché risulta difficile analizzarli a scala regionale e in assenza di valutazioni sito-specifiche.

Modello acustico I dati relativi ai decibel prodotti alla sorgente da ciascun fattore non sono disponibili per l’intera regione; pertanto si è scelto di adottare i limiti massimi di rumore prodotto dalle sorgenti antropiche come sono stabiliti dal sistema legislativo nazionale (Tab.8). Nella tabella 9 sono riportate le distanze entro le quali il disturbo, causato dai fattori presi in considerazione, è superiore a 25 dB (considerato il limite del rumore ambientale). Modello acustico ponderato in base alla frequenza Per i treni e gli aerei l’impatto acustico sul territorio circostante è stato ponderato in base alla frequenza temporale con cui si verifica il rumore, cioè la probabilità che una persona possa sentirlo. Per rappresentare l’effetto della frequenza è stato stimato un coefficiente che esprime il tempo nel quale si può udire il rumore nella fascia oraria diurna (06:00 – 22:00). Tale coefficiente varia tra un valore di

Tab.9 Distanza del disturbo, per ogni fattore, in base all’attenuazione.

1, quando il rumore è costante, e 0, quando il rumore non si avverte mai durante il giorno. Il rumore massimo per ciascuna fonte viene moltiplicato per il rispettivo coefficiente di frequenza temporale espressa in percentuale. Modello acustico a seconda del contesto Per i fattori studiati attraverso questo metodo non sono disponibili i valori di rumorosità alla fonte e quindi non è possibile rappresentare l’attenuazione del rumore. Per questo motivo la presenza o l’assenza dei fattori, all’interno di ogni singola cella 200 x 200 m, è usata come sistema per valutare il loro contributo nel raggiungimento della tranquillità relativa. Tramite questo criterio è stato modellizzato l’effetto del suono delle onde che si infrangono sulla terra ferma, considerato un suono che infonde un senso di tranquillità ai luoghi. La modellizzazione della possibilità di sentire il suono del mare è stata stimata a seconda della lunghez-

za della linea di costa che è presente in ogni cella. Modello acustico derivato dalla combinazione dei dataset Una volta elaborate le analisi di propagazione dei rumori è stata stimata la probabilità di sentire i suoni della natura, individuando le aree a bassa rumorosità. La probabilità di ascoltare i suoni naturali (cinguettio degli uccelli, fruscio delle foglie, ecc.) è correlata alla presenza di rumori prodotti dall’uomo. Per localizzare le aree dove è più probabile sentire i suoni dell’ambiente naturale si sono addizionate tutte le sorgenti di rumore che detraggono dallo stato di tranquillità e nelle aree dove il rumore è inferiore a 25 dB (rumore ambientale) si presume che sia possibile sentire i suoni naturali (fig.5). Combinazione dei livelli In rispetto al titolo, questa ricerca ha avuto come finalità la realizzazione di un primo modello della ‘tranquillity map’ relativa alla regione Toscana.


Fig.2 Da sinistra a destra: carta della visibilità dei fattori positivi, carta della visibilità dei fattori negativi e carta della tranquillità visiva.

Un eventuale redazione finale dell’analisi richiederebbe evidentemente la possibilità di accedere a risorse qui non utilizzate, prima fra tutte la somministrazione di sondaggi alla popolazione residente per ponderare i fattori in base alla sensibilità degli abitanti. La mappa finale è stata realizzata sommando tutti i punteggi dei fattori positivi detratti dai punteggi dei fattori negativi ed evidenzia le aree, a livello regionale, in cui una persona ha maggiore possibilità di provare un senso di tranquillità. Risultati della sperimentazione Questo studio ha interessato molti fattori (visivi e sonori) andando ad analizzare il territorio sotto diversi punti di vista. La mappa finale risulta dalla combinazione di una serie di livelli (analisi) e si propone, tramite parametri quantitativi riproducibili, come strumento di monitoraggio dei cambiamenti per una moltitudine di fattori: • estensione e intensità delle aree dove gli elementi naturali o se-

mi-naturali occupano la maggior parte del bacino visivo del fruitore; • estensione ed intensità delle aree esposte visivamente a elementi antropici; • individuazione delle porzioni di territorio dalle quali si può godere di un ampio panorama; • estensione delle aree dove l’inquinamento luminoso impedisce la visibilità delle stelle; • estensione delle aree dalle quali si possono vedere le stelle; • massima profondità dall’inquinamento luminoso notturno; • localizzazione delle aree visivamente più tranquille; • estensione delle porzioni di territorio soggette a inquinamento sonoro; • estensione del territorio dove si ha un rumore inferiore a quello ambientale e quindi maggiore opportunità di sentire i “suoni naturali”; • massima profondità dalle aree rumorose.

I numerosi studi sul tema della tranquillità svolti nel Regno Unito hanno messo in luce la tendenza alla diminuzione degli spazi tranquilli a causa dello sviluppo urbano, evidenziando la necessità di integrare, nell’ analisi dello stato del territorio, i fattori visivi con quelli uditivi, in modo da ottenere una valutazione più esaustiva. Oltre a una funzione di monitoraggio e di analisi dello stato di fatto, la mappa della tranquillità può essere uno strumento utile per la pianificazione del territorio. Alcune potenziali applicazioni potrebbero essere: • valutazione dell’impatto di un’infrastruttura che tenga conto dell’effetto cumulativo con altri fattori; spetterà poi al pianificatore decidere se optare per una diffusione o una concentrazione del disturbo visivo; • identificazione di aree dove la tranquillità assume un ruolo ritenuto fondamentale; • protezione e, nel caso, ampliamento delle aree tranquille a livello locale e regionale, attraverso

politiche sull’uso del suolo, sui trasporti e sulla gestione del traffico; • interventi di piantumazione di alberi e siepi allo scopo di mitigare il disturbo in aree ad alto rumore ambientale. In conclusione, la carta finale dello stato di tranquillità della regione Toscana (fig.1), è una sperimentazione che avrebbe bisogno di contributi di esperti di vari settori e anche della partecipazione della popolazione perché, come rilevato nella prima parte, lo stato di tranquillità dipende sì, dalla percezione soggettiva dell’individuo, ma dovrebbe tendere a rappresentare l’idea che di esso ha la collettività.

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Fig.3 Carta dell’inquinamento luminoso.


Fig.4 Carta dell’ampiezza di veduta.


Fig.5 Carta dell’inquinamento acustico.


Note

Bibliografia

1 che prendono possesso, anche temporaneamente, di uno spazio.

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Fig. 1 Uso dei piani terra di via Borghi


Interpretare la città da una strada: la biografia di viaborghi a Bibbiena come metodo di progetto

Arianna Lippi

Introduzione Il presente lavoro, tratto dalla mia tesi di laurea, propone lo studio sperimentale della biografia urbana come strumento di indagine, utile alla comprensione delle dinamiche e alla ricostruzione dei tratti essenziali dei piccoli centri abitati, ormai lontani dai flussi turistici e accerchiati da nuove polarità commerciali. Nasce da una domanda: come interpretare il lento decadimento dei nostri centri storici in epoca contemporanea (dal 1950 ad oggi), ormai avvolti dall’opacità di negozi sfitti? Cosa è cambiato e sta cambiando nei piccoli esercizi commerciali? Ho risposto con una indagine diretta sul campo applicata ad un caso studio specifico: usando il metodo della biografia applicata alla principale strada urbana, via Borghi, asse centrale dell’insediamento storico e centro commerciale naturale della Comunità. La biografia è consistita nella puntuale lettura dell’andamento delle aperture e delle chiusure degli esercizi commerciali lungo la strada, considerati come la principale spia della vitalità del centro abitato. Ogni città ruota attorno ad un nucleo, un centro di gravità che rappresenta la propria struttura identitaria, tale da diventare con il tempo il principale connotato grazie al quale riconoscere chiaramente la realtà che

si sta analizzando e con un’evidente capacità di distinguersi dal contesto. Allora, se il centro storico è inteso come custode di una propria personalità, ho individuato via Borghi come la riga per leggere e capire la città. È la strada matrice e commerciale, con la sua posizione baricentrica ha assunto nel tempo varie funzioni, diventando un corridoio, un salotto urbano, un mercato diffuso, sede di rievocazioni storiche e processioni, assumendo nel tempo lo stesso carattere dell’uomo che la ha abitata, ed è proprio questa sua malleabilità che si prefigura come elemento portante per narrare la vita e la storia del paese. La scelta di finalizzare il lavoro sulla strada sembra anche la più idonea per cogliere la specifica condizione del luogo valorizzando ciò che è particolare, strategico, locale e generativo (Pietro Giorgieri,2007). Ricostruire la sua storia in epoca contemporanea partendo dagli anni ’50 non è un esercizio facile in quanto si presentano una molteplicità di fattori tra loro interrelati, ma l’approccio biografico, come strumento metodologico, si è rivelato una forma interessante di analisi e interpretazione sulle dinamiche esterne che si sono riverberate lungo la principale strada cittadina, da sempre luogo del commercio locale.

Metodologia e applicazione La metodologia seguita per la costruzione del lavoro è orientata alla ricerca di una nuova chiave di lettura, che non si limita alla semplice analisi storica dei fatti che hanno costruito l’identità del luogo, ma si addentra ancor più profondamente nei comportamenti degli elementi che definiscono una parte della vita più importante della strada e le sue sorti: le attività commerciali. L’obiettivo dunque, si sviluppa su una riflessione dettagliata del carattere del piccolo centro urbano di Bibbiena che, nel corso degli ultimi decenni, ha assistito alla progressiva perdita dei servizi commerciali con una consistente chiusura di negozi e botteghe, un tempo capaci di animare la vita del luogo. Al contempo il lavoro si interroga su quelle che sono le cause di una crisi del commercio legato ai negozi di vicinato e sulla modificazione culturale che ha portato via via a modificare i contenitori commerciali dedicati e a farli spostare in luoghi diversi dal centro storico. L’uso della biografia come strumento di sintesi mi ha portato a fare sopralluoghi interpretando fatti e scegliendo cosa evidenziare, dialogare con gli abitanti ancora residenti, al fine di comprendere quel carattere identitario che al tempo era la pe-

Laurea Triennale in Pianificazione della città del territorio e del paesaggio Relatore: Prof. Giuseppe De Luca Co-relatori: Patricia Guerriero, Ricercatore: Carlo Pisano Settembre 2018

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culiarità del paese (Daniela Poli,1999, p.17). Ha permesso di scavare nella memoria tra i ricordi delle persone e i ricordi dei luoghi, facendo sì che il mio sguardo si direzionasse verso la creazione di un’immagine vivida di via Borghi. È un’analisi che ricerca il carattere materiale e immateriale della strada, definendone il soggetto ma a sua volta è una interpretazione attraverso l’elencazione del susseguirsi di avvenimenti – non sempre facili nella loro descrizione – così da trasformarsi anche in una occasione per comprendere meglio il rapporto tra l’oggi e il suo passato, ed una presa di coscienza del cambiamento che ad oggi sta indebolendo il centro storico. Questo mi ha portato a codificare una sorta di ‘città inversa’, cioè al disvelamento degli spazi dimenticati o in disuso: presenze ormai evidenti del numero e del modo in cui inficiano la percezione di un luogo. Codificazione come momento per individuare le tracce passate e le possibili occasioni di costruzione di un diverso presente utilizzando la tecnica della mappatura degli esercizi commerciali abbandonati (fig.1). La mappatura si è dimostrata una incredibile fonte, non solo di ricostruzione storica di una identità del luogo, quanto il racconto di ‘ferite’ e di storie ‘minute’di famiglie, relazioni, rapporti spaziali tra le parti della città storica. Ad oggi i fondi sfitti sono il risultato anche di una mancata pianificazione e programmazione settoriale, tale da generare la percezione di uno stato di difficoltà del vivere nel centro storico, ed anche una sorta di provvisorietà, perché la maggior parte dei rifornimenti di una famiglia deve avvenire fuori dal contesto urbano. La tesi così si interroga su come sia possibile elaborare politiche urbane efficaci per tentare di recuperare quei fattori perduti, come la riconoscibilità e la gestione del luogo. Se, in

maniera fantastica, tornassimo indietro nel tempo vedremmo che la via dei negozi e delle botteghe (via dei Borghi, appunto) era il cuore pulsante del centro urbano, era la strada dove si passeggiava, ma soprattutto dove si viveva. L’identità di un borgo passa attraverso la memoria delle persone che lo hanno costruito e dei fatti, grandi e piccoli, che lo hanno caratterizzato. Custodire e raccontare le microstorie delle comunità locali è fondamentale per la rivitalizzazione dei territori periferici (Daniela Poli,1999) e partire da ciò che è evidente non solo aiuta a chiarire a sé stessi gli scopi da perseguire, ma produce come risultato un miglior apprendimento di ciò che ha portato alla situazione odierna; ed è proprio attraverso questi elementi che è stata ripercorsa la storia di tutti i fondi commerciali di via Borghi. Sono stata ore nel borgo accerchiata da commercianti-ancora oggi ‘resistenti’ e abitanti, che provavano a ricordarsi quale tipologia di attività si trovasse al suo interno, e cosa vendesse il fondo adiacente; i passanti stessi si fermavo per il piacere di rievocare il passato. L’attenzione si è focalizzata sul fatto che gli stessi chiamavano per nome i negozianti. Le persone alla domanda: «Si ricorda quale attività vi fosse svolta nel fondo prima di essere sfitto?», rispondevano: «Ah sì! La Pia con la cartoleria, una donna piccola ma simpaticissima, accanto il Sarto con il negozio di abbigliamento e di fronte il Soldani con il negozio di fotografia, un omone alto ma davvero tanto bravo, il famoso gigante buono». Il negozio non lo si ricordava per le cose che vendeva ma, per la personalità che esso aveva e che gli era stata conferita dal proprietario. Questo indica un modus vivendi, per cui il comperare qualcosa lo si faceva per le sole necessità, vivendo il borgo come se fosse la propria dimora.

Chiunque rispondesse alla domanda, automaticamente veniva portato dalla mente agli anni ‘70 senza ricordarsi chi fosse venuto dopo. Sembrava quasi che la storia dei negozi del borgo fosse iniziata e finita lì. Nel momento in cui si tornava a parlare dei giorni nostri si limitavano a riconoscerli in modo distaccato, quasi come se il negoziante e il negozio stesso non fossero parte della comunità. Questo è un indicatore evidente di quanto a quei tempi fosse vissuto il centro storico, non era soltanto una strada del passeggio ma era una strada sociale, la bottega sembrava essere la prima casa del negoziante, la strada sommersa dalla tipica vivacità paesana, ma purtroppo, a sua volta si contrappone la situazione odierna in cui più nessuno si rende conto di cosa ci sia e di cosa il suo paese possa offrire. La commozione dei negozianti storici durante i loro racconti, la partecipazione condivisa e sentita degli abitanti mi riporta alla comprensione di un legame indissolubile tra la città e l’uomo, derivante oggi dalla perdita di rapporti umani come fondamento della vita stessa dell’individuo, riducendo tutto ad una logica di compravendita e ricerca di profitti e accompagnando ad una perdita di carattere nell’uomo e nel luogo che lo ospita. Questo deve portare e ha portato a considerare il cittadino come elemento irrinunciabile e indispensabile, un vero e autentico ingrediente per questo studio; primo passo per ricostruire il carattere della strada mediante l’utilizzo dell’intervista come “forma di interazione” o “contatto sociale” (Benney e Hughes, 1956, p. 194). All’interno di un data base sono stati raccolti, per ogni fondo commerciale di via Borghi, i cambiamenti che ha subito nel tempo indicando il periodo di permanenza dell’attivi-

tà, la tipologia e l’arco temporale in cui questo è rimasto sfitto. L’utilizzo dell’anno come elemento di analisi si è rivelato estremamente importante, perché la concomitanza, la ricorrenza dello stesso ha messo in luce i periodi che hanno contraddistinto la storia del borgo, permettendo a sua volta di comprendere l’alterazione della sua individualità commerciale. Interrogarsi, osservare, documentare, interpretare sono tutte azioni che devono completare questa analisi per riuscire a rispolverare il carattere del borgo, rintracciare le motivazioni può essere l’unico modo per potergli dare un vero significato. L’elemento motore è stato l’alternanza tra le nuove aperture e negozi sfitti per anno che ha permesso di far emergere i momenti salienti che hanno contraddistinto la strada, portandomi alla ricerca di informazioni da articoli di giornale, interviste, ricerche fotografiche dalle quali è emerso il vero senso del paese, continuamente declamato da ogni intervistato. Sono stati fatti collegamenti a eventi globali che a loro volta si sono ripercossi sul carattere locale del paese ed è stato posto uno sguardo verso una legislazione che ha portato ad una minimizzazione delle varietà commerciali contribuendo ad uno sviluppo della grande distribuzione. Interpretazione dei dati La tecnica di restituzione della mappatura è stata fatta ricorrendo al transetto urbano, che ha permesso di individuare due assi portanti per la lettura di questa analisi: (fig.2) 1. Analisi verticale: consente di ripercorrere individualmente la storia tipologica del singolo fondo commerciale, la stessa del negoziante con i relativi spostamenti ed ampliamenti da un fondo all’altro della strada e portare alla luce le motivazioni e i fatti che lo hanno spin-


Fig. 2 Transetto urbano

to ad indirizzarsi verso una precisa scelta commerciale. Con una lettura ancor più approfondita è possibile osservare la durata della singola tipologia commerciale, evidenziandone così la presenza continua e la sua eventuale scomparsa, dando una chiave di lettura nell’alterazione del borgo da artigianale a commerciale (fig.3). L’analisi annua per ciascuna attività e le relative presenze riconduce alla comprensione dei fatti esterni che hanno contribuito alla loro precarietà, per esempio al passaggio ad una netta diminuzione o scomparsa di attività alimentari, in contrapposizione all’ aumento dei negozi di abbigliamento. 2. Analisi orizzontale: ricostruisce lo scenario di via Borghi per ogni sin-

golo anno in riferimento alla presenza delle attività commerciali e ai negozi sfitti, portando a porsi delle domande sul perché si sia creata quella situazione. Attraverso un’analisi temporale delle trasformazioni commerciali si sono distinti tre periodi che possono riassumere ed esplicitare i cambiamenti del borgo. Scenario attuale I cambiamenti nelle abitudini di spesa dei consumatori, la crisi economica dell’ultimo decennio, la costruzione di nuove strutture di vendita di grandi dimensioni stanno sempre più accompagnando ad una crescente presenza di negozi vuoti nel centro storico; in particolar modo la relazione tra le nuove aperture e i negozi sfitti, ha

fatto emergere quanto l’inaugurazione del nuovo centro commerciale del Casentino, avvenuto nel 2002 abbia influito sull’andamento del settore commerciale del centro storico, certamente non è stata l’unica causa ma, l’inizio di un forte indebolimento del borgo. Questa ‘tendenza’ ha portato ad un susseguirsi di nuovi supermercati incrementando la presenza di negozi sfitti, il 2012 ha avuto un picco fino a venti fondi per poi mantenersi costante sino ad oggi, fatta ad eccezione per piccolissime aperture avvenute negli ultimi anni. Ad oggi il 33% dei fondi risultano essere chiusi. L’analisi mette in evidenza il rapporto causa-effetto determinato da fattori globali e locali i quali non fanno altro che riversarsi sul nucleo storico; al tempo cuore

dell’attività cittadina economica e sociale. Gli elementi che hanno portato ad un eccesso dell’offerta sulla domanda sono stati l’industrializzazione e la iperproduzione, traducendosi nell’esigenza di spazi di vendita sempre più grandi, tali da non poter più essere contenuti nel centro cittadino. Sono nuove aree multifunzionali che minano il centro urbano, e cercano di riprodurne gli spazi e le funzioni (Annalisa Rubino,2006). Altri fenomeni, spesso non soggetti ad alcuna forma di controllo, possono insieme indurre significativi cambiamenti nella funzione, nella natura e nell’immagine di intere parti della città: mi riferisco alla sostituzione di piccole attività commerciali o arti69 gianali a carattere loca-


le, alla scomparsa degli artigiani di quartiere e dei piccoli negozi di generi alimentari sostituiti da negozi di abbigliamento o gelaterie. Il nuovo millennio è stato investito da una forte rivoluzione nei consumi portando ad una massiccia chiusura di negozi storici e specializzati; probabilmente tra le cause possibili dobbiamo tenere in considerazione il mancato ricambio generazionale dei commercianti: come mi disse un negoziante, proprietario dal 1919 di una bottega nel borgo: «ormai i giovani non si avventurano più!». Scenario fine anni ’90 La dinamica evolutiva del tessuto commerciale del centro storico è stata comparata sia con la più generale evoluzione sociale ed economica che ha investito l’intero Comune, sia con alcuni atti e programmi che l’Amministrazione ha via via adottato nel corso del tempo per tentare di ritardare e/o mitigare gli effetti dei cambiamenti sociali ed economici sul centro abitato. A partire dagli anni ’90 in via Borghi avvennero nuove chiusure: nel 1998 si contano ben 8 fondi sfitti. Situazione che rompe la tendenza manifestata prima del 1997 quando tendeva ad esserci una sorta di compensazione tra chiusure commerciali e nuove aperture. Ad oggi, dopo aver analizzato il contesto degli anni successivi sembra un dato alquanto leggero e marginale ma, al tempo si presentò come indicatore di una situazione economica in declino; situazione che anticipava una più profonda modificazione per effetto della localizzazione della grande distribuzione nel Comune. Grande distribuzione che incrocia anche una profonda crisi manifatturiera, che nel Comune aveva una storica e significativa presenza, che vede la chiusura per trasferimento fuori dall’Italia di storiche fabbriche lo-

cali, come il Pantalonificio Lebole, situato a Rassina, chiuso nel 1998. Gran parte delle famiglie Casentinesi, seppur vivendo nella cosidetta “campagna urbanizzata”, continuavano a lavorare nei settori manufatturieri e, in particolare, nell’abbigliamento. Il loro ridimensionamento e spesso la chiusura si ripercuote anche sull’organizzazione del sistema commerciale organizzato intorno al piccolo negozio di vicinato o al dettaglio, alla dimensione modesta dei fondi, seppur con una notevole varietà di offerta merceologica. Questa tipicità di sistema– caratteristica tradizionale di quasi tutti i centri urbani della Toscana interna – viene resa vulnerabile sia dalla crisi del sistema manufatturiero che provoca una forte diminuzione di occupati con conseguente abbassamento del reddito locale; sia dalla più solida presenza della grande distribuzione (es. l’apertura dell’Ipercoop ad Arezzo) che modifica i costumi locali. Non solo era “moderno” recarsi in un grande centro commerciale, ma era di moda fare un’unica spesa concentrata rispetto alle diverse spese minute fatte entrando e uscendo da locali tradizionali. La riforma del commercio introdotta con il D.lgs. n. 114/98 rappresenta un interessante elemento di discontinuità rispetto all’approccio settoriale che derivava dalla precedente legge n. 426 del 1971, sostanzialmente centralistica e vincolistica. La “riforma Bersani” del Marzo 1998, ha sollecitato l’integrazione tra programmazione commerciale e pianificazione del territorio. Scenario anni ’70 Bibbiena città-guida del Casentino ha alle sue spalle una tradizione industriale che, dai primi insediamenti ottocenteschi (Lanificio del Casentino creatore del famoso ‘pan-

no’, fabbrica del tannino, linea ferroviaria Arezzo-Stia) si è sviluppata ed è cresciuta sino ad oggi, con le nuove e moderne industrie tessili, di prefabbricati e componenti elettronici (Piermario Brami, 1990). Il 1972 si trova ad essere il teatro di due situazioni contrapposte: la chiusura di tre industrie che fino al tempo erano state il sostentamento di tutto il paese (infatti a partire dal secondo dopo guerra l’intera vallata vide un abbandono della mezzadria verso una rincorsa all’industria); un aumento delle aperture di nuovi negozi al dettaglio nel centro cittadino derivanti dalla costituzione della riforma sul commercio L. 426/1971. Per le attività industriali fu un anno di transizione a causa della loro inefficienza derivante da una scarsa modernità nei macchinari, non al passo con i tempi del boom economico, arrivato con un leggero ritardo in Casentino a confronto del resto d’Italia. A inizio anni ‘70 via Borghi ha visto il culmine della sua funziona sociale, commerciale ed economica, il centro storico era vivo, piazza Roma il fulcro economico con tre banche situate in prossimità l’una dell’altra, le botteghe colme di oggetti e alimenti ma, soprattutto vissute. L’attività economica del borgo era rappresentata dai piccoli commercianti, presenti in misura notevole con punti vendita di basso e medio livello. Questi tendevano, specie per i commercianti di tipo alimentare, ad avere la residenza sopra (Diletta Corsi,2013). La legge 426/1971 ha rappresentato un’effettiva e importante svolta, in quanto ha cercato di razionalizzare le competenze amministrative e di introdurre una prima vera programmazione di settore. Inoltre, ha sostituito il sistema delle licenze con il sistema delle autorizzazioni al fine di realizzare un equilibrio tra domanda e offerta.

Questa si presenta come una delle innovazioni più importanti, in quanto la pregressa normativa riconosceva alle commissioni comunali un forte potere discrezionale nel rilascio delle licenze e con conseguente ingessamento del sistema distributivo italiano. La lezione di via borghi Il doppio ruolo giocato da via Borghi, quale luogo di residenza e centro di servizi e commercio, ha reso questa parte del centro storico particolarmente sensibile ai mutamenti che hanno formato l’attuale territorio. Oggi è necessario ripartire dall’elemento generativo, l’unità minima per comprendere le dinamiche di una città proprio perché si pone come principale espressione del sistema spaziale delle relazioni urbane. Il risultato raggiunto porta ad interpretare la strada quasi come se fosse una cartina tornasole, in grado di assorbire e tradurre i fenomeni più complessi che costituiscono l‘esito di mutamenti e fattori esterni, capace di modificare e alterare il suo essere, ritrovare la sua rinascita nella risposta di chi le porta interesse perché, in fin dei conti, è il mezzo con il quale l’uomo esprime sé stesso, nelle sue abitudini e nelle sue influenze. Se fino ad ora via Borghi è stata la linea per leggere il centro storico allora, la sua capacità di dar forma e vita allo spazio urbano può tradursi in quella scintilla utile ad incentivare la spinta verso una ripresa di tutto il sistema insediativo e a riattivare i processi di trasformazione del territorio. Sento pertanto di proporre politiche e azioni volte ad accrescere la sua attrattività e mirate ad innescare processi di riqualificazione e rigenerazione delle diverse parti del borgo, strettamente correlate a linee guida per uno sviluppo del commercio e del turismo; inoltre, riconoscendo


Fig. 3 Grafico sulla presenza di attività dal 1950 al 2018 in via Borghi

alla funzione commerciale un ruolo strategico di supporto alla coesione sociale e territoriale. La strada può diventare il luogo privilegiato di concentrazione delle opportunità e promozione attraverso una collaborazione tra ente pubblico, associazioni e soggetti privati. Mediante la rigenerazione urbana vengono definite delle politiche finalizzate al miglioramento e al riadattamento del patrimonio pubblico e privato in maniera durevole e continuativa; un esempio è l’accessibilità diffusa, come strumento per riportare afflusso nel centro storico. Via Borghi e piazza Tarlati al tempo sono state aree di forte richiamo commerciale, oggi sono immerse tra negozi sfitti soffrendo di modelli di accessibilità poco efficaci, e ancor meno efficienti.

Ci sono due componenti d’uso, da un lato il traffico e dall’altro la funzione locale, in grado di contendersi la stessa risorsa, cioè lo spazio pubblico urbano. La vita della comunità locale nei suoi vari aspetti e il fabbisogno di spostamento, all’interno del centro storico sono situate entrambe nel borgo principale. Qui troviamo i negozi, il cinema, gli edifici storici; trovano la loro scena i centri d’uso e identitari del locale, attorno cui gravitava la comunità. Deve essere ricreata una struttura portante, caratterizzata da nodi e linee in grado di favorire nuovamente l’utilizzo dello spazio pubblico mediante una pianificazione della gestione veicolare e di parcheggio, che ad oggi risulta essere la spinta per riportare il passeggio nel centro storico. Se l’accessibilità

Fig.4 Azioni strategiche

e la relativa infrastrutturazione del territorio hanno in larga parte servito i nuovi residenti, favorendo ancor più la dipendenza dall’automobile per gli spostamenti e la distribuzione delle merci, questa ha prodotto a valle nodi complessi attorno ai quali gravitano aree urbanizzate e si concentrano attività funzionali, conseguentemente ponendo poca attenzione alla viabilità storica, ormai stratificata e definita. Diventa essenziale mirare a strategie in grado di riconnettere il tessuto storico al fine di riattivare la sua funzione. La ricostruzione di una nuova centralità è essenziale, in quanto Bibbiena deve riorganizzarsi attorno ad un nodo; Piazza Tarlati. Si tratta di riportare alla luce il centro identitario e generativo del paese attraver-

so la sua forza commerciale e attrattiva. Riconquistare la viabilità principale proprio perché i servizi e i negozi prosperano lungo le strade principali, non al riparo da esse. Il centro storico di Bibbiena si è sviluppato attraverso una diramazione che aveva come fulcro via Borghi, al tempo denominata ‘Borgo di Mezzo’. Deve essere riqualificata in modo da potersi riproporre come scena connettiva delle centralità locali. Un’altra vision essenziale si prospetta verso il recupero del patrimonio esistente; azione volta alla rinascita dei beni culturali. Il concetto di espansione deve essere sostituito da quello di valorizzazione del patrimonio esistente operando verso uno sviluppo attento alle esigen71 ze sociali.


Vanno incoraggiati interventi che favoriscano la compattezza, interventi di micro e macro-recupero, privilegiando la percezione fisica dei luoghi nella loro dinamica sociale, soprattutto capaci di stimolare il metabolismo urbano e produrre una rigenerazione del paese e dei suoi spazi pubblici. Oltre al territorio già urbanizzato, difatti, la rigenerazione ha come substrato il patrimonio immobiliare pubblico inutilizzato che costituisce la ricchezza da cui partire per rinnovare la città. La capacità di lettura del contesto, la percezione fisica dei luoghi, la comprensione delle dinamiche sociali e la capacità di ascolto della cittadinanza da parte di amministrazioni e progettisti diventa la chiave per il successo e la vitalità delle trasformazioni urbane. Attraverso una attrattività funzionale e integrata, per la creazione di nuovi poli di incontro e aggregazione le azioni sono rivolte al restauro degli edifici storici e alla riqualificazione degli spazi interni al fine di incentivare un nuovo motore di attrazione.

La strategia delinea la direzione per la creazione di un sistema integrato di azioni volte ad una promozione culturale dell’intero paese, ricercando nell’esistente il mezzo per nuove opportunità. Infine, riportando la vitalità nel paese tramite politiche di rivitalizzazione dei fondi commerciali e residenze sfitte mediante una implementazione di servizi e attività. Il fenomeno della dismissione commerciale e residenziale viene posto come riferimento per l’individuazione delle strategie volte ad un progressivo recupero e ad una ripresa economica e lo studio fatto fino ad ora ha messo le basi per comprendere le dinamiche che hanno portato questo segno su via Borghi. Una rigenerazione urbana può avvenire attraverso un giusto motore capace di far muovere gli elementi portanti; domanda e offerta tra commercio, residenze e cittadino. Un elemento importante affinché il centro storico sia connotato da un grado di funzionalità è dato dall’inserimento di attività miste, non estranee al luo-

go ma funzionali alla vitalità del centro. Il riutilizzo del patrimonio immobiliare potrebbe riportare movimento nel centro storico, inoltre subentra la necessità di rioccupare le residenze vuote che stanno cadendo in disuso per la mancanza di domanda e di una popolazione sempre più anziana. Il motore per far ripartire via Borghi deve essere integrato con tutti gli elementi capaci di rendere e creare un profitto. Devono essere eseguiti interventi finanziabili di ristrutturazione edilizia, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo volti al recupero, riqualificazione e riuso del patrimonio immobiliare privato. Un sistema temporaneo di utilizzo dei fondi potrebbe inizialmente “proteggere” e consolidare tale percorso per poi arrivare all’occupazione di negozi con attività permanenti (fig.4).


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Fig.3.1 Estratto della “Guida all’accessibilità urbana” contenente gli elaborati del PEBA di Pisa, all’interno del portale online dell’amministrazione comunale.


Piani e progetti senza barriere. Linee guida per una città più accessibile e inclusiva.

Premessa L’accessibilità e l’inclusività degli spazi pubblici e di uso pubblico rappresenta uno dei temi fondamentali intorno al quale verte la pianificazione e la progettazione della città e del territorio. Un tema discusso e affrontato dal punto di vista normativo già a partire dalla seconda metà degli anni ’80 e che non riguarda solo l’utente disabile, ma tutte le persone che, durante il corso della propria vita, possono trovarsi in condizioni particolari, anche di carattere momentaneo. Allo stato attuale, nel nostro paese si assiste ad interventi di adeguamento dello spazio costruito spesso non idonei o addirittura ad inadempienze da parte degli enti amministrativi nella redazione dei Piani di Eliminazione delle Barriere Architettoniche (PEBA). La tesi nasce dalla volontà di comprendere fino a che punto gli spazi e gli edifici pubblici possono definirsi tali in funzione dell’accessibilità che questi offrono alle persone, di qualsiasi condizione ed età. Alla luce di questo, il fine della tesi è stato la redazione di Linee Guida per una città più accessibile e inclusiva, frutto di un procedimento di estrapolazione di indirizzi scaturiti dallo studio di venticinque buone prassi. La ricerca è stata svolta nell’ambito della collaborazione con il Progetto “Città accessibili a tutti” in cui è attualmente impegna-

Alessia Rosu to l’Istituto Nazionale di Urbanistica. A conclusione della parte teorica, il lavoro vede l’applicazione degli indirizzi ad un progetto per il miglioramento dell’accessibilità della sede universitaria di Empoli e del percorso che la connette alla stazione ferroviaria. Il punto di partenza: il quadro normativo I diritti delle persone con disabilità sono da molti anni al centro dell’attenzione dell’ONU e di altre organizzazioni internazionali: nel 1992, l’Assemblea Generale adotta il Programma di Azione Mondiale relativo alle persone con disabilità, a conclusione di una lunga serie di iniziative sul tema, avviate nel 1981, anno internazionale delle persone disabili; vengono così adottate le Regole standard per l’uguaglianza di opportunità delle persone con disabilità, che insieme ad altri provvedimenti significativi in ambito europeo come il Trattato di Amsterdam, la Carta di Barcellona e la Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea, rappresenta uno dei principali documenti volti a garantire i diritti e un’egualitaria partecipazione alla vita sociale e al lavoro, da parte delle persone disabili. Nell’ambito dei paesi occidentali, la legge italiana risulta tra le più avan-

zate del settore. In particolare, già dal 19861, vengono introdotti i PEBA (Piani di Eliminazione delle Barriere Architettoniche) per gli edifici pubblici esistenti, imponendone l’adozione alle Amministrazioni pubbliche. In seguito, con la Legge del 5 febbraio 1992, n. 104 “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, l’ambito dei PEBA viene esteso all’intero organismo urbano. In questo modo, il PEBA assume il valore di strumento guida per innalzare il livello di accessibilità non più solo degli edifici, ma anche della rete di percorsi e spazi pubblici. La Regione Toscana, che già dal 19912 fa obbligo ai comuni di predisporre i “programmi operativi di intervento per l’abbattimento delle barriere”, con l’attuale LR n° 65 del 2014 “Norme per il governo del territorio” ne prevede l’inserimento all’interno del Piano Operativo, in aggiunta alle mappe di accessibilità urbana previste nel Piano Strutturale. L’ambito dei PEBA è esteso, secondo i riferimenti normativi nazionali, a vari soggetti, amministrazioni pubbliche e private, associazioni, cittadini, portatori di interessi, attraverso un processo che dall’analisi dei conflitti uomo-ambiente, porta agli interventi di rimozione e

Corso di Laurea Triennale in Pianificazione della città, del territorio e del paesaggio Relatore: Prof. Francesco Alberti Co-relatore: Prof. Luca Marzi Settembre 2018

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successivo monitoraggio degli stessi. Nonostante la presenza di un corpus normativo siffatto, esistono criticità (Laurìa, 2012), che possono essere attribuite a diversi fattori, quali la carenza di risorse finanziare (anche se ciò non giustifica la totale inadempienza da parte dei comuni nella realizzazione dei piani), un atteggiamento diffuso che spinge a considerare la redazione del piano non come un obbligo ma come un adempimento “opzionale”, il mancato coinvolgimento dei portatori di interessi, la poco chiara articolazione delle modalità e delle fasi di redazione dei piani contenute nella normativa, l’assenza di un approccio multidisciplinare e sistematico al problema: il tutto a testimonianza di una scarsa cultura dell’accessibilità, che si rispecchia nella mancanza di informazione e formazione, e di sensibilità politica sul tema. Concetti di base e loro evoluzione Disabilità e Accessibilità Nell’immaginario collettivo è frequente l’associazione della parola “disabilità” allo stereotipo dell’individuo su sedia a ruote, ma il termine fa riferimento a un ampio spettro di significati e di utenti: comprende chiunque, in maniera permanente o temporanea, si trovi ad avere delle difficoltà nei movimenti o che, al di là di specifiche patologie (fisiche, sensoriali, cognitive o psicologiche), sia soggetto a naturali difficoltà proprie di ogni età. A conferma di quanto detto, con la “Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute” 3 (ICF), elaborata nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’attenzione viene spostata dalla disabilità dell’individuo all’ambiente circostante, che può presentare delle barriere, crean-

do l’eventuale handicap o, viceversa, dei facilitatori ambientali che annullano le limitazioni e favoriscono la piena partecipazione di tutte le persone alla vita sociale. Non è quindi sufficiente garantire diritti alle persone, ma è anche necessario assicurare che le persone possano accedere e fruire di ciò che è garantito da tali diritti. Di qui potremmo definire l’accessibilità urbana come “l’insieme delle caratteristiche spaziali, distributive e organizzativo-gestionali dell’ambiente costruito, che siano in grado di consentire la fruizione agevole, in condizioni di adeguata sicurezza ed autonomia, dei luoghi e delle attrezzature della città, anche da parte delle persone con ridotte o impedite capacità motorie, sensoriali” (Vescovo, 1992).

prendono gli impedimenti che si presentano agli utenti affetti da difficoltà di apprendimento, o perdita di memoria, temporanea o permanente (come contenuti della segnaletica difficili da comprendere, l’utilizzo di un vocabolario tecnico o astratto). • Barriere temporali – sono le condizioni che protraggono la durata di un’attività che comporta un elevato dispendio di energia (si pensi a una persona anziana costretta ad attendere per molto tempo in fila). • Barriere culturali - comprendono limitazioni linguistiche e soprattutto quelle, più sottili, derivanti dall’appartenenza a culture diverse (Lauria, 2012), in cui il superamento richiede l’utilizzo di strumenti di mediazione.

Barriere architettoniche e urbanistiche Cosa costituisce una barriera nel contesto più ampio della città? In seguito all’emanazione della Legge n°104 del 1992, che estende l’ambito dei PEBA a tutto l’organismo urbano, anche la definizione di “barriera architettonica” subisce un’evoluzione, comprendendo elementi della più svariata natura. Possiamo quindi definirne alcune tipologie: • Barriere fisiche - ulteriormente distinte in intrinseche (derivanti dalle caratteristiche proprie di un elemento ambientale) e topologiche (risultanti da errori nella disposizione di attrezzature/arredi nello spazio). • Barriere sensoriali, percettive, comunicative – sono condizioni che non permettono all’utenza di potersi orientare all’interno dello spazio urbano, in autonomia e in sicurezza (ad es., una pavimentazione priva di segnalazioni per non vedenti, o per non udenti, ecc.). • Barriere psico-cognitive – com-

Il “Design for All” e il concetto di Utenza Amplificata Il Design for All nasce con l’obiettivo di rispondere alle specificità proprie di ognuna delle limitazioni citate e si fonda su un approccio alla progettazione rivolto a un’utenza non standardizzata, ma soggetta nel tempo a cambiamenti, fisiologici o accidentali (dal bambino all’anziano, dalla donna in gravidanza alla persona in stampelle). Si è infatti constatato che ambienti ed attrezzature adibiti solo ad un’utenza disabile comportano un atteggiamento negativo, se non di rifiuto, da parte della popolazione, costituendo spesso fonte di angosce, mortificazioni e frustrazioni, con conseguente senso di emarginazione delle persone con necessità particolari. Per questi motivi è necessario configurare spazi urbani e architettonici che permettano a tutti di muoversi ed interagire con gli altri e siano quindi “sentiti” come amichevoli, accoglienti e inclusivi. Tra l’impossibilità di progettare in modo specifico per ogni disabilità e

la consapevolezza che non esiste la soluzione perfetta per tutti, l’atteggiamento mentale del progettista deve essere quello di venire incontro alle esigenze del maggior numero possibile di persone - quella che è definita un’utenza amplificata - accantonando la logica delle soluzioni standard e ordinarie. Ambiti di intervento privilegiati: spazio pubblico, sistema della mobilità, beni culturali Lo spazio pubblico è il principale banco di prova dell’accessibilità urbana. Nella Carta dello Spazio Pubblico predisposta dall’Istituto Nazionale di Urbanistica in occasione della Biennale dello Spazio Pubblico di Roma del 2013, diventata poi uno strumento di riferimento del programma Habitat dell’ONU, questo è definito come “ogni luogo di proprietà pubblica o di uso pubblico accessibile e fruibile a tutti gratuitamente o senza scopi di lucro (…). Gli spazi pubblici sono elemento chiave del benessere individuale e sociale, i luoghi della vita collettiva delle comunità”. La stessa definizione inoltre precisa che le aree di proprietà pubblica che non risultino fruibili, non possono essere considerate spazi pubblici “ma possono essere incluse tra i potenziali spazi pubblici”. Lo spazio pubblico è il terreno sul quale devono essere integrati, attraverso processi coordinati, altri aspetti centrali nel dibattito che coinvolge le nostre città, quali la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico, la messa in sicurezza dai diversi fattori di rischio, la mobilità sostenibile, il recupero delle periferie. Solo attraverso un approccio integrato e a strategie di collaborazione sarà possibile ascoltare il territorio, apportarvi modifiche fisiche e funzionali, così da rendere gli insediamenti più vivibili, sostenibili, sicuri e accessibili.


Un altro tema strettamente connesso all’accessibilità per tutti è quello della mobilità urbana: un tema che coinvolge i territori più diversificati a differenti scale. Ai fini dell’adeguamento delle reti, siano queste dedicate alla mobilità su gomma, su ferro, o alla mobilità dolce, alle esigenze di un’utenza allargata, diventa fondamentale il ruolo della pianificazione. E in effetti, l’accessibilità rappresenta uno dei temi cardine su cui si fonda il Piano Urbano della Mobilità Sostenibile, introdotto da una direttiva europea recepita in Italia nel 2018. Il PUMS è un piano integrato che studia le strategie atte a garantire un complesso di interventi sulle infrastrutture di trasporto pubblico e stradali, allo scopo di ridurre i costi sociali e ambientali della mobilità urbana e assicurare un livello di accessibilità adeguato alle varie parti della città, attraverso politiche che puntano alla sostenibilità ambientale, al miglioramento della sicurezza, all’aumento dell’economicità e dell’efficienza dei servizi. A questo devono conformarsi gli interventi per rendere pienamente fruibile a tutti il trasporto pubblico locale, attraverso l’adeguamento dei mezzi pubblici, dei punti nodali della rete e dei relativi punti di accesso. Tra i servizi e beni comuni che devono essere resi accessibili a tutta la cittadinanza, un discorso particolare è quello che riguarda i beni culturali e paesaggistici, nei quali occorre trovare il giusto equilibrio tra le esigenze di accessibilità e le esigenze di tutela e conservazione. Rendere accessibili i beni culturali significa far conoscere a una platea per quanto possibile vasta l’eredità, l’espressione dell’identità in cui le popolazioni si riconoscono, ma anche saper gestire la presenza di barriere quali scalinate, lunghi percorsi nei giardini storici e parchi, pavimentazioni sconnes-

se, dislivelli del terreno, come quelli che caratterizzano molti centri storici collinari, per non parlare dei siti nati proprio per “essere inaccessibili” (quali strutture difensive, castelli, rocche, ecc.). La domanda da porsi è: fino a dove è possibile spingersi con gli interventi, senza alterare le caratteristiche specifiche appartenenti ad ogni sito? La soluzione sta nel valutarne criticità e potenzialità, così da intervenire in modo mirato, compatibilmente con le esigenze di tutela; per alcune tipologie di immobili può essere necessario limitarsi ad assicurare il requisito di visitabilità, così da garantire l’accesso ai principali spazi comuni e ad almeno un servizio igienico, nonché agli ambienti più significativi per non compromettere la piena comprensione dell’identità e valore del bene. Una delle strategie è quella di ricorrere a soluzioni “compensative” che danno la possibilità di accedere ad un percorso in cui sono illustrate, attraverso dispositivi di informazione, le caratteristiche che hanno reso il sito stesso degno di tutela. Imparare dalle buone pratiche Ai fini della redazione delle Linee Guida per città accessibili a tutti, un ruolo fondamentale è stato attribuito allo studio delle buone pratiche, con l’obiettivo di ricavarne principi generalizzabili. L’analisi del lavoro si è concentrata su venticinque casi studio, alcuni dei quali già raccolti nell’ambito del Progetto “Città accessibili a tutti”4 dell’INU. I punti trattati sono stati inseriti in varie categorie, riferite a diversi temi e scale, ovvero: • accessibilità urbana • servizi urbani accessibili e inclusivi • accessibilità ai beni culturali • accessibilità ai litorali • accessibilità territoriale • cultura dell’accessibilità.

Di seguito sono riportati tre casi esemplificativi tra quelli analizzati, inseriti all’interno di alcune delle categorie più ampie appena citate. Accessibilità urbana Nel 2009, Il Comune di Pisa ha commissionato a un gruppo di tecnici l’aggiornamento del Piano di Abbattimento delle Barriere Architettoniche redatto nel 2005, coinvolgendo i portatori di interesse rappresentati da associazioni del territorio. La Società della Salute5 ha seguito il processo di rilevamento e verifica delle barriere, contribuendo ad una visione più specifica del grado di accessibilità attribuito ai diversi percorsi in oggetto. Questo ha gettato le basi di una metodologia che classifica gli spazi urbani secondo sei fasce corrispondenti a diversi gradi di accessibilità, in relazione alle due categorie paradigmatiche della disabilità: quella motoria e quella visiva. Inoltre, in seguito alla valutazione delle informazioni utili alle persone sorde, è stata indicata la presenza o meno di ausili e facilitazioni dal punto di vista ambientale. Sul portale online del Comune è presente un archivio dati digitale, in cui è riportata la “Guida all’accessibilità urbana” e gli elaborati del PEBA, messi a disposizione di tutti. (3.1) Servizi urbani accessibili e inclusivi Quando si tratta di rendere accessibili i servizi per la collettività, sono molteplici gli utenti, e di conseguenza le esigenze, di cui tener conto in fase progettuale. Sempre più spesso è necessario confrontarsi con diverse sensibilità, derivanti dalla compresenza nel territorio di persone provenienti da differenti culture, ciascuna con il proprio bagaglio simbolico. Una buona pratica interessante è quella del progetto “House of One” a Berlino, volto al

superamento delle barriere culturali fra persone appartenenti a diverse fedi religiose. Il progetto, ideato dallo studio berlinese di architettura Kuehn & Malvezzi, prevede la realizzazione nell’area di Petriplatz, al centro della città, di un edificio che sarà nello stesso tempo chiesa, sinagoga e moschea, strutturato in quattro ambienti diversi, dei quali uno spazio, in posizione centrale, dedicato all’incontro fra le tre diverse religioni, unite nella preghiera dell’unico Dio, comune a tutte - da cui il nome del progetto. (3.2) Accessibilità al litorale La piena fruibilità di servizi e strutture turistiche: è questo il tema del progetto “Mare accessibile e Turismo SuperAbile” che vede coinvolti molti esperti in materia di accessibilità, nella collaborazione di alcune strutture e siti turistico/culturali che si trovano lungo il litorale della Toscana. Ad ogni soggetto è stato richiesto di compilare una scheda preimpostata, i cui dati sono stati elaborati da un software. Ad ogni parametro presente nelle schede è stato poi assegnato un punteggio, che ha portato a una classifica delle strutture ricettive in relazione al proprio livello di accessibilità. Tutte le informazioni, correlate da fotografie, sono state inserite nel sito www.handysuperabile.org, all’interno del quale ogni struttura ha una sezione dedicata così da rendere più semplice l’acquisizione delle informazioni in merito all’accessibilità ai luoghi e alle strutture per tutti i turisti con disabilità che, ancora oggi, hanno grosse difficoltà nel pianificare i propri soggiorni.

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Fig.3.2 Il progetto “House of One” previsto per l’area di Petriplatz.

Dalle buone pratiche agli indirizzi generali per la pianificazione e la progettazione Il metodo di costruzione delle linee guida utilizza come base di partenza l’individuazione di quello che è stato definito “valore aggiunto” dei singoli casi studio precedentemente analizzati, ovvero di quei caratteri che descrivono l’unicità della prassi stessa. Successivamente, attraverso un procedimento dal particolare al generale, sono stati dedotti i principi generali sottesi ad ogni caso, che possono

assumere il valore di “indirizzi” applicabili a contesti e a scale diversi da quelli da cui essi derivano. Per facilitare la comprensione, si riporta di seguito l’elenco degli indirizzi operativi emersi dall’analisi del PEBA di Pisa, citato precedentemente: • Coinvolgimento delle associazioni e dei portatori d’interessi, che costituiscono gruppo di verifica e monitoraggio durante tutte le fasi del processo verso l’adozione del piano. • Metodologia adottata che preve-

de, per l’individuazione dettagliata dei diversi gradi di accessibilità, la realizzazione di una mappa dell’accessibilità dedicata per ogni categoria di utenza disabile. • Creazione di un database digitale accessibile a chiunque dal sito delle amministrazioni, dove si rendono consultabili le schede del PEBA. Sulla base del lavoro effettuato, dallo studio della normativa vigente e delle definizioni, fino all’analisi delle buone prassi e all’estrapolazione dei relativi principi informatori appli-

cabili universalmente, si è passati alla traduzione degli indirizzi operativi per le città accessibili a tutti, in due tools: le Linee Guida per la Pianificazione e quelle per gli Interventi. Linee Guida per la Pianificazione A monte di qualsiasi progetto per il miglioramento dell’accessibilità e, in particolare, nella redazione di un piano per l’accessibilità, è necessaria la costruzione di un sistema idoneo al corretto svolgimento di tutte le fasi che portano alla realizzazione


Fig.5.1 Estratto della tabella attributi del progetto GIS per la costruzione del database delle barriere, contenente descrizione, grado di accessibilità attribuito all’area, localizzazione e tipo di utenza coinvolta.

Fig.5.2 Tav. A.1 - Mappa dell’accessibilità del percorso polo-stazione e relativa a utenti con disabilità motoria.

Fig.5.3 Es. di schedatura delle barriere architettoniche riportante codice identificativo, localizzazione, foto, descrizione e intervento di adeguamento previsto per l’eliminazione dell’impedimento.

degli interventi e al loro monitoraggio nel tempo. Nell’ordine: • Definizione di una struttura tecnico/operativa • Definizione del quadro conoscitivo • Programmazione • Progettazione • Informazione • Monitoraggio e manutenzione In seguito alla definizione di una struttura tecnico/operativa, composta dalle pubbliche amministrazioni, da professionisti coinvolti nella redazione dei piani e dagli even-

In seguito agli interventi di rimozione delle barriere è necessario garantire l’accesso alle informazioni agli abitanti, mediante portali on line o eventi mirati, nonché provvedere al monitoraggio delle soluzioni adottate; a questo scopo, risulta fondamentale lo studio delle compatibilità delle risorse da prevedere in fase programmatoria, per assicurare la necessaria manutenzione delle opere nel tempo.

tuali stakeholders, sarà necessario definire un quadro esigenziale, attraverso prime campagne di rilievo, cui seguirà l’elaborazione di una carta delle criticità ambientali, inserite attraverso i Sistemi Informativi Territoriali all’interno di un Data Base. L’analisi dei flussi permette l’individuazione delle priorità di intervento nella successiva fase di programmazione degli interventi, finalizzata alla realizzazione della/e mappa/e dell’accessibilità e della carta dei nodi e archi correlate.

Linee Guida per gli Interventi Gli indirizzi desunti dalle buone pratiche costituiscono un orientamento per le soluzioni da applicare all’interno di spazi o edifici pubblici o privati aperti al pubblico, che siano complementari a ciò che detta la normativa vigente in materia di accessibilità, e che contribuiscano a rendere i luoghi accoglienti e inclusivi per qualsiasi utente. Il lavoro si è così articolato raggruppando le linee guida in catego79 rie che fanno riferimento


a tematiche più ampie (riportate di seguito), nelle quali sono rintracciabili gli impedimenti più comuni legati all’accessibilità: • Orientamento: a sua volta articolato in punti di riferimento, segnaletica e mappe • Distanze: gli impedimenti relativi ai percorsi pedonali, mobilità e trasporto pubblico • Dislivelli: ordinati dall’intervento preferibile a quello cui ricorrere solo in caso non si abbiano migliori alternative, ovvero rampa, gradino agevolato, ascensore, piattaforma elevatrice, servoscala. Vi sono poi linee guida per scale, scale mobili e tapis roulant rivolte a disabilità di tipo cognitivo/sensoriale • Edifici pubblici o ad uso pubblico • Arredo Urbano • Sicurezza e antincendio È importante comprendere che, seppur per motivi di semplificazione vi sia il ricorso ad un elenco delle possibili soluzioni in base al tipo di intervento o alla categoria cui essi appartengono, è fondamentale concepire le diverse alternative in chiave integrata: trovandosi ad intervenire su contesti a scala urbana, è infatti necessario che le soluzioni risultino parte di un insieme più ampio di interventi, che vada oltre il loro carattere puntuale.

Inoltre, nonostante gli indirizzi costituiscano riferimento per casi generici, non sono da escludere interventi pianificati ad hoc per eventuali casi specifici. Un’applicazione del modello: accessibilità alla Sede Universitaria Empolese e al percorso polo-stazione L’ultima fase della tesi ha visto l’applicazione delle Linee Guida redatte a un caso studio, individuato nella sede universitaria situata presso l’Ex Ospedale San Giuseppe di Empoli. Essendo situato nel centro storico della città e frequentato per lo più da utenti pendolari, il percorso più utilizzato per accedere al polo è quello che lo collega alla stazione ferroviaria. Il progetto è finalizzato a promuovere un miglioramento del grado di accessibilità sia per la sede che per il percorso. Costruzione del database Il primo passo ha comportato un’analisi dell’edificio e del percorso, nonché dell’area di accesso/uscita dalla stazione stessa, attraverso rilievi atti all’individuazione dei conflitti uomo-ambiente. In seguito, avvalendosi di un software GIS6, è stato creato un database delle barriere, contenute in shape-file, costituiti da elementi puntuali e lineari. Le tabelle degli attributi contengono il tipo di

barriera, la classificazione del grado di accessibilità, espressa da 0 (inaccessibile) a 4 (accessibilità completa), la localizzazione e il tipo di utenza coinvolta (0 disabili motori, 1 non vedenti). (5.1) Mappe dell’accessibilità e schedatura delle barriere Una volta in possesso delle informazioni di base, è stato possibile riportare graficamente, attraverso la scelta di scale cromatiche, sia i percorsi che le aree afferenti alla struttura del polo didattico, rifacendosi al grado di accessibilità ad essi attribuito. Gli elaborati sono articolati in “Tavole A”, riferite ai disabili motori e “Tavole B”, riferite ai non vedenti (5.2): al loro interno, l’individuazione delle barriere avviene mediante l’attribuzione un valore univoco alfanumerico, rintracciabile nelle successive schede di descrizione delle stesse allegate agli elaborati e contenenti il numero identificativo, la localizzazione, le foto, la descrizione delle barriere e le ipotesi di intervento previste per l’adeguamento (5.3). Sono state inoltre riportate nella medesima sezione le barriere riferite ad entrambe le categorie di utenza nel caso in cui fossero localizzate nella stessa area, così da rendere chiara la possibilità di attuare interventi integrati.

Conclusioni: l’importanza di perseguire un’utopia Pianificare e progettare l’accessibilità significa soprattutto dare o restituire autonomia alle persone, permettendo di sviluppare la propria personalità, di costruire il proprio ruolo sociale, in armonia con se stessi e con gli ambienti che decidiamo di rendere teatro della nostra vita quotidiana. Nella difficoltà di fruire di tali ambienti l’elemento di deficit non deve essere ricercato nella condizione della persona, ma nel luogo, che non è capace di rispondere in modo adeguato alle nostre esigenze. E se vero è che i luoghi subiscono nel tempo un cambiamento per mano dell’uomo, questo significa che al pianificatore è anche richiesto di provvedere alla rimozione degli errori fatti in passato. In un mondo ideale, questo comporterebbe il raggiungimento di un livello di accessibilità totale: un mondo senza barriere. Nonostante l’impossibilità di realizzare tale condizione, essa deve rappresentare un punto di arrivo cui tendere. Per farlo, è necessario andare oltre la logica normativa. Non è detto che, se la norma chiede sei, non sia possibile pensare di fare otto. Non devono esserci limiti alla realizzazione dei diritti fondamentali delle persone, senza distinzione alcuna. Fare otto, farà la differenza.


Note

Bibliografia

1 Legge 28 Febbraio 1986, che ribadendo le disposizioni del D.P.R n°384 del 1978 emana le norme atte a garantire l’eliminazione delle barriere architettoniche nelle strutture pubbliche e, in particolare, a quelle di carattere collettivo e sociale, di nuova costruzione e quelle già esistenti sottoposte a ristrutturazione. 2 L.R. 9 Settembre 1991 n’47 “Norme sull’eliminazione delle barriere architettoniche”. 3 La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) fa parte della Famiglia delle Classificazioni Internazionali dell’OMS e fornisce sia un linguaggio unificato e standard, sia un modello concettuale di riferimento per la descrizione della salute e degli stati ad essa correlati. 4 Il progetto in cui è impegnato l’Istituto Nazionale di Urbanistica si fonda su una raccolta di buone pratiche da parte degli enti e soggetti aderenti (Rossi, 2017) e ha previsto, nella primavera del 2019, la presentazione delle Linee Guida per le città accessibili, risultanti dal lavoro del triennio precedente. 5 Le Società della Salute sono enti pubblici senza scopo di lucro costituiti per adesione volontaria dei Comuni di una stessa zona e dell’Azienda USL competente nel territorio, per l’esercizio associato delle attività sanitarie territoriali, sociosanitarie e assistenziali e sociali integrate. 6 Geographic information system, è un sistema informativo territoriale che permette di associare dati alla loro posizione geografica sulla superficie terrestre e di elaborarli per estrarne informazioni.

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Fig.1 Inquadramento dell'aria studio


Tra globale e locale, come cambia lo spazio urbano per effetto della turistificazione deregolamentata. Il caso del quartiere Oltrarno a Firenze. Vittoria Ridolfi

Introduzione Il fine di questo studio è cercare di comprendere e analizzare il cambiamento dello spazio urbano per effetto della turistificazione deregolamentata, ovvero riuscire in un primo momento a far trasparire, e successivamente a tentare di interpretare e ragionare, sulle innumerevoli problematiche che il turismo di massa crescente sta causando nel quartiere Oltrarno di Firenze, come in molte altre città turistiche nel mondo. Tale zona del capoluogo Toscano, nella quale vivo da quando sono nata, è da sempre stata caratterizzata da una forte identità storica, ovvero dalla dialettica tra ciò che resta e ciò che muta di un patrimonio socioculturale tramandatosi nei secoli. Negli ultimi anni però qualcosa è cambiato. A causa del continuo incrementare del turismo ‘mordi e fuggi’, a causa dei nuovi fenomeni mondiali quali la touristification e la gentrification, a causa delle nuove piattaforme online low-cost, come Airbnb per alloggiare e Ryanair per viaggiare, e a causa dell’aumento esponenziale di locali nel campo della ristorazione e simili, il quartiere sta quasi, se non del tutto, gradualmente perdendo il suo “senso di appartenenza”, soprattutto per un conseguente abbandono del cittadino storico dal suo luogo di origine.

L’obiettivo dello studio svolto è dunque quello di approcciarsi in modo sperimentale alle problematiche delineate precedentemente, per cercare di risolverle anche con l’aiuto di coloro che “habitano”, ovvero vivono in primis, quel determinato spazio e capire i cambiamenti dell’uso dello spazio urbano dovuto a questo diverso ricambio sociale di differenti popolazioni. Il cambiamento dello spazio urbano nel tempo della turistificazione Prima di definire il concetto di turistificazione, e di comprenderne il fenomeno è utile conoscere un altro termine strettamente collegato ad esso, e antecedente, ovvero la gentrification (Glass, 1964), parola coniata dalla sociologa britannica Ruth Glass, per indicare il ricambio sociale che osservava in un ex quartiere operaio di Londra, il quale si stava popolando di classi sociale più alte.1 La sociologa Irene Ranaldi, che in molti suoi studi si è dedicata a tale fenomeno, sostiene che la gentrification è sia un processo molto controverso, che presenta aspetti sia positivi che negativi. L’allarme principale è quando questo ricambio sociale non accade in maniera spontanea, ma grazie ad una ‘mano invisibile’, ovvero quella dei grandi in-

vestitori immobiliari, i quali decidono di capitalizzare su una determinata zona. Essi riqualificano il quartiere scelto e, inevitabilmente, i costi degli immobili salgono, causando l’allontanamento delle classi originarie che da sempre vi dimoravano. (Ranaldi, 2014).2 Si può dunque parlare di gentrification trasparente, ovvero un fenomeno che in superficie non è visibile e definito, ma maggiormente comprensibile grazie a un’indagine più profonda: ciò provoca nella città un’evidente fragilità, sia del tessuto urbano che sociale, che parte dall’aumento degli affitti fino ad arrivare alla trasformazione dell’identità urbanistica di un centro storico. Esistono però anche degli aspetti positivi: un quartiere gentrificato viene riqualificato e attrezzato con infrastrutture più moderne ed efficienti; il più delle volte il tasso di criminalità diminuisce a favore dell’abbattimento di barriere sociali e umane che tale fenomeno favorisce; il beneficio economico della città è sicuramente in aumento. In conseguenza a tale processo, nella metropoli contemporanea nasce il più delle volte il fenomeno della turistificazione, una sorta di gentrificazione residenziale che comporta la sostituzione della popolazione residente con una nuova, passeggera,

Corso di Laurea Triennale i n Pianificazione della città, del territorio e del paesaggio Relatore: Prof. Giuseppe De Luca Co-relatore: Patricia Guerriero Febbraio 2019

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costituita da turisti, catene multinazionali, attraverso la sostituzione del commercio locale a favore di un commercio ad uso prettamente turistico. Un’altra definizione potrebbe essere quella di concetto che racchiude al suo interno la molteplicità delle conseguenze del turismo di massa sulla ristrutturazione degli spazi urbani o di alcune loro sezioni.3 D’altra parte esso potrebbe essere definito anche come un vero e proprio processo ed il risultato in uno spazio definito, di uno spontaneo, non programmato ed enorme sviluppo turistico, che comporta una vera e propria trasformazione dello stesso spazio, al fine di diventare a sua volta merce per turisti. La scelta di andare a indagare tale fenomeno è nata da una delle sue evidenti conseguenze, ovvero la ‘deresidenzializzazione’ del cittadino storico dal centro urbano delle più importanti città mondiali, in questo specifico caso di Firenze. Una delle prime città europee a manifestare tale fenomeno è stata Barcellona4, patria di una forte esplosione di affitti su Airbnb, la piattaforma online che permette di alloggiare per pochi giorni in qualsiasi città del mondo a prezzi molto convenienti. A causa dell’elevato numero di alloggi occupati e affittati, i residenti catalani si sono adoperati per boicottare la piattaforma e rendere giustizia ai loro diritti in quanto cittadini soprattutto del centro storico. Tali proteste, unite ad altre problematiche economiche e sociali, hanno dato luogo alla Rete SET – Sud Europa di fronte alla Turistificazione, ovvero un movimento di denuncia di cui fanno parte collettivi e associazioni con l’intento di diffondere consapevolezza sui problemi causati dall’attuale modello turistico e sulle possibili alternative.5 Questioni sviluppate e metodo Le domande di ricerca principali dalle quali è nato il lavoro di tesi, si divi-

dono in due grandi tematiche: quelle sociali e quelle prettamente legate alla pianificazione urbanistica. Queste le domande: per quale motivo i residenti ‘scappano’ dal quartiere Oltrarno di Firenze? Chi vive la città se essa non è più abitata dai suoi cittadini? Quali sono le conseguenze sul quartiere? Una ‘città invasa a tempo’, ma allo stesso tempo vuota, è sana? Da qui sono stati posti degli obiettivi da raggiungere tramite il lavoro di tesi di laurea, ovvero: • Comprendere e analizzare le fragilità del quartiere. • Conoscere il territorio e colui che lo abita. • Comprendere le problematiche emerse e le loro conseguenze. • Ipotizzare delle soluzioni per cercare di risolverle. Per arrivare a definire tali obiettivi, il lavoro è stato svolto in tre parti diverse: l’Analisi, che comprende lo studio del fenomeno e del luogo preso in esame, tramite i molteplici sopralluoghi e la somministrazione di un questionario ai cittadini; l’interpretazione, che si occupa di leggere e comprendere i dati ricavati dalla precedente analisi e, più nel dettaglio, lo studio legato all’uso dell’edificio da un punto di vista spaziale, le Interviste, svolte a comprendere dall’interno i reali problemi del quartiere tramite una nuova analisi SWOT, nata dalla voce degli abitanti, grazie alla quale è stato poi possibile redigere delle ipotetiche linee guida e strategie per cercare di mitigare e migliorare la situazione attuale del quartiere Oltrarno. Il caso studio dell’Oltrarno fiorentino Con il termine Oltrarno a Firenze, zona del centro storico situata sulla sponda sinistra del fiume Arno, si intende un’ampia area che compren-

de non solo i quartieri San Frediano e Santo Spirito, ma anche la zona di San Niccolò che da Ponte Santa Trìnita di estende fino a Piazza Ferrucci. In realtà, l’area su cui si è svolta l’indagine, ha una delimitazione più ristretta: si tratta del triangolo compreso tra Ponte Vecchio, Porta Romana e Porta San Frediano, ovvero i quartieri storici di San Frediano e Santo Spirito, ai quali nel gergo locale si fa automaticamente riferimento col termine Oltrarno (fig. 1). La principale debolezza del quartiere oggi è la sua sempre più forte fragilità: più passano gli anni più le sue caratteristiche identitarie svaniscono, soffocate dal turismo di massa, dal consumo e dal degrado. La turistificazione è una realtà molto presente e porta con sé conseguenze devastanti. Una di queste ha un forte riscontro da un punto di vista residenziale, o meglio, risulta impattante nei confronti del diritto all’abitazione. Firenze è infatti al primo posto tra le città italiane per la percentuale più alta di affittuari di Airbnb in base agli abitanti del Comune, mente nel centro storico, ovvero un’area di circa 5 km2, si concentra il 63% di tutta l’offerta di alloggi Airbnb della città, e vi corrisponde il 72% della domanda (misurata tramite il numero di recensioni per ogni inserzione).6 Possiamo dunque dire che un’unità immobiliare su cinque, nel centro storico di Firenze, è permanentemente offerta sulla piattaforma in affitto a breve termine. Uno sguardo dall’interno: con la voce dei proprietari. La fonte dati principale del lavoro è stata svolta con uno sguardo all’interno, ovvero tramite la voce dei proprietari dei B&B del quartiere7. Tramite i siti di Booking.com, Airbnb e BedandBreakfast.eu visitati costantemente durante il mese di novembre 2018, è risultato possibile porre ad alcuni pro-

prietari di alloggi, delle domande sulla loro esperienza di affitto tramite un questionario online a risposta multipla8. Successivamente sono stati anche indagati i costi di ogni Bed and Breakfast contattato e come cambiano per ogni sito, per comprendere anche da un punto di vista economico le dinamiche tra ricettività turistica e guadagno del proprietario del locale. L’articolazione dei dati ricavati Il numero di intervistati raggiunti è quaranta (fig.2) e le loro risposte sono state raccolte in un foglio excel (fig.3): parliamo di una realtà economica impressionante. Ma analizziamo i dati ricavati più importanti. Il locale che affitta è di sua proprietà? Ben 32 Bed and Breakfast risultano di proprietà dell’affittuario, mente i restanti 8 sono in affitto e vengono gestiti da enti che possiedono anche altri appartamenti. Questo dato già ci delinea che gran parte dei proprietari effettivi preferiscono utilizzare un appartamento nel centro storico, probabilmente ereditato o comprato come investimento, più come guadagno economico rispetto che usufruirne come alloggio personale. Da quanto tempo affitta il locale? Per rispondere a questa domanda il proprietario poteva scegliere tra quattro opzioni: • Meno di un anno. Si tratta dei Bed and Breakfast più recenti che affittano da pochi mesi. Sui quaranta contattati, tre proprietari hanno dato questa risposta. • 1-3 anni. È la risposta che emerge nettamente di più dai proprietari rispetto alle altre. Questo dato risulta molto importante perché ci delinea da un punto di vista cronologico l’aumento vertiginoso dei Bed and Breakfast nel centro storico di Firenze. Si ipotizza dunque che tra il 2015 e il 2018 non solo le case in affitto sono


Fig.2 I quaranta Bed & Breakfast raggiunti


Fig.3 Risultati delle risposte

di gran lunga aumentate, ma anche le piattaforme online come Airbnb e Booking.com hanno preso piede, affermandosi anche sul territorio italiano. Sui quaranta contattati, ventisei proprietari hanno dato questa risposta. • 4-6 anni. Si tratta dei proprietari che hanno iniziato a gestire il Bed and Breakfast tra il 2012 ed il 2014. Incrociando i dati su nove proprietari che hanno dato questa risposta, tre di questi corrispondono a coloro che alla precedente domanda sulla proprietà del locale hanno risposto dicendo che sono in affitto. • 7-10 anni. Si tratta dei proprietari che hanno cominciato ad affittare fin dal principio. Solo due dei quaranta hanno dato questa risposta. Lei invece dove risiede? Per quale motivo non vive nel centro storico? • Risiedo nel centro storico. Il 30% dei proprietari che affittano il proprio locale nel centro storico, risiede anch’egli in Oltrarno. Dunque, su un campione di 40 intervistati, ben 12 hanno dato questa risposta. Ciò vuol dire che comunque gran parte degli affittuari presi in esame, utilizzano il Bed and Breakfast o per ricavarne un profitto o per attività ricreativa. • A causa dei prezzi troppo elevati. Il 15% degli intervistati ha dato questa risposta: ben 6 proprietari su 40. Non è un numero molto elevato, ma nel complesso se analizziamo soltanto le risposte di coloro che non abitano nel centro storico osserviamo che la percentuale aumenta fino al 21%, ovvero 6 proprietari su 28. Da tale risultato si ipotizza dunque che vivere nel quartiere dell’Oltrarno è oggettivamente caro. Ciò è in parte una ovvia conseguenza dei fenomeni che nei precedenti capitoli abbiamo analizzato, ovvero la gentrification e la turistification.


Il quartiere Oltrarno, infatti, nasce come zona popolare dove il costo della vita era basso e accessibile a tutti. In conseguenza alla gentrification tale zona ha alzato vertiginosamente i prezzi non solo degli immobili ma anche dello stile di vita richiesto per abitarci, anche a causa dell’imminente e costante presenza del turismo di massa. • Maggior comodità fuori dal centro storico. Risulta che il 29% dei cittadini che abitano fuori dal centro storico hanno dato questa risposta. Molti di essi hanno risposto infatti che da sempre risiedono fuori dalle mura e che, come vedremo successivamente, abitare in centro comporta diverse scomodità. • A causa di scomodità e rumore. La risposta che è stata data maggiormente è proprio questa: l’esatta metà degli intervistati reputa che vivere nel centro storico sia scomodo e rumoroso. Abitare in Oltrarno porta infatti con sé diverse difficoltà: innanzitutto essendo un quartiere storico presenta edifici ed appartamenti di una certa epoca e sicuramente ristretti rispetto ai nuovi tipi edilizi moderni che troviamo nei quartieri periferici della città. Altra scomodità è di pari passo il traffico e il posto auto. La mobilità in un quartiere come l’Oltrarno è un argomento di discussione tuttora frequente, soprattutto per i residenti rimasti che lavorano fuori dal centro storico. Infine, tra le varie difficoltà è presente pure quella del rumore e automaticamente del degrado: essendo una zona frequentata da giovani, soprattutto a causa dell’imminente gentrificazione, è difficile trovare un periodo di quiete. Ciò porta con sé anche del degrado: molti angoli del quartiere sono maltenuti o ricchi di crimi-

nalità e attività illegali, come uso di sostanze stupefacenti o vendita di alcolici ai minori. Detto ciò una delle cause del degrado e di negozi che non rappresentano più il quartiere storico come minimarket poco legali o catene alimentari famose, potrebbe essere proprio la turistificazione. Un individuo che arriva a Firenze per pochi giorni preferisce cenare fuori oppure magari fare la spesa e consumare il pasto nel Bed and Breakfast affittato. Ciò potrebbe causare ad esempio una produzione di rifiuti non corretta e non controllata, dato il breve tempo di soggiorno, o un aumento dell’economia non locale. Su quale piano si trova il locale affittato? Tale domanda è stata posta per comprendere le dinamiche interne dell’edificio che ospita il Bed and Breakfast. Risulta che la maggior parte dei Bed and Breakfast raggiunti è disposta al primo piano (42%, ovvero 17 B&B su 40), successivamente ne abbiamo 13 su 40 al terzo nonché ultimo piano (33%), 5 al secondo piano (13%), 3 al piano terra (7%) e soltanto 2 (5%) al terzo piano su un edificio di quattro. Da tali dati è risultato possibile realizzare un’ipotetica sezione di localizzazione degli spazi degli edifici lungo la viabilità principale e lungo quella secondaria e successivamente sono stati realizzati dei grafici in percentuale per comprendere la quantità di ogni destinazione d’uso di ogni locale interrogato (fig. 4) prima per il piano terra, poi per i piani restanti ed infine un grafico che mostra le percentuali totali delle realtà presenti. Come possiamo vedere dalla sezione realizzata lungo la viabilità principale, i pattern ricavati sono coloratissimi e ciò indica che le realtà presenti secondo un campione di dieci edifici, sono molteplici: al piano terra pre-

Fig.4 Sezione ipotetica di localizzazione dell'uso degli spazi degli edifici

valgono minimarket e fondi sfitti, mentre nei restanti piani prevalgono i Bed and Breakfast. Lungo la viabilità secondaria, al piano terra troviamo in maggioranza appartamenti privati, mentre nei restanti piani prevale ancora una volta la presenza di Bed and Breakfast. Tale studio porta ad interrogarsi sull’effettiva quantità di realtà presenti nel quartiere e anche alle conseguenze di ciò: quali e quanti sono gli spazi rimasti ai “cittadini resistenti”? Questioni emergenti e nodi aperti nell’Oltrarno Una soluzione precisa e definita per risolvere le varie fragilità del quartiere Oltrarno non esiste, ma possiamo ipotizzare probabili intenzioni. Una possibile soluzione che di-

verse capitali hanno attuato9, potrebbe essere quella di decentrare il turismo dal centro storico, creando poli attrattivi in aree più periferiche e migliorando l’infrastruttura di collegamento. Ciò potrebbe in un certo qual modo migliorare o comunque drenare l’ingorgo di turisti nel centro storico della città. Altra soluzione invece pensata più per il quartiere stesso potrebbe essere quella di ripopolare l’Oltrarno di residenti giovani o studenti: sono questi i possibili fruitori grazie al quale il quartiere potrebbe tornare a vivere. Tramite l’analisi SWOT10 e le considerazioni che essa ha comportato è stato possibile ipotizzare delle probabili linee guida al fine di risol87 vere o almeno migliorare


Fig.5 Linee guida e strategie

le problematiche del quartiere emerse. Le strategie proposte sono state suddivise in tre macro-temi che si relazionano tra loro: Gestione e di Governance, Turismo sostenibile e Abitare e vivere sociale. Queste iniziative realizzabili in breve-medio termine potrebbero essere recepite dalla Municipalità di Firenze delle quali potrebbe essere responsabile insieme alle associazioni ed ai privati - in questo modo si genererebbero iniziative di tipo pubblico/privato. (fig. 5) 1. Strategie di gestione e governance • Creare un sistema di tracciatura e regolamentazione delle strutture ricettive: Airbnb, b&b, affittacamere e alberghi/hotel, residenze per studenti ecc.; favorire una distribuzione omogenea nei palazzi del quartiere per generare micro-comunità sociali eterogenee. • Limitazione dei costi di affitto di

alloggi per giovani coppie, studenti e nuovi residenti per rendere più accessibile e più eterogeneo il quartiere. 2. Strategie di turismo sostenibile • Limitazione del turismo “mordi e fuggi” pianificando una rete integrata di attività e promozioni per e con il turista, al fine di prolungare la sua permanenza nel quartiere, nel dettaglio renderlo più partecipe all’interno della sfera urbana collettiva. • Valorizzare e rigenerare aree periferiche della città tramite mostre, attività e/o eventi organizzati, così da contenere il turismo presente nel quartiere. 3. Strategie per abitare e vivere sociale. • Organizzare scuole di artigianato rivolte sia ai turisti che ai residenti di tutte le età così da promuove-

re un tratto distintivo importante del quartiere. • Organizzare incontri tra residenti e stranieri sfruttando i centri di interesse comune e quelli di aggregazione per svolgere eventi, per discutere e risolvere problemi relativi al quartiere e per promuovere l’integrazione sociale. Quali conclusioni trarre L’indagine svolta apre moltissimi spunti sui quali, ormai da molti anni, esperti e professionisti dibattono per trovare una o più soluzioni. L’intento di questo studio non era certamente quello di risolvere le varie problematiche legate alla turistificazione e allo sfollamento dei centri storici, ma di evidenziare la realtà dei fatti e di delineare i conseguenti cambiamenti all’interno dello spazio urbano, provando a proporre alcuni possibili miglioramenti nella città. Lo studio si è soffermato principalmente sulle fra-

gilità del quartiere Oltrarno, sulla sua deresidenzializzazione e sul rapporto tra turistificazione e spazio pubblico. In particolare, l’attenzione è stata posta sul fenomeno dei Bed and Breakfast che, essendo preponderante nella città di Firenze e perlopiù nel quartiere Oltrarno, risulta essere un esempio alquanto impattante in termini di un nuovo uso dello spazio pubblico, di cambiamento del tessuto urbano e sociale e di sfollamento dei residenti. La voce dei cittadini ‘resistenti’ e degli esperti che trattano quotidianamente queste problematiche, è stata fondamentale soprattutto per comprendere le dinamiche sociali e qualitative del quartiere. Facendo riferimento ad un’intervista rilasciata da TelePoveglia, dell’associazione Poveglia per tutti, nell’aprile scorso lo storico dell’arte, accademico e editorialista italiano, Tomaso Montanari sostiene, prendendo la città di Venezia come esempio, che


Note “ciò non si risolve con il numero chiuso, ma con il numero aperto dei cittadini, devono esserci i residenti, deve essere una città viva e solo così essa può decidere cosa è tollerabile per la propria sopravvivenza” (Montanari, 2018). Come Montanari, anche l’architetto Stefano Boeri sostiene una teoria simile: “Il tema non è se vogliamo gli stranieri o gli italiani, ma se vogliamo avere nelle nostre città residenti che la vivono stabilmente, portandoci tutte le culture del mondo, o invece turisti temporanei, che le “consumano” in modo frenetico” (2018).11 Tali affermazioni risultano molto rilevanti. La città deve tornare ad essere civitas: il turista o straniero, non deve essere eliminato, ma si deve tendere a una dialettica bilanciata tra visitatori e residenti, così che entrambe le parti possano trarne vantaggio. Le città vanno ripopolate da persone presenti, resistenti e integrate nello spazio urbano. In un contesto storico dove è diventata quasi un’abitudine redigere muri e barriere ovunque, è d’obbligo combattere e allargare lo sguardo: solo tramite il dialogo, le relazioni, l’equilibrio e l’uguaglianza è possibile abbattere ogni barriera, che sia sociale, economica o culturale. Ciò deve partire dal cittadino stesso e dalla consapevolezza che le città che abitiamo devono rispecchiare la parte più bella, onesta e accogliente di noi stessi.

1 “Esso è un processo afferente alla sociologia urbana, che può comprendere la riqualificazione e il mutamento fisico della composizione sociale di aree urbane marginali, con conseguenze spesso non egualitarie sul piano socioeconomico. […] La gentrification è un processo proprio delle dinamiche socioeconomiche della metropoli contemporanea, la quale ingloba al suo interno una grande eterogeneità di aree e quartieri con diverse caratteristiche socioculturali e spaziali che possono attirare, per differenti ragioni, un interesse funzionale e/o economico proveniente dall’esterno”. (gentrification in Enciclopedia Treccani). 2 Ranaldi I. 2014, Gentrification in parallelo – Quartieri tra Roma e New York, Aracne Editore, Roma. 3 Dossier a cura della redazione di InfoAut Bologna, 2018, Otto tesi sulla turistificazione, «InfoAut». 4 Quaglieri Dominguez A., Universitat Rovira i Virgili di Tarragona, Giugno 2017, La battaglia di Barcellona contro il turismo e AirBnb, «LinkIesta», «https://www.linkiesta.it/it/article/2017/06/24/la-battaglia-di-barcellona-contro-il-turismo-e-airbnb/34693/». 5 Manifesto fondativo della rete Set, «https:// www.cct-seecity.com/2018/04/set-net/». Le sedici città che hanno attualmente aderito a tale causa sono Barcellona, Venezia, Firenze, Valencia, Girona, Malaga, Palma de Mallorca, Madrid, Lisbona, Donostia/San Sebastiàn, Siviglia, Ibizia, Pamplona, Malta, Tarragona e le Isole Canarie, ma la rete ha naturalmente intenzione di espandersi. 6 Capineri C., Picascia S., Romano A. 2018, L’airificazione delle città. Airbnb e la produzione di ineguaglianza, «cheFare», «https://www.che-fare.com/ lairificazione-delle-citta/». Per i dati ufficiali cfr. http://insideairbnb.com/index.html 7 Questionario somministrato ad un campione di quaranta proprietari di Bed & Breakfast nel quartiere Oltrarno: https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSdqdP0S6J6GqRWT4bxj4Rm0sdNgjHCEsofDAnelDZypPx7DDg/viewform?c=0&w=1. 8 Il locale che affitta è di sua proprietà? La prima domanda consiste nell’identificare l’interlocutore e comprendere se il locale fosse di suo possesso oppure di un ente che gestisce anche altri appartamenti. Da quanto tempo affitta il locale? La seconda domanda ha come obiettivo non solo quello di contestualizzare da un punto di vista temporale il locale in affitto, ma anche di capire a quando risale il boom della nascita dei Bed and Breakfast nel centro storico di Firenze. Affitta anche altri locali? La terza domanda punta a comprendere le dinamiche di gestione del locale da parte del proprietario da un punto di vista quantitativo. Lei invece dove risiede? La quarta domanda inizia ad indagare sulla residenza del proprietario: egli può scegliere tra “sempre in Oltrarno”, ovvero nel luogo in cui affitto, “fuori dal Centro storico” oppure una risposta libera. Per quale motivo non vive nel Centro Storico? Questa domanda che si rivolge solo a quei proprietari che hanno risposto “fuori dal centro storico” alla precedente, cerca di dare spiegazioni riguar-

Bibliografia do all’abbandono da parte del fiorentino del centro storico. Le opzioni di risposta sono molteplici: il proprietario poteva scegliere tra, 1. A causa dei prezzi troppo elevati; 2. A causa di scomodità e rumore; 3. Maggiore comodità fuori dal centro storico. Su quale piano di trova il locale affittato? L’ultima domanda si pone come obiettivo quello di determinare l’organizzazione interna dell’edificio in cui risiede il Bed and Breakfast, per cercare di delineare anche le dinamiche interne ad esso. 9 Vedi l’apertura di alcuni musei lontano dai centri storici di grandi capitali, come ad esempio la Fondazione Louis Vuitton disegnata da Frank Gehry a Parigi, inaugurata nell’ottobre 2014, che accoglie ben undici gallerie espositive, un auditorium da 350 posti, spazi per allestimenti temporanei e mostre, ma anche iniziative culturali e concerti. 10 Grazie alla voce dei suoi cittadini è stato possibile ipotizzare un quadro completo degli aspetti positivi e negativi del quartiere e dunque delineare un’analisi SWOT, tramite molteplici interviste. Punti di forza – Strenghts: -Ricchezza del patrimonio storico, culturale e artistico. -Coesione sociale. -Atmosfera unica del quartiere. -Eventi e luoghi di incontro per i giovani. -Ricchezza di aree verdi. Punti di debolezza – Weaknesses: -Turismo deregolamentato. -Sfollamento dei residenti. -Scomodità e rumore. -Degrado ed inquinamento. -Traffico e rumore. Opportunità / Opportunities: -Turismo di qualità e sostenibile e dunque diminuire i prezzi. -Decentrare le attrattive artistiche e culturali lontano dal centro storico, valorizzando le periferie e una nuova infrastruttura di collegamento. -Valorizzare gli antichi mestieri identitari del quartiere utilizzando i numerosi fondi sfitti prese. -Regolamentare la presenza dei Bed and Breakfast. Minacce – Threats: -Carenza di fondi per la gestione e per la manutenzione ordinaria e straordinaria dei beni artistici e storici. -Conflitto tra sviluppo industriale e sviluppo turistico. -Totale perdita di identità del quartiere. 11 Liso O. 2018, Via a progetti residenziali per attirare i giovani, intervista a Stefano Boeri, «La Repubblica», Milano.

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Fig. 1.1 Ideogrammi che rappresentano le quattro fasi in cui avviene lo scambio di flussi demografici nel modello della città core-ring.


Crescita e decrescita urbana: applicazione del modello del ciclo di vita urbano in Toscana

Jonathan Nucci

Introduzione La crescita urbana è un fenomeno complesso determinato da molteplici fattori. La conoscenza di questi fattori rappresenta un passo importante per le discipline urbanistiche. Comprendere i processi che determinano la crescita ed il cambiamento delle città è un passo fondamentale nell’azione di progettazione. Le città aumentano le proprie dimensioni per accogliere nuove funzioni o ampliarne la scala, cambiano forme e dimensioni, si evolvono esercitando pressioni diverse sul territorio, sottraendo superficie agricola ed impermeabilizzando nuove aree. In questo articolo si è cercato di verificare quali siano stati i modelli insediativi e di crescita urbana dei capoluoghi toscani analizzando le loro evoluzioni dagli anni ’50 ai giorni nostri, per cercare di chiarire come e perché siano determinati alcuni processi e quali differenze si siano realizzate in questi processi nei diversi comuni considerati nel campione. Si sono di fatto identificate le diverse fasi di sviluppo del campione di città attraverso un sistema di indicatori in grado di descrivere le evoluzioni, sviluppi, crescita e decrescita. L’approccio utilizzato per questa analisi si basa sulla teoria introdotta da Klaassen (1981) all’inizio degli anni ’80, e per la prima volta adottata da Van

den Berg (1982), nella quale vengono studiate le variazioni nel tempo di una popolazione tra centro e periferie (core e un ring), classificando tali variazioni in base a quattro fasi diverse che descrivono diversi livelli di sviluppo urbano e di relazioni tra città e territorio. Tale teoria nasce agli inizi degli anni ’80 proprio quando si immaginava la città come un vero e proprio “oggetto” di design e come tale caratterizzata da un ciclo di vita, identificabile in nascita, crescita in cui si creavano economie di sviluppo ma anche una fase di decrescita con le conseguenti diseconomie. Queste diverse fasi del ciclo di vita o “momenti” in cui la città si colloca sono ben leggibili anche nella morfologia urbana definita da una serie di configurazioni spaziali che caratterizzano ogni fase del ciclo. Questo modello interpretativo (modello del ciclo di vita urbano-MSCVU) attribuisce enorme importanza alla demografia interpretandola come indice della mutata relazione nello spazio urbano attraverso la definizione di gerarchie basate su centro (core) e periferia (ring) modificando l’importanza relativa che le due aree assumono e collocando la città in una diversa fase del proprio ciclo di vita. Chiaramente questo modello non appare ad oggi del tutto esau-

stivo nel definire lo sviluppo urbano, in quanto i soli aspetti demografici possono non essere sufficienti a spiegare lo sviluppo di una città, ma il forte collegamento tra andamenti demografici e fattori economici, sociali, culturali ed ambientali, contribuisce a rendere l’uso di questi indicatori efficace nel misurare gli effetti di fenomeni complessi spesso difficili da misurare. Per migliorare la comprensione delle complesse relazioni di causa effetto tra molteplici fattori implicati nella evoluzione delle città, nel presente articolo gli indicatori demografici impiegati in letteratura sono stati integrati da indicatori socio economici e territoriali, selezionati in base alla loro attitudine a descrivere e spiegare lo sviluppo della città. È opportuno fare anche un’ulteriore premessa parlando del ciclo di vita urbano, ovvero che qualunque sia, infatti, l’approccio interpretativo che si voglia utilizzare, non si può non considerare che la validità delle categorie concettuali è subordinata ai tratti specifici del contesto cui ci riferiamo. Il modello teorico del ciclo di vita urbano a cui fa riferimento il presente studio e sintetizzabile secondo le seguenti fasi: 1. “urbanizzazione”, fase in cui la popolazione si concentra nel core di

Corso di Laurea Magistrale in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio Relatore: Prof. Ginevra Virginia Lombardi Co-relatore: Prof. Giuseppe De Luca Luglio 2019

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Tab 2.1 Grafici lineari dove vengono rappresentati gli andamenti dal 1951 al 2011, e quindi gli interscambi, della popolazione appartenente al comune core e di quella ottenuta dalla sommatoria dei comuni ring. I colori rosso, blu e verde individuano cluster di comportamento (elaborazione su dati Istat).

un insediamento a discapito delle periferie; 2. “sub-urbanizzazione” si verifica quando la pressione demografica sul core si allenta e la popolazione comincia a privilegiare la residenza nel ring per cui la crescita, che ancora si verifica, dell’intero sistema e a carico esclusivamente della periferia; 3. “de-urbanizzazione” in cui anche il ring adesso inizia a perdere popolazione, per cui la totalità del sistema urbano si trova in una situazione di declino demografico; 4. “ri-urbanizzazione”, fase che è caratterizzata da un aumento del peso demografico del core urbano rispetto alle periferie, processo analogo a quello che si verificava nel primo stadio di urbanizzazio-

ne, sebbene al contrario della prima fase, qua si presentino condizioni di stabilità o addirittura lievi riduzioni di popolazione urbana complessiva (fig.1.1). Le aree core e ring, centro e periferia sono fortemente connesse tra loro poiché condividono importanti interazioni quali scambi commerciali, migrazioni e pendolarismo e localizzazioni o delocalizzazioni di funzioni e servizi. Grazie a questo modello è possibile valutare una serie di particolari flussi di popolazione tra core e ring, che definiscono cambiamenti nelle gerarchie degli spazi urbani con cambiamenti della importanza e attrattività delle aree nel tempo. Tali fasi in teoria si susseguono in una sequenza che da luogo ad un ciclo di vita che una determinata città

si suppone debba affrontare in relazione a specifici orizzonti temporali; questi cicli di vita vengono riportati ad intervalli di tempo definiti per facilità di comparazione tra loro. Metodo e dati Il modello spaziale di ciclo urbano utilizzato in questo studio (MSCVU) fa riferimento al modello di Klaassen (J. Paelinck, L. Klaassen, 1979). Per tenere traccia degli scambi di popolazione tra due sezioni di un’area, Klaassen utilizza un diagramma circolare (fig.2.1). Gli assi orizzontali del modello si riferiscono alla variazione del valore assoluto della popolazione all’interno del core (ΔC) in un arco considerato. Gli assi verticali, invece, si riferiscono alla variazione del valore assoluto della popolazione all’in-

terno del ring (ΔR), anch’essa all’interno dello stesso arco di tempo considerato. Ogni asse ha una semiretta positiva e una negativa che ha origine dagli assi. Ogni posizione a destra dell’asse verticale indica una crescita di popolazione nel core in riferimento ad un intervallo di tempo, e nel contempo ogni posizione a sinistra indica una decrescita nella stessa area. Corrispettivamente agli assi verticali, per tutte le posizioni sopra l’asse orizzontale la popolazione nel ring cresce, mentre invece decresce in tutte le posizioni al di sotto di essa. Lo spazio in questo diagramma è un piano cartesiano suddiviso in quattro quadranti, ognuno rappresenta una diversa fase dello sviluppo della città definito dalle variazioni relative della popolazione tra ring e core.


Fig. 2.1 Diagramma circolare di Klaassen che spazializza, all’interno di una circonferenza, le fasi del modello analitico (T. Kawashima, 2005).

Fig. 2.2 Mappatura degli ambiti di analisi all’interno della regione Toscana. In colore marrone sono evidenziati i comuni centroidi del modello mentre in giallo emergono i comuni a corona con i quali avviene lo scambio maggiormente rilevante per lo studio.

I settori 1 e 2 rappresentano l’urbanizzazione, i settori 3 e 4 invece rappresentano la suburbanizzazione, le sezioni 5 e 6 indicano la fase di deurbanizzazione mentre gli ultimi settori 7 e 8 rappresentano la riurbanizzazione. La duplice sezione per ognuna delle quattro fasi crea due sottofasi, una assoluta e una relativa che fanno riferimento a due diverse configurazioni spaziali per la città e per il cambiamento demografico core-ring. Di norma si presuppone che l’inizio del ciclo possa essere coincidente con la fase 1, sebbene molti autori abbiano discusso che una città possa “nascere” direttamente anche in altre fasi come ad esempio nella sotto-fase 8 o nella 7 a seconda del contesto a cui il modello viene applicato.

Quindi, come già affermato in precedenza le particolari condizioni con cui un’area viene raffigurata nel modello del ciclo di vita urbano, variano dai contesti culturali, sociali, economici e ambientali. Ci sono stati alcuni casi studio che hanno sfruttato questo metodo analitico per mettere in evidenza relazioni tra il comportamento demografico e le interdipendenze tra alcune aree selezionate. Il primo degno di nota è stato condotto dai professori dell’Università di Tokyo T. Kawashima, A. Fukatsu, N. Hiroaka che nel 2006 hanno sfruttato il modello spaziale del ciclo di vita urbano applicandolo alla città di Tokyo post seconda guerra mondiale, evidenziando una ripresa lenta in 60 anni di deurbanizzazione che solo nell’ultimo de-

cennio si è ripristinato innestando un processo di riurbanizzaione. Sei anni dopo, da K. Rontos, C. Mavroudis, L. Salvati, è stato condotto uno studio analogo sulla città di Atene con il fine di indagare quali fossero le principali fasi di evoluzione della città in seguito alla seconda guerra mondiale. I dati rilevati confermano quello che era l’ipotesi di partenza degli autori, ovvero un evidente rottura nelle dinamiche viene individuata negli anni ’80 (precisamente nel decennio 1971-1981), prima del quale la zona presentava caratteristiche di suburbanizazzione relativa (quindi crescita sia del ring che del core). Questo trend però si inverte dal 1981 al 2001 per entrare sempre in una fase di suburbanizzazione ma questa volta assoluta, dove il core perde po-

polazione in favore di una crescita del ring. L’analisi effettuata nel presente studio considera un campione di città della regione Toscana rappresentato da 10 città capoluogo di provincia (11 in realtà, discorso a parte va fatto per Massa e Carrara). Ognuna di queste città ha una propria identità e una propria storia, ma quando si parla di sviluppo urbano ci sono molti fattori comuni, all’apparenza non rilevabili ma che potrebbero evidenziarsi qualora siano indagati grazie al modello del ciclo di vita urbano di Klaassen. La scelta del campione di città è stata effettuata in base alla rappresentatività dei molteplici contesti e diversità della regione Toscana. Per ap93 plicare tale modello inter-


pretativo, occorre innanzitutto definire le unità minime di analisi territoriale, stabilite in base a raggruppamenti di comuni contigui con dimensione demografica superiore ad una certa soglia. Per tentare un’applicazione alla Toscana dello schema di analisi si propone di considerare come aree urbane centrali tutte le città capoluogo, mentre invece come corone urbane i comuni contigui, seguendo così l’approccio dello studio sopra citato di L. Salvati. Questa analisi si basa su un campione di 11 comuni capoluogo di provincia e ben 68 comuni considerati comuni “cintura” (Fig.2.2). Il modello è stato applicato ai dati socio e economici per l’intervallo temporale 1950-2011 verificando le variazioni degli indicatori tra i core e i ring selezionati. Le fonti per i dati demografici ed economici sono i censimenti della popolazione e dell’industria dell’Istat1. Grazie a questi dati si possono denotare 3 cluster di appartenenza (Tab. 2.1) ognuno caratterizzato da un trend specifico; il primo gruppo composto dai comuni di Firenze, Carrara e Livorno presenta una popolazione nei comuni limitrofi sempre al di sopra della popolazione del comune centrale, il secondo gruppo, quello di cui fanno parte le città di Grosseto e Massa, presenta una dinamica opposta a quella vista in precedenza, poiché la città centrale ha un potere di attrazione sempre maggiore rispetto ai comuni confinanti; il terzo e ultimo gruppo è quello a cui appartengono il maggior numero di città, tra cui Siena, Lucca, Arezzo, Prato, Pistoia e Pisa, quindi la dinamica è la più comune e consiste in un interscambio di popolazione tra ring e core all’interno del ventennio che va dagli anni ’60 agli anni ’80. È stato poi successivamente ritenuto opportuno eseguire una analisi

della evoluzione dei sistemi produttivi locali, applicando lo stesso approccio analitico previsto dal MSDCV. A causa della difficoltà nel reperimento dei dati ISTAT sul censimento dell’industria e dei servizi, l’indagine sulle imprese è riuscita a risalire indietro fino al 1971, primo censimento che ha reso disponibile il dato. Utilizzando i dati sugli spostamenti demografici e delle unità locali nei territori dell’analisi, è stato possibile intessere il modello spaziale del ciclo di vita urbano ideato da Klaassen con ulteriori indicatori. L’introduzione dell’aspetto economico (Tab. 2.2) è difatti un’applicazione innovativa nel modello basato sull’applicazione di dati demografici. Una volta ottenute le fasi del ciclo dal modello, sono state inserite all’interno di un grafico lineare, in modo tale da esplicare in maniera più chiara anche il fattore temporale dell’analisi, enumerando ogni punto con la propria sub fase di riferimento (Fig. 2.3). Volendo poi inserire un ulteriore fattore che desse un riferimento indicativo, il grafico è stato corredato da una percentuale di consumo di suolo, per mettere in rapporto le varie fasi del ciclo con quella del suolo consumato nell’espansione della città core, sebbene il consumo di suolo, per essere adattato agli intervalli dell’analisi, è stato estratto da fonti cartografiche CTR della Regione Toscana e le date di riferimento hanno intervalli diversi rispetto al dato censuario; esse infatti sono espansioni riconducibili alle date 1954, 1978, 1996 e 2013 tra cui sono state calcolate le percentuali di incremento. Questo dato è però da considerarsi più un indice di riferimento piuttosto che una reale stima del suolo consumato, poiché è stato calcolato esclusivamente sui nuovi manufatti tra una data e l’altra, quindi è considerata solamente la superficie coper-

ta dalla proiezione dell’edifico omettendo il computo della reale area consumata dall’urbanizzazione al piano terra. L’indice individuato di consumo di suolo è comunque rilevante per studiare le dinamiche espansionistiche delle città esaminate. Risultati Basando l’analisi sull’approccio quantitativo costruito sul modello del ciclo di vita spaziale è stato possibile esplorare l’andamento dello sviluppo urbano in modo semplificato. Il metodo scientifico utilizzato fa si che i dati siano oggettivi, misurabili e confrontabili, nonostante l’incognita dell’esistenza di fattori driver che possano influire sui modelli di crescita urbana ma che allo stesso tempo non siano quantificabili e calcolabili in quanto parte di una complessità di interazioni non deducibili da variabili statistiche (Fig. 3.1). Guardando i risultati del modello emersi si delineano tre diversi cluster che si dividono temporalmente in base alle loro sub-fasi. Il primo intervallo di tempo considerato, va dal 1951 al 1971. In questa fase sono emerse alcune evidenze che riconducono la maggior parte dei capoluoghi toscani alla fase di de-urbanizzazione subito dopo il periodo della seconda guerra mondiale; questo perché quel preciso momento storico fu caratterizzato da massicce ricostruzioni post belliche che hanno reso questo ventennio caratterizzato da un consumo di suolo maggiore rispetto a tutto il periodo successivo. Grandi città come Firenze, Pisa sono state precorritrici di un modello del ciclo di vita che è poi stato seguito dalle città con minor peso demografico; di conseguenza è stato possibile rilevare che il pattern di espansione urbana viene influenzato dalla classe dimensionale a cui appartiene la città: maggiore e la dimensio-

ne demografica della città maggiore è il suo dinamismo nel passare da una fase all’altra e minore è il tempo di permanenza all’interno della medesima fase del ciclo di vita. Gli spostamenti che avvengono dal 1950 al 1970 sono da attribuire alle migrazioni a bassa distanza interni alla regione, ovvero quegli spostamenti determinati dalla nascita di nuovi poli industriali e specializzazioni di settore (i 2/3), mentre invece i restanti sono spostamenti su territorio provinciale, ovvero quegli interscambi tra città e campagna; infatti le città che aumentano il ring sono quelle che hanno i comuni di prima cintura con una vocazione più rurale. Questo fattore è stato l’incipit di un processo che caratterizzerà gli anni successivi, ovvero un forte trend di svuotamento delle campagne. A confermare questo fenomeno, il numero dei comuni toscani con vocazione rurale che nel 1951 ammontava a ben 201 su 287 totali e che poi con il solo passare di venti anni si è ridotto a 48 (Cortesi e Formentini, 1976). Queste dinamiche fanno in modo che dal 1970 in poi le campagne si svuotino lentamente in favore dei core degli insediamenti urbani, per alcune condizioni attrattive, come ad esempio le opportunità occupazionali per l’insorgere di nuove industrie e lo sviluppo economico, la morfologia del territorio favorevole, la concentrazione di servizi. La seconda serie temporale considerata all’interno della Toscana va 1971 al 1991. In questo intervallo è possibile vedere come le città, partendo da una situazione di omogeneità di fase, inizino a percorrere fasi diversificate, rompendo lo schema omogeneo presente fino al periodo considerato. Infatti si ha una diversificazione dei pattern di sviluppo in cluster di città, con le città più piccole che vengono interessate da fasi di


Tab. 2.2 Grafici lineari, che come nella tabella precedente, rappresentano gli andamenti dal 1971 al 2011 delle unità locali presenti sul territorio del core e del ring, mettendo quindi in risalto gli intercambi e raggruppando i sistemi con colori uguali a seconda di trend analoghi (elaborazione su dati Istat).

crescita precedentemente occupata dalle città più grandi. Questi sono gli anni del boom economico, delle industrie che attirano manodopera in città sottraendola alle campagne e di conseguenza si nota come i core analizzati siano al centro della tendenza di crescita maggiore rispetto ai ring che rappresentano le zone periferiche, ancora a vocazione prevalentemente rurale. Infatti questi comportamenti saranno sintomatici del fenomeno dell’espansione definita in molteplici modi nel corso degli anni, “campagna urbanizzata”, “città diffusa”, “conurbazione toscana”, “metropo-

lizzazione” e più recentemente indicati come “sprawl urbano” (Tab. 3.1); In questo decennio, a scala nazionale, i territori modellati artificialmente sono cresciuti di circa 82.000 ettari pari al 6 %, passando da 1 milione e 340 mila a 1 milione e 422 mila. La tendenza è quindi quella di una crescita avvenuta soprattutto a discapito delle aree agricole che hanno ceduto 80.000 ha ai territori urbanizzati; anche le formazioni forestali perdono una parte dei loro territori a fini insediativi, circa 3.500 ha nell’arco dei dieci anni (Agnoletti, 2008). L’ultimo ventennio, ovvero quello tra il 1991 e il 2011, è carat-

terizzato da dinamiche che variano a seconda del decennio: nel primo 9101 si osserva una tendenza di crescita maggiore sia nei core che nei ring delle città più popolate della regione, mentre tra il 2001 e il 2011 si denota una forte decrescita della città sia nel centro sia nelle periferie. Sebbene la maggior parte delle città sia nella fase della riurbanizzazione, non hanno la forza effettiva di riuscire ad aumentare la popolazione di queste aree. In questi anni, infatti, c’è un forte declino dei centri storici che è strettamente connesso all’espansione delle aree di seconda o terza cintura.

Tali aree riescono ad ottenere una grande attrattività grazie alla forte nuova infrastrutturazione che permette gli spostamenti in maniera più agevole e quindi non vi è più motivo di cercare una residenza all’interno di un ormai costoso sistema insediativo centrale. Un importante trend che influisce sull’aumento della popolazione nonostante la fase di declino è l’immigrazione straniera (Tab. 3.2); questo fenomeno riesce ad attenuare la perdita di residenti nelle aree centrali o ad esaltare la capacitàà di attrazione di alcune aree della cintura 95 metropolitana, che offro-


Fig. 2.3 Grafici che sintetizzano i risultati ottenuti dal modello del ciclo di vita urbano applicato ai comuni campione. La circonferenza spazializza il dato mentre il grafico correlato sottostante aggiunge la componente temporale e permette una lettura chiara dei trend. Nel grafico lineare è presente anche un ulteriore elemento utile alla comprensione dell’andamento quale la percentuale di consumo di suolo nell’arco temporale di riferimento.

Fig. 3.1 Lo schema, risultato dello studio, individua i cluster di appartenenza per ogni sistema core-ring analizzato, raggruppandoli in base al comportamento nel modello analitico, all’interno di un lasso temporale di dieci anni corrispondente alle date censuarie di riferimento.


Tab 3.2 Tabella che evidenzia la crescita esponenziale, tra il 1991 e il 2018, della presenza di stranieri nei comuni analizzati (elaborazione su fonti Istat).

Tab. 3.1 Grafici che indicano il consumo di suolo agricolo nel ventennio tra il 1990 e il 2010 a discapito della superficie agricola utilizzata (SAU). In giallo la SAU e in blu il resto della superficie comunale ad uso non agricolo (elaborazione su dati Ispra).

Tab 3.3 Grafico che indica l’andamento della compattezza dell’urbanizzato in riferimento al 1954, al 1978, al 1996 e al 2013. L’indice viene calcolato attraverso il rapporto tra le aree delle zone costruite ed il loro perimetro, e serve proprio a evidenziare eventuali comportamenti che possano testimoniare l’allargamento o il restringimento della maglia urbana.

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no abitazioni a costi meno elevati e condizioni di vita più sostenibili. Città come Siena, Pisa, Lucca, Prato, Pistoia, Grosseto, Arezzo e Livorno sono state colpite dai suddetti fenomeni, inoltre la forte crisi economica che si è manifestata in questi anni ha fatto in modo che le industrie litoranee da una parte, chimiche e siderurgiche, e il turismo della Toscana risentissero in particolar modo di questo trend negativo. Un indice importante che ci permette di ampliare il modello ciclico è quello della frammentazione dei margini, grazie al quale è possibile verificare che le politiche urbanistiche volte a compattare i margini urbani per arginare il fenomeno dello sprawl urbano sono state efficaci, difatti il periodo 91-11 è stato caratterizzato da un maggior ritorno alla compattezza dell’edificato costruito lungo i margini della città ritrovando cosi una forma della città meno diffusa e più uniforme (Tab. 3.3). Gli andamenti sopra analizzati sono stati poi ideogrammati nella matrice riassuntiva (Fig. 3.1), dove sono stati messi in evidenza i vari cluster per gli intervalli di tempo considerati. Ogni circonferenza racchiude una fase della città che però, secondo il modello di Klaassen, è ulteriormente suddivisa in due sottofasi o momenti del ciclo di vita urbano. Le circonferenze sono posizionate in maniera tale che sia possibile controllare l’andamento delle città nel tempo avendo una visione complessa del fenomeno nell’intero campione di città con una più chiara descrizione del percorso evolutivo. Questo setting dell’ideogramma fa sì che ci siano delle fasi presenti per alcune date ma assenti per altre, così da porre l’accento sulle fasi mancanti e su quelle preponderanti (indicate con una circonferenza più grande). In viola sono evidenziati i comportamenti singolari o comunque interessanti

in riferimento ai trend delle unità locali, ad esempio quando un raggruppamento di comuni ha un comportamento analogo o contrario tra i due ambiti indagati della popolazione e delle unità locali. In rosso vediamo gli andamenti in negativo, sia per la popolazione sia per il comportamento delle unità locali, mentre in verde si leggono tutti i comportamenti “in positivo”, dove quindi la città guadagna in popolazione e imprese sulle varie zona del sistema core-ring. Conclusioni Il modello ha messo in evidenza che esistono dei comportamenti omogenei all’interno del campione di città toscane considerato, tali da permettere di creare cluster omogenei di città che seguono gli stessi pattern di sviluppo. Molto interessante è anche la composizione dei cluster caratterizzata da città che hanno caratteristiche fisiche e demografiche simili. I fattori principali che emergono con più forza da questo studio, e che hanno avuto un ruolo fondamentale per lo spostamento di popolazione all’interno dell’area della Toscana, sono stati da una parte l’attrazione delle attività nei poli industrializzati in un primo momento, come mostrano i dati sulle unità locali; dall’altra la loro crisi e il conseguente fenomeno di “traboccamento” della popolazione nei comuni di seconda e terza cintura. Sicuramente di un certo interesse è il comportamento delle città con dimensione demografica maggiore tra gli anni 1951 e 1971, per le quali il modello ha evidenziato un processo del ciclo di vita che è stato precursore dell’andamento del ciclo di vita delle città più piccole. Questo risultato evidenzia che la dimensione demografica è una determinante importante nel definire il modello di crescita e la sua velocità.

Le città di Firenze, Siena e Pistoia sono quelle che hanno dimostrato maggiore dinamicità nel tempo ed hanno attraversato più fasi del ciclo di vita urbano, infatti nel giro di cinquant’anni ognuno dei tre comuni toscani ha visto la successione di tre diverse momenti mentre i restanti comuni analizzati hanno alternato sempre le solite due fasi: le città di Pisa e Carrara alternano la fase di urbanizzazione a quella di riurbanizzazione, le città di Livorno e Pistoia alternano fasi di deurbanizzazione a fasi di urbanizzazione; i due comuni di Arezzo e Prato hanno entrambi l’alternanza di fasi di deurbanizzazione a fasi di riurbanizzazione; le città di Grosseto e Massa hanno un comportamento che alterna fasi di deurbanizzazione a quelle di suburbanizzazione; la città di Lucca invece è l’unica città della Toscana che alterna fasi di riurbanizzazione a quelle di urbanizzazione. Dobbiamo inoltre osservare che nonostante le città toscane abbiano attraversato le fasi del ciclo di vita in modo diversificato, il consumo di suolo rimane una costante in questi anni, difatti non c’è mai un vero e proprio arresto del consumo di suolo (semmai una lenta diminuzione con il progredire degli anni) tanto che le campagne subiscono una forte frammentazione continua della loro ruralità. Questo fenomeno probabilmente è avvenuto perché prima dei piani regolatori generali, si tendeva ad accomunare il benessere di una città con la propria crescita espansiva, e quando ci si è accorti che questo non era corretto, la pianificazione negli anni 80-90 aveva già fatto delle proiezioni per la redazione dei PRG sul potenziale d’espansione delle città senza però tener conto del saldo negativo della Toscana sulla popolazione in quegli anni. Di conseguenza quindi, ad una mancata espansione

demografica è corrisposto un incremento delle aree urbanizzate indicato dagli strumenti, che hanno esaurito le possibilità edificatorie nonostante non si sia verificata la prevista crescita demografica ed economica. Gli indici di compattezza riportati dimostrano che solo negli ultimi anni si è tornati alla consapevolezza di una tutela del territorio aperto nell’ottica di preservare la ruralità dei territori già frammentati e quindi le scelte pianificatorie si sono concentrate nella saturazione e sul compattamento dei margini urbani e delle aree interne al nucleo. Infine un’attenzione particolare va data anche ad un altro fenomeno che avviene quando si cerca di arginare il consumo di suolo, ovvero il cambio di destinazione d’uso. Generalmente si pensa che con la cultura del recupero e della riconversione di aree dismesse si possa frenare un fenomeno negativo come il consumo di suolo senza però tenere in considerazione che assegnare usi diversi rispetto a quelli originari può talvolta aumentare considerevolmente il carico insediativo producendo delle inefficienze in termini di erogazione dei servizi e di congestione del sistema infrastrutturale di servizio all’insediamento, quando non adeguati alle nuove funzione che ci cerca di innestare (Agnoletti, 2008). Ovviamente non è semplice sintetizzare tutti i dati ed i risultati dell’analisi poiché si interconnettono con elementi di diversa natura e dinamiche che possono anche non appartenere alla stessa regione ma che comunque manifestano delle ricadute su scala locale per effetto, ad esempio, di cambiamenti nel sistema dell’economia nazionale o internazionale.


Note 1 Dati estratti dalla piattaforma ISTAT “Atlante statistico dei comuni”

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Mappa 1 Rotte migratorie in rapporto all’area di Schengen


Abitare Sospeso. I migranti africani nella Piana di Gioia Tauro. Tra campi pianificati e autogestione.

Diletta Vecchiarelli

Introduzione Le migrazioni sono uno dei temi centrali nel dibattito politico contemporaneo. Giornali e media parlano sempre più frequentemente di richiedenti asilo, rifugiati, migranti economici e clandestini, parole che, nella maggior parte dei casi, vengono associate da un lato, all’emergenzialità causata dal numero degli arrivi e dall’altro, alla sicurezza dei cittadini promossa essenzialmente con il controllo dei migranti in territorio nazionale e internazionale. Questa visione evidenzia il clima generale, caratterizzato dall’avanzamento delle nuove destre europee che, ovviamente, incide sulle scelte messe in campo da ogni paese appartenente all’Unione e quindi sugli equilibri internazionali nella gestione dei flussi migratori. Infatti, parlare di corpi in movimento e nello specifico di quelli che arrivano alle porte d’Europa, come prima cosa, chiama in causa il concetto di biopolitica (Agamben, 2005; Foucault, 2015), ovvero di quell’insieme di pratiche, di norme e di politiche introdotte dai vari stati per regolare la vita degli individui, che abitano il territorio e che lo attraversano. L’esistenza di un forte legame tra forme spaziali e forme giuridiche si manifesta materialmente sul territorio dando vita a precise conforma-

zioni dello spazio e a diverse tipologie dell’abitare. In che termini e con quali strumenti viene definita la possibilità di restare in un paese europeo? Qual è la condizione abitativa dei migranti forzati in Italia? Quali caratteri nuovi e peculiari assumono gli spazi di vita e dell’abitare nei differenti contesti territoriali? Queste sono solo alcune delle domande che hanno mosso l’interesse alla ricerca svolta, nel tentativo di inquadrare i caratteri e il funzionamento del sistema accoglienza-respingimento introdotto in Europa e di capire in che termini questo meccanismo giuridico-spaziale definisca diversi modi di abitare e precisi stili di vita dei migranti forzati in Italia. Rifacendosi a concetti quali, la spaziatura grigia (Yiftachel, 2009) e l’urbanistica subalterna (Roy, 2011), si è tentato di evidenziare il rapporto tra le dinamiche di abbandono dovuto al fallimento della pianificazione urbana, in alcune porzioni del territorio, e l’insediamento in queste del popolo migrante, che attivamente trasforma e reinterpreta lo spazio, rendendolo funzionale alle proprie esigenze primarie. Analizzare il fenomeno dei migranti forzati in relazione ai diversi modi di abitare nel contesto italiano e calabrese non è stata cosa facile,

da un lato per la carenza di dati a riguardo data l’attualità della tematica e dall’altro per la necessità di una ricerca interdisciplinare dovuta alla natura complessa e sfaccettata dell’argomento. In particolare è stato approfondito il caso della piana di Gioia Tauro, territorio in cui la precarietà abitativa dei migranti africani è fortemente legata al lavoro agricolo stagionale, gestito nella maggior parte dei casi dalle agro-mafie locali. Inoltre, attraverso i contributi di Marcuse (a scala internazionale) e De Leo (a scala nazionale) è stato possibile definire diverse tipologie dell’abitare sospeso, che vanno dalla tendopoli istituzionale, a diversi insediamenti informali, talvolta autocostruiti. Il sistema d’accoglienza nazionale Negli ultimi anni l’aumento delle persone in arrivo, che segue precise logiche di percorrenza dei territori (Dal Lago, 2012; Sassen, 2013), ha comportato una sempre maggiore chiusura dei confini, realizzata con la fortificazione delle frontiere interne e l’esternalizzazione di quelle esterne, soprattutto in corrispondenza delle maggiori rotte di migrazione via terra e via mare verso l’Europa: queste che fanno riferimento, alla via balcanica occidentale e a quella mediterranea orientale, insieme alla

Corso di Laurea Magistrale in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio Relatore: Prof. Elena Tarsi Aprile 2018

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rotta centrale del Mediterraneo (vedi mappa 1), rappresentano i tragitti più percorsi e al contempo più pericolosi da attraversare, perché resi illegali dalle politiche internazionali. I paesi europei e in particolare quelli di primo ingresso stanno promuovendo e attuando una linea securitaria, nel tentativo di rallentare se non di arrestare i nuovi popoli in migrazione che bussano alle porte d’Europa, in fuga da fame, guerre e situazioni varie di instabilità. In Italia, in particolare, la gestione dei migranti forzati è associabile, come già accennato, al binomio accoglienza respingimento, che crea una condizione di sospensione della persona sia dal punto di vista giuridico che abitativo e lavorativo. La tendenza rilevata, quindi, non è quella di accogliere, nel senso virtuoso e concreto del termine, i migranti che cercano rifugio, ma piuttosto quella di applicare diverse forme di chiusura e differenziazione che, in tutta Europa, vanno dai confini fisici (muri e controlli polizieschi), agli edifici di “accoglienza”, passando per le tendopoli istituzionali, destinati esclusivamente ai migranti richiedenti asilo e rifugiati. Queste riflessioni sono state possibili grazie alla ricostruzione di un quadro giuridico generale e ad un’analisi delle caratteristiche spaziali e architettoniche, relative al sistema accoglienza - respingimento, che alla scala territoriale è rappresentato dalle diverse strutture o centri, ognuno associato ad una precisa funzione nella gestione d’insieme delle migrazioni forzate. In estrema sintesi, quindi, si individuano tre fasi dell’accoglienza ognuna corrispondente a diverse strutture di permanenza, funzionalmente specializzate. La prima, che riguarda la gestione del primissimo soccorso, screening sanitario e identificazione, è assolta dalle strutture Hotspot: in questa fa-

se il migrante che dimostra la volontà di presentare domanda di asilo in Italia entra, di fatto, nel circuito della prima accoglienza e nel caso in cui, invece, questa volontà non si manifesti, la persona viene incanalata in quella che è la procedura per il rimpatrio; questa è supportata da strutture chiamate CPR (Centri Per il Rimpatrio), assimilabili a delle carceri, che trattengono il migrante nell’attesa di essere ritrasferito nel proprio paese d’origine. La seconda tappa è dedicata alla prima accoglienza dei richiedenti asilo esercitata in varie strutture governative tra cui i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria); questi centri, gestiti dalle Prefetture, sono nati per far fronte alle mancanze del sistema ordinario ma poi lo hanno praticamente sostituito tanto che, nel 2015, il 73% dei migranti in attesa di una risposta dalla Commissione Territoriale era qui alloggiata (Centro Studi e Ricerche IDOS, 2017). Da indagini recenti (Cittadinanzattiva, LasciateCIEntrare, Libera, 2016; In Migrazione, 2017), i Centri di Accoglienza Straordinaria sono stati valutati, tra le diverse tipologie di strutture che “accolgono” (esclusi i CPR considerati strutture detentive e non accoglienti), i più critici e quindi i meno adatti a svolgere tale funzione. I motivi principali sono: la collocazione isolata dei CAS sul territorio, il loro sovraffollamento e la carenza di attività e servizi utili al migrante. La terza e ultima fase del sistema nazionale fa riferimento alla seconda accoglienza, gestita dalle amministrazioni locali, attraverso la rete SPRAR (Sistema Per i Richiedenti Asilo e Rifugiati), che fino alle modifiche apportate dal Decreto Sicurezza (convertito nella Legge n.231/2018)1, rappresentava il punto di forza dell’intero sistema proprio per la diffusione sul territorio e per le dimensioni minori dei centri, gestiti a scala locale.

I recenti cambiamenti in tema di immigrazione preannunciano uno svuotamento del sistema diffuso (SPRAR) e un’implementazione dei CAS. Da questa panoramica generale è stato possibile muovere delle osservazioni rispetto allo stato di precarietà abitativa e lavorativa a cui sono assoggettati molti dei migranti forzati che arrivano in Italia. Le cause principali sono da ricondurre ai lunghi tempi di attesa dovuti alla lentezza dei procedimenti burocratici (vedi schema 1) e alla difficoltà crescente di accedere al sistema, anche per la carenza di posti nell’accoglienza; queste, insieme ad altre cause come il fallimento delle procedure di rimpatrio e le limitate politiche di inclusione, portano alla formazione di sacche di marginalità abitativa e sociale, diffuse su tutto il territorio italiano. Il malfunzionamento del sistema nazionale, dovuto alla lentezza burocratica e all’inadeguatezza delle strutture, unito alla mancanza di alternative e opportunità concrete nei diversi ambiti della vita del migrante producono una diffusa informalità abitativa sul territorio, l’autogestione nella maggior parte dei casi resta l’unica possibilità reale per coloro che escono dal circuito dell’accoglienza (o per volere proprio o per cause di forza maggiore). Le pratiche di autorganizzazione e autogestione hanno dato vita a differenti modi di vivere e abitare il territorio, riferiti sia all’ambito rurale che urbano; tutto ciò si dimostra con la nascita estemporanea di numerosissimi insediamenti spontanei, chiaramente di difficile mappatura e individuazione. Le diverse forme dell’abitare sospeso in Italia Un inquadramento a scala nazionale sulle abitazioni informali in Italia è stato realizzato da Medici Senza Frontiere attraverso un lungo lavo-

ro di campo (MSF: 2016, 2018) che ha permesso l’individuazione di diverse tipologie dell’abitare ai margini, riferite esclusivamente ai migranti. Lo studio ha evidenziato una certa correlazione tra alcuni caratteri e peculiarità territoriali, dei diversi contesti analizzati, e la presenza dell’informalità abitativa. I luoghi di primo interesse sono quelli in cui emerge la presenza di strutture per la prima e la seconda accoglienza da cui i migranti escono o in cui aspettano di entrare; oppure, le zone in cui si ha la possibilità di trovare opportunità di lavoro (grigio o nero) per il minimo sostentamento anche grazie alla conoscenza di una rete sociale di supporto e mutuo aiuto. Per queste ragioni, le grandi città e i territori rurali del Sud Italia sono i siti più appetibili per l’autocostruzione di abitazioni temporanee o per l’occupazione di edifici abbandonati, che spesso diventano insediamenti autogestiti con specifici funzionamenti ed equilibri. L’aspetto che emerge con maggiore impatto dall’indagine, è la presenza diffusa in tutto lo stivale di abitazioni informali, differenziate per tipologia (vedi mappa 2). Altra considerazione importante riguarda il rapporto tra territorio e tipologia abitativa: è possibile riconoscere infatti delle forme abitative proprie delle regioni settentrionali e altre, invece, preponderanti nei territori meridionali. Nel primo caso, la volontà diffusa di oltrepassare la frontiera italiana per raggiungere paesi come la Francia o la Germania, comporta la nascita di abitazioni di fortuna all’aperto nelle regioni del Nord d’Italia; nel secondo caso, invece, è l’esigenza lavorativa a spingere i migranti africani a vivere nei grandi ghetti autocostruiti del Sud o in abitazioni sovraffollate per il periodo riferito al lavoro stagionale, non necessariamente legato alla terra. Gli edifici occupati (industriali o residenziali)


sono, invece, la tipologia diffusa con più omogeneità: da Como a Palermo tanti immobili, a causa del forte disuso e abbandono diventano terreno fertile per i migranti che se ne appropriano temporaneamente, al solo scopo di trovare una soluzione autonoma alla precarietà abitativa, a cui le istituzioni non danno risposta. Le tipologie abitative individuate fanno emergere la presenza di nuove dinamiche insediative connesse ai recenti flussi migratori; queste, per quanto siano ancora poco studiate e in generale conosciute, hanno un peso reale sugli equilibri locali e sulle trasformazioni dei territori, e in particolar modo sugli spazi già depressi e marginali a causa del mancato sviluppo urbanistico ed economico locale. La Piana di Gioia Tauro, lavorare e abitare nella precarietà: i nuovi ghetti dei migranti in Calabria Dopo aver inquadrato la tematica, a scala nazionale e internazionale, è stato scelto il territorio della piana di Gioia Tauro per approfondire, attraverso la ricerca di campo, la questione abitativa dei migranti africani che lavorano come braccianti nei terreni coltivati della Calabria. Per comprendere le dinamiche complesse che hanno permesso l’insediamento informale di migliaia di migranti, che solo nella baraccopoli di San Ferdinando (prima dello sgombero) arrivavano ad essere 1200 nel periodo della raccolta invernale2, è stato necessario analizzare il territorio locale nelle sue trasformazioni produttive ed urbanistiche (Biagi, Ziparo, 1998). I successivi processi di deterritorializzazione avvenuti nella piana, hanno dato vita ad un territorio fragile, caratterizzato da un diffuso incompiuto architettonico e grandi aree abbandonate, come la zona in-

dustriale del porto di Gioia Tauro, in cui si è svolta buona parte della ricerca di campo. I profondi stravolgimenti avvenuti nel tempo hanno mutato l’assetto del territorio determinando così un’omogeneizzazione delle peculiarità insediative che in passato erano fortemente relazionate all’ambiente e al territorio. L’area assume un nuovo volto, fatto di grandi infrastrutture, edifici di bassa qualità edilizia e appezzamenti dedicati a colture specializzate utili a sostenere i mercati nazionali e internazionali. I flussi migratori verso la Calabria, che hanno inizio più di 30 anni fa, quindi, si inseriscono in un contesto locale ormai svuotato dei propri valori territoriali e dell’identità collettiva. La differenza in termini abitativi e lavorativi, tra le prime ondate migratorie e quelle più recenti, è sostanziale: se le prime, riferite a diversi paesi sia del Nord Africa che dell’Est, hanno raggiunto ormai una certa stabilità, proprio per la stanzialità e l’adattamento in terra calabrese; le più recenti (che sono riferite agli ultimi 10 anni), tutte provenienti dal continente africano, invece, sono interessate da un’estrema precarietà, aggravata dalla mancanza di una gestione istituzionale efficace (Garrapa, 2016). Il lavoro è il motivo principale che muove le scelte dei migranti, e laddove l’impiego è stagionale la difficoltà nel trovare un ricovero diventa un problema a cui dare una risposta autonoma e immediata, proprio per la stretta necessità di lavorare. Tale condizione è aggravata da una sommatoria di fattori: primo su tutti la situazione giuridica sospesa dei braccianti agricoli stagionali che aspettano una risposta alla domanda di asilo, per l’ottenimento dei documenti. I lunghi tempi d’attesa, nelle diverse fasi dell’accoglienza, sottopongono la persona ad un’in-

Mappa 2 Esclusione abitativa e informalità abitativa

stabilità costante che nella maggior parte dei casi genera esclusione sociale e abitativa. Per questi e altri motivi, si assiste alla nascita di ghetti e occupazioni abitative sia in zone urbane periferiche che rurali nella piana di Gioia Tauro: dimore autocostruite, edifici e casolari di campagna abbandonati e resi abitabili, talvolta con l’aggiunta di baracche all’intorno per soddisfare le necessità primarie. L’informalità abitativa è, quindi, il risultato della difficoltà di accesso alla casa e ai servizi da parte dei lavoratori migranti, in un territorio ormai in crisi, che non permette neanche l’autodeterminazione della comunità locale, dato il tessuto economico e sociale incancrenito. I siti informali dotati di una grande flessibilità adattiva, nella maggior

parte dei casi, si collocano in quella che Yiftachel definisce spaziatura grigia (Yiftachel, 2009), ovvero aree depresse e problematiche dove la pianificazione è stata assente o fallimentare; tali porzioni di territorio slegate dal contesto urbano e prive di una propria funzione, attirano l’interesse degli esclusi proprio per il loro carattere isolato. Si innesca, così, una reazione a catena per cui ad una marginalità spaziale ed economica di base si somma una marginalità abitativa e sociale, anche se con i propri caratteri identitari e culturali; tali dinamiche danno vita a nuove forme dell’abitare, che in questo lavoro si è tentato di classificare e caratterizzare. La situazione emersa nel complesso, dall’analisi di 103 campo nella piana di Gio-


Figg.1-2 Le tendopoli

ia Tauro, è molto sfaccettata e ricca di abitazioni temporanee, alcune facenti capo all’autogestione dei migranti africani, altre volute dalle istituzioni e dall’amministrazione locale, nel tentativo di gestire ‘l’emergenza’ dei migranti forzati. L’analisi tipologica e spaziale è stata affrontata mettendo a sistema: 1) i caratteri principali della gestione dei diversi insediamenti (istituzionale, ibrido o autogestito); 2) l’uso e la trasformazione degli spazi di vita da parte dei migranti e 3) le peculiarità socio-culturali degli abitanti, oltre alla loro situazione giuridica (per quanto possibile). In sintesi, sono state individuate cinque tipologie abitative (vedi immagini da 1 a 5): la tendopoli, il campo container, la baraccopoli, la fabbrica e il casolare occupati; queste, per quanto riferite a livelli diversi di gestione sono fortemente correlate tra loro proprio perché ricadenti negli stessi territori depressi e abbandonati, come la seconda area industriale retrostante il porto, su cui ri-

cadono quattro delle cinque tipologie analizzate. I due interventi istituzionali che hanno portato alla realizzazione della prima tendopoli e del campo container risalgono al 2012, dopo due anni dalla rivolta dei migranti avvenuta a Rosarno, dove gli stessi lamentavano le pessime condizioni abitative e lavorative a cui erano (e sono tutt’ora) sottoposti. La tendopoli e il campo, composti da tende e container provvisori predisposti dal Ministero dell’Interno, sono state le uniche risposte date nel tentativo di affrontare il disagio abitativo dei migranti nella piana, evidentemente non risolto. In sei anni, quindi, si sono susseguiti cinque interventi istituzionali, che hanno portato all’installazione di quattro tendopoli (una smantellata, una abbandonata e due tutt’ora attive) e un campo container: le prime sono state collocate tutte nella seconda area industriale del Comune di San Ferdinando e il secondo in un’area marginale vicina, ricadente nel Comune di Rosarno.

La scelta di inserire tali abitati in zone isolate e disconnesse dal contesto locale, ha innescato una dinamica attrattiva portando molti migranti a costruire e occupare abitazioni di fortuna più o meno organizzate sempre nella stessa zona, dando vita a insediamenti autogestiti come la baraccopoli e la fabbrica occupata (ad oggi entrambe sgomberate). L’evoluzione e la localizzazione delle diverse tipologie abitative sono tra loro interconnesse, il caso più eclatante che lo dimostra è la baraccopoli di San Ferdinando, un vero e proprio insediamento auto-organizzato, nonché uno dei ghetti più grandi d’Italia; questo, si è generato dopo l’abbandono della seconda tendopoli istituzionale, per mancanza di fondi ministeriali. Attraverso diverse pratiche di autogestione e auto-costruzione si assiste ad un ampliamento consistente della tendopoli, che assume un carattere complesso e informale: la presenza di servizi commerciali e attività utili alla collettività, di un servizio minimo di traspor-

to auto-organizzato utile a raggiungere il lavoro o i luoghi d’interesse e di diversi spazi di socialità e d’incontro, permetteva ai migranti di vivere in un luogo isolato a 3 chilometri dal centro urbano più vicino, in totale autogestione. Il campo container come la baraccopoli, del resto, ha subito un abbandono, aprendo la via all’autogestione; questo, continua tutt’oggi ad ospitare informalmente un centinaio di migranti che nel periodo della raccolta invernale raddoppiano, ciò evidenzia la maggiore flessibilità insediativa delle tipologie gestite dai migranti, rispetto alla conduzione rigida dei campi pianificati dalle istituzioni. In questo senso, è difficile distinguere nettamente le tipologie abitative gestite dall’alto e quelle che invece sono autogestite dai migranti, proprio per la promiscuità di situazioni che il contesto calabrese offre; perciò non è possibile tracciare uno spartiacque tra formale e informale, tra legale e illegale. Si è tentato poi di leggere il territorio della piana di Gioia Tauro avvalendo-


Fig.3 Il campo container

si di ulteriori riferimenti (Agier 2010; Marcuse 1997; De Leo 2015), passaggio che ha permesso di individuare tre tipologie fondamentali dell’abitare sospeso: l’insediamento informale, il campo pianificato e una nuova forma ibrida di campo. Quest’ultima categoria comprende tutti i casi in cui un insediamento temporaneo pianificato sfocia nell’informalità, diventando espressione diretta dell’inefficacia degli interventi legali promossi per la gestione emergenziale dei migranti. La logica “emergenziale” del campo e la genesi di figure spaziali contemporanee La presente ricerca si è posta poi l’obiettivo di evidenziare la problematicità dell’approccio emergenziale utilizzato in Italia nella gestione dei flussi migratori e le conseguenze dirette che questo determina nella vita e nel modo di abitare i territori delle persone in movimento. Tale logica è spesso associata a misure e interventi che non riguardano

Fig.4 La baraccopoli

la lunga durata proprio perché fanno riferimento a ‘soluzioni’ temporanee, volte ad affrontare l’emergenza abitativa nell’immediato; questo concetto è legato come spiega Agamben allo stato di eccezione, ovvero: in determinate situazioni, definite eccezionali, una porzione di territorio può essere situata fuori dallo spazio giuridico ordinario e assumere una gestione e quindi anche dei riferimenti giuridici straordinari (Agamben, 2003). La forma del campo, che si concretizza con gli insediamenti temporanei istituzionali (anche definiti campi pianificati), è lo spazio fisico che risponde alla logica dell’emergenza; qui, proprio per questo motivo, è possibile scegliere e agire secondo dei criteri diversi rispetto a quelli usati nel contesto territoriale in cui il campo si inserisce. Trattare quindi il fenomeno migratorio attraverso l’approccio emergenziale significa dar vita a delle aree dal carattere extra-territoriale, dedicate al popolo migrante; questo concetto sovrapposto alla definizione che

Marcuse dà di ghetto, ovvero “il risultato della segregazione spaziale involontaria di un gruppo che si trova in un rapporto politico e sociale subordinato alla sua società circostante” (Marcuse: 1997, p. 26); fa emergere il motivo profondo della critica alla logica emergenziale del campo. Questa, infatti, genera forme diverse di segregazione spaziale dei migranti, per nulla involontarie, quanto piuttosto attivate da scelte istituzionali che si concretizzano nella realizzazione dei campi pianificati. La critica diventa ancora più profonda dal momento in cui le tendopoli e i campi container, non hanno realmente un carattere temporaneo, ma assumono nella maggior parte dei casi un carattere permanente, spesso dovuto all’abbandono totale delle istituzioni; questi campi, inoltre, generano come si è visto per il caso della piana di Gioia Tauro, una dinamica attrattivo - insediativa dei migranti che produce ulteriore marginalità e ghettizzazione. L’individuazione di tre figure spaziali contemporanee, attraverso soprat-

tutto la caratterizzazione delle diverse porzioni di territorio prese in esame, vuole avviare una riflessione sul rapporto attuale tra i flussi dei migranti forzati e la questione abitativa che si traduce, come emerge anche dalla ricerca, in forme dell’abitare fortemente marginali, precarie e sospese. La produzione dello spazio contemporaneo effettuata attraverso diverse forme di gestione e trasformazione del territorio, è associabile all’incremento di politiche di esclusione, contenimento e controllo della popolazione straniera e povera, soprattutto all’interno dei contesti urbani. Si assiste alla nascita di un nuovo ordinamento spaziale che segue precise logiche di funzionamento, sempre più connesse al potere economico e al profitto, che tendono a relegare alcune fasce di popolazione entro spazi grigi, lontani dalla vita sociale, economica e politica. Ciò dimostra la presenza effettiva di diversi livelli di accessibilità allo spazio e 105 all’abitare.


Fig.5 il sistema accoglienza respingimento in Italia

In conclusione Nell’ottica di ridurre la diseguaglianza nell’accesso e nella fruizione del territorio e della città, è importante definire e comprendere le nuove forme contemporanee dell’abitare, che parlano di una realtà nazionale complessa caratterizzata da un forte disagio abitativo, aggravato nel caso dei migranti forzati da dure condizioni di sfruttamento sul lavoro, soprattutto nel Sud Italia. Saper trovare delle nuove chiavi di lettura per l’analisi di queste porzioni marginali di territorio è utile al fine di comprendere le dinamiche in atto, e far fare, così, dei passi avanti alla disciplina urbanistica nel tentativo di superare il binomio legale-illegale che, come si è potuto osservare nella piana di Gio-

ia Tauro, assume un carattere estremamente contraddittorio. Le nuove forme dell’abitare sospeso, al limite del legale e del normato, sono qui intese come soluzioni reali e pratiche, generate dall’azione dei migranti che, quindi, assumono un valore politico contro le logiche speculative e di abbandono legate ai territori (Roy, 2011). L’abitare informale, nelle sue diverse espressioni, rappresenta una modalità di produzione e trasformazione dello spazio, basata sulle necessità strette degli abitanti, che si appoggia sui caratteri peculiari del territorio, reinterpretandoli; questi insediamenti, potrebbero essere considerati un valore aggiunto al contesto, prodotto dalla diversità culturale e da nuove forme interpretative degli spazi grigi messe in campo dai migranti.

Tale approccio vuole dar vita ad un nuovo modello di analisi che tenga in considerazione la ricchezza multiculturale, in termini costruttivi e di insediamento.


Note

Bibliografia

1 Il Decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113 recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”, convertito in Legge 4 ottobre 2018 n. 231, è entrato in vigore lo scorso 5 ottobre 2018 e porta significative modifiche in tema di immigrazione, sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa, amministrazione e destinazione di beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

Agamben G., 2003, Stato d’eccezione, Bollati boringhieri, Torino.

2 Il dato è aggiornato al momento della ricerca (Aprile 2018). I numeri relativi agli abitanti della baraccopoli di San Ferdinando oscillano da un minimo di 800/900 persone nella bassa stagione ad un massimo di 2000 migranti, in alcuni periodo invernali.

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Fig.1 Quadro teorico di partenza e strutturazione dello strumento analitico proposto (Workflow)


Paura e criminalità a Firenze: proposta metodologica per lo studio dei due fenomeni e delle loro correlazioni

Claudio Catapano

Introduzione La tesi illustrata in questo saggio indaga il manifestarsi della paura e della criminalità nel Comune di Firenze, a partire da una serie di teorie note e da indagini operate direttamente e mediante uso di dati geografici e statistici. L’obiettivo del testo è quello d’illustrare il metodo impiegato nella progettazione e nella sperimentazione di uno strumento analitico definito al termine di un processo di sviluppo che ha parallelamente coinvolto l’acquisizione e l’organizzazione dei dati necessari alla realizzazione delle mappe dei crimini e dell’insicurezza e l’utilizzo, in seguito ad un’operazione di traduzione geostatistica condotta mediante gli strumenti GIS, di un’ampia rosa di teorie relative alle due tematiche principali dello studio (fig.1). Entrambi i fronti analitici hanno fornito i confini tecnici entro i quali si è strutturato lo strumento, facendo subito emergere l’importanza di operazioni di coordinamento tra le varie informazioni geostatistiche acquisite, di normalizzazione dell’unità di approvvigionamento dei dati e di rappresentazione degli stessi, necessarie al fine di estrapolare le percentuali di correlazione tra i vari fenomeni analizzati minimizzandone l’errore di localizzazione senza rinunciare ad una buona visibilità e chiarezza delle rappresentazioni cartografiche.

I seguenti capitoli descriveranno lo strumento analitico ideato, chiarendone gli aspetti tecnici e strumentali che ne determinano il funzionamento (cap.1), illustrandone i match di corrispondenza tra gli areali costruiti a partire dalle teorie analizzate ed estrapolati mediante il loro utilizzo, formulando al contempo alcune considerazioni riguardo ai risultati analitici ottenuti (cap.2) ed evidenziando potenzialità, limiti e alcune possibili soluzioni atte a perfezionarlo (cap.3). Il caso di studio di Firenze - Mappe dei crimini e dell’insicurezza e strumento analitico proposto Realizzazione mappa dei crimini (fig.3) Grazie alle autorizzazioni della Dott. ssa Marilena Rizzo e del Dott. Giuseppe Creazzo, rispettivamente Presidente e Procuratore della Repubblica del Tribunale di Firenze, è stato possibile visionare un campione di procedimenti penali passati in giudicato riguardanti reati verificatisi all’interno dei confini amministrativi del Comune di Firenze dal 2009 ad oggi. La consultazione dei fascicoli ha permesso di collegare ad ogni singola geolocalizzazione dei reati, i seguenti dati: • Anno

• Luogo pubblico o privato. Sono stati qui distinti i reati effettivamente commessi sul suolo pubblico da quelli consumatisi all’interno della dimensione privata o “semi-privata” (come nel caso degli esercizi commerciali). • Tipologia • Nazionalità dell’incriminato • Sesso dell’incriminato Relativamente alla localizzazione, considerando la non puntualità spaziale delle diverse tipologie di reato, che si compiono all’interno di aree dai confini mutevoli e mai perfettamente identificabili, è stato generato un buffer di 15m da ogni punto (corrispondente ad un crimine). Questo ha permesso di correlare i crimini ad altri dati, secondo la tecnica che verrà illustrata più avanti in questo capitolo. Realizzazione mappa della paura e dell’insicurezza (fig.4) I dati necessari alla realizzazione della mappa della paura e dell’insicurezza percepite a Firenze sono stati acquisiti mediante l’analisi delle risposte ad un questionario distribuito sulle piattaforme social e grazie al quale hanno espresso il loro parere 379 cittadini residenti all’interno dell’area comunale. In particolare, una volta ottenute le risposte, le strade percepite come

Corso di Laurea in Pianificazione della Città, del Territorio e del Paesaggio Relatore: Prof. Iacopo Zetti Dicembre 2018

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pericolose sono state graficizzate come linee e le aree come poligoni, ad ogni elemento è stato poi associato il numero di cittadini che li hanno segnalati come luoghi nei quali provano paura ed insicurezza, per poi suddividerli in tre classi d’intensità. Una volta ultimata questa classificazione e dopo aver trasformato anche gli assi stradali in aree mediante un buffer di 15m, l’insieme dei dati poligonali è stato utilizzato per correlare paura e criminalità secondo la tecnica spiegata di seguito. Metodo di acquisizione delle informazioni geostatistiche (fig.2) Per gli scopi di questo studio occorreva elaborare una tecnica che permettesse di correlare, nello spazio, informazioni di tipo puntuale (i reati) con informazioni di tipo areale come la percezione d’insicurezza nei luoghi pubblici. Per risolvere il problema è stata generata una griglia virtuale costituita da celle esagonali aventi come diametro del cerchio a loro circoscritto 30m che copre l’intera area di studio. Per consentire poi una veloce modalità di attribuzione dei valori necessari all’analisi, la griglia esagonale è stata tramutata in una rete di punti regolari posizionati ognuno nel baricentro dell’esagono ad esso corrispondente (mediante un ID numerico). I punti ottenuti (centroidi) sono stati poi corredati delle informazioni relative ad esempio ai crimini e alla percezione d’insicurezza assegnandogli i valori dalle aree poligonali estrapolati dai questionari e dai buffer della localizzazione dei crimini, secondo le operazioni descritte in precedenza. Una volta completata l’attribuzione delle varie informazioni, sfruttando il campo ID di corrispondenza delle geometrie, i dati raccolti, sono stati correlati alla griglia esagonale di partenza mediante un join tabellare.

Calcolo dei match di corrispondenza (fig.5) Per estrapolare le correlazioni tra le varie informazioni geostatistiche acquisite sono stati effettuati dei calcoli come da esempio. In questo caso, è stato diviso il numero degli esagoni contenenti crimini (555) per il numero degli esagoni contenenti crimini e ricadenti nelle aree reputate insicure dai cittadini (110) e poi moltiplicato il valore ottenuto per 100. Il risultato ha restituito una contenuta percentuale di reati compiuti all’interno delle aree reputate insicure dai cittadini (19,82%), un legame che assume però maggiore consistenza per i crimini compiuti solamente sul suolo pubblico (27,76%) e con 3 dei reati maggiormente impattanti sulla percezione d’insicurezza: furti con destrezza (18,85%), spaccio (29,82%) e lesione (50%). Teorie su paura e criminalità e analisi dei match di corrispondenza del caso di studio Nel capitolo in questione saranno esposte tutte quelle teorie corredate dalle conseguenti elaborazioni statistiche e/o geostatistiche che, confluendo nello strumento preposto al calcolo dei match di corrispondenza, hanno consentito di analizzare la ramificazione territoriale del senso d’insicurezza e della criminalità nel Comune di Firenze permettendo di formulare alcune considerazioni riguardo ai risultati analitici ottenuti. Vulnerabilita’ La percezione d’insicurezza non è necessariamente correlata all’esistenza di pericoli oggettivi ma spesso varia in base alle caratteristiche del soggetto. In merito a questa vulnerabilità, numerosi studi individuano nelle donne, negli anziani e nei giovani maschi che abitano le grandi città, i soggetti più inclini a prova-

re senso d’insicurezza e paura, specificando inoltre che queste sensazioni risultano più intense nei ceti medio-bassi e in coloro che appartengono alle minoranze sociali (Evans e Flatcher 2000). In merito, dalle risposte alle domande del questionario online, è emerso come siano proprio le donne, i cittadini compresi nella fascia 35-64 anni, coloro che hanno la licenzia media inferiore e gli appartenenti alle categorie dei disoccupati/casalinghi, operai/impiegati e liberi professionisti/ commercianti, i soggetti che ritengono meno sicura la città e più sviluppato il fenomeno della microcriminalità. Secondo il movimento femminista (Mela 2008), l’organizzazione spaziale e la gestione delle città, favorirebbero l’insorgere di luoghi strutturalmente contrassegnati dal genere, espressione dei rapporti iniqui tra uomini e donne ed elemento di rinnovamento dello squilibrio stesso. Figurano tra questi, tutti quei luoghi che le donne tendono ad evitare soprattutto in specifiche fasce orarie, perché non molto frequentati e poco illuminati. Nel nostro caso di studio rientrano tra questi i parchi di Firenze ed in particolare quello delle Cascine, dove la totale assenza di funzioni in grado di animarlo soprattutto durante le ore di buio fa sì che venga percepito da più di 100 persone come un’area altamente insicura a fronte però di una bassa incidenza criminale (solamente 2 furti energetici e 1 furto con destrezza tra i 200 analizzati). Place identity Secondo la teoria della Place identity (Proshansky, Fabian e Kaminoff 1983), la rottura del legame di attaccamento con i luoghi nei quali viviamo o l’emergere di fattori ad esso avversi, inciderebbero negativamente sul livello di sicurezza soggettivamente percepito.

Al contrario, possono esistere invece soggetti che proprio in virtù della solidità del loro legame, abbiano sviluppato una forma di resilienza agli impedimenti e ai pericoli delle loro città. Questa forma di resilienza sembra emergere nei cittadini del Q1-Q2-Q3, per i quali il loro quartiere di residenza risulta di gran lunga più sicuro rispetto all’intera città. Al contrario, la maggior parte dei cittadini residenti nel Q4 e nel Q5 considerano il loro quartiere di residenza insufficientemente sicuro. Analizzando la distribuzione dei crimini nei vari quartieri, nel Q1 i più diffusi risultano i furti con destrezza (43,05%), i reati di spaccio (65%) e le lesioni (44,07%). Il Q2 svetta sugli altri quartieri per quanto concerne i furti all’interno delle automobili (32%) e quelli energetici (35,71%). Nel Q4 emergono le percentuali relative ai furti in abitazione (35,48%), di veicoli (50%), e le lesioni (27,12%). Infine, nel Q5 spiccano i furti con destrezza (26,10%), quelli in abitazione (45,16%) e i reati di lesione (28,21%). Per quanto riguarda infine la percentuale sul totale dei luoghi indicati come insicuri dai cittadini per quartiere, il Q1 s’impone sugli altri con un valore pari al 42,89%, seguono il Q5 (20,63%), il Q2 (13,16%), il Q4 (12,10%) e il Q3 (11,22%). La chiara insofferenza degli abitanti del Q4 e del Q5 sembra legata non solo al forte impatto che hanno alcuni reati qui molto diffusi, come ad esempio i furti in abitazione e quelli di veicoli (pari rispettivamente all’80,64% e al 70% del totale), ma anche al fatto che la maggior parte di questi reati vengono direttamente subiti dai residenti. L’esempio opposto è offerto dalla forte incidenza dei furti con destrezza nel Q1, dove le vittime risultano essere nella quasi totalità dei casi i turisti intenti a visitare il centro storico.


Impatto della riorganizzazione delle citta’ mediante lo zooning nella formazione e nell’amplificazione del sentimento d’insicurezza negli spazi urbani Secondo diversi studiosi, la riorganizzazione delle città mediante la rigida separazione delle quattro funzioni elementari della residenza, del lavoro, del tempo libero e della circolazione, ha determinato l’insorgere di alcuni dei processi che concorrono nella formazione e nell’amplificazione del sentimento d’insicurezza negli spazi urbani. La zonizzazione, frazionando l’urbano in aree monofunzionali, ci ha consegnato un’ampia rosa di aree periferiche, progettate proprio nell’ottica di assolvere alla sola funzione residenziale, dove a causa dell’assenza di servizi e strutture commerciali che ne vitalizzano le strade, inquadrate quindi non solo come linee di connessione tra i diversi ambiti urbani ma come veri e propri “luoghi dello stare” (Morandi 2003), dilaga il primo di questi processi, quello della “desertificazione sociale”, totalmente opposta a quelle “strade popolate di sguardi” che la Jacobs considera il miglior antidoto alla violenza e all’insicurezza urbana (Jacobs 1961). Anche i centri storici non sembrano esenti da alcune ripercussioni. Essi infatti, negli ultimi anni stanno plasmandosi sulle caratteristiche e le esigenze del turismo di massa, allontanando fette sempre più consistenti di vecchi abitanti ed accogliendo, oltre ad una miriade di strutture ricettive e commerciali, una molteplicità di strati socioculturali che non hanno il tempo ed i mezzi per entrare a far parte della rete comunitaria (Mela 2003). Il secondo processo, quello della segregazione socio-spaziale, è indissolubilmente legato al fenomeno della frammentazione socioeconomica dei tessuti urbani. Questa, nonostante abbia sempre giocato un ruolo di

primissimo piano nella definizione di ogni città, basti pensare alla configurazione del castello in epoca medioevale, con le espansioni monofunzionali del dopoguerra è sfociata nel consolidamento di spazi, spesso caratterizzati da forti densità abitative, dalla copresenza di culture ed etnie completamente differenti e dal limitato numero di servizi presenti, nei quali è raro che si istaurino aggregazioni di tipo comunitario. Lynch definisce “spazio figurabile” (Lynch 1960) quel luogo ricco di pattern che sovrapponendosi e relazionandosi, configurano un ambiente urbano dai connotati altamente simbolici e portatore di identità profondamente radicate che, lasciandosi facilmente decodificare, ci guida verso i vari nodi urbani favorendo negli spazi pubblici una piacevole erranza orientata. La zonizzazione funzionale e l’omologazione architettonica hanno determinato l’insorgere del terzo dei processi considerati, l’illeggibilità dello spazio urbano, ovvero la difficoltà nel tradurre le nuove espansioni urbane secondo gli schemi percettivi che consentono di orientarci, generando una città povera di landmark (punti di riferimento visivo), di elementi simbolici capaci di definire il carattere pubblico di uno spazio e contribuendo ad ostacolare il controllo visivo degli spazi mediante la costruzione di numerose barriere fisiche. Tutto ciò ha finito per innescare secondo alcuni studiosi, un processo di inibizione dell’istinto all’esplorazione e alla frequentazione degli spazi pubblici (Mela 2003). Al fine d’individuare mediante lo strumento analitico ideato le eventuali correlazioni tra i fenomeni studiati e i processi di deterioramento dello spazio pubblico, di segregazione socio-spaziale e d’illeggibilità dello spazio sviluppatisi in seguito alla riorganizzazione delle città mediante lo zo-

Fig.2 Metodologia applicata per l’acquisizione delle informazioni geostatistiche

Fig.3 Metodologia applicata per la realizzazione della mappa dei crimini

Fig.4 Metodologia applicata per la realizzazione della mappa della paura e dell’insicurezza

Fig.5 Metodologia applicata per il calcolo dei match di corrispondenza


oning, è stata realizzata una mappatura dei tessuti urbani del Comune di Firenze rispettando i criteri dettati dall’abaco dei morfotipi delle urbanizzazioni contemporanee contenuto nel PIT della Regione Toscana1. Quanto appena enunciato sulle problematiche che affliggono le periferie concepite sui dettami dello zooning, trova un immediato riscontro nel calcolo dei match di corrispondenza dove è emersa una forte correlazione dei tessuti dell’edilizia pianificata sia con i luoghi della paura estrapolati dal questionario (23,42%), che con molti dei reati che hanno un forte impatto sull’opinione pubblica e sulla proliferazione della percezione d’insicurezza (25,42% dei furti con destrezza – 45,16% dei furti in abitazione – 46% dei furti di veicoli – 26,32% delle rapine in strada – 35% dello spaccio di stupefacenti – 37,29% delle lesioni). È importante sottolineare come in queste aree si consumi il 38,71% dei reati commessi dagli italiani contro il 23,75% di quelli commessi da cittadini stranieri. Nei tessuti riferiti alle insule specializzate emerge un forte senso d’insicurezza espresso dai cittadini (36,16%), dovuto quasi esclusivamente alla paura percepita nel Parco delle Cascine, a fronte di una bassa incidenza di reati (3,60%). Nei tessuti storicizzati al di fuori del tracciato delle mura cinquecentesche, a fronte di una lieve paura percepita (8,97%) si registrano il 19,66% dei furti con destrezza, il 32% dei furti all’interno delle autovetture, il 35,71% dei furti energetici e il 31,58% delle rapine. All’interno del centro storico della città sono emersi invece, a fronte di una percentuale di luoghi percepiti insicuri pari al 13,90%, il 65% dei reati di spaccio, il 38,98% delle lesioni ed in particolare una forte incidenza

dei reati predatori (34,92% furti con destrezza – 32% furti all’interno delle autovetture – 30% furti di veicoli – 26,32% rapine) che ha reso necessaria un’ulteriore analisi riferita all’incidenza del turismo di massa in questo tipo di crimini. Per individuare le aree maggiormente interessate dai flussi turistici sono state sfruttate le geolocalizzazioni delle foto caricate sulla piattaforma social Flickr all’interno dell’area comunale tra il 2005 e il 2017 e convertite in una nuvola di punti dal Professore Iacopo Bernetti. Dopo aver escluso i puntuali ricadenti all’interno degli edifici ad uso residenziale ed industriale, è stata generata una heatmap con raggio di 200m che, una volta vettorializzata, ha restituito i vari poligoni che sono serviti a categorizzare i centroidi, corrispondenti alle aree maggiormente frequentate dai turisti. Dal match con le aree ad alta frequentazione turistica è emersa una buona correlazione sia con la paura (26,50%) che con il totale dei reati (34,23%), in particolare quelli di tipo predatorio (38,64% dei furti con destrezza – 35,09% delle rapine in strada). Il fenomeno è additabile alle maggiori possibilità di successo riscontrate dai criminali in un contesto così fortemente affollato e caotico. Altre corrispondenze significative sono emerse con le lesioni (32,20%), lo spaccio di stupefacenti (65%), dove gioca un ruolo rilevante l’alta presenza di giovani legata alla movida, e con i reati commessi dagli stranieri (40,18%), dovuta al loro maggiore coinvolgimento nei reati di tipo predatorio e in quelli legati al traffico di stupefacenti. Per quanto concerne infine il processo di segregazione socio-spaziale, nell’impossibilità di determinare un indice completo per la misurazione dello stesso2, è stata realizzata una mappa con evidenziati gli esago-

ni ricadenti all’interno delle sezioni di censimento dell’Istat aventi valori di densità abitativa superiori a 150 ab/ Ha e valori di disoccupazione superiori al 6%3 sul totale della popolazione residente all’interno della sezione. Dal calcolo dei match di corrispondenza è emersa un’unica correlazione degna di nota, quella con il reato di lesione, che corrisponde al 18,64% del totale dei reati commessi all’interno di tali aree. Le percentuali riferite al reato di lesione però, aumentano drasticamente prendendo in considerazione le sole aree aventi valori di densità abitativa superiori a 150 ab/Ha (30,51%) e quelle aventi valori di disoccupazione superiori al 6% (37,29%). Teoria delle incivilta’ In ogni società e in ogni cultura esistono una serie di regole, che vanno dal sistema dei valori e delle consuetudini alle norme giuridiche, che sono gli elementi portanti della convivenza nello spazio pubblico e della cura e tutela del territorio. Le invicilities sono quegli atti o segni che, nonostante oscillino sul filo della legalità, non andando mai oltre quelli che sono considerati reati minori (Chiesi 2003), violano quell’apparato di standard comportamentali riconosciuto dalla società, alimentando la percezione d’insicurezza e la paura del crimine nei suoi abitanti (Taylor 1988), che le interpretano come possibili minacce. Questo processo, che tende ad autoalimentarsi (Wilson e Kelling 1982) determinando il progressivo abbandono degli spazi pubblici e la diminuzione del senso di attaccamento ai luoghi, sta confluendo nella riduzione della cura e del controllo sociale informale esercitato dai cittadini sul territorio (Jacobs 1961) e in concomitanza con una prolungata assenza di risposte istituzionali, nell’insorgere di ulte-

riori timori legati alla sensazione di non ricevere aiuto o assistenza dalle istituzioni e/o dai cittadini in caso di emergenza (Amendola 2003). Nell’impossibilità di individuare e censire le aree affette da fenomeni di inciviltà per tutta l’area comunale, è stata realizzata una mappa con evidenziate le aree corrispondenti alle sezioni di censimento che hanno al proprio interno edifici abbandonati e/o brownfields. Dal calcolo dei match di corrispondenza, così come per le rilevazioni di Sampson e Raudenbush a Chicago (Sampson e Raudenbush 1999), a fronte di una correlazione con le aree percepite insicure pari al 7,73%, è emersa una lieve correlazione con i furti in abitazione (12,90%). Una quota simile si registra per i furti di veicoli (12%) mentre il legame più intenso risulta quello con i furti energetici (17,86%). Fearscapes Secondo lo studio di Simone Tulumello, operano nella gran parte delle città contemporanee 4 processi spaziali che inciderebbero profondamente nella proliferazione dei sentimenti di paura ed insicurezza. I processi individuati sono i seguenti: enclosure, spazi di esclusione ed isolamento; barrier, reti infrastrutturali capaci di frazionare lo spazio urbano; post-public space, fenomeno di privatizzazione e “fortificazione” degli spazi pubblici e delle costruzioni; control, politiche di sorveglianza dello spazio urbano (Tulumello 2017). Ogni rete infrastrutturale può essere intesa come un reticolo di nodi, la cui distanza è in funzione della tipologia di percorso, della velocità di percorrenza e della sicurezza del percorso (Weizman 2004). Sempre secondo Weizman, in conseguenza di queste tre variabili, il posizionamento del reticolo infrastrutturale defor-


ma le spazialità temporali producendo inevitabilmente una serie di privileged points, cioè nodi dal quale il sistema è accessibile. L’accessibilità o meno a questi punti, e aggiungo, la loro tipologia, sancirà poi l’effettivo grado d’impermeabilità socio-spaziale della rete e l’eventuale affermazione di aree in essa intercluse. Per determinare la presenza o meno di aree enclosure a Firenze sono stati tracciati gli assi stradali corrispondenti a quelle che attraverso osservazioni dirette e indirette mediante l’utilizzo del tool “traffico” di google maps, sono risultate le reti infrastrutturali maggiormente trafficate all’interno dell’area comunale. Suddivise le strade in base alla toponomastica, lungo ognuna di queste sono stati individuati tutti gli attraversamenti pedonali distinti in base alla tipologia (strisce pedonali, sovrappassi e sottopassi). Una volta conclusa questa operazione, dividendo i tracciati per il numero degli attraversamenti esistenti lungo le loro estensioni4, ne sono state ricavate le distanze medie tra gli attraversamenti e contestualmente, sono stati raggruppati in tre differenti gradi di impermeabilità socio-spaziale: 1) Moderata impermeabilità: tracciati aventi una distanza media tra gli attraversamenti inferiore a 200m. 2) Forte impermeabilità: compresa tra 200 e 400m. 3) Elevata impermeabilità: superiore a 400m. Lo stesso metodo è stato applicato anche alla rete idrografica, lungo la quale sono stati individuati i ponti e le distanze medie tra questi, suddividendone poi i tracciati in base alla frequenza con cui si presentavano. Utilizzando la distanza media (400m) che intercorre tra i ponti del centro storico (dal Ponte Amerigo Vespucci al Ponte San Niccolò) come

valore al di sotto del quale i tracciati idrografici risultano essere moderatamente impermeabili dal punto di vista socio-spaziale, i tracciati sono stati anche in questo caso suddivisi in 3 comparti: 1) Moderata impermeabilità: porzioni idrografiche aventi una distanza media tra i ponti inferiore a 400m. 2) Forte impermeabilità: compresa tra 400 e 800m. 3) Elevata impermeabilità: superiore a 800m. Una volta congiunti i tracciati stradali ed idrografici aventi caratteri di impermeabilità socio-spaziale sono state individuate, secondo i vari gradi d’intensità corrispondenti a quelli di almeno 2/3 dei tracciati entro cui sono comprese, le aree affette da enclosure, classificate dunque in: 1) Moderata impermeabilità. 2) Forte impermeabilità. 3) Elevata impermeabilità. Dal calcolo dei match di corrispondenza sono emerse fortissime correlazioni sia con i luoghi percepiti come insicuri (66,61%) che con la reale incidenza dei reati (37,66%). La quota dei reati sale ulteriormente escludendo le aree ad alta frequentazione turistica (53,55%) e risulta essere decisamente più alta per quanto concerne gli italiani, che qui compiono il 49,60% dei loro crimini contro il 30,21% di quelli commessi dagli stranieri. I reati predatori che risultano maggiormente correlati sono il furto in abitazione (80,65%), quello di veicoli (64%) e quello di tipo energetico (39,29%). Forti legami appaiono anche con il reato di spaccio (50%) e con le lesioni (52,54%). Il processo di control non incide direttamente sulla spazialità del tessuto urbano ma al contempo è forse quello maggiormente diffuso nelle città contemporanee in seguito al dilagante fenomeno dell’istallazione dei sistemi di videosorveglianza.

Mentre alcuni studiosi ne sostengono l’innocenza e la forte necessità nelle realtà urbane contemporanee (Ryberg 2007), altri sottolineano le implicazioni che questo processo finisce per generare, come l’estinzione della privacy e il condizionamento dei comportamenti nella sfera socio-spaziale (Hempel e Töpfer 2004). Sebbene non esistano ancora dati certi sull’effettiva capacità di prevenzione del crimine e sull’incidenza che avrebbero sulla diminuzione del senso di insicurezza dei cittadini, sembra che i sistemi di video-sorveglianza creino la sola illusione del senso di sicurezza, una risposta semplicistica ed inefficace che può portare ad una percezione distorta dei reali pericoli che corriamo in città ed alle possibili implicazioni sul piano delle libertà socio-spaziali appena accennate. Grazie all’elenco delle telecamere di video-sorveglianza cittadina fornitomi dal Dirigente dei Servizi Tecnici Filippo Cioni con il contributo e nulla osta dell’Assessore alla Sicurezza Urbana del Comune di Firenze Federico Gianassi, è stato possibile mappare tutte le aree del territorio comunale ricadenti all’interno del raggio d’azione delle telecamere installate dall’amministrazione. Una volta georeferenziati tutti i dispositivi è bastato generare un buffer di 50m5 da ognuno di essi e selezionare i centroidi che vi ricadevano. Dal calcolo dei match emerge una correlazione del 23,24% con i reati, quota che raggiunge il 29,89% in corrispondenza dei reati commessi sul suolo pubblico. Quello che però colpisce sono le forti correlazioni con alcuni tra i reati maggiormente impattanti sul senso d’insicurezza come i furti con destrezza e quelli di veicoli, e soprattutto come le rapine e i reati di spaccio e lesione. A fronte di questi forti legami con il crimine, non sorprende la correlazione con i luoghi percepiti come insicuri, che si attesta al 13,27%

senza considerare il preponderante numero di telecamere orientate verso il suolo pubblico poste a sorveglianza di abitazioni e negozi privati, che probabilmente aumenterebbero e di molto la correlazione. Privatizzazione della sicurezza e nascita del network securitario La crescente privatizzazione della sicurezza, segnando di fatto il passaggio dall’inalienabilità e dall’inviolabilità di un diritto garantito dall’autorità statuale ad una sicurezza intesa come bene monetizzabile, ha generato un “network securitario” (Shearing 1996) che estendendosi in modo differenziato sul territorio, ne ha trasformato la geografia socio-spaziale redistribuendo in modo iniquo la sicurezza 6 ed incidendo in modo preponderante sulla definizione della rendita immobiliare. La sicurezza è diventata infatti la precondizione della vivibilità urbana e gioca un ruolo centrale nella valorizzazione immobiliare dei tessuti urbani attraverso quello che Biderman definisce come l’Index of anxiety (Biderman e Reiss 1967), un parametro con il quale già negli anni ‘60 si giudicava la vivibilità e il valore immobiliare di un quartiere. Suddividendo il territorio comunale di Firenze secondo le rendite immobiliari consultabili sul sito dell’Osservatorio Quotazioni Immobiliari sono emerse 30 aree aventi differenti quotazioni, che una volta accorpate in 5 scaglioni di valori, sono servite ad appurare la veridicità delle teorie sul tema nonché a costatare le correlazioni esistenti con gli altri parametri geostatistici analizzati. Quanto esposto in merito al legame fra la sicurezza e la valorizzazione immobiliare emerge chiaramente dal calcolo dei match di corrispondenza, che oltre a confermare questa re113 lazione (i reati commessi


all’interno delle 3 aree aventi i valori immobiliari più bassi rappresentano il 65,94% del totale, con una percentuale relativa ai soli reati di tipo predatorio che si attesta in media al 78,19%), ne evidenziano un’altra, quella con i luoghi indicati come insicuri nel questionario (l’80,94% della paura viene percepita all’interno delle 3 aree aventi valori immobiliari più bassi). Conclusioni Nel corso del saggio abbiamo indagato i fenomeni della paura e della criminalità nel Comune di Firenze mediante uno strumento che, nonostante i limiti, ha restituito delle correlazioni che sono già state in grado di appurare la veridicità di molte delle teorie analizzate, di trasmettere l’importanza del ruolo che potranno assumere nella prevenzione della criminalità le testimonianze dei cittadini (che hanno dimostrato un buona conoscenza non tanto della portata dei fenomeni ma sicuramente della loro localizzazione ge-

ografica), di orientare l’attenzione degli operatori pubblici verso le aree risultate affette da una serie di carenze e problematiche, di mettere in discussione gli effetti concreti della strategia di contrasto alla criminalità perpetuata attraverso la capillare distribuzione di telecamere di video-sorveglianza sul suolo pubblico e di verificare gli effetti di tutti questi fenomeni sui valori di rendita immobiliare. I limiti accennati derivano principalmente dall’esiguo numero di fascicoli penali che è stato possibile visionare, dato che, se disponibile in misura maggiore, avrebbe certamente fornito risultati statisticamente più accurati. Un altro limite è legato alla natura di alcune delle informazioni geografiche elaborate, che a causa di problematiche relative alla scala di lavoro e alla carenza di dati disponibili, hanno restituito correlazioni interessanti ma affette da un buon grado di approssimazione. Rientrano fra queste le aree interessate da fenomeni di abbandono, quelle

gravate da possibili segregazioni territoriali e quelle intercluse fra gli assi stradali aventi caratteri di impermeabilità socio-spaziale. Ulteriori ricerche potrebbero concentrarsi proprio su questi tre aspetti, cercando di studiare la distribuzione di tutte le inciviltà fisico-ambientali e sociali della città, di individuare le possibili aree affette da segregazione utilizzando un indice più completo (comprensivo ad esempio di indicatori relativi al benessere e alle relazioni sociali, al grado di partecipazione culturale, alle condizioni economico-lavorative e sanitarie ed ai differenti stili di vita delle varie etnie) e di ridimensionare le aree enclosure in base ai poli attrattivi e ai reali flussi di mobilità della popolazione.


Note

Bibliografia

1 Piano d’Indirizzo Territoriale con valenza di Piano Paesaggistico approvato dal Consiglio regionale il 24 luglio 2007 con delibera n. 72 e pubblicato sul Burt n. 42 del 17 ottobre 2007 e poi ulteriormente integrato mediante la delibera n. 58 del 2 luglio 2014. 2 Per un’analisi più completa sarebbero necessari ad esempio indicatori relativi al benessere e alle relazioni sociali, al grado di partecipazione culturale, alle condizioni economico-lavorative e sanitarie e ai differenti stili di vita delle varie etnie. 3 Tasso di disoccupazione registrato a Firenze nel 2011 dall’Istat ed elaborato da 8MilaCensus.Per eventuali approfondimenti si rimanda a:http://ottomilacensus.istat.it/sottotema/048/048017/12/. 4 Eccezion fatta per i sottopassi, ai quali, in funzione del loro scarso appeal di fronte ad una buona parte della cittadinanza che preferisce evitarli a causa della sensazione di pericolo che evocano, è stato assegnato un valore pari a 0,33. 5 Raggio massimo d’azione mediamente registrato nei dispositivi in commercio. 6 In merito, anche il rapporto del Censis conferma che sono le fasce reddituali medio-alte a dotarsi maggiormente di dispositivi di sicurezza. Per queste categorie la criminalità è il quinto problema più sentito, in netto contrasto con la popolazione meno abbiente che invece lo considera al secondo posto, preceduto solamente dalle preoccupazioni lavorative.

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Ambiente, sostenibilità, resilienza



Dissesto idrogeologico nel bacino del fiume Misa: ripartire dagli usi del suolo per un governo del territorio più sostenibile.

Agnese Turchi

Introduzione Oggigiorno il dissesto idrogeologico rappresenta uno dei temi più discussi in materia di pianificazione e progettazione della città e del territorio. A posteriori di una lunga stagione di eventi calamitosi (i.e. alluvioni, frane, subsidenze e sprofondamenti, valanghe e slavine) verificatisi in ambito nazionale ed internazionale, si è sviluppato un ampio e prolifico dibattito nel tentativo di mettere in atto strategie pianificatorie lungimiranti a scopo di previsione, prevenzione e mitigazione del rischio geoambientale. Il singolo individuo e/o l’intera comunità cui appartiene possono essere esposti, in misura diversa, ad uno o più rischi. I fattori di rischio, per ragioni metodologiche, vengono generalmente distinti in due macrocategorie: antropici e naturali (Frumento, 2014). A fronte di un’errata gestione del territorio, del sempre crescente consumo di suolo, del depauperamento delle risorse primarie con conseguente crescita dell’impronta ecologica urbana (Magnaghi, 2001; Magnaghi, 2010), quando si parla di piani e programmi per il governo del territorio l’attenzione del pianificatore si focalizza prioritariamente sulla prima categoria: di fatto l’inadeguatezza degli strumenti di pianificazione ordinaria, l’abusivismo edili-

zio (cui si aggiunge l’uso eccessivo di provvedimenti giuridici come il condono o la sanatoria), la scarsa manutenzione degli alvei fluviali o gli errati interventi di regimazione delle acque superficiali sono solo alcune delle cause preparatrici di origine antropica più comunemente associabili a fenomeni di dissesto. È altresì dovere del pianificatore non sottovalutare le cause provocatrici, di origine naturale: terremoti o climi che alternino in modo irregolare stagioni secche e stagioni piovose, con consistenti variazioni di portata delle acque superficiali/sub-superficiali/profonde, contribuiscono notevolmente ad incrementare le condizioni di rischio (Marziano, 2016). Nello specifico è possibile constatare quanto le trasformazioni di uso del suolo, di utilizzo della risorsa idrica o, più in generale, di governance a scala di bacino idrografico, unitamente ad eventi meteorici intensi, assumano un ruolo cruciale in relazione al manifestarsi di fenomeni di dissesto idrogeologico (Räsänen et al., 2018). Il territorio, risultato di processi coevolutivi di lunga durata fra insediamento umano ed ambiente naturale (Magnaghi, 2001; Magnaghi, 2010), costituisce un sistema complesso capace di crescere, evolvere e persino decadere.

L’antitesi fra processi territorializzanti e deterritorializzanti mostra come i primi depositino strutture insediative e culturali permanenti nel lungo periodo, sotto forma di sedimenti materiali e cognitivi, mentre i secondi provochino la messa in crisi degli equilibri territoriali in corrispondenza di azioni destrutturanti il processo di costruzione dei luoghi. Di fronte ad un territorio considerato mero supporto di attività economiche, sviluppatesi per lo più secondo regole astratte dalla natura e dai caratteri identitari locali, è possibile spiegare perché si siano generate fratture profonde fra sfera antropica e sfera ambientale. Il dissesto idrogeologico esprime pienamente il processo di de-territorializzazione contemporanea e si manifesta attraverso interruzioni dei cicli biologici, dissipazione delle risorse non rinnovabili, depauperamento del terreno, instabilità dei versanti ed esondazioni dei corsi d’acqua dalle conseguenze spesso catastrofiche. Pertanto è opportuno fare in modo che programmazione, pianificazione e progettazione leggano il territorio come un potenziale produttore di ricchezza, conferendo adeguato valore alle risorse ambientali, urbanistiche e socioculturali locali. Di qui la necessità di innescare processi ri-ter-

Corso di Laurea Magistrale in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio Relatore: Prof. Gherardo Chirici Co-relatore: Prof. Carlo Natali, Prof. Riccardo Fanti Aprile 2017

119


ritorializzanti partendo da un’attenta analisi degli elementi che compongono l’ecosistema territoriale (i.e. oroidrografia, clivometria, litologia, usi del suolo, sistema insediativo): mettere in risalto potenzialità e criticità del sistema ambientale significa consentire alla comunità locale di individuare opportunità e limiti del contesto in cui essa vive. L’analisi di land-use rappresenta un primo possibile passo verso l’interpretazione del rapporto fra sfera antropica e sfera ambientale. Comprendere il significato di ciascuna porzione di terreno significa valutare l’adeguatezza dell’utilizzo di una o più risorse, al fine di prevenire possibili condizioni di fragilità territoriale (Natali, 1998). La presente ricerca, condotta per oltre un anno lungo il bacino idrografico del fiume Misa (AN), a posteriori della gravosa alluvione del 3 maggio 2014 e degli stagionali eventi di piena, si prefigge di delineare un percorso metodologico di analisi e sintesi per il raggiungimento dei seguenti obiettivi: 1) individuare le dinamiche di trasformazione antropica del territorio che hanno reso il bacino idrografico progressivamente più vulnerabile dagli anni ’50 ad oggi, sia dal punto di vista strutturale che funzionale; 2) capire, in termini quali-quantitativi, quanto l’azione antropica abbia incrementato i fenomeni di dissesto idrogeologico locale e quali siano i limiti di utilizzo delle risorse cui l’uomo dovrebbe attenersi, con lo scopo di portare avanti ed incentivare un modello di sviluppo locale più sostenibile; 3) individuare le pratiche più consone di gestione locale dei suoli per la minimizzazione dei fattori di rischio.

Il bacino idrografico del fiume Misa Il fiume Misa, caratterizzato da un regime di tipo prevalentemente torrentizio, nasce dal Colle Ameno, un esiguo rilievo montuoso situato in località San Donnino nel Comune di Genga (AN): dopo aver attraversato tutte le Marche da ovest ad est, per una lunghezza complessiva di 48 km, il corso fluviale sfocia nel Mare Adriatico all’altezza della città di Senigallia (AN). Come la maggior parte dei fiumi della Regione, il Misa presenta un aspetto sinuoso ed una lunghezza piuttosto ridotta: orientato in direzione sud-ovest/nord-est e sviluppato leggermente più a sud dell’asse di simmetria del bacino idrografico, il corso accentua l’acclività del fianco vallivo di destra; così il profilo trasversale della vallata risulta asimmetrico e la disparità di pendenze fra lato sinistro e lato destro genera affluenti rettilinei di lunghezza differente. Sulla sinistra idrografica, a 10 km dalla foce, il fiume riceve le acque del torrente Nevola; quest’ultimo ha origine ai margini della dorsale marchigiana e riceve a sua volta le acque del torrente Acquaviva. Il bacino idrografico, che si estende su di una superfice di 386,43 km2, presenta morfologie diversificate mano a mano che si procede verso la costa: la dorsale marchigiana (fascia appenninica e pre-appenninica), che ricade all’interno dei confini dell’area d’interesse, non supera i 500 m s.l.m., fatta eccezione per alcuni picchi sporadici che possono raggiungere gli 800 m; i rilievi collinari (fascia sub-appenninica) presentano quote variabili fra 200 e 300 m. Sia la fascia appenninica che pre-appenninica sono intervallate da valli fluviali notevolmente incise e depressioni collinari ampie: le prime comportano pendenze considerevoli, per lo più comprese fra il 20% ed il 35%, con

conseguenti difficoltà di lavorazione del terreno; le seconde sono interessate da pendenze più modeste, fra il 10% ed il 20%. I restanti due terzi del bacino idrografico, comprendenti la fascia sub-appenninica e pianeggiante, presentano acclività lievi o nulle tanto da agevolare lo sviluppo di attività antropiche su gran parte del fondovalle e lungo la costa. Da un punto di vista geologico-geomorfologico il settore occidentale dell’area d’interesse, dominato dalla dorsale marchigiana, è costituito da formazioni prevalentemente calcaree ed arenacee dall’elevata permeabilità; in prossimità delle aree depresse tali formazioni sono intervallate da affioramenti terrigeni pelitico-arenacei meno permeabili. Il settore centrale medio e basso collinare è costituito da formazioni argilloso-sabbiose ed argilloso-ghiaiose più recenti a media e medio-bassa permeabilità; infine il settore orientale è composto da formazioni alluvionali a bassa permeabilità, con terrazzi fluviali più o meno recenti in prossimità del fondovalle. Come ricorda lo stesso Piano stralcio di bacino per l’Assetto Idrogeologico (PAI) della Regione Marche, l’intero bacino imbrifero è interessato da numerosi fenomeni di tipo franoso e alluvionale. Le zone caratterizzate da ridotta acclività e bassa plasticità nonché coinvolte da movimenti di primo distacco o da antichi corpi di frana riattivati, si contraddistinguono per la presenza di frane dal movimento lento la cui velocità dipende dalle fluttuazioni del regime delle acque sotterranee; le zone montane, ben più acclivi delle precedenti, sono interessate da frane di notevoli dimensioni dal movimento moderato o veloce (scivolamenti, crolli, debris-flows, debris-avalanches). Lungo il corso del fiume Misa, è possibile riscontrare una serie di feno-

meni che, nel complesso, risultano essere complementari: se da un lato il settore occidentale mostra processi erosivi in continuo divenire, dall’altro sia il settore centrale che il settore orientale sono coinvolti da processi deposizionali e frequenti fenomeni di esondazione/alluvionamento a carattere stagionale. A tal proposito l’Autorità di Bacino ha uniformemente attribuito all’asta fluviale principale un grado di pericolosità idraulica molto elevata (P4), stimata rispetto ad un tempo di ritorno compreso fra 30 e 50 anni. Considerando la probabilità di accadimento dell’evento alluvionale, le caratteristiche degli elementi esposti ed il loro valore in termini monetari, il PAI contrassegna il centro storico della città di Senigallia e le vicine frazioni di Cannella e Vallone a rischio idraulico molto elevato (R4); frazioni come Borgo Catena o Borgo Passera, così come i centri di Passo Ripe, Casine di Ostra e Pianello di Ostra, sono individuati a rischio idraulico elevato (R3). I fenomeni gravitativi, distribuiti in maniera uniforme sul territorio, presentano gradi di pericolosità e rischio che variano da moderati (P1, R1) a molto elevati (P4, R4). Come si evince dai documenti tecnici di Piano, ad un determinato grado di pericolosità non necessariamente corrisponde uno stesso grado di rischio idraulico o geomorfologico; ciò significa che ad una certa probabilità di accadimento del fenomeno sono associabili danni più o meno consistenti a seconda di quanto e come vengono coinvolti gli elementi esposti. Nel caso degli eventi alluvionali è interessante notare come la maggior parte delle aree a rischio idraulico, pari allo 0,8% della superficie del bacino idrografico, siano state classificate come R4. Invece buona parte delle aree soggette ad instabilità dei


Fig.1 Tavola 6 – Carta di sintesi della permeabilità dei suoli del bacino del fiume Misa, elaborazione dell’autrice.

Fig.2 Tavola 9 – Carta della pericolosità e del rischio idrogeologico nel bacino del fiume Misa, rielaborazione dell’autrice.


Fig.3 Dettaglio dell’uso del suolo alle soglie storiche 1954, 1984 e 2007 nel contesto territoriale del Comune di Arcevia (AN). Fonti di riferimento: Tavola 10 – Carta dell’uso del suolo del 1954 nel bacino fiume Misa, elaborazione dell’autrice; Tavola 11 – Carta dell’uso del suolo del 1984 nel bacino fiume Misa, rielaborazione dell’autrice; Tavola 12 – Carta dell’uso del suolo del 2007 nel bacino fiume Misa, rielaborazione dell’autrice.

versanti, pari all’8,0% della superficie complessiva (691 frane), rientra nella classe R1 e, sebbene la probabilità di accadimento sia elevata (P3) più della metà dei fenomeni franosi non è causa di danni ingenti. Il metodo Il ruolo degli usi del suolo L’analisi degli usi del suolo presenti all’interno del bacino idrografico del fiume Misa costituisce il fulcro del lavoro di ricerca. La ricostruzione dell’evoluzione storica degli utilizzi e la valutazione del loro stato attuale permettono di comprendere quanto l’azione antropica possa incidere, in maniera diversificata, sul complesso sistema fiume. In via preliminare, è stato necessario ac-

corpare le classi di uso del suolo di partenza al fine di: 1) avere restituzioni cartografiche leggibili in scala 1:75.000; 2) correlare ciascuna classe di uso del suolo ad un valore di permeabilità, sulla base del rapporto fra copertura del terreno e deflusso delle acque superficiali; 3) individuare la capacità d’uso agro-forestale del territorio in relazione ad un utilizzo integrato delle risorse, con lo scopo di attivare un processo di riequilibrio e rinaturalizzazione del bacino idrografico del Misa. Le classi individuate sono: • urbanizzato (edificato, infrastrutture, aree in trasformazione, aree estrattive), con superfici a bassa o nulla permeabilità, spesso interes-

sate da fenomeni di dissesto; • aree nude (spiagge, aree in erosione, rocce ed accumuli detritici, laghi e lagune di cava), con superfici a bassa o nulla permeabilità, anch’esse frequentemente soggette a fenomeni di dissesto; • seminativi (seminativi arborati, irrigui, non irrigui e con colture orticole), con superfici a permeabilità maggiore, spesso interessate da fenomeni di dissesto di tipo erosivo e/o franoso, per lo più legati ad un’attività agricola eccessivamente meccanizzata; • colture agrarie legnose (colture specializzate a oliveto/vigneto/ frutteto/pioppeto, colture promiscue) con superfici ad elevata permeabilità e buona capacità di azione di tutela idrogeologica;

• incolto (pascoli, prati, prati-pascoli), anch’esse con superfici ad elevata permeabilità e buona capacità di azione di tutela idrogeologica; • boschi (aree a prevalenza boscate, boschi propriamente detti), con superfici ad elevatissima permeabilità ed elevata capacità di azione di tutela idrogeologica; • corpi d’acqua (corsi fluviali, canali, laghi, lagune, bacini artificiali, nevi, ghiacciai, allevamenti ittici) aventi livello di permeabilità estremamente elevato. L’analisi delle trasformazioni degli usi del suolo avvenute dagli anni ’50 ad oggi è stato svolto utilizzando dati cartografici di natura molto diversa, risalenti alle soglie storiche 1954/1955, 1984 e 2007: • serie 25/V della Carta Topografica


SOGLIE USO DEL SUOLO

Urbanizzato

1954

1984

2007

ha

%

ha

%

ha

%

2.970,23

7,69

3.179,69

8,23

4.023,80

10,41 11,68

Bosco

2.208,22

5,71

2.721,83

7,04

4.512,90

Incolto

3.564,68

9,22

2.129,04

5,51

725,51

1,88

Seminativo

13.588,24

35,16

27.771,6

71,87

26.888,35

69,58

Colture agrarie legnose

15.704,12

40,64

1.953,62

5,06

2.032,00

5,26

Aree nude

138,22

0,36

394,49

1,02

29,04

0,08

Corsi e corpi d’acqua

469,51

1,21

492,95

1,28

431,62

1,12

TOTALE

38.643,22

100

38.643,22

100

38.643,22

100

ha

%

ha

Tab.1 Confronto delle superfici di ciascuna classe di uso del suolo alle tre soglie storiche, elaborazione dell’autrice.

SOGLIE USO DEL SUOLO

1954

1984

2007

ha

%

%

Urbanizzato

2.970,23

7,69

3.179,69

8,23

4.023,80

10,41

Bosco

2.208,22

5,71

2.721,83

7,04

4.512,90

11,68

Incolto

3.564,68

9,22

2.129,04

5,51

725,51

1,88

Seminativo

13.588,24

35,16

27.771,6

71,87

26.888,35

69,58

Colture agrarie legnose

15.704,12

40,64

1.953,62

5,06

2.032,00

5,26 0,08

Aree nude

138,22

0,36

394,49

1,02

29,04

Corsi e corpi d’acqua

469,51

1,21

492,95

1,28

431,62

1,12

TOTALE

38.643,22

100

38.643,22

100

38.643,22

100

Tab.2 Calcolo dei coefficienti di deflusso specifici per ogni classe di uso del suolo e dei coefficienti di deflusso totali per ogni soglia temporale, elaborazione dell’autrice.

d’Italia del 1954/1955 (in mancanza del Volo IGMI G.A.I. del medesimo periodo); • Carta dell’uso del suolo del 1984 in scala 1:10.000, Ufficio cartografico Regione Marche; • Carta dell’uso del suolo del 2007 in scala 1:10.000, Ufficio cartografico Regione Marche. La digitalizzazione degli usi del suolo a partire dalla serie 25/V della Carta Topografica d’Italia ha comportato non poche limitazioni. Trattandosi di una carta tematica sintetica ed originariamente redatta a mano, è stato difficoltoso individuare i confini di ciascun pattern agro-forestale e definire con precisione i margini dell’urbanizzato. Inoltre l’utilizzo di fonti cartografiche ufficiali come quelle del 1984 e del 2007, redatte con criteri di-

versi, ha richiesto una drastica semplificazione delle legende per la riclassificazione degli usi del suolo. Ne consegue che, durante il processo di redazione dei tre elaborati cartografici, siano stati commessi errori inevitabili alla luce dei dati di partenza. Confrontando gli usi del suolo da un punto di vista quantitativo, emerge uno stacco netto nel trentennio compreso fra il 1954 ed il 1984: in primo luogo si riscontra un incremento dell’urbanizzato dello 0,5%; in secondo luogo, se si considera il territorio aperto a carattere agricolo, si assiste ad un incremento delle colture a seminativo del 36,7% e ad una forte diminuzione delle colture agrarie legnose del 35,5%; infine le aree boscate riportano un incremento dell’1,3% mentre le aree ad incolto del 3,7%.

Uno stacco generale meno evidente lo si ha fra il 1984 ed il 2007; le classi che registrano maggiore incremento percentuale sono l’urbanizzato e le aree boscate, con una rispettiva crescita del 2,1% e del 4,6%. Attraverso queste prime analisi è possibile risalire alle principali dinamiche di trasformazione del territorio in questione, sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista socio-economico. L’espansione delle aree urbanizzate è un processo di trasformazione iniziato nella seconda metà degli anni ’50, a ridosso del cosiddetto “boom economico italiano”. L’ingente spostamento della popolazione dalle campagne ai centri urbani, finalizzato alla ricerca di un impiego nel settore dell’industria e del terziario, ha

innescato due fenomeni opposti e complementari: da un lato lo spopolamento di zone montane e campagne agricole, dall’altro l’espansione dei centri abitati in prossimità delle zone di margine. È opportuno ricordare che il fenomeno di spopolamento delle campagne, unitamente alla cessazione del sistema mezzadrile, ha giocato un ruolo di rilievo nella trasformazione del territorio aperto: è venuta meno la dimensione medio-piccola delle aziende a conduzione diretta e delle unità poderali mezzadrili, in seguito all’allargamento della forbice fra grandi aziende e piccole aziende (Agnoletti, 2010); allo stesso tempo l’avvento dei mezzi meccanici per la lavorazione 123 dei terreni, l’introduzione


SOGLIA USO DEL SUOLO

2030 ha

pesi

impatto uso del suolo

Urbanizzato

4.023,80

0,30

0,031 0,005

Bosco

4.780,61

0,04

Incolto

469,88

0,21

0,003

Seminativo

26.888,35

0,13

0,090

Colture agrarie legnose

2.032,00

0,09

0,005

Aree nude

16,96

0,28

0,000

Corsi e corpi d’acqua

431,62

0,00

0,000

TOTALE

38.643,22

-

0,134

SOGLIE USO DEL SUOLO

2030 ha

pesi

impatto uso del suolo

Urbanizzato

4.023,80

0,30

0,031

Bosco

5.003,70

0,04

0,005

Incolto

469,88

0,21

0,003 0,090

Seminativo

26.665,26

0,13

Colture agrarie legnose

2.032,00

0,09

0,005

Aree nude

16,96

0,28

0,000

Corsi e corpi d’acqua

431,62

0,00

0,000

TOTALE

38.643,22

-

0,134

schi a discapito di pascoli e prati-pascoli: questa tendenza, che interessa particolarmente il lasso temporale fra il 1984 ed il 2007, coinvolge le superfici non più soggette a pratiche silvo-pastorali ed i terreni occupati da aree di risulta, incolto e/o cave esaurite.

trattenuta della risorsa idrica da parte del terreno:

• densità della vegetazione, dato che

Tab3a,b. Calcolo del coefficiente di deflusso totale nell’ipotesi di rimboschimento di una parte di terreni incolti, aree nude e seminativi semplici, elaborazione dell’autrice.

di moderne tecniche colturali e l’utilizzo di fertilizzanti chimici ha portato ad un minor impiego di manodopera, alla semplificazione della maglia agraria, alla riduzione della complessità ecologica e alla omogeneizzazione progressiva del paesaggio agrario. Queste dinamiche consentono di spiegare il vertiginoso aumento di superficie a seminativo e la brusca diminuzione di superficie a colture agrarie legnose fra il 1954 ed il 1984; inoltre la leggera diminuzione del primo tipo di superfici e l’esiguo aumento del secondo tipo, fra il 1984 ed il 2007, sono probabilmente legati al venir meno della promiscuità colturale a favore di una maggiore specializzazione agricola. Parallelamente l’abbandono delle aree montane ha influito sull’avanzamento dei bo-

Il coefficiente di deflusso come indicatore del peso degli usi del suolo Pianificare azioni volte ad innescare un processo di riequilibrio e rinaturalizzazione del bacino idrografico del fiume Misa ha comportato l’introduzione del coefficiente di deflusso (Cd). Questo parametro è inteso come il rapporto fra acqua di precipitazione defluita (D) e acqua di precipitazione caduta al suolo (P) ed esprime numericamente la capacità di

Il suo valore aumenta in relazione a: • precipitazione annua, poiché negli anni molto piovosi il deflusso superficiale è maggiore dell’evapotraspirazione degli organismi vegetali; • pendenza del bacino idrografico, in quanto acclività accentuate velocizzano i tempi di corrivazione delle acque meteoriche. Allo stesso tempo il suo valore diminuisce in relazione a: • permeabilità, poiché in suoli molto permeabili l’evapotraspirazione consuma una percentuale maggiore di acqua d’infiltrazione piuttosto che di acqua superficiale;

in terreni con elevata componente vegetazionale aumenta il processo di evapotraspirazione. In sintesi si può affermare che il valore del coefficiente di deflusso di un bacino idrografico dipende essenzialmente da tre fattori: clivometria, permeabilità e copertura vegetale. Questo significa che, in una medesima area, per ogni singolo evento piovoso, il valore del coefficiente varia al variare delle condizioni di saturazione del terreno, oltre che delle caratteristiche di precipitazione (Pranzini, 2009), ed è tanto più basso quanto minore è il deflusso superficiale. Considerando costanti i primi due fattori, è stata svolta una valutazione di quanto le trasformazioni degli usi del suolo abbiano inciso sulla va-


Fig.4 Dettaglio delle pendenze significative ai fini di possibili interventi di rimboschimento nel contesto territoriale del Comune di Arcevia (AN). Fonte di riferimento: Tavola 14 – Carta d’individuazione delle pendenze significative per possibili interventi di rimboschimento all’interno del bacino del fiume Misa, elaborazione dell’autrice.

riazione di tale coefficiente nel corso del tempo: per diminuirlo in modo significativo sono stati attribuiti pesi specifici ad ogni tipologia di copertura (i.e. impermeabile, permeabile priva di vegetazione erbacea/arbustiva, permeabile con vegetazione erbacea/arbustiva, permeabile arbustiva) sulla base del ruolo assunto da ciascuna di esse nel processo di assorbimento delle acque meteoriche di superficie. Per la corretta attribuzione dei pesi, è stato preso in considerazione l’indice di aridità dell’area geografica di riferimento; inoltre è stato opportuno ricalibrare tutti i pesi, in relazione al numero e alle caratteristiche delle classi di uso del suolo all’interno del contesto esaminato: urbanizzato (0.30), aree nude (0.28), incol-

Fig.5 Dettaglio di aree incolte, aree nude e seminativi semplici da poter destinare a possibili interventi di rimboschimento nel contesto territoriale del Comune di Arcevia (AN). Fonte di riferimento: Tavola 15b – Carta d’individuazione delle aree incolte, delle aree nude e dei seminativi semplici da poter destinare a rimboschimento all’interno del bacino del fiume Misa, elaborazione dell’autrice.

to (0.21), seminativo (0.13), colture agrarie legnose (0.09), bosco (0.04), corsi/corpi d’acqua (0.00). Successivamente è stato individuato un coefficiente di deflusso medio, desunto per mezzo della media pesata dei coefficienti di deflusso delle singole classi:

dove: Si = i-esima porzione di superficie; Stot = superficie totale; φi = coefficiente di deflusso (o peso) della i-esima porzione di superficie. Questo parametro può variare da 0, se l’acqua viene trattenuta del tutto, ad 1, se l’acqua defluisce completamente dalla superficie scolante.

Confrontando i valori dei coefficienti di deflusso medi alle tre soglie temporali, si riscontra un incremento del 9,3% dal 1954 al 1984 ed un incremento del 5,7% dal 1984 al 2007; ciò significa che il maggior livello di deflusso superficiale è stato raggiunto a metà degli anni ’80 per poi avere una discesa di 3,6 punti percentuali. Il coefficiente di deflusso come parametro per lo sviluppo di previsioni future Una volta compresa l’importanza del coefficiente di deflusso nel processo di valutazione della capacità di assorbimento delle acque meteoriche da parte del terreno, sono state simulate due differenti ipotesi di trasformazione delle coperture:

1) la prima basata sulla conversione in aree boscate di tutte le aree nude ed incolte presenti sul territorio; 2) la seconda, più severa, basata sulla conversione in aree boscate di una parte di aree nude, incolte ed a seminativo semplice, contraddistinte da un’acclività maggiore. La prima ipotesi consente di percepire concretamente l’entità dell’intervento necessario affinché si possa ottenere un abbassamento significativo di tale coefficiente: rimboschendo 725,5 ha di aree incolte e 29,0 ha di aree nude è stato possibile ottenere un decremento del valore del coefficiente pari al 2,5%. Per quanto questo valore sia consistente, tuttavia lo scarto con le condizioni del 1954 è risultato ancora piuttosto marcato.


SOGLIE USO DEL SUOLO

Superficie impermeabile

2030 ha

pesi

impatto uso del suolo

2.970,23

2.970,23

4.023,80

non trasformabile

1.859,87

1,00

0,048

Superficie impermeabile

3.564,68

3.564,68

725,51

potenzialmente trasformabile

701,82

0,70

0,013

Superficie permeabile

1.462,11

0,21

0,008

TOTALE

4.023,80

-

0,069

SOGLIE USO DEL SUOLO

2030 ha

pesi

impatto uso del suolo 0,048

Urbanizzato impermeabile

1.859.87

1,00

Urbanizzato trasformabile

701,82

0,70

0,013

Urbanizzato permeabile

1.462,11

0,21

0,008

Bosco

5.003,70

0,04

0,005

Incolto

469,88

0,21

0,003 0,090

Seminativo

26.665,26

0,13

Colture agrarie legnose

2.032,00

0,09

0,005

Aree nude

16,96

0,28

0,000

Corsi e corpi d’acqua

431,62

0,00

0,000

TOTALE

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PAI e del Piano Forestale Regionale (PFR)1, le tipologie di rimboschimento previste nell’ambito del territorio aperto non urbanizzato sono: • rimboschimenti naturaliformi attraverso impianti misti di latifoglie, rimboschimenti per produzioni legnose specializzate (impianti puri o misti di arboricoltura da legno a ciclo medio-lungo), rimboschimenti per la produzione di tartufi a ciclo medio-lungo per le superfici incolte e le aree nude; • creazione di piccole aree boscate, realizzazione di sistemi lineari quali filari e/o siepi e piantumazione di piante isolate sparse per le superfici agricole. Prima di individuare gli interventi da svolgere nell’ambito dei centri storici e del territorio aperto urbanizzato, per

diminuire ulteriormente il valore del coefficiente di deflusso si è cercato di capire come la pianificazione ordinaria, ad oggi, si interfacci con urbanizzazioni esistenti e di previsione. Il Piano Paesistico Ambientale Regionale (PPAR) risulta privo di un documento cartografico di sintesi dei diversi gradi di permeabilità dei suoli. La necessità di redigere una Carta regionale delle permeabilità nasce dalla sempre maggiore urgenza di: 1) correlare l’urbanizzato esistente alle caratteristiche intrinseche dei suoli, al fine di incentivare politiche per il miglioramento delle capacità drenanti del terreno; 2) correlare l’urbanizzato di previsione alle caratteristiche intrinseche dei suoli al fine di incentivare politiche mirate alla conservazione

Tab.4a,b Calcolo dei coefficienti di deflusso nell’ipotesi di de-impermeabilizzare le aree impermeabili potenzialmente trasformabili (considerando la distinzione dell’urbanizzato in superfici impermeabili non trasformabili, superfici impermeabili potenzialmente trasformabili e superfici permeabili) nel bacino del fiume Misa, elaborazione dell’autrice. pagina successiva Fig.6 Tavola 16b – Carta d’individuazione delle aree urbanizzate impermeabili potenzialmente trasformabili nel centro abitato del Comune di Ostra Vetere (AN), elaborazione dell’autrice.

La seconda ipotesi ha interessato le superfici a maggiore acclività e con presenza di fenomeni d’instabilità dei versanti. Generalmente laddove le pendenze oscillano fra il 20% ed il 35% e la litologia si compone di suoli particolarmente impermeabili (i.e. argille, marne, marne argillose, peliti arenacei, peliti siltosi) è difficoltoso praticare l’agricoltura meccanizzata a meno che non vengano svolte apposite operazioni di sistemazione agricola per la regimazione delle acque superficiali/sub-superficiali; a maggior ragione, laddove le pendenze superano il 35%. Dall’intersezione degli usi del suolo con le superfici a pendenza significativa è stato possibile individuare rispettivamente 255,6 ha di incolto, 12,0 ha di aree nude e 223,0 ha di

seminativo semplice di risulta da poter destinare a pratiche di rimboschimento; così facendo l’abbassamento del coefficiente di deflusso è risultato pari all’1,3%. Probabilmente, per far sì che il deflusso superficiale diminuisca drasticamente, sarebbero necessari interventi di trasformazione degli usi del suolo di entità e consistenza ben diverse rispetto a quelle formulate dalla presente ricerca; non va esclusa l’ipotesi di un sistema diffuso di vasche d’espansione idraulica sotto forma di vallecole multifunzionali, distribuite in maniera omogenea lungo l’intero corso fluviale. Pur tuttavia le due ipotesi vanno considerate un possibile punto di partenza per lo sviluppo di una strategia pianificatoria ampia e multilivello. In conformità con le disposizioni del


della permeabilità attuale, indirizzando gli interventi di nuova urbanizzazione in terreni dalla scarsa o nulla permeabilità. Un elaborato cartografico di questo tipo può diventare il punto di partenza per la redazione della Carta comunale delle permeabilità, rispetto alla quale conformare il Regolamento Edilizio. A tal proposito si ricordi che la recente L.R. n.17/20152 non prevede l’obbligo di alcuna disposizione cautelativa da adottare in relazione alle superfici permeabili e/o potenzialmente permeabili3, all’interno del Regolamento Edilizio comunale. Definiti i parametri di Superficie permeabile di pertinenza (Spp) e di Rapporto di permeabilità (Rp), sono state individuate disposizioni normative stringenti sia per le aree de-

stinate ad interventi di nuova urbanizzazione che per le aree urbanizzate preesistenti. Nel caso in cui si prevedano interventi di nuova urbanizzazione (comprensivi di ampliamenti edilizi e sostituzione edilizia), bisogna garantire il mantenimento di un rapporto di permeabilità superiore al 25% della superficie fondiaria (Sf). Tale rapporto viene assicurato per mezzo di apposito criterio compensativo4: • tassazione sull’impermeabilizzazione, basata sull’imposizione di una tassa ogni qual volta s’intenda impermeabilizzare suolo libero. La tassa è calcolata in base alla qualità del suolo consumato. In conformità con quanto riportato nella Carta comunale della permeabilità, operazioni di questo tipo so-

no indispensabili in tutti quei suoli che oscillano fra una “media permeabilità” ed una “alta permeabilità”. In prossimità dei segmenti fluviali di ordine superiore al terzo, sono vietati entrambi i tipi di intervento. Nel caso in cui si operi in aree già urbanizzate, bisogna garantire comunque un rapporto di permeabilità maggiore o uguale al 25% della superficie fondiaria (Sf). Tale rapporto viene assicurato con i seguenti criteri compensativi: • de-impermeabilizzazione, basata sul ripristino delle condizioni originarie del suolo per mezzo della rimozione degli strati impermeabili (i.e. asfalto, calcestruzzo), del dissodamento e della ristrutturazione del profilo del terreno. Qualora non sia possibile adotta-

re una copertura altamente permeabile (i.e. prato rasato, ghiaia inerbita, grigliato erboso in plastica) è richiesto l’utilizzo di coperture mediamente permeabili (i.e. grigliato erboso in calcestruzzo, superfici aggregate con l’acqua, pavimentazioni in calcestruzzo permeabile, asfalto poroso); • tassazione sull’impermeabilizzato, basata sull’imposizione di una tassa in caso di mancato raggiungimento del rapporto di permeabilità stabilito per legge. In conformità con quanto riportato nella Carta comunale della permeabilità, operazioni di questo tipo sono indispensabili in suoli che oscillano fra una “media permeabilità” ed 127 una “alta permeabilità”.


Nell’intento di valutare quanto influenti potessero essere su centri storici e sul territorio aperto urbanizzato, le nuove disposizioni normative sono state applicate all’interno di un comune campione: il Comune di Ostra Vetere, di medie dimensioni ed interamente compreso all’interno del bacino idrografico del fiume Misa (territorio-tipo). Potendo intervenire in modo concreto solo ed esclusivamente sulle aree urbanizzate, si è cercato di de-impermeabilizzare quelle potenzialmente permeabili. Una volta individuate le superfici con funzione di parcheggio, piazzale di sosta, area di pertinenza stradale ed area di pertinenza residenziale è stato possibile scindere l’impermeabilizzato in superfici impermeabili non trasformabili e superfici impermeabili potenzialmente trasformabili: le prime costituiscono il 46,2% mentre le seconde il 17,4% di tutto l’impermeabilizzato comunale. Estendendo all’intero bacino idrografico i rapporti esistenti fra le sot-

tocategorie di urbanizzato, è stato possibile notare che le superfici impermeabili non trasformabili sono pari a 859,8 ha, le superfici impermeabili potenzialmente trasformabili a 701,8 ha e le superfici permeabili a 1462,1 ha. Seguendo le direttive della Commissione Europea ed ipotizzando di utilizzare asfalto poroso5 nelle aree da assoggettare a trasformazione, sono stati individuati nuovi pesi per ognuna delle tre sottocategorie: superfici totalmente impermeabili non modificabili (1.00), superfici impermeabili da assoggettare a de-impermeabilizzazione (0.70) e superfici di pertinenza permeabili con vegetazione erbacea/arbustiva/arborea (0.21)6. Una volta effettuata la media pesata dei coefficienti di deflusso delle singole classi di urbanizzato è stato riscontrato un abbassamento del valore totale del 7,3% (calcolato solo sull’urbanizzato) e del 3,0% (calcolato sull’urbanizzato ma tenendo presente gli altri usi del suolo presenti).

Conclusioni La presente ricerca tenta di dimostrare quanto la pianificazione di bacino debba necessariamente adottare un approccio integrato. Per quanto il bacino del fiume Misa possa avere un’unica unità idrologica di riferimento, tuttavia presenta al suo interno una molteplicità di unità fisiografiche. (McHarg, 1969)7 che lo differenziano e che dovrebbero indirizzare le azioni antropiche. Pertanto si è cercato di capire quanto la gestione, o più propriamente lo sfruttamento, della risorsa suolo abbiano inciso negativamente sul complesso sistema fiume. Di qui il bisogno di legare queste prime embrionali riflessioni, puramente teoriche, ad un’indagine approfondita di natura quantitativa: dall’articolata relazione fra permeabilità e coperture del suolo è stato possibile individuare il risultato delle differenti, e spesso contrastanti, politiche territoriali susseguitesi nel corso degli anni. È necessario ricordare che questo lavoro di ricerca non pretende di fornire un metodo definitivo ed

imprescindibile attraverso cui ristabilirne le condizioni originarie (di per sé impossibili da ricostituire); si tratta piuttosto di un piccolo “empirico” contributo ad un approccio pianificatorio, quello territorialista, già di per sé attento alla stratificazione dei tematismi nel tempo e nello spazio, alle interrelazioni fra elementi di natura diversa, agli equilibri ecosistemici nel loro complesso.


Bibliografia

Note 1 Si veda art. 4 della Legge Regionale 23 febbraio 2005, n. 6 – Legge Forestale Regionale. 2 Per maggiori informazioni su indici e parametri edilizi ed urbanistici si rimanda al Regolamento Regionale 14 settembre 1989, n. 23 – Regolamento edilizio tipo, Titolo III, art. 13. Tratto da: http://www.consiglio.marche.it/banche_dati_e_documentazione/leggirm/leggi/visualizza/sto/762#art13 3 Per sviluppare le presenti disposizioni normative è stato preso come riferimento il Decreto del Presidente della Giunta Regionale 11 novembre 2013, n. 64/R – Regolamento di attuazione dell’articolo 144 della legge regionale 3 gennaio 2005, n.1 (Norme per il governo del territorio) in materia di unificazione dei parametri urbanistici ed edilizi per il governo del territorio, Capo II, artt. 27 e 28. 4 Il termine “compensazione” non sta ad indicare che l’impermeabilizzazione di un suolo viene compensata con interventi di diverso tipo su altri suoli; piuttosto significa tutelare le funzioni del suolo libero (mantenendolo tale) o recuperare/migliorare le funzioni del suolo impermeabilizzato (ripristinando un certo grado di permeabilità per mezzo di operazioni mirate nel secondo). 5 L’asfalto poroso si adatta a parcheggi, aree di manovra, strade carrabili (velocità di 30 km/h), ecc. In questo modo si è scelto di operare in via cautelativa, sia dal punto di vista degli utilizzi delle superfici da assoggettare a trasformazione che dal punto di vista della permeabilità ottenibile dagli interventi. 6 Per le aree di pertinenza con vegetazione erbacea, arbustiva e/o arborea è stato scelto un peso di 0,21; dal punto di vista dell’incidenza sul deflusso superficiale, tali superfici sono assimilabili a quelle ad incolto. 7 Individuare le regioni (o unità) fisiografiche di un territorio significa individuare quelle regioni ottenute tramite la rappresentazione delle risorse fisiche (con particolare riguardo per il reticolo

idrografico) che costituiscono il contesto preso in esame. Attraverso una regione fisiografica è possibile individuare le concordanze che sussistono fra morfologia del terreno, configurazione dei corsi d’acqua, pedologia, litologia, associazioni vegetazionali, uso del suolo, ecc. Nel caso di un bacino idrografico bisogna ricordare che sebbene il corso fluviale costituisca un’unica unità idrologica, è probabile che quest’ultima attraversi regioni fisiografiche differenti.

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Fig.1 Piazza San Benedetto dopo il sisma, Norcia.


Resilienza sociale per la conservazione della “civitas” nel caso di disastri ambientali, sismici e idrogeologici: il caso di Norcia Società e urbanizzazione, terremoto e resilienza Le drammatiche calamità naturali che nel corso degli anni hanno sconvolto l’Italia hanno posto l’attenzione sul concetto di resilienza, inteso non soltanto come la resistenza che un edificio riesce a esprimere quando viene investito da una scossa sismica, ma anche e forse soprattutto, come la capacità di una comunità di reagire positivamente all’annichilimento fisico e psicologico provocato da un evento disastroso. Cosa significa più precisamente ‘resilienza’? Il termine nasce in ambito fisico e sta ad indicare la proprietà dei materiali di resistere agli urti senza spezzarsi. Il concetto è stato poi applicato ad altri ambiti. In questo contesto si parla di resilienza sociale, ovvero la capacità di un gruppo o di una comunità di cooperare in seguito a stress e eventi esogeni derivanti da cambiamenti di natura ambientale, sociale o politica. Quindi la resilienza consiste nel rimbalzare allo stato precedente al disastro, nel ritornare in piedi ma avendo acquisito tecniche e conoscenze che permettono di consolidare il sistema, l’individuo o la comunità il cui stato di equilibrio è alterato da fattori interni o più frequentemente esterni. Il fascino della ricostruzione sta anche nella grande sfida, dopo ogni evento, di rimuovere le rovine e

Arianna Brestuglia smaltire le macerie, recuperare ogni pietra, ogni mattone, ricostruendo da una parte ‘il costruito’, dall’altra di trovare, spesso anche contro le aspettative, all’interno della comunità la forza e le risorse per crescere. L’alternativa è che, gli abitanti non trovando più tutto ciò che gli dava un motivo per restare nell’area colpita dal sisma, decidano di allontanarsi permettendo così che quei luoghi collassino. Il sisma causa infatti il ribaltamento delle attività produttive, dell’economia e del turismo e in pochi secondi cancella la città immateriale, legami, secoli di storia sociale ed equilibri della comunità che si era basata su un’economia e un sistema sociale che rappresentava la vitalità di quel luogo. L’area scelta per questo lavoro è Norcia, non perché abbia subìto danni maggiori rispetto a quelli di altri comuni del cratere sismico (colpiti circa 140 comuni tra Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo), ma perché è un luogo di particolare interesse caratterizzato da un’inestimabile cultura artistica, da un grande valore storico e paesaggistico, elementi su cui si è creata la vita e la storia di una comunità forte e coesa, colpita innumerevoli volte dalla piaga del terremoto, ma che ogni volta ha resistito.

Il tessuto socio-urbanistico di Norcia e le tendenze alla resilienza già presenti Norcia è situata in Valnerina, un’area, al confine tra l’Umbria e le Marche, ad elevato rischio sismico che nel corso della storia è stata soggetta a scosse sismiche che hanno portato ad un mutamento continuo dell’assetto urbano e delle infrastrutture e di conseguenza ad un adattamento della società alle diverse condizioni. Analizzando i danni causati dai terremoti e le successive ricostruzioni, anche in epoche più antiche, risulta evidente che il tessuto della città è potenzialmente molto resiliente, perché nonostante le continue difficoltà affrontate nel tempo è rimasto sempre radicato al territorio, non ha mai perso i suoi tratti caratterizzanti e ha conservato un’economia e una comunità che nel 2016 erano ancora molto forti. Il sisma del 2016 ha arrecato danni quasi irreparabili, soprattutto al patrimonio culturale che è anche l’identità del luogo; la necessità è quella di agire per evitare che la popolazione perdesse il legame che la teneva vicina a quella terra. Oltre ai problemi indotti dagli eventi disastrosi, i meccanismi burocratici previsti dalla normativa nazionale provocano iter procedurali e pas-

Corso di Laurea Triennale in Pianificazione della città, del territorio e del paesaggio Relatore: Alberto Ziparo Co-relatore: Tiffany Geti Febbraio 2019

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Figg.2-3 Danni alle abitazioni di Norcia.

saggi decisionali sempre più lenti e complessi e questo oltre a mettere un freno al processo di ricostruzione del luogo in tutti i sensi, limita l’applicazione del concetto di resilienza. Infatti, anche nel caso in questione le associazioni che si muovono per far sì che il luogo si riprenda anche come tessuti socioculturali, sono diverse, a partire da “I love Norcia”, nata a seguito del sisma e che si propone di riattivare la società, di non farla morire, incoraggiando organizzazioni private e pubbliche e sostenendo attività che siano di aiuto alla comunità. Un altro movimento nato è il Comitato Rinascita Norcia che denuncia la lentezza con la quale si sta svolgendo il sistema della ricostruzione privata e di alcuni servizi essenziali, come l’ospedale e i beni culturali, ma anche delle strade, che devono essere ripristinate al più presto per garantire ai turisti di arrivare, ai cittadini di spostarsi più semplicemente. Il tessuto, visto che si punta alla riproposizione e alla ricostituzione della civitas, ten-

de quindi di per sé ad essere resiliente ma ha probabilmente bisogno di alcuni input di scenario per il futuro che possono essere dati dall’ampliamento dell’azione sociale e civica, ma che dovrebbero arrivare soprattutto dalle strutture amministrative, altrimenti i tempi della burocrazia persistono in lunghezze e tortuosità fino a far perdere alle persone la speranza di vedere rinascere la propria città. Sisma tra passato e futuro: analisi dei danni e fratture nel tessuto sociale Come testimoniato dagli eventi sismici che si sono verificati dalla metà del ‘900 fino ad ora, essi sono ciclici, si ripresentano ad intervalli di tempo più o meno regolari. In Umbria sono state messe in atto strategie di difesa efficaci, che hanno perlomeno evitato vittime nel 2016 ma che non sono ancora sufficienti a ridurre il rischio al minimo. Nonostante l’assenza di vittime, la società ha subìto un duro colpo.

La speranza è che la ricostruzione vada progressivamente migliorando, così da rendere sempre più celere la ripresa dei luoghi. È importante analizzare le conseguenze del terremoto oltre il movimento della terra e la distruzione degli edifici, capire nel profondo come il cambiamento dell’urbs possa incidere in maniera decisamente significativa sulla civitas. La città e il territorio sono organismi complessi che non possono essere considerati prescindendo l’uno dall’altro: urbs e civitas sono strettamente correlate e modificando uno si va a modificare anche l’altro. Come è cambiata l’area a seguito del sisma? Quella di Norcia non era affatto una zona depressa: in precedenza al terremoto la sua economia era basata prevalentemente su agricoltura e allevamento che immettevano sul mercato prodotti la cui qualità era riconosciuta in tutto il mondo. Un altro settore che negli anni a ridosso del sisma era decisamente in crescita è

quello turistico: il 2016 ha rappresentato un anno record per l’economia. I due principali poli di attrazione erano rappresentati dalla Basilica di San Benedetto, Patrono d’Europa, e dalla presenza di molte squadre e atleti impegnati in varie discipline sportive che sceglievano Norcia come luogo per la preparazione atletica dopo la pausa estiva. Poco fuori dal centro storico della città c’era un’area, quella industriale, dove si realizzavano quei prodotti dell’enogastronomia che hanno reso celebre Norcia nel mondo. Tutto ciò aveva fatto sì che la cittadina, dopo gli anni difficili e il declino conseguenti al sisma del ‘97, ridiventasse una meta affermata, per i suoi prodotti enogastronomici tipici, per la grande ricchezza di beni culturali e per il contesto ambientale e paesaggistico in cui è inserita. Le scuole, i centri sociali, i bar, le chiese e qualsiasi altra struttura erano frequentate, le attività artigianali procedevano, insomma, si poteva dire che quella presa in considera-


Fig.4 Soluzioni Abitative di Emergenza.

zione fosse un’area caratterizzata da una certa vitalità. Il sisma del 2016 ha reso Norcia un luogo decisamente più ostile, anche per i suoi abitanti. Subito dopo le scosse, in particolare quella del 30 ottobre, molte delle attività agricole o di allevamento sono state messe in crisi, la viabilità danneggiata in alcuni casi non permetteva neanche agli agricoltori di raggiungere i campi o agli allevatori le proprie stalle e questo ha rappresentato un rischio enorme per tutti i prodotti di nicchia della zona. In alcuni casi agli agricoltori sono stati messi a disposizione i MAPRE (Moduli Abitativi Provvisori Rurali Emergenziali), edifici prefabbricati singoli in prossimità di stalle o fattorie per rimanere vicini ai propri luoghi di lavoro; ma il problema maggiore, ovvero la viabilità, persisteva, ed è stato rappresentato soprattutto dalla chiusura di una galleria sulla strada che da Norcia conduceva verso le Marche, connessione più diretta e rapida al mare.

Il progetto della bretella che doveva sostituire il collegamento tramite la galleria è stato rifiutato poiché metterebbe a rischio una falda acquifera che alimenta gran parte della Vallata del Tronto. Le infrastrutture sono un elemento fondamentale per la ripresa della società, sono necessarie per permettere spostamenti e scambi e dovrebbero essere uno dei primi elementi da ripristinare. Al momento, però, ciò non è avvenuto. Il turismo è forse ciò che maggiormente ha risentito del sisma; dopo un primo inverno durissimo con un grosso calo di presenze, oggi ci sono di nuovo turisti che visitano la città ma non sono stanziali come un tempo, raggiungono Norcia per mangiare e per fermarsi al massimo una notte in una delle poche strutture alberghiere rimaste attive e questa breve permanenza non permette all’economia turistica di ripartire davvero. Inoltre, molte delle strutture alberghiere erano localizzate proprio all’interno delle mura del centro storico, che per di-

verso tempo è stato dichiarato ‘zona rossa’, ad alta pericolosità, quindi inaccessibile. L’elemento di maggiore attrazione, la Basilica di San Benedetto, è crollato con la seconda scossa e ciò che ne rimane è una minima parte, ancora ricoperta in parte da macerie. La distruzione di un bene culturale di questa portata causa, tra i tanti problemi, anche una perdita di identità, un minor senso di appartenenza e riconoscimento in un luogo in cui si è trascorsa tutta la vita, e tutto ciò procura un profondo senso di disorientamento. Attualmente, a Norcia sono state consegnate le case temporanee a tutti i cittadini che ne avevano diritto, mentre altri hanno scelto l’autonoma sistemazione. Sono state ricostruite le scuole anche grazie alla solidarietà dei cittadini, e di diverse fondazioni. Il rischio è che tali soluzioni contingenti, nel nostro paese diventino strutturali; lasciando emergere i limiti dell’uso prolungato di attrezzature in ogni caso provvisorie.

Arrivano infatti da più parti crescenti segnalazioni di disagio, come il problema della grande umidità all’interno delle casette, mentre la ricostruzione definitiva sembra ora solo alla fase di avvio. Le attività economiche e commerciali sono in parte ripartite, delocalizzate nelle aree limitrofe al centro storico, fuori dalla zona rossa e questo ha permesso alla città di tornare, almeno in parte, all’ordinarietà. Sul tema della provvisorietà di queste nuove strutture c’è molto da scrivere, ma sicuramente hanno dato alla città la possibilità di rimettere in piedi gli elementi necessari perché la società non si congelasse completamente. In questa fase si accendono sempre di più i dibattiti in varie sedi: tutte le argomentazioni partono dalla constatazione che Norcia ha subito un terribile impoverimento culturale e sociale e che l’attenzione per una valida ricostruzione deve andare dal mat133 tone alla comunità per il


rilancio non solo strutturale ed architettonico, ma anche economico, turistico e sociale dei territori umbri colpiti dal sisma. Come si temeva, i giovani che hanno abbandonato la loro città per spostarsi altrove (principalmente verso Roma, Ascoli Piceno oppure sulla costa), sono stati molti, quindi molte attività sono venute a mancare. Coloro che sono rimasti sono in gran parte gli anziani più legati alla propria terra, che però non vedendo progressi nella ricostruzione, stanno perdendo la speranza di recuperare un giorno una città vitale come quella di qualche anno fa. Il rischio maggiore è che quelle colpite dal sisma diventino città fantasma in cui la popolazione viene assistita per tutto ciò che riguarda le necessità primarie ma a cui non viene data la possibilità di rinascere a partire dalle proprie radici. A Castelluccio di Norcia, per esempio, non ci sono più residenti, non ci sono più servizi e, a distanza di due anni, è ancora stato fatto poco per permettere agli abitanti di ripopolare il borgo; la forza del luogo sta, in questo caso, in coloro che hanno deciso di non andarsene e chiedono di essere aiutati a resistere. Bisogna dare delle motivazioni alla popolazione per rimanere, l’assistenza immediata ha permesso a tutti di avere un tetto sopra la testa nella fase emergenziale, ma la lentezza nella ricostruzione e la scarsa attenzione all’identità e al mantenimento di una comunità solida rende più semplice l’allontanamento di tutti coloro che non trovano più ragioni per abitare ancora la propria terra. Conseguenze sociali e governance post sisma Come detto in precedenza, il sisma provoca l’allontanamento della popolazione dalle aree colpite. È interessante comprendere il perché di

questo allontanamento, le preoccupazioni delle persone, ma anche la complessità della gestione post disastro, la difficoltà nel trovare una soluzione ad ogni problema, anche a livello di governance. Nelle ore successive al sisma è fondamentale curare la gestione dell’emergenza e per farlo è estremamente necessario tenere conto che non è possibile gestire l’evento con norme ordinarie, quindi l’Umbria è costretta ad approvare d’urgenza una legge di emergenza sulla ricostruzione, che in ogni caso si propone di andare oltre la ricostruzione fisica per promuovere anche la ripresa dell’area della Valnerina. La ricostruzione infatti, non può realizzarsi senza continuità della vita economica e sociale. Conseguenze sociali e culturali del sisma, evitare l’allontanamento della comunità L’emergenza provoca un consistente stato di pressione a tutti i livelli: essendo il settore sociale quello maggiormente interessato dall’evento, ci si deve occupare immediatamente di vari soggetti, in particolare quelli più deboli. Nel settore urbanistico il primo problema che emerge con il sisma è l’individuazione di aree e spazi da utilizzare per restituire i servizi alla popolazione; il Comune, a questo proposito, dispone di un piano di Protezione Civile che indica sia le aree che possono essere utilizzate durante l’emergenza sia le risorse che sono a disposizione della pubblica amministrazione, mobili (tutti i mezzi che possono essere utilizzati) e immobili (agibili e che possono essere messi a disposizione in questa prima fase). La prima fase di gestione consiste nell’immediata assistenza alla popolazione che ha bisogno innanzitutto di un posto dove dormire e mangiare e dei servizi igienici.

Per evitare che la popolazione perda il legame che ha con il proprio territorio è fondamentale dare il segnale importante e tangibile che la comunità possa velocemente rimettersi in moto. La stagionalità incide particolarmente sulle scelte e sul tipo di gestione dell’emergenza, terremoti in periodi diversi dell’anno hanno dinamiche diverse. Il terremoto del 24 agosto che ha reso inagibili alcune scuole ha subito posto il problema di mettere a disposizione della comunità dei locali idonei dove i ragazzi e i bambini potessero seguire le lezioni ed essere immediatamente in sicurezza, tranquillizzando le famiglie con il chiaro messaggio che i figli potessera svolgere le attività scolastiche in un luogo privo di pericoli. Una delle priorità da cui si parte è quindi la scuola, che diviene elemento più importante della casa, poiché spesso le famiglie che hanno ragazzi e bambini, che costituiscono il futuro, se vanno via, non tornano. Il terremoto infatti, causa il disagio di rimanere improvvisamente senza nulla e permettere a queste famiglie di restare diviene assolutamente prioritario. Altro elemento fondamentale è il lavoro perché i cittadini hanno bisogno di continuare a lavorare. Poi la casa. Tutto ciò però non basta da solo perché c’è bisogno anche di ricreare un tessuto sociale che inevitabilmente viene disgregato, massacrato. La ricostruzione degli spazi pubblici, ovvero dei luoghi dove le persone potessero incontrarsi è stato quindi l’altro elemento fondamentale. Per la comunità non c’è più nulla, non ci sono spazi di socialità e di sport. Una volta comprese le necessità della popolazione, si pensa alla ricostruzione. Ci sono fondamentalmente due tipi di ricostruzioni: una è quella che riguarda il patrimonio dei beni culturali e una quella dei beni privati. Quella dei beni culturali è una ricostruzione particolarmen-

te complessa poiché in questo caso il patrimonio è stato danneggiato in maniera molto consistente e il tema della sicurezza di questi beni dovrebbe essere posto ad un livello almeno paritetico rispetto a quello dei beni privati. Per quanto riguarda la ricostruzione privata il concetto è simile, non possiamo far finta che il terremoto sia un caso eccezionale, episodico: Norcia si conferma un territorio intensamente sismico e quindi si devono costruire strutture capaci di resistere all’ azione forte dei terremoti che torneranno. Tema della provvisorietà delle S.A.E. e degli edifici nati durante la ricostruzione Un altro tema fondamentale da trattare è quello della provvisorietà delle strutture che vengono costruite a seguito del sisma. Se da un lato è necessaria la comparsa di questi elementi sul territorio per permettere alla società di svolgere le sue normali attività, dall’altra ci si deve ricordare che andranno a impattare in maniera in maniera decisiva il territorio. Le strutture in questione sono davvero temporanee? La risposta non è così semplice; sia le S.A.E. (fig.4) che gli edifici per delocalizzare attività sono “smontabili”, o meglio, più facilmente rimovibili di altre strutture, ma per poterle utilizzare e renderle vivibili e decorose, le aree in cui vengono poste devono essere necessariamente urbanizzate, si deve rendere possibile l’afflusso di acqua, di elettricità e così via. Per questo motivo anche se un giorno potranno essere rimosse bisognerebbe iniziare a pensare alla loro costruzione prima che si verifichi il disastro per fare in modo che, al momento dello stato di emergenza, sia già presente una strategia di azione efficiente e delle aree già pronte per la costruzione delle strutture.


Ovviamente a parole è molto più semplice che nei fatti, ma il problema resta che le aree urbanizzate per l’emergenza cambiano i connotati del territorio, del paesaggio dell’area e continueranno a farlo per molto tempo. La ricostruzione in genere dura dieci o venti anni e ci sono persone, le più giovani, per cui le nuove residenze sono state la prima e unica casa, per cui la città distrutta è l’unico ricordo del luogo in cui sono nate e cresciute; dunque queste strutture, destinate a rimanere per decenni, sono davvero così temporanee nella vita di una persona? A L’Aquila, per esempio, le case sono state restituite alla popolazione con il “Progetto case”, che consisteva nella costruzione di strutture non temporanee al di fuori dell’area del centro storico, che di conseguenza è stata totalmente abbandonata; quelle case, che in parte ora sono state lasciate dai residenti, lasceranno sempre un segno sul territorio e nei ricordi di chi le ha vissute. Dopo aver lasciato le soluzioni temporanee la popolazione torna ad abitare una città che per anni è stata disabitata, una città che ha smesso di crescere, che ha in parte perso una sua identità. In quel caso la drammatizzazione dell’emergenza e l’intenzionale fretta di fornire immediate risposte anche discutibili, ha portato ad una sorta di nuovo insediamento urbano “antiurbanistico”, in cui si sono esasperati, anziché mitigarli, i problemi di lacerazione dei tessuti socioculturali legati ai luoghi e alla visione d’insieme della città. E se il problema dell’emergenza fosse lo stato di emergenza stesso? Nonostante l’Italia sia un paese ad alto rischio sismico che si è trovato spesso ad affrontare lo stato di emergenza, ogni volta si ripetono più o meno gli stessi problemi, le stesse difficoltà. Questo perché nei periodi che precedono il disastro non si atti-

va mai un processo che permette al paese di essere preparato quando il terremoto arriverà e perché negli ultimi anni le dinamiche sociali hanno teso a cancellare quei tessuti locali che assicuravano la resilienza e favorivano il mantenimento di una prospettiva civica e urbana anche di fronte all’emergenza che invece produce progetti e modalità di intervento da essa drammatizzate, spesso con perdita di razionalità tecnica, programmatica e sociale. Ciò avviene per la forte pressione che arriva da tanti lati, ma anche per i meccanismi politico-burocratici che tra l’altro prospettano sempre soluzioni molto simili, che alla lunga si rivelano eccessivamente lente o addirittura quasi impraticabili: le aree utilizzabili per l’emergenza sono spesso insufficienti e la popolazione si trova a vivere in residenze provvisorie che vengono in realtà abitate per un tempo non determinato, quasi sempre a discapito degli spazi socioculturali e quindi della ripresa della società locale. Quello che si fa a seguito di un disastro naturale è tentare di restituire alle persone tutti i servizi e le funzioni primarie, ma quello di ricostruire uno spazio di qualità resta l’ultimo obiettivo. Si mettono quindi in atto piani emergenziali che si propongono di ricostruire l’urbs senza pensarla per la civitas, facendole perdere così la sua anima. Ricostruzione immateriale Nel periodo successivo al terremoto si è aperto un forte dibattito sui possibili approcci alla ricostruzione. Quando crolla la città, quando spariscono i punti di riferimento, i luoghi di aggregazione, si tende a pensare di desiderare tutto com’era, di poter avere indietro la propria casa, la propria piazza esattamente come pochi minuti prima che tutto accadesse. Ma è davvero giusto agire così?

Il sisma è un evento devastante, ma offre anche la possibilità di ripensare la città e la società con essa. Il processo ricostruttivo, inoltre, ha una durata molto estesa nel tempo e le necessità della comunità cambiano ogni volta che un edificio viene ricostruito, che un pezzo di città torna ad essere agibile. Ricostruire dovrebbe significare sì recuperare il passato, ma soprattutto programmare il futuro, avere una visione a lungo termine che non rimanga ferma al “com’era, dov’era”. La gente afferma di volersi scordare il terremoto, di volerlo rimuovere dai propri pensieri totalmente, ma il terremoto tornerà e forse è più utile mantenere viva la memoria del passato. E’ difficile accettare un evento doloroso ma tutto ciò che accade è un insegnamento, che permette di non commettere lo stesso errore in futuro. La soluzione sta nella ricostruzione “immateriale”, nell’evitare la disgregazione e l’allontanamento della comunità, nel mantenerne salde le radici nel luogo e nella sua storia.

la ferita provocata dal sisma in ogni campo per poter di nuovo guardare al futuro recuperando la cultura del luogo, recuperando la civitas, e cerca di farlo in tutti i campi, dall’istruzione all’economia. Dopo il sisma moltissime persone si sono concentrate nella gestione dell’emergenza, come era giusto, ma nessuno parlava di visione, e questa è forse l’assenza più grande dei modelli che ci sono stati fino ad ora in Italia nella gestione delle grandi crisi; vicino al team che si deve occupare di gestione dell’emergenza, nello stesso momento sarebbe opportuno ci fosse un’altra squadra che non ha nulla a che fare con chi gestisce l’emergenza che ragiona invece su prospettiva, analisi e rilancio della comunità, che si deve realizzare non dopo due anni, ma subito dopo la catastrofe perché oggi ancora dopo due anni non c’è un progetto di visione, di rilancio, di futuro per una comunità che anche nella perdita dei beni culturali vede una perdita di identità.

Ricostruire la società Dopo il terremoto Norcia ha perso completamente la visione del proprio futuro, la comunità non credeva fosse più possibile alcun tipo di progresso del luogo, che sarebbe rimasto cristallizzato ai giorni del sisma, ai giorni della crisi. Alcuni cittadini però sono stati lungimiranti e hanno proposto progetti per la ripresa della società. A un anno dal sisma l’imprenditore Vincenzo Bianconi propone il progetto Arca dell’associazione Onlus “I love Norcia”, da lui fondata, che nasce dalla necessità di fornire alla cittadina un luogo sicuro per la comunità, di dare una risposta mirata ad una crisi che non è solo del costruito, ma di una popolazione scossa nelle sue fondamenta sociali, relazionali e culturali. “I love Norcia” nasce proprio con lo scopo di risanare

Conclusioni Spesso i processi di ricostruzione conseguenti ad un sisma, o a qualsiasi altro tipo di disastro ambientale, seguono strategie che mirano alla ricostruzione fisica della città trascurando di prestare attenzione ad altri fattori, come quello economico, culturale, sociale. Spesso il terremoto acuisce anche le disuguaglianze sociali, perché alcuni soggetti colpiti, generalmente quelli che hanno una maggiore disponibilità economica, riescono a riprendersi, altri invece rimangono bloccati in un iter di ricostruzione che sembra non avere mai fine, che sembra non portare mai ad una soluzione definitiva. L’eccessiva burocratizzazione della ricostruzione la rende appunto così tanto len135 ta da non dare spazio al-


la comunità, che rimane intrappolata per anni in questo processo e decide o di andarsene o di resistere. Quella che ci dovrebbe essere però non è una resistenza, ma piuttosto una rigenerazione, un superare il terremoto senza dimenticarlo, un progredire rispetto al passato, anche se con estrema fatica. Qualsiasi emergenza va affrontata guardando tutto attraverso l’idea di città che deve restare ferma, che non va mai smarrita; ma soprattutto deve confermarsi come permanenza strutturale, sempre utile e necessaria, quindi anche e soprattutto al momento dell’evento disastroso. La popolazione è attiva e interessata al tema della ripresa del luogo, poiché ne è anche la diretta interessata, ma nonostante ciò tutto procede con tempi molto dilatati e a due anni e mezzo dal sisma la ricostruzione è appena avviata. A questo punto sorge spontanea una domanda: è possibile avviare, a seguito di un terremoto, un processo di ricostruzione che sia soprattutto di rigenerazione dell’area colpita, una rige-

nerazione che tiene conto del passato ma che guarda al futuro? Questo processo dovrebbe essere vissuto come un momento, per quanto doloroso, di maturazione e opportunità di crescita e cambiamento per la città e per la società, che può essere ripensata e diventare migliore. Essendo questo un progetto che la investe in maniera diretta, la comunità dovrebbe essere maggiormente coinvolta nel processo di ricostruzione che, se imposto totalmente dall’alto, rischia di ripetere ciò che è avvenuto a seguito di altre ricostruzioni, in cui mattone dopo mattone la città è stata rimessa in piedi ma la comunità non ha mai recuperato la sua vitalità. Laddove si è persa con la ricostruzione si richiede soprattutto una nuova visione di città. Probabilmente Norcia, rispetto ad altri luoghi colpiti, gode di una maggiore attenzione della popolazione e di una grande potenzialità di resilienza, essendo sede di uno dei patrimoni storici e culturali più ricchi non solo per l’Italia ma per il mondo

intero, ma in altri casi sarà più difficile tenere la popolazione legata alla propria terra di origine. Altro fattore fondamentale è che non solo dopo ma anche durante il processo di ricostruzione, la vita economica e sociale del luogo non deve essere frenata così da non causare un’inversione di tendenza troppo radicale che sarebbe fallimentare sotto diversi punti di vista. La complessità della situazione ci mette di fronte alla realtà dei fatti, ovvero alla consapevolezza che non esiste un solo modo per ricostruire, ma che è fondamentale prendere decisioni che siano coerenti e applicabili al contesto di riferimento, che è improduttivo inaridirsi rimanendo fissi su modelli e progetti fisici, perché la ricostruzione è in primis un processo di recupero della società.


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La sostenibilità in un quartiere fiorentino: l’Isolotto; una nuova definizione dei flussi di materia-energia per una città più autosufficiente Giulia Ballerini

Introduzione Il lavoro di tesi si è occupato dello studio di un quartiere situato in prossimità del centro storico di Firenze, il quartiere dell’Isolotto. Il lavoro si è incentrato sul tema della sostenibilità dell’insediamento, trattando gli argomenti dei flussi di materia ed energia legati al ciclo delle acque e all’energia derivata dalla trasformazione della radiazione solare attraverso tecnologie di conversione. Oggi il quartiere dell’Isolotto è descritto come un quartiere vivo, con numerose iniziative sociali e partecipazione ad eventi da parte della collettività (Fondazione Giovanni Michelucci, 2006). Il passo che si è provato ad affrontare è quello di unire il funzionamento sociale di una parte di città, autosufficiente sul piano dei servizi, con un nuovo meccanismo ecologico, capace di rendere il quartiere maggiormente sostenibile. Le varie domande che ci siamo poste prima di intraprendere questo percorso e a cui abbiamo cercato di dare risposta con il passare del tempo e progredendo nella ricerca e rielaborazione dei materiali, sono le seguenti: è possibile intervenire su pezzi di città esistente, che ancora oggi funzionano a livello sociale, attraverso delle trasformazioni che rendano sostenibili tali insediamenti?

Ovvero, può il passato evolvere verso forme sempre più nuove per una giusta gestione di questi flussi con cui la natura si manifesta, abbandonando gli sprechi di risorse preziose che vanno via via esaurendosi nel tempo? Ma soprattutto, può un pezzo di città che ha dato la casa ed è luogo di vita per numerose persone trasformarsi in un sistema che garantisca esso stesso la vita e la sostenibilità dell’insediamento? Il lavoro è partito da una prima ricostruzione e un primo inquadramento, sia storico che attuale, del quartiere, anche in relazione alla provincia di Firenze (Poli et al, 2004). La relazione con il centro storico di Firenze è fondamentale per capire come le nostre città che pensiamo consolidate, in realtà possono ancora mutare nel tempo, cambiare destinazioni d’uso e anche il livello sociale (Paolini, 2014). L’area dell’Isolotto fu, fino all’Ottocento, un territorio di campagna con un’intensa attività agricola. A partire dalla metà dell’Ottocento il quartiere diventò la ‘Sardigna’ di Firenze, acquistando l’immagine di discarica dei rifiuti della città. Con l’avvento di Firenze Capitale e la stesura del primo Piano Poggi, del 1865, tutta l’area dell’Isolotto entrò nella previsione del piano figu-

randosi come nuovo Campo di Marte (Poli et al, 2004). Sarà solo con l’entrata in vigore della Legge Fanfani, nel 1949, che verrà approvato e realizzato il piano di costruzione di un nuovo quartiere, da parte dell’ente INA-Casa, che prevedeva la realizzazione di nuove abitazioni da assegnare ai lavoratori rimasti senza una casa (Nuti, 2004). Il quartiere rappresenta un pezzo di città ricco di storia che si è trasformato ed evoluto nel corso del tempo, sia nelle sue forme urbane, trasformandosi da area agricola ad insediamento residenziale, sia nella sua gestione, diventando quello che oggi è uno dei quartieri più vivi per l’aspetto sociale. Oggi ci troviamo nuovamente di fronte ad un’opportunità di trasformazione, una trasformazione che possa ridare vita alle nostre città sempre più distaccate dal territorio. L’intervento che proponiamo vuole ricollegare le nostre parti di città con ciò che è presente al loro esterno, creando un ambiente vivibile e sostenibile, un habitat in cui l’uomo possa avere tutti i suoi comfort e in cui sia presente la sostenibilità che renda vivibile i nostri spazi oggi. Questo nuovo tentativo di trasformazione non deve assolutamente scartare tutto ciò che ci è stato tramandato dal passato, piuttosto oc-

Corso di Laurea Triennale in Pianificazione della città, del territorio e del paesaggio Relatore: Prof. Claudio Saragosa Co-relatrice: Nora Annesi Febbraio 2018

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Fig.1 Calcolo degli abitanti insediabili in base al DM 1444/68

corre fare degli aggiustamenti, nuove forme di integrazione che rendano le nostre città autosufficienti sia a livello sociale ed economico, ma anche e soprattutto a livello ecologico e ambientale. Uno sguardo al passato ci permette di capire a che punto ci troviamo, lo sguardo verso il futuro ci dà le linee guida per andare avanti nell’evoluzione dei nostri insediamenti. Nella fase progettuale (Capitolo IV. Verso il progetto), dedicata alle varie proposte, saranno analizzati i dati raccolti, con particolare attenzione all’osservazione dei numeri relativi alle quantità di materia che attraversa fisicamente il quartiere, quindi la quantità di flussi reale che circola nel nostro insediamento. Quello che cercheremo di fare è rendere questi numeri armonici rispetto alle forme dell’urbano presenti, cercando di riconnettere città e natura, in modo da farle cooperare per dare maggiore ricchezza all’insediamento. È solo attraverso la conoscenza razionale, solo attraverso la quantifica-

Fig.2 Schema di gestione dei flussi di materia-energia del sistema urbano Isolotto

zione di tutto ciò che scorre dentro i nostri centri urbani che possiamo riuscire a creare una gestione armonica dei flussi. Studio dei flussi di MATERIA-ENERGIA Creato un primo quadro conoscitivo di inquadramento storico del quartiere Isolotto, siamo andati a raccogliere i numeri sensibili di ciò che troviamo all’interno della nostra parte di città. Siamo partiti dal numero di persone che abitano l’Isolotto, più precisamente è stato calcolato il numero massimo di persone insediabili nel quartiere. Il calcolo si è basato sul Decreto Ministeriale 1444 del 1968, che oltre ad introdurre la suddivisione in Zone Territoriali Omogenee, ne stabilisce anche gli standard urbanistici, che regolano altezze e distanze tra edifici, ma anche la quantità minima di spazio pubblico e spazio privato da destinare ad ogni singolo abitante. Prendendo in considerazione che ad ogni abitante necessitano alme-

no 30 mq di Superficie Utile Lorda (SUL), si è proceduto con il calcolo della superficie utile lorda del quartiere, facendo la “somma delle superfici di tutti i piani fuori terra, seminterrati ed interrati, comprensivi di [..] elementi verticali del fabbricato [..], le scale interne all’involucro edilizio ad uso esclusivo di singole unità immobiliari [..], i vani ascensore ad uso esclusivo di singole unità immobiliari [..], le logge o portici [..], i sotterranei recuperati a fini abitativi [..], piani o locali sottotetto.”1 La SUL ottenuta è stata divisa per la quantità di superficie minima dettata da DM 1444/68, ottenendo un numero massimo di abitanti insediabili pari a 6.414. Nel corso della raccolta dei materiali ed in seguito al calcolo appena effettuato, sono state fatte considerazioni in merito al numero di abitanti realmente presente nel quartiere oggi. Un’altra fonte che è stata consultata in merito a tale dato è stata l’ISTAT. Il dato fa riferimento alle sezioni censuarie del quartiere, fornendo il nu-

mero reale di persone che realmente abitano all’Isolotto, che è risultato essere pari a circa 2.986 abitanti. C’è da dire che in fase di progetto e calcolo, tale quantità non è stata presa in considerazione, dal momento che è stato ritenuto importante basare il lavoro sul numero massimo di persone che potrebbero risiedere nel quartiere. Il quartiere è stato diviso in ‘isolati’ e per ogni isolato è stato indicato il numero massimo di abitanti insediabili, sempre secondo il DM 1444/68 (Figura 1). Questa ulteriore suddivisione è stata utile per cercare di andare ad intervenire per singole parti, prendendo in considerazione che ogni isolato presenta tipi edilizi diversi e densità abitative diverse. Verso il Progetto di Città Sostenibile Conclusa la parte di raccolta di materiali ed analisi, siamo andati ad inserire i vari dati raccolti dentro uno schema. Lo schema si caratterizza con input e output che entrano ed escono dal sistema urbano.


Fig.1 Intervento relativo alla gestione del ciclo delle acque

Gli input rappresentano i flussi in entrata, e quindi saranno quei flussi che andranno gestiti, mentre gli output rappresentano i flussi che escono dal sistema urbano, e quindi saranno i flussi che andranno trasformati e rigenerati per essere reinseriti come input. I dati raccolti dalle varie fonti (ISTAT, ARRR, Lamma, ecc..) sono stati inseriti all’interno di questo schema di gestione dei flussi, partendo da un primo calcolo che ha riguardato il consumo medio di energie fossili a livello di insediamento: energia elettrica e consumo di gas metano. In seguito, sono state calcolate le potenziali fonti di energie rinnovabili: la radiazione solare, l’energia eolica e le precipitazioni. Infine, il numero della popolazione insediabile, tenendo in considerazione le materie prime come beni alimentari e di consumo che produrranno dei flussi in uscita. All’interno del sistema urbano dell’Isolotto sono stati inseriti quelli che sono stati ritenuti dei sottoinsiemi: gli orti urbani e il Parco delle Cascine. Mentre il Parco delle Cascine costitu-

isce una riserva di CO2, gli orti urbani creano delle connessioni con il sistema idrico dell’Arno. Da tenere in considerazione è anche la falda acquifera che può essere un’importante fonte di prelievo per la risorsa idrica. Infine, sono stati analizzati i flussi in uscita. Tenute presenti le esportazioni di beni alimentari e di consumo, e dei flussi migratori, sono stati raccolti i dati relativi alla produzione di rifiuti. I dati analizzati dall’Agenzia Regionale Recupero Risorse (ARRR) forniscono informazioni a livello Comunale e sul tipo di raccolta differenziata. Un altro flusso preso in considerazione è stato quello relativo ai reflui urbani, dato tratto dall’ISTAT. Inquadrati e quantificati i vari flussi, siamo andati a definire le linee guida progettuali per quelli che saranno gli interventi del progetto di rigenerazione ecologica. Partendo dai flussi in entrata, un primo intervento è previsto per la trasformazione di possibili energie rinnovabili, in modo tale da sostituire le fonti di energia fossile, dannose per l’ambiente.

Fig.2 Intervento relativo alla gestione del flusso di energia derivato dalla radiazione solare

Le tecnologie di conversione possono essere pannelli fotovoltaici, pale eoliche, sistemi di recupero delle acque, che uniti in modo armonico con le forme dell’urbano, possono rendere un insediamento più sostenibile. Un secondo intervento è previsto per i flussi in uscita, attraverso tecnologie in grado di riciclare i rifiuti e i reflui prodotti, recuperarli e re-immetterli all’interno del sistema urbano. (Colonetti, Berrini, 2010). Per riuscire a rendere sostenibile il nostro quartiere è necessario che il sistema urbano venga alimentato attraverso fonti di energia rinnovabile, ovvero quelle potenziali fonti di energia che il territorio ci offre. Bisogna infine porre maggiore attenzione a ciò che di solito si espelle dalle nostre città, che molto spesso può essere materia che necessita ai nostri sistemi. (Barton et al., 2003). Gestione del Ciclo delle Acque Il primo intervento di cui parleremo è quello relativo al ciclo delle acque. Dai dati forniti dal consorzio Lamma

è stato utilizzato il dato relativo alla quantità di precipitazioni che cadono nel corso dell’anno. La distribuzione delle precipitazioni è riportata nel grafico presente nell’immagine, dove viene riportata con un andamento pluriennale. Il picco delle precipitazioni si ha nel mese di novembre, mentre il periodo più siccitoso risulta essere il mese di luglio. Sono stati calcolati i vari fabbisogni degli abitanti, partendo dal fabbisogno idrico totale che è pari a 200 l/gg per abitante, per un fabbisogno idrico complessivo a livello di quartiere di 468.222 mc/anno. Calcolato il fabbisogno idrico totale, sono stati individuati i consumi idrici che potrebbero essere sostituiti dalle acque non potabili: scarico del WC domestico, con un consumo di 16.790 l/anno per abitante, ed un consumo complessivo annuo di 107.691 l/anno; il consumo degli elettrodomestici, come lavatrice o lavastoviglie, che ammonta a 5.110 l/ anno per abitante, ed un 141 consumo complessivo


di 32.775,54 l/anno; infine sono state prese in considerazione le acque usate per le pulizie domestiche della cucina o del bagno, con un consumo idrico di 730 l/anno e un consumo complessivo di 4.682,22 mc/anno. Dopo aver calcolato i vari fabbisogni ed aver individuato il quantitativo annuo di pioggia è stato possibile calcolare la percentuale di acqua intercettata dalle varie superfici captanti, che all’interno del sistema risultano essere principalmente: le falde dei tetti, che raccolgono le acque e necessitano di pochi trattamenti di depurazione, le sedi stradali, che a differenza delle falde dei tetti sono molto inquinate da detriti, particelle di piombo o parti di gomma, e che quindi necessitano di trattamenti specifici, infine la parte di acqua che non possiamo raccogliere poiché va ad intercettare le aree verdi, entra nel suolo, nutre la vegetazione e in parte va a ricaricare le falde acquifere sotterranee. La quantità di acqua meteorica utile che viene recuperata dalle falde dei tetti è di circa 41.556,64 mc/anno. Tale quantità di acqua intercettata dalle falde è stata calcolata in base ad una serie di fattori, come il tipo di superficie, la pendenza del tetto, per tetti a falde e tetti piani (Lyle, Tillman, 1996). A seguito dell’elaborazione dei dati relativi alla quantità di precipitazioni cadute nel corso dell’anno ed in seguito al calcolo della percentuale di acqua intercettata dalle falde dei tetti, si è pensato ad un intervento che inserisse, all’interno del quartiere, una serie di cisterne per la raccolta di acque piovane. Queste cisterne devono essere collegate ad ogni edificio in modo da poterlo rifornire con le acque di raccolta. La funzione principale delle acque raccolte sarebbe quella di andare a sostituire l’utilizzo di acqua potabile per usi di servizio, come il consumo di acqua per lo sca-

rico del WC o di vari elettrodomestici, che non necessitano della preziosa risorsa potabile. Il dimensionamento teorico è stato calcolato a livello di isolato, anche se, tenendo presente quanto possa essere invasivo per il sistema urbano creare degli scavi profondi anche più di 10 metri, l’intervento di installazione di cisterne è pensato per singoli edifici. Con il dato relativo alla quantità di acqua captata dai tetti, siamo riusciti a calcolare anche l’andamento con cui le cisterne si riempiono e si svuotano nel corso dell’anno. Questo andamento, proiettato in una visione pluriennale, compensa l’andamento delle precipitazioni, con le cisterne che impiegano tutto l’anno per riempirsi, per poi svuotarsi nel periodo di maggiore emergenza idrica. Dall’intervento risulta che, attraverso la raccolta di acque piovane dalle falde dei tetti, è possibile raccogliere una quantità di acqua tale da soddisfare il fabbisogno idrico relativo alle acque di uso domestico non potabile, per l’intero periodo estivo. È possibile preservare la preziosa risorsa idrica potabile, semplicemente trasformando un sistema nato per essere resiliente, e quindi resistere alle piogge, ma espellendo le acque nell’Arno, in un sistema che dialoghi con il flusso delle acque. Si crea così un respiro, il respiro della città che vive del territorio e dell’ambiente, andando verso quella che sembra sempre più una città sostenibile (Monticelli, Carol, 2013). La Radiazione Solare Il secondo flusso che viene preso in considerazione ai fini progettuali, è quello relativo alla radiazione solare. Il calcolo della quantità di radiazione che raggiunge il sistema urbano è stato fatto a partire dal raster del volo LIDAR, un modello digitale delle

forme del terreno, e risulta essere di 754.134.964 kWh/anno. Attraverso la consultazione del dato ISTAT, si evince come il consumo pro capite risulti essere di 1.194,8 kWh/ anno, e quindi il fabbisogno energetico a livello di quartiere è di circa 7.663.447,2 kWh/anno. L’intervento propone di installare una serie di pannelli fotovoltaici in grado di convertire la radiazione solare in energia, da immagazzinare e ridistribuire all’interno delle abitazioni nelle ore di necessità. L’installazione di tali impianti fotovoltaici è stata pensata dopo aver studiato l’esposizione del tessuto urbano. La quantità di radiazione solare intercettata dagli impianti fotovoltaici varia infatti a seconda dell’esposizione dei tetti e dall’inclinazione dei tetti. L’intervento è stato suddiviso in due parti che seguono due diverse esposizioni del tessuto urbano: si avrà un’esposizione ottimale, identificata nella carta con il rosso, dove gli impianti di conversione riescono a produrre 5.840.562 kWh all’anno. La seconda installazione è orientata secondo un’esposizione non ottima, ma pur sempre buona. Nella carta viene identificata col colore arancione e la produzione di energia per questa classe di installazione di impianti è di 4.342.590 kWh/anno. Nello studio siamo andati ad analizzare la relazione presente tra il percorso del sole nel corso della giornata, considerando sia il percorso più lungo (21 giugno) sia il percorso più breve (21 dicembre) compiuto dal sole nel corso dell’anno, con i picchi di utilizzo dell’energia elettrica (Figura 4). Il picco di consumo energetico si ha la mattina, tra le 7.00 e le 9.00, poi il consumo diminuisce per risalire nelle ore del pranzo, tra le 12.00 e le 14.00. L’ultimo picco si ha durante la sera, intorno alle 19.00,

per poi diminuire fino a raggiungere il minimo dalla mezzanotte. Così come il respiro della città si coordina con il ciclo delle acque, la stessa azione è stata pensata per quello che è il flusso di energia. La città ha dei bisogni energetici, che vengono soddisfatti, a grandi linee con cadenze puntuali nel corso della giornata. La raccolta di energia con un teorico immagazzinamento, permette di soddisfare le necessità durante questi picchi di consumo, evitando l’utilizzo di risorse non rinnovabile. Il concetto fondamentale che sta alla base dell’intervento è quello di creare un sistema in grado di intercettare la radiazione solare, convertirla in energia elettrica, immagazzinarla in pile che dovranno ridistribuirla all’interno delle abitazioni ogni volta che ci sarà necessità di energia elettrica. Questo può avvenire attraverso un intervento di installazione di tecnologie di conversione della radiazione solare in energia elettrica che non preveda un’installazione invasiva, con possibili configurazioni spaziali che uniscano le forme dell’urbano con questi nuovi modelli tecnologici, in modo da non stravolgere quella che è l’identità del quartiere (Pardi, Lucci, 2010). Dettaglio dell’intervento La tesi si chiude con un progetto di dettaglio relativo ad un singolo edificio del quartiere (Fig.5). L’edificio prevede un massimo di 83 abitanti insediabili. I fabbisogni sia idrici che energetici sono calcolati in base al numero di abitanti insediabili. Si ha un fabbisogno idrico di circa 500 mc/anno, con una quantità di acqua meteorica di 611 mc/anno. Per quanto riguarda l’intervento di raccolta delle acque, il dimensionamento della cisterna calcolato è di 800 mc. L’installazione della cisterna avviene in aree asfaltate, nel caso


preso in considerazione avviene nella piazza principale dell’Isolotto, dove attualmente è presente un parcheggio. Non verranno toccate le arre verdi, che devono permanere dentro il quartiere poiché danno ricchezza sia a livello percettivo, sia a livello ecologico. Per quanto riguarda la raccolta e la ridistribuzione delle acque, è stato pensato un meccanismo generale con cui questa potrebbe avvenire: le acque meteoriche cadono sul tetto, vengono indirizzate attraverso le gronde nel sottosuolo e vengono immagazzinate all’interno della cisterna. Attraverso un sistema che pompi l’acqua dal sottosuolo agli alloggi, l’acqua della cisterna sarà distribuita per i vari usi domestici relativi alle acque di servizio (elettrodomestici come lavatrice e lavastoviglie, WC domestico e rubinetti del bagno, per le pulizie domestiche) (Figura 5). Il secondo intervento, in merito alla produzione di energia elettrica, prevede l’installazione di pannelli solari fotovoltaici integrati con l’edificio. Considerato che il fabbisogno energetico per il singolo edificio è di 99.168,4 kWh/anno, sarà sufficiente installare un sistema con una potenza fotovoltaica di 1,5 kWh/10 mq, secondo un’esposizione ottimale nel caso specifico, per avere una produzione energetica annua di 104.286 kWh/anno, che andrà a coprire interamente il fabbisogno energetico del singolo edificio. Il pannello fotovoltaico intercetta la radiazione solare, la trasforma in energia che verrà immagazzinata all’interno di pile poste a livello di singolo edificio. L’energia immagazzinata dovrà essere resa disponibile nell’immediato, ovvero ridistribuita per i vari usi durante tutto l’arco della giornata. Un altro aspetto che è stato analizzato e che risulta rilevante dal punto di vista di dispendio energetico è quello che riguarda un possibile ef-

Fig.2 Dettaglio degli interventi relativi al ciclo delle acque e alla produzione di energia derivata da radiazione solare

ficientamento energetico dell’edificato. Nella parte di analisi sono stati raccolti dati a campione, prelevati da inserzioni di agenzie immobiliari dove erano indicate le classi energetiche dei vari appartamenti in vendita, riguardo all’attuale stato di fatto energetico dell’edificato. Dalla raccolta a campione, la maggior parte dell’edificato risulta essere in classe energetica F o addirittura G, con consumi che vanno da 150 kWh/anno fino ad arrivare a quasi 300 kWh/anno. Il calcolo di consumo energetico totale degli edifici presi come campione, oggi è di circa 1.200.000 kWh/anno. Ipotizzando un efficientamento energetico, e quindi portando gli edifici da classe F o G ad una classe energetica migliore, ipotizzando la classe A, il consumo energetico si abbassa considerevolmente passando da più di un milione di kWh all’anno a poco più di centomila kWh all’anno. Con la classe energetica A, la proiezione del consumo energetico risulta essere di soli 15 kWh all’anno, a fronde dei 150/300 kWh all’anno. Il consumo energeti-

co in proiezione dell’efficientamento della classe energetica dell’edificato del quartiere sarebbe di 109.733 kWh all’anno. Attraverso questi interventi di nuova gestione dei flussi di acqua e energia si riesce a rendere, in parte per ciò che riguarda la risorsa idrica, totalmente per quanto riguarda l’energia, autosufficiente un edificio residenziale. Applicando tale intervento per ogni singolo edificio si può avere una visione più sostenibile della parte di città presa in esame. Conclusioni La tesi ha affrontato lo studio di un quartiere fiorentino, l’Isolotto, con lo scopo di poter unire quelli che sono i flussi di materia ed energia in visione di un insediamento rigenerato ecologicamente. La costruzione di un quadro conoscitivo, partendo dalla storia del quartiere per poi andare ad analizzare le quantità di popolazione ed i consumi di acqua e di energia presenti oggi, è stato alla base della seconda fase di progetto. La prima parte del lavoro si è occupata della ricostru-

zione storica del quartiere, prendendo in considerazione tutte le vicende che hanno modificato questa parte di territorio e di insediamento poi. Nella seconda parte siamo andati ad arricchire il nostro quadro conoscitivo con un’analisi del quartiere attuale, che si rivela all’avanguardia dal punto di vista sociale, con varie iniziative e grande partecipazione ad eventi da parte degli abitanti. Una terza ed ultima parte che è andata a comporre il quadro di analisi è stata quella relativa alla raccolta dei dati numerici, prelevati da varie fonti, che hanno descritto fisicamente una dimensione di alcuni flussi di materia ed energia che attraversano il sistema urbano analizzato. Conclusa la parte di analisi e costruzione del quadro conoscitivo, siamo andati ad ipotizzare delle strategie di intervento, individuando delle linee guida da mantenere, al fine di rendere il quartiere più sostenibile e capace di accogliere ed immagazzinare le risorse naturali che il territo143 rio offre.


Un primo intervento sul ciclo delle acque ha l’obbiettivo di minimizzare i consumi idrici, per poi passare alla divisione dei diversi tipi di acque (acqua potabile, acqua di servizio, acque grigie, acque nere). Successivamente, partendo dalle precipitazioni, si è cercato di capire come il nostro sistema urbano fosse in grado di gestire tale risorsa. Si è dimostrato che con la raccolta di acque piovane per un ciclo annuale (da agosto a giugno) è possibile immagazzinare una quantità di acqua tale da soddisfare quasi completamente il fabbisogno idrico a fronte di un periodo di un mese di siccità. Uno studio più approfondito sulla risorsa acqua e la sua gestione ha indagato la tesi secondo la quale il flusso può essere gestito dalla città, secondo un’armonia che potremmo definire quasi perfetta. L’armonia con cui il ciclo delle acque attraversa questa parte di città è come se ci trasmettesse il respiro che la città compie nuovamente nel momento in cui entra in sintonia con questa nuova gestione della materia.

Il progetto si è poi applicato alla riqualificazione dell’edificato. Una prima indagine con metodo a campione ha reso ovvio che la classe energetica degli edifici all’Isolotto è tra le più basse (F o G per la maggior parte). Le perdite di calore possono essere un ulteriore elemento di spreco energetico. Un primo intervento per ridurre i consumi dovrà essere dunque quello di prevedere l’isolamento delle pareti esterne degli edifici e conseguentemente un efficientamento della classe energetica. Migliorati i consumi energetici e diminuite le dissipazioni di calore, si è potuto ragionare sul come raccogliere energia rinnovabile per provvedere a soddisfare il fabbisogno energetico. La strategia adottata è stata quella per classi di esposizione rispetto al percorso del sole, dividendo quindi le falde in falde con esposizione ottimale e falde con buona esposizione. La classificazione si è fermata a questi due tipi poiché la produzione annua di energia elettrica derivata dagli impianti fotovoltaici è più che

sufficiente a soddisfare il fabbisogno energetico dell’intero quartiere. Non è stato necessario ‘tappezzare’ i tetti dell’insediamento con pannelli solari, ma semplicemente si è cercato di captare quantità sufficienti di radiazione solare per avere più produzione energetica. La redazione di grafici relativi all’analisi di flussi di materia ed energia è stata alla base del lavoro di tesi. È stato possibile capire come questi flussi provenienti dall’esterno, entrando in contatto con il mondo urbano, fanno della città un organismo che vive e che pulsa come se avesse un proprio cuore. La gestione da parte dell’uomo di tali flussi di materia-energia mostra come l’andamento del flusso in natura sia legato profondamente a quello che è l’andamento dei fabbisogni umani. È stato dimostrato che attraverso una conoscenza del territorio, data anche dalla raccolta di dati relativi alla vita su quel territorio, è possibile pensare ad un’evoluzione di questo insediamento, un’evoluzione proiet-

tata verso il futuro, che garantisca le risorse necessarie al territorio, senza sprechi, poiché purtroppo queste non sono illimitate. La trasformazione avviene attraverso azioni concrete e realizzabili. Non è utopia riuscire a convertire un insediamento (in questo caso un quartiere) in una macchina capace di contribuire alla propria sopravvivenza. “Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l’energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. C’è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle idee.”2


Note

Bibliografia

Sitografia

1 Legge 27-02-2004, n. 46. Regione Toscana, Decreto del Presidente della Giunta regionale 11 novembre 2013, n. 64/R, art. 10. 2 Renzo Piano, Il rammendo delle periferie, Sole 24 Ore, il Domenicale, 26 gennaio 2014.

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Tecnica urbanistica e politiche di piano



Distretto Biologico, pianificazione e partecipazione. Il caso di Fiesole

Cornice concettuale. Mondo rurale in transizione Il quadro teorico entro cui si colloca questo lavoro assume come punto di vista preferenziale il territorio rurale, inteso come oggetto-soggetto di sviluppo sociale ed economico. A fronte di un quadro vasto e frammentato su una precisa definizione del significato di territorio rurale (Di Iacovo et al., 2010; Calori, 2010), è possibile impostare una riflessione fondamentale all’articolazione dello studio: le aree rurali sono oramai al centro di un processo di transizione che necessita di essere governato con strumenti innovativi per far sì che esse costituiscano la componente di un nuovo modello di sviluppo locale. La condizione che quindi si intende indagare è quella di un’evoluzione in corso che si manifesta nella contemporaneità con elementi di rinnovato valore del mondo rurale dopo un lungo periodo di marginalizzazione e declassazione dello stesso. Se il territorio rurale è lo spazio fisico in cui attivare un nuovo modello di sviluppo locale, l’agricoltura è l’elemento reagente che consente di raggiungere gli obiettivi che tale modello si pone. Il processo di transizione che investe i territori rurali riguarda da vicino una nuova articolazione e funzione nell’ambito del sistema economico, consentita proprio dalla differenziazione pro-

Giulia Fiorentini duttiva dell’agricoltura: “partendo dall’agricoltura si creano le premesse per l’affermarsi e il diffondersi della diversificazione delle attività in ambito rurale, della qualità delle produzioni e dei servizi generati del rispetto dell’ambiente e del paesaggio, dell’integrazione con le altre attività del mondo rurale” (Pacciani, 2003, p. 29). In quest’ottica muta il concetto stesso dell’agricoltura che, dopo aver attraversato un lungo periodo di crisi in cui è venuta meno la sua reputazione di ‘garante’ di funzioni storicamente date come la sicurezza alimentare (Calori, 2010), si appresta ora a ricoprire un ruolo insostituibile e a divenire una delle componenti di sviluppo per i territori rurali. Governare la transizione attraverso gli strumenti di natura pattizia La trattazione sostenuta sottende un particolare approccio ovvero quello di riconsegnare un ruolo di protagonismo al mondo rurale percorrendo direzioni mosse da uno sguardo nuovo definibile “sguardo rurale” (Poli, 2018b, p.138). Adoperare uno sguardo rurale consente di intercettare una serie di elementi attribuibili ad una pratica di “ruralità attiva”, un concetto proposto sulla base di un’ inversione semantica di cittadinanza attiva (Poli, 2018b),

in grado di inquadrare un ‘terreno’ diverso rispetto alla città in cui poter intercettare elementi di innovazione. Il riferimento va a tutte quelle esperienze1 di costruzione di reti fiduciarie di produzione e consumo locale animate da principi etici legati al rispetto dell’ambiente, delle persone e delle culture locali con l’obiettivo di intraprendere azioni innovative dal basso e non ordinarie. Si tratta di un insieme disaggregato di esperienze virtuose e forme di innovazione che esprimono una domanda di cura del territorio e che mirano a costruire modelli alternativi di sviluppo nel quadro di un rinnovato contesto di vita di “ritorno al territorio” (De Matteis e Magnaghi, 2018). Continuare ad interpretare queste esperienze come minutaglie che si accendono qua e là nei diversi contesti non permette ad esse di esprimere il reale potenziale che risiede nella capacità di rigenerare territori e di apportare una consistente innovazione in termini di dimensione territoriale, economica, culturale e sociale. L’importanza delle reti e della cooperazione diviene quindi fondamentale per far sì che da ‘costellazioni di esperienze’, esse possano trasformarsi in comunità di progetto. Per questo motivo il mondo della ricerca studia ed affronta ormai da

Corso di Laurea Magistrale in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio Relatore: Prof. Iacopo Zetti

Co-relatore: Prof.ssa Maddalena Rossi Luglio 2019

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Figg.1-3 Schede di sintesi sui biodistretti in Italia

molti anni l’affermarsi di nuove forme di sviluppo locale attraverso processi progettuali con le comunità locali, attivabili grazie a strumenti di democrazia partecipativa e a forme contrattuali e pattizie tra attori che intendono il governo del territorio come bene comune. In questo ambito si collocano gli strumenti di natura pattizia che, attraverso la forma contrattuale condivisa tra molteplici soggetti territoriali, sono capaci di “promuovere progettualità locale in una coralità di sguardi” (Poli, 2018b, pp. 146-147) rinsaldando relazioni tra città e campagna. Questi si trovano ad essere ampiamente sperimentati nella forma, a seconda del contesto, dei Contratti di Fiume, degli Ecomusei, degli Osservatori del paesaggio e dei Biodistretti, recente evoluzione dei Distretti Rurali. I Biodistretti I fenomeni distrettuali in agricoltura godono di un rinnovato interesse per il dibattito. In un contesto di complessità il tema della distrettualità emerge non solo come modalità organizzativa della produzione all’interno di un settore territorializzato

ma anche come ambito di progettazione e di governance dello sviluppo di un sistema produttivo locale basato sul valore aggiunto dei beni comuni territoriali (De Matteis, Magnaghi, 2018). Con la presa in conto dell’importanza del carattere multifunzionale dell’agricoltura (Ocse, 2001; Poli, 2013; Rrn 2016) si è nel tempo reso possibile il passaggio concettuale da distretto agricolo a distretto rurale. Il recente fenomeno di diffusione del metodo biologico in agricoltura (Irpet, 2017), ha portato ad un ulteriore avanzamento della forma distrettuale in ambito agricolo, proponendo uno shift concettuale e de facto dal distretto rurale verso il modello del biodistretto (o distretto biologico). Il biodistretto si connota di un superamento in chiave innovativa del distretto rurale, di cui eredita i principi alla base e la funzione di strumento di governance, in una prospettiva in grado di far emergere dei “territori progetto” (Magnaghi, 2001) ma che accoglie pienamente la sfida del biologico, la quale esprime un bisogno di profonde innovazioni nei sistemi di produzione e di consumo

che ne garantiscono la sostenibilità e un maggior radicamento al territorio (Belletti, 2018). Il fenomeno biodistrettuale nel nostro paese è in rapida evoluzione ed è stato alimentato, negli ultimi anni, da numerose esperienze diffuse sul territorio nazionale. In questa parte del lavoro si è cercato di restituire una sintesi aggiornata dei biodistretti italiani prendendo come dato di riferimento un primo censimento realizzato dalla Rete Rurale Nazionale nel 2017 nell’ambito del progetto DIMECOBIO (Rrn, 2017). Per approfondire e aggiornare lo scenario delle esperienze di biodistetti italiani all’anno corrente, è stata utilizzata come fonte principale il portale online dei biodistretti <http:// biodistretto.net/>. Sebbene con molte difficoltà nel reperire alcune informazioni quantitative (numero di ettari di SAU biologica e su incidenza sul totale), l’aggiornamento dell’analisi ha reso possibile una schematizzazione del fenomeno, rappresentata attraverso le seguenti schede (fig. 1-3). Suddivise nelle tre macro aree del paese, ogni regione viene rappresentata per

il numero di biodistretti in essa contenuti. Di questi vengono indicati: nome, anno di costituzione, quantità di comuni che comprendono, incidenza percentuale della SAU biologica sulla SAU totale della regione di riferimento e modalità di attivazione. Il caso studio: il Distretto Biologico di Fiesole Il contesto in cui si colloca lo studio è quello di Fiesole dove dal 2018 esiste la realtà del Distretto Biologico. Il lavoro di tesi si è inoltre inserito nella prima fase del processo di costruzione dei nuovi strumenti urbanistici comunali, Piano Strutturale e Piano Operativo, procedimento che la Legge Regionale Toscana 65/2014 prevede sia accompagnato in tutte le sue fasi da un processo di partecipazione, al fine di garantire la massima inclusività e l’intercettazione di punti di vista e sensibilità altamente differenziati sul territorio. Durante la fase di ascolto del territorio è stata quindi aperta una apposita finestra di dialogo con i rappresentanti del mondo agricolo fiesolano e le istituzioni locali in modo da: approfondire le dinamiche che giacevano


Fig. 4 Scenario strategico del Parco agricolo multifunzionale


intorno alla costruzione del distretto, valutare le caratteristiche di tale modello e infine impostare un ragionamento per far sì che le potenzialità espresse dagli attori in gioco si interfacciassero in maniera virtuosa con gli indirizzi del piano. Pertanto la particolare convergenza tra il momento di riflessione allargata alla comunità locale sugli atti di governo del territorio e la costruenda realtà dello strumento del Distretto Biologico, ha permesso di intraprendere un lavoro di ricerca-azione finalizzato all’elaborazione di una proposta progettuale che tenga conto dell’intreccio attivato dalla partecipazione, tra Distretto Biologico e pianificazione territoriale. La genesi del Distretto è rintracciabile in un percorso partecipato tra cittadini e aziende agricole che ha avuto un orizzonte di obiettivi molto vasto: creare nella comunità locale una rete di relazioni attiva sui temi del biologico e del consumo consapevole, secondo un approccio sostenibile. Il percorso che ha portato alla formazione del DB ha preso avvio nel 2015 con la costituzione di un primo gruppo di lavoro. Nell’arco di circa tre anni è stato portato avanti un processo di promozione e di condivisione di idee connesse al tema dell’agricoltura con l’obiettivo di costruire azioni per far ripartire il settore agricolo fiesolano. La nascita vera e propria in forma istituzionale del Distretto Biologico di Fiesole è avvenuta durante l’ultimo consiglio comunale del 2017 in cui è stata approvata all’unanimità la delibera per il riconoscimento del territorio fiesolano quale Distretto Biologico. Nei primi mesi del 2018 è stata finalmente costituita l’”Associazione del Distretto Biologico di Fiesole” avente il Comune stesso tra i soci fondatori e numerosi esponenti della comunità fiesolana come membri attivi del consiglio direttivo.

Da un punto di vista quantitativo, il territorio fiesolano ha una grandissima incidenza della parte agricola dove da qualche anno la componente biologica sfiora percentuali da record: circa il 45 % della Superficie Agricola Utilizzata è condotta con metodo biologico e solo per la coltivazione dell’olivo, la SAU biologica si attesta al 55% della SAU totale. Anche per le coltivazioni della vite e dello zafferanno le percentuali di superfici condotte a biologico sfiorano quasi il 50% del totale del settore. Tali condizioni hanno permesso di considerare il territorio di Fiesole come contesto dalle ottime caratteristiche per intraprendere la sperimentazione di un modello di biodistretto che, grazie alla diffusione dell’agricoltura biologica, valorizzasse la ricchezza dei suoi patrimoni territoriali e della sua esperienza di progettualità sociale. Il punto di vista della partecipazione. I risultati del processo partecipativo “Facciamo un Piano!” Il lavoro di ascolto e coinvolgimento della comunità fiesolana si è tradotto in un’azione diretta nei luoghi2 che ha permesso di affrontare una lettura approfondita del fenomeno attraverso la finestra della partecipazione. La lettura del processo, mutuata da un approccio adattativo e riflessivo, ha reso possibile rilevare come il lavoro di costruzione dal basso condotto per il DB si sia articolato intorno ad un processo di rinnovata consapevolezza da parte della comunità verso quelli che sono gli elementi di valore del territorio, riconosciuti ampiamente anche nel corso del processo partecipativo per la costruzione del nuovo Piano Strutturale. Durante le interviste rivolte ad agricoltori, imprenditori, istituzioni culturali, associazioni locali è emerso con forza come il Distretto Biologico

a base locale rappresenti una grande opportunità per il territorio. Esso viene immaginato come un sistema territoriale in cui la sinergia tra produzione biologica, tipicità e qualità ambientale può trasformarsi in valore aggiunto per tutta la comunità (produttori agricoli, commercianti, ristoratori, turisti e consumatori locali). Il Distretto potrebbe inoltre rappresentare l’opportunità per riuscire a trovare soluzioni collettive rispetto ad alcuni nodi problematici segnalati, come ad esempio la pesantezza degli iter burocratici per l’adeguamento delle strutture aziendali (addizioni, recinzioni, annessi agricoli, ecc.) alle esigenze della produzione agricola. Verso una nuova ruralità. La proposta di un Parco Agricolo Multifunzionale La partecipazione è stata la modalità con cui si è scelto di operare, ma anche il punto di vista privilegiato attraverso cui è stato affrontato il tema del lavoro di tesi e, al tempo stesso, punto di congiuntura che permette di proseguire verso una proposta di progetto in grado di trasferire il risultato dell’analisi di processo entro lo spazio fisico. Questa particolare angolazione permette di individuare esiti di diversa natura: sostanziale, cioè i bisogni e le necessità sul tema delle trasformazioni fisiche del territorio rurale; procedurale, riguardanti tutta una serie di interazioni, relazioni, progettualità nate o consolidate grazie al processo e che mirano a rafforzare l’emporwement locale, verso un orizzonte di autogoverno. In base a queste considerazioni si è cercato di tracciare una linea di orizzonte futuro per produrre progetto locale e per implementare le pratiche di innovazione in un contesto come il territorio spiccatamente rurale di Fiesole.

Per raggiungere tale orizzonte strategico si è scelto di utilizzare il Parco Agricolo come dispositivo capace di tenere insieme i due tipi di risultati emersi. Esso è uno strumento sperimentato a più riprese nel campo della ricerca urbanistica (Magnaghi e Fanfani 2010; Magnaghi, 2013; Poli 2018, 2019a) ed è pensato come uno spazio fisico in cui poter concretamente gestire le reti locali in modo da attivare costantemente progettualità collettiva, verso un orizzonte di nuova ruralità (Poli, 2019a). Il Parco Agricolo quindi non si configura solo come una semplice delimitazione spaziale, ma come “un progetto di governance, un’azione costante, è un’agenzia di sviluppo locale che costruisce reti e intercetta finanziamenti per sostenere le tante e diverse attività integrate” (Poli, 2019a, 19). Nel dettaglio la proposta avanzata si caratterizza nell’approfondimento di un Parco Agricolo Multifunzionale concepito come punto di contatto tra distretto e territorio, e organizzato come dispositivo di ricaduta spaziale degli indirizzi e politiche del Distretto Biologico, con la finalità di generare un circuito ricorsivo tra la pianificazione territoriale comunale e lo strumento pattizio del Distretto Biologico fiesolano. Grazie all’apparato conoscitivo dell’analisi patrimoniale prodotta dal gruppo di piano (Comune di Fiesole, 2019a) si è potuto elaborare un disegno di scenario strategico (fig. 5) che delinea gli indirizzi del Parco esteso alla scala comunale. Secondo l’approccio territorialista “gli scenari strategici si basano sulla valorizzazione del rapporto tra soggetti attivi nei processi di trasformazione territoriale e giacimenti patrimoniali, assunti come deposito di regole da riproporre nella costruzione del progetto” (Gisotti, 2015, pp. 30-31), per questo il disegno com-


plessivo del Parco si compone di un’interpretazione degli elementi dell’analisi territoriale sommata alla sintesi delle proposte e osservazioni pervenute durante il percorso di partecipazione e coinvolgimento della comunità locale. All’interno della rappresentazione complessiva dello scenario vengono individuate una serie di macro strategie riassunte in un apposito abaco, dove ognuna di esse deriva da un particolare tema emerso dalle istanze del processo partecipativo. Tali scelte di progetto di territorio si configurano come supporto strategico per la potenziale attivazione di tutta una serie di pratiche progettuali innescate grazie all’auspicata governance allargata del DB, il cui meccanismo gestionale viene delineato nel paragrafo successivo. L’intreccio tra il Parco Agricolo e il Distretto Biologico. Un modello gestionale contaminante Le linee strategiche introdotte all’interno del progetto di scenario del Parco Agricolo necessitano di un’ultima fase di attuazione dal carattere fortemente collaborativo. Si tratta di concepire il sistema Parco Agricolo - Distretto Biologico come un meccanismo articolato e complesso, ma al tempo stesso flessibile e inclusivo, rivolto verso possibili contaminazioni ed a sua volta contaminante, nel senso di produttore di azioni di riverbero nello spazio e nel tempo. Per garantire questa vitalità si è ipotizzato una serie di micro - patti che hanno la funzione di dare avvio alle strategie delineate all’interno del ‘patto per il territorio’ sotteso al concetto del Distretto Biologico. In sostanza ognuno di questi patti è indirizzato ad uno specifico tema e fa riferimento ad un accordo stipulato con i diversi soggetti interessati al relativo obiettivo.

Fig. 5 Schema concettuale della gestione del parco agricolo

Per tentare di raggiungere questo livello articolato di gestione sono stati disegnati dei piccoli progetti (Micro-patti per il Parco Agricolo Multifunzionale) sulla base di particolari esigenze ed energie riscontrate durante il lavoro di studio e di ascolto con la comunità fiesolana. Ognuno di essi è costituito da: un elenco di soggetti potenzialmente interessati a far parte del relativo contratto di progetto, una serie di obiettivi strategici che si ricollegano alle linee di indirizzo individuate nello scenario e infine in una breve rassegna di azioni perseguibili che permettono di attivare concretamente il lavoro del Parco e quindi dare continuità alla governance del Distretto Biologico. I micro-patti ideati sono quattro e fanno riferimento a tematiche rispettivamente diverse, ognuno dei quali comunque rispondente a delle logiche di avanzamento dell’innovazione e di ampliamento dell’emporwement locale del caso studio della realtà fiesolana: rete

locale del cibo; progetti di agricoltura sociale; in-formiamoci; custodi del Sambre e del Mensola. Da un punto di vista gestionale risulta ottimale quindi che si venga a stabilire un’integrazione tra i due strumenti, rimarcando comunque un ruolo di coordinamento al distretto che già è strutturato attraverso un’associazione con proprio consiglio direttivo e comprende al suo interno esponenti dell’amministrazione comunale. Occorre però che la molteplicità di attori coinvolta nei vari progetti si continui ad interfacciare attraverso i propri gruppi, membri e modalità di aggregazione. L’idea è quindi di dare vita ad una macchina gestionale del Parco che faccia capo ad un unico comitato gestore partecipato formato dal distretto e da tutti gli altri gruppi di soggetti coinvolti. La forma in cui si viene a configurare è quella dell’ assemblea aperta a tutta la comunità e ripetuta sistematicamente, in cui vengono discusse e condivise la linee di attività da svolgere all’interno del Parco, declinate nei singoli patti.

A cascata ogni raggruppamento costituito dallo specifico progetto gestirà al proprio interno le linee di azione per raggiungere gli obiettivi di carattere operativo. Al Distretto Biologico viene comunque affidato il ruolo di coordinamento generale essendo per sua definizione un dispositivo di governance orizzontale e multilivello (Belletti, 2018). Conclusioni In questo particolare momento storico che richiede un ripensamento dei modelli di sviluppo e di una “riorganizzazione dei mondi di vita” (Poli, 2019b), l’opportunità rappresentata dalla presenza di un dispositivo di natura pattizia come il Distretto Biologico, garantisce per quel territorio traiettorie di sviluppo davvero favorevoli. Per come è stato concepito il DB di Fiesole e l’impatto che ha ricevuto dalla comunità locale, da la misura di una consapevolezza maturata sull’importanza del153 la dimensione collettiva


nel prendersi cura del proprio territorio. Non solo quindi una modalità organizzativa in cui più realtà di un unico settore trovano un vantaggio nel fare rete, ma un modello di governance dove una coralità di attori si ‘ricoagula’ intorno ad un progetto di territorio (Poli, 2019b). Come avviene per la moltitudine di altri modelli di governance pattizia e contrattuale, Contratti di Fiume, Ecomusei, Osservatori del paesaggio, il processo si è innescato a partire dalla presa in conto di un focus particolare, che in questo caso è rappresentato dalla volontà di ripartire da un’agricoltura più virtuosa, per poi allargarsi a tutto il resto includendo nel contenitore del distretto tutta una serie di funzioni integrate derivanti dal carattere multifunzionale dell’agricoltura. Con l’esperienza virtuosa del Distretto Biologico, e delle sue potenziali azioni future attraverso il Parco Agricolo, si può ragionevolmente affermare che Fiesole e il suo territorio abbiano intrapreso un percorso di transizione verso nuovi modelli di sviluppo locale e verso nuovi stili di vita, all’interno di uno scenario di evoluzione che ribalta gli equilibri tra realtà rurale e realtà urbanizzata. L’incisività dimostrata dalle componenti territoriali - nel senso stretto di appartenenti a quell’ “or-

ganismo vivente ad alta complessità” (Magnaghi, 2000) - nell’attuare un percorso di questo tipo, deve pur contenere tracce di un’attitudine intrinseca o di una qualche sedimentazione della “coscienza di luogo” (Becattini, 2015), oltre che all’imprescindibile volontà politica messa in atto dall’amministrazione comunale. Il presidio che tutt’ora persiste da parte di una forte componente intellettuale, portata avanti dalle realtà culturali di alto livello, ma anche e soprattutto dal mondo dell’agricoltura, esempio di eccellenza e sperimentazione, garantisce al territorio fiesolano di proiettarsi verso un orizzonte di innovazione destinato a lasciare una testimonianza tangibile nel raccogliere positivamente le sfide della contemporaneità. Rimangono comunque aperte due questioni con le quali urge confrontarsi nel prossimo futuro per far sì che l’esperienza del Distretto Biologico di Fiesole possa progredire nel modo migliore. Dell’esperienza fiesolana risulta come elemento peculiare e distintivo rispetto alla maggior parte dei biodistretti italiani la presenza dell’amministrazione comunale all’interno del Distretto Biologico e di un buon numero di privati cittadini. Dalla mappatura degli attori coinvolti risulta che potenzialmente

esso potrebbe essere allargato ad altre realtà, coinvolgendo molte altre aziende agricole ed estendendosi soprattutto all’inclusione delle attività commerciali e di ristorazione che invece per il momento restano per lo più al di fuori della rete. Questo consentirebbe un enorme vantaggio in termini di completamento della filiera, (produzione e consumo dei prodotti biologici sul territorio), aumentando l’efficienza del network e garantendo una maggior attrazione verso gran parte dei cittadini. Dal punto di vista spaziale il DB coincide con i limiti amministrativi e quindi al momento le linee programmatiche sono tutte incentrate alla sola realtà comunale. Dallo studio affrontato risulta come il fenomeno dei distretti biologici sia in continua espansione nel resto dell’ Italia e che solamente la Toscana ne conti già 7 di cui la maggior parte di questi realtà si trovano a gravitare nei dintorni dell’area fiorentina, delineandosi quasi come un macro-distretto de facto della Toscana nord-orientale. Questa particolare situazione necessita di avviare un ragionamento quanto meno impostato verso un dialogo tra le diverse realtà territoriali vicine al DB di Fiesole: l’aggregazione con altre realtà con affinità colturali e obiettivi condivisi, potreb-

be estendere l’efficacia del distretto, accrescendone la risonanza a livello regionale e nazionale. Un’ulteriore considerazione riguarda l’approccio con cui è stata condotta la ricerca, grazie alle attività di partecipazione svolte a supporto del Garante della partecipazione per la costruzione dei nuovi strumenti urbanistici comunali. Da questa prospettiva si è potuto valutare la portata complessiva del processo di riconoscimento e consolidamento del Distretto Biologico come dispositivo di territorializzazione proattiva, ponendosi in una dimensione di osservatore speciale. Svincolandosi da logiche trasformative contingenti, la ricerca, attraverso la finestra della partecipazione, ha focalizzato l’attenzione per favorire il miglior intreccio possibile tra le tre principali categorie di attori: gli agricoltori, rappresentati dal Distretto Biologico, la pianificazione territoriale, nelle vesti del gruppo di piano e del Dipartimento di Urbanistica e l’amministrazione comunale. Dato per assunto che l’urbanistica è un materia collettiva, l’intreccio tra pianificazione e partecipazione diventa quindi imprescindibile per favorire forme di collaborazione efficaci e definire strategie di guida pubblica all’interno di un dialogo.


Il riconoscimento che la comunità locale attribuisce al Distretto Biologico, visto come “un sistema territoriale in cui la sinergia tra produzione biologica, tipicità e qualità ambientale può trasformarsi in valore aggiunto per tutta la comunità”, e all’attività agricola, come ambito entro cui “ottenere molteplici benefici di interesse collettivo” (Comune di Fiesole, 2019b), unita all’insieme degli esiti di carattere fisico emersi dal processo, ha permesso di direzionare il lavoro verso un consolidamento del network attivato, rappresentato dal progetto del Parco Agricolo Multifunzionale. Quale strumento della pianificazione territoriale, il Parco si configura come una strutturazione delle linee strategiche di trasformazioni fisiche del territorio che va in consegna al Distretto Biologico in qualità di soggetto predisposto alla gestione e al coordinamento. In questo modo si viene a instaurare un percorso di stabilizzazione della governance pattizia con l’obiettivo di produrre nel lungo periodo una consuetudine di progettualità locale sul territorio.

Note

Bibliografia

1 Si fa riferimento a realtà come le Reti di Economia Solidale (RES), i Distretti di Economia Solidale (DES), i contratti di acquisto preventivi e i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS), ma anche ai mercati di filiera corta e ai movimenti impegnati nella promozione del ritorno alla terra e tutto quello che ne concerne come Terra Comune, Campi Aperti e Genuino Clandestino. 2 Il processo partecipativo ‘Facciamo un Piano!’ che ha accompagnato la redazione del nuovo Piano Strutturale del Comune di Fiesole, è stato condotto dal Garante della partecipazione, la Dott. ssa Maddalena Rossi, ed ha visto diretto coinvolgimento dell’autrice di questo testo in qualità di tirocinante GiovaniSì presso il Dipartimento di Urbanistica del Comune. Le attività di partecipazione a cui si fa riferimento nel presente testo si sono svolte da settembre 2018 a febbraio 2019 e si sono articolate in una sequenza di fasi, quali: una prima raccolta di manifestazioni d’interesse, una serie di interviste in profondità agli stakeholders, tre incontri pubblici dislocati nei principali centri del territorio comunale e la somministrazione di un questionario online che ha avuto circa 200 risposte. (Comune di Fiesole, 2019b)

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Fig.1.1 Piani Strutturali Intercomunali in Toscana. Elaborato di Francesca Golia.


La cooperazione intercomunale per la gestione del territorio: una risorsa, una necessità

La pianificazione strutturale intercomunale in Toscana A livello nazionale, la pianificazione intercomunale è sempre stata presente nella normativa urbanistica a partire dalla L.U. n. 1150/42. Tuttavia essa “solo di recente sta assumendo una rilevanza ‘di massa’ nell’ottica del governo del territorio. Ha facilitato ciò sia il testo di riforma nazionale delle autonomie locali, nella versione della legge 142/1990, nonché nella versione del testo unico degli enti locali del 2000 n. 267, che la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001, che hanno riportato il nodo della dimensione territoriale per le politiche pubbliche al centro della riflessione” (De Luca G., 2012). Anche molti contesti regionali, quali Toscana, Umbria, Basilicata, Emilia Romagna, Puglia, Calabria, Veneto, hanno cercato di regolamentare negli anni tale livello di pianificazione. In particolare, in Toscana le prime esperienze di pianificazione intercomunale risalenti all’inizio degli anni ’601, pur non giunte a compimento, sono state assunte come riferimento nella L.R. n. 74 del 1984, che permetteva forme libere di coordinamento tra i comuni per attivare una politica territoriale aperta a scenari più ampi rispetto ai ristretti confini comunali. Un riferimento esplicito alla pianificazione intercomunale è presente nella legge regionale n.65 del novembre

Francesca Golia 2014, in termini di Piano strutturale intercomunale (PSI). Nell’ambito delle funzioni di governo del territorio assegnate alle Unioni dei comuni o ai comuni, il PSI è chiamato a: indagare, conoscere e rappresentare lo stato attuale del territorio; riconoscere, individuare e valorizzare le risorse ambientali, economiche, storiche e sociali del territorio, formanti il cosiddetto ‘Patrimonio Territoriale’; definire scelte strategiche di area vasta in coerenza con la pianificazione sovraordinata2 e a delineare previsioni di assetto e sviluppo sostenibile del territorio. Negli ultimi cinque anni, il PSI ha avuto un notevole impulso in conseguenza ad alcuni provvedimenti regionali: una prima fase sperimentale è stata avviata nel 2015 per poi proseguire negli anni successivi con un sistema di bandi regionali che hanno assegnato incentivi economici per i comuni impegnati in un percorso di pianificazione intercomunale. I Piani co-finanziati hanno coinvolto 163 comuni, per un totale di quaranta PSI. Nonostante la grande adesione, nell’arco dei quattro anni solo pochi Piani sono giunti alla fase di adozione3 e di questi solamente uno, redatto dall’Unione dei comuni montani della Garfagnana, all’approvazione (fig.1.1). Se analizziamo le vicende e i contenuti dei Piani struttu-

rali intercomunali avviati in Toscana, emergono con evidenza alcuni aspetti problematici e diversi interrogativi legati in maniera particolare alla gestione istituzionale del Piano, ai rapporti interni tra i comuni coinvolti, alle relazioni di natura tecnico istituzionale fra gli stessi comuni, la Regione e la Provincia, all’interpretazione e applicazione dei contenuti della legge regionale Toscana 65/2014 (artt.92 e 94) (fig.1.2).

Corso di Laurea Magistrale in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio Relatore: Prof. Francesco Alberti Co-relatore: Prof. Sandro Ciabatti Aprile 2019

Criticità e prospettive legate alla gestione istituzionale del Piano Criticità dovute a rapporti interni tra i comuni impegnati nella redazione di un PSI Le problematiche che possono istaurarsi tra i comuni coinvolti in un processo di pianificazione strutturale condiviso sono molteplici. Una di queste difficoltà è dovuta al fatto che all’associazione volontaria dei comuni, che intraprendono tale percorso, non corrisponde un organo istituzionalmente riconosciuto, se non quello che gli stessi stabiliscono attraverso atti pattizi. Questa labilità del vincolo istituzionale può favorire la fuoriuscita di un membro dell’Unione in qualsiasi momento, con l’unica penalità di non vedere applicato il Piano sul proprio territorio.

157


Fig.1.2 Schema delle criticità della pianificazione strutturale intercomunale.

Per quanto possa essere utile pianificare a livello intercomunale, molte amministrazioni dimostrano nei fatti scarso interesse ad attivare forme di cooperazione orizzontale. Può ad esempio succedere che alcuni comuni rivendichino il proprio legittimo esercizio della potestà pianificatoria quando si presentino divergenze in merito a determinate scelte urbanistiche condivise dagli altri comuni. Contrasti possono sorgere, inoltre, a causa della diversa composizione degli schieramenti politici alla guida delle amministrazioni comunali, oppure dall’emergere di atteggiamenti campanilistici. La tenuta dell’operazione è quindi strettamente condizionata dal livello di conflittualità tra gli interessi sostenuti dai diversi comuni, che possono dar luogo a comportamenti opportunistici. Inoltre, la facile dissociazione di uno o più soggetti può far sì che l’ambito territoriale oggetto di pianificazione unitaria non risulti più rappresentativo del contesto socio-economico entro cui si in-

serisce, né dell’area vasta entro cui dovrebbero trovare applicazione strategie territoriali unitarie. Un Piano strutturale intercomunale che ha risentito in modo evidente di tali dinamiche è quello dell’Unione dei comuni della Valdera, avviato nel 2018 con l’adesione dei comuni di Bientina, Buti, Calcinaia, Capannoli, Casciana Terme Lari, Palaia e Pontedera, dopo che, nel 2016, quattro comuni - Chianni, Lajatico, Terricciola, Peccioli e Ponsacco - si erano distaccati a causa di contrasti politici. Di questi, i primi tre hanno poi formato un nuovo ente associato, attivando nel 2017 un autonomo procedimento per la redazione di un Piano strutturale intercomunale. Quanto a Ponsacco, ubicato al centro della Valdera, la sua dissociazione ha determinato un’evidente discontinuità territoriale tra i comuni dell’Unione (fig.2.1) fortemente penalizzante per la pianificazione intercomunale. Un ulteriore esempio è il Piano strutturale intercomunale dei comuni dell’Area Pisana4.

L’elaborazione del Piano, avviata nel 2015, non si è mai interrotta, ma è stata frenata nel corso degli anni successivi dall’esigenza di alcuni comuni di rinnovare i propri strumenti operativi, nonché dalle continue interruzioni determinate dalle tornate elettorali e conseguenti cambi di giunta. Questo ha ostacolato il regolare corso del Piano già a partire dalla elaborazione della documentazione necessaria all’attivazione della Conferenza di Copianificazione con la Regione Toscana, prevista ai sensi della L.R. 65 per le trasformazioni al di fuori del territorio urbanizzato. A differenza della Garfagnana, costituita da comuni montani nei quali non sono presenti particolari tensioni legate all’occupazione del suolo, nell’Area Pisana sono presenti elementi di forte attrattività e rilevanza strategica (infrastrutture, poli di servizi e funzioni economiche di elevato rango ecc.) che inducono fenomeni di rendita fondiaria e lo sviluppo di un significativo mercato immobiliare. Il ruolo che alcuni contesti territoriali hanno in Toscana,

dovuto a una concentrazione maggiore di attività di livello sovralocale, può portare ad un’accentuazione dei conflitti e di conseguenza ad un esito più incerto del Piano, quando redatto tra più comuni. Per superare alcune di queste criticità, sono ipotizzabili diverse soluzioni. a) Introdurre una forma di obbligatorietà in sede di formazione delle Unioni dei comuni in merito all’impegno dei singoli enti a non dissociarsi. Un modello che può essere preso in considerazione è dato dalla Francia, Paese che presenta un’organizzazione amministrativa simile a quella dell’Italia, ad esempio per quanto riguarda l’elevato numero di comuni e il ruolo centrale delle regioni nell’architettura istituzionale. Dal 2010 la Francia ha conosciuto una trasformazione della cooperazione intercomunale che da volontaria è divenuta obbligatoria. Tale obiettivo è stato conseguito attraverso l’istituzionalizzazione5 di un procedimento di riordino e razionalizzazione delle forme di intercomunalità che ha portato all’istituzione degli


EPCI6, ovvero di Enti pubblici di cooperazione intercomunale dotati di una fiscalità propria. Secondo i dati diffusi dall’INSE7, l’obiettivo prefissato di estendere gli EPCI all’intero territorio nazionale è stato raggiunto pienamente: alla data del 1° gennaio 2014 solo 49 dei quasi 37.000 comuni francesi (pari ad appena lo 0,2%) non facevano parte di un raggruppamento intercomunale (De Donno M., 2017). Questo esempio di obbligatorietà a cooperare per i comuni con caratteristiche territoriali ed economiche simili potrebbe essere mutuato nella normativa della Regione Toscana per rimediare all’instabilità che caratterizza la formazione dei Piani intercomunali. Ovviamente, per fare questo è necessario prima di tutto individuare gli ambiti territoriali più pertinenti a definire le strategie di area vasta. Un criterio potrebbe essere quello di fare riferimento al PIT8: i comuni associati dovrebbero cioè rientrare negli ambiti paesaggistici individuati dal PIT sulla base di elementi simili, quali i sistemi idro-geomorfologici, i caratteri eco-sistemici del paesaggio, la struttura insediativa e infrastrutturale di lunga durata, i caratteri del territorio rurale. Un ulteriore criterio guida, rispetto al ruolo e al valore che un Piano strutturale intercomunale dovrebbe delineare nelle scelte strategiche, può essere ricondotto alle dinamiche socio-economiche9. b) Una seconda opzione, meno drastica rispetto al ‘modello francese’, potrebbe essere l’introduzione di una penalizzazione, per il comune che intenda dissociarsi dall’Unione e di conseguenza auto-escludersi dall’elaborazione del Piano, che ne vada a limitare l’attività pianificatoria e/o edilizia (ad esempio impedendogli di prevedere nuove trasformazioni ad esclusione di quelle derivanti dal recupero dell’esistente).

Criticità dovute a rapporti con gli enti sovralocali Ulteriori difficoltà nella formazione dei PSI possono derivare da relazioni di natura tecnico istituzionale tra i comuni coinvolti con la Regione Toscana e la Provincia (o città metropolitana) di afferenza. Secondo la L.R. 65/2014 le scelte pianificatorie dei comuni si devono conformare ed essere coerenti con gli strumenti sia di livello regionale che provinciale. Tuttavia, la maggior parte dei Piani territoriali di coordinamento (PTCP) delle province toscane10 (tab.1) non risulta in linea con i contenuti statuari e strategici del vigente PIT/PPR. L’obbligo di conformarsi a due livelli di pianificazione al momento incoerenti tra loro genera evidentemente un corto circuito nella pianificazione intercomunale e frequenti motivi di conflittualità tra gli enti. Oltretutto i contenuti dei PTCP risultano oggi indeboliti dal riassetto istituzionale che ha fortemente ridimensionato il ruolo e soprattutto le competenze delle province11, a fronte del rafforzamento del ruolo della Regione nei processi di pianificazione comunali introdotto dalla L.R. 65/2014. In questo quadro è possibile tuttavia ipotizzare una razionalizzazione dei ruoli e delle competenze per gli enti territoriali, Provincia (o Città Metropolitana) e Regione. Per quanto riguarda la Provincia, la sua natura di ente di secondo livello, se sarà mantenuta, appare incongruente con la facoltà di produrre un Piano autonomo; per questo motivo, la sua attività dovrebbe piuttosto configurarsi come un’attività di servizio volta a sostenere e ad agevolare la pianificazione intercomunale. Ad esempio: a) fornendo ulteriori approfondimenti del quadro conoscitivo e dello statuto del territorio rispetto al PIT, calibrati sul livello provinciale; tale attività di servizio potrebbe contem-

Fig.2.1 IV invariante del Piano strutturale intercomunale dell’Unione Valdera. Elaborato di Francesca Golia.

plare anche l’aggiornamento in tempo reale dei quadri conoscitivi in ragione alle evoluzioni che si possono verificare ai vari livelli amministrativi, attraverso la gestione di un SIT dinamico: uno strumento che consentirebbe ai comuni, in fase di rinnovo dei Piani, notevoli risparmi in termini di tempo e risorse; b) specializzando la propria attività di ente intermedio tra i comuni e la struttura regionale sui temi dei rischi ambientali e territoriali con particolare riferimento alle tematiche idro-geologiche, sismiche, ecologiche. Quanto alla Regione, la sua attività non dovrebbe limitarsi a svolgere compiti di verifica ma dovrebbe acquisire anche un ruolo di supporto di tipo strategico alla pianificazione rispetto ad ambiti territoriali con specifiche vocazioni, caratteristiche e risorse di rilevanza non solo locale (si pensi alle grandi infrastrutture come porti e aeroporti, o a temi trasversali come la tutela/valorizzazione del litorale ecc.). Parallelamente, sarebbe necessario che

essa svolgesse inoltre un’attività di ‘tutoraggio tecnico’, sostenendo i comuni che non sempre hanno sufficienti mezzi tecnici e competenze specializzate da dedicare alla pianificazione. Un precedente positivo, nel quale la ‘regia’ della Regione ha dato buoni esiti, è il Piano strutturale coordinato della ‘Città del Tufo’. L’espressione ‘Città del Tufo’ compare per la prima volta nello Schema strutturale della Provincia di Grosseto, elaborato nella seconda metà degli anni Novanta. Lo scopo di questo strumento è stato quello di individuare sul territorio provinciale aree omogenee dal punto di vista delle risorse, funzionale e del carattere. L’idea e la proposta dello schema strutturale del 1990 non ha avuto esiti operativi, ma è stata ripresa nel 2003, dal Piano territoriale di coordinamento della Provincia di Grosseto che ha definito come ‘Città del Tufo’ uno dei sottosistemi insediativi provinciali. Il progetto che ha 159 visto coinvolti i comuni di


Castell’Azzara, Sorano e Pitigliano, si è concluso nel 2011 con l’approvazione del Piano da parte di tutti e tre i Consigli comunali (De Luca G., 2014). Nonostante i diversi punti di vista emersi nella fase iniziale fra i vari enti locali e la fine di un apposito finanziamento regionale, che comportò una drastica riduzione dell’Ufficio di Piano in termine di personale, il Piano fu comunque portato a termine grazie ancora all’iniziativa della Regione Toscana, che costituì un gruppo di lavoro ad hoc, il quale elaborò il Piano e guidò i comuni fino alla sua approvazione. Criticità e prospettive di natura tecnico procedurale e di applicazione del Piano Le interpretazione dei contenuti disciplinari Altre questioni critiche emerse nella formazione dei Piani strutturali intercomunali sono connesse ai contenuti normativi della stessa L.R. n. 65/2014. Il comma 1 dell’art. 94 recita che “due o più comuni, anche appartenenti a province diverse, possono procedere alla formazione del piano strutturale intercomunale avente i contenuti di cui all’articolo 92.” L’articolo 92, a cui fa riferimento il comma 1, disciplina i contenuti del Piano strutturale comunale, quindi di fatto la legge assimila la pianificazione strutturale intercomunale a quella comunale. Questa scelta risulta essere contraddittoria: se infatti, per l’estensione del territorio interessato, un Piano strutturale intercomunale si configura come un Piano di area vasta, diventa estremamente complicato dettagliarne i contenuti al livello di un Piano comunale, ad esempio in relazione all’obbligo di definite il perimetro del territorio urbanizzato (art. 4 della L.65). Tale criticità, sottovalutata dal legislatore, è chiaramente messa in luce nel docu-

mento di avvio del procedimento del PSI dell’Unione Montana dei Comuni del Mugello (2017):“la definizione del territorio urbanizzato ha riguardato un territorio della estensione di oltre mille Kmq e tuttavia si è dovuto procedere a individuazioni e verifiche di dettaglio al fine di identificare ambiti soggetti a Piani attuativi in vigore, o addirittura titoli abilitativi rilasciati, o, ancora, le parti nelle quali attivare strategie di riqualificazione che necessariamente devono ‘dialogare’ con i tessuti del contesto prossimo. Tutto ciò non può essere condotto se non a scale non inferiori a 2K pena la loro inefficacia. Una ulteriore riflessione critica riguarda la contraddizione che questa definizione, che non può che essere puntuale e localizzata, apre con il fondamentale principio di ‘non conformatività’ del Piano strutturale. Ne deriva una ulteriore successiva criticità che riguarda la ‘attivazione’ o meno di detta previsione in sede di Piano operativo avendone anticipato quasi tutti gli elementi costitutivi già in sede di Piano strutturale.”12 Sarebbe pertanto più appropriato che il Piano intercomunale, proprio per la sua natura strutturale e non regolativa dell’uso dei suoli, si limitasse a dettare criteri per far applicare omogeneamente ai comuni i contenuti dell’art. 4 e quelli necessari all’individuazione dei nuclei rurali, fornendo al massimo una indicazione puramente ricognitiva del territorio urbanizzato, su cui poi i Piani operativi dei singoli comuni saranno chiamati a svolgere verifiche di dettaglio, in base ai criteri definiti dal PS. Altro aspetto problematico è la rappresentazione di dettaglio dei morfotipi insediativi e rurali, demandata dal PIT alla pianificazione strutturale13, per ambiti territoriali molto estesi. Nel caso del PSI dell’Area Pisana, il problema è stato risolto indivi-

PROVINCIA

PIANO TERRITORIALE DI COORDINAMENTO DELLA PROVINCIA

AREZZO

2000

FIRENZE

2013

GROSSETO

2010

LIVORNO

2009

LUCCA

2000

MASSA CARRARA

2005; Variante di adeguamento al PIT-PPR 2015

PISA

2006; Variante per la disciplina del territorio rurale 2014

PISTOIA

2009; Variante generale 2018

PRATO

2009

SIENA

2012

duando macro-ambiti contenenti più morfotipi, indicati con le relative sigle riportate nel PIT, rimandando poi agli strumenti operativi dei comuni l’effettiva perimetrazione dei singoli morfotipi. Tali difficoltà di carattere sia interpretativo che pratico dimostrano come il Piano strutturale intercomunale abbia bisogno di un quadro normativo più specifico, in relazione alle esigenze e ai contenuti propri di una pianificazione d’area vasta. Un modo efficace per affrontarle, che potrebbe essere istutuzionalizzato, è quello di lavorare contemporaneamente su una duplice dimensione - sovralocale e locale – che porti ad un’articolazione equilibrata del Piano strutturale intercomunale tra una parte unitaria, nella quale sono definite le strategie territoriali a livello sovralocale, e una parte più specifica riguardante ogni singolo comune, in cui tali strategie generali si attuano attraverso progetti e azioni locali. Questo metodo di elaborare il Piano strutturale intercomunale su due diversi livelli è stato mes-

so in atto dall’Unione dei comuni della Garfagnana (fig.3.1 e fig.3.2), dove ha consentito di affrontare le problematiche di un’area molto estesa (oltre 500 Kmq), tenendo conto della successiva fase di gestione.

Tab.1

Aspetti procedurali Un ulteriore elemento di conflittualità può manifestarsi nell’ambito della sopra citata Conferenza di Copianificazione. Questa viene convocata presso la Regione Toscana a seguito della predisposizione da parte dei comuni degli atti preliminari all’adozione del Piano. Come definito dall’articolo 25 della L.R. 65/2014, la Soprintendenza ai beni culturali e ambientali interviene in presenza di previsioni che si collocano al di fuori del perimetro del territorio urbanizzato. Il punto critico è dato dalla compresenza di due diverse definizioni di territorio urbanizzato in contrasto tra loro, nel quadro della stessa L.R. 65/2014. La prima definizione è quella riportata all’art. 4, “Tutela del territorio e


Fig.3.1 PSI dell’Unione dei comuni della Garfagnana. Strategie a livello sovralocale per la valorizzazione del territorio rurale e per la riqualificazione del sistema produttivo dell’Unione dei comuni della Garfagnana.

Fig.3.2 PSI dell’Unione dei comuni della Garfagnana. Strategie a livello locale per la valorizzazione del territorio rurale e per la riqualificazione del sistema produttivo del comune di Careggine.

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condizioni per le trasformazioni, individuazione del perimetro del territorio urbanizzato”, che stabilisce le modalità di perimetrazione nella formazione dei nuovi strumenti di pianificazione, che non tiene conto delle previsioni pregresse non attuate. La seconda è quella dell’art. 224, “Disposizioni transitorie per l’individuazione del perimetro del territorio urbanizzato”, che agisce “nelle more della formazione dei nuovi strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica adeguati ai contenuti della […] legge 65”, secondo la quale “si considerano territorio urbanizzato le parti non individuate come aree a esclusiva o prevalente funzione agricola nei Piani strutturali vigenti al momento dell’entrata in vigore della presente legge, o, in assenza di tale individuazione, le aree a esclusiva o prevalente funzione agricola individuate dal PTC o dal PTCM”. Questa diversità apre scenari di difficile gestione nel caso della pianificazione intercomunale, in quanto può accadere, come nel caso della Unione montana del Mugello, che alcuni comuni attivino varianti o nuovi Piani operativi con previsioni interne ad un perimetro individuato ai sensi dell’art.224, mentre contemporaneamente si sta redigendo il nuovo Piano strutturale intercomunale, il qua-

le, già nel suo atto di Avvio, è tenuto a definire il perimetro seguendo i criteri, molto più restrittivi, dell’art.414. Ovviamente, con l’adozione del PSI la disciplina transitoria prevista dall’art. 224 risulta immediatamente superata. Un’altra criticità legata all’iter del Piano strutturale, sia comunale, sia, a maggior ragione, intercomunale, è quella che riguarda il processo di conformazione dell’atto nell’ambito della ‘Conferenza Paesaggistica’, prevista ai sensi dell’art.31, comma 1, della L.R. n.65/2015, e ai sensi dell’art.21, comma 3, della Disciplina del Piano di Indirizzo Territoriale con Valenza di Piano Paesaggistico. Tale Conferenza, a cui partecipano la Regione e gli organi dei Ministeri competenti15, ha lo scopo di verificare e certificare la conformità del Piano al PIT con valenza di Piano Paesaggistico. Rispetto all’iter del Piano, questo passaggio si colloca tra le controdeduzioni alle osservazioni al Piano adottato e la sua approvazione finale, cosicché, nel caso di un intervento della Soprintendenza in sede di Conferenza che determini modifiche allo strumento in via di approvazione, queste non sono oggetto di alcuna procedura di evidenza pubblica nei confronti dei cittadini16. Per superare tale questione, una strada potrebbe

essere quella di anticipare, seppure in via non definitiva, un’espressione del parere della Soprintendenza già nella fase di adozione del Piano. In conclusione, le molteplici questioni riscontrate dimostrano che la pianificazione urbanistica intercomunale necessita di un quadro legislativo più chiaro, di dispositivi legislativi volti a rispondere alle esigenze specificamente poste all’intercomunalità, di un ripensamento sui ruoli degli enti chiamati in gioco nel processo di pianificazione, nonché di una revisione di alcuni aspetti procedurali. Questo al fine da permettere alle amministrazioni comunali di condurre agevolmente a termine i progetti di pianificazione coordinata sulla base di procedure capaci di rispondere alle esigenze delle comunità, garantendo certezza di contenuti, tempi e procedure.


Bibliografia

Note 1 I primi tentativi di pianificazione intercomunale e di auto-coordinamento furono eseguiti per l’area fiorentina nel 1956; per Viareggio-Vecchiano nel 1958; per Grosseto nel 1962; per la Val di Sieve 1965-1966; per Pistoia nel 1967; per la Val di Nievole nel 1971. 2 Come indicato nell’ art. 94 L.R. 65/2014, i temi di specifica competenza del Piano fanno riferimento: “a) alla razionalizzazione del sistema infrastrutturale e della mobilità, al fine di migliorare il livello di accessibilità dei territori interessati, anche attraverso la promozione dell’intermodalità; b) all’attivazione di sinergie per il recupero e la riqualificazione dei sistemi insediativi e per la valorizzazione del territorio rurale; c) alla razionalizzazione e riqualificazione del sistema artigianale e industriale; d) alla previsione di forme di perequazione territoriale di cui all’articolo 102.” 3 Le fasi del percorso di formazione del Piano strutturale intercomunale sono stabilite dalla legge regionale 65/2014 negli articoli 23 e 24. La prima fase della formazione del PSI è costituita dall’Avvio del procedimento, al quale si accompagna il Documento Preliminare di Valutazione Ambientale Strategica (V.A.S.). La seconda fase riguarda l’adozione dello strumento con delibera del Consiglio Comunale. Successivamente all’adozione, chiunque abbia interesse può presentare Osservazioni ai documenti adottati entro e non oltre 60 giorni dalla data di pubblicazione sul BURT del Piano adottato. Infine, il Consiglio Comunale approva in via definitiva il PSI, eventualmente modificato a seguito dell’accoglimento di osservazioni e pareri, nonché degli eventuali emendamenti introdotti dalla Conferenza Paesaggistica, convocata ai sensi dell’art. 21 della Disciplina del Piano di Indirizzo Territoriale con valenza di Piano Paesaggistico. 4 L’Area Pisana comprende i comuni di Calci, Cascina, Pisa, San Giuliano Terme, Vecchiano, Vicopisano. 5 Secondo la legge francese n° 2010-1563 de réforme des collectivités territoriales. 6 La sigla EPCI sta per Établissements publics de coopération intercomumunale. 7 Istituto nazionale di statistica e studi economici che raccoglie, produce, analizza e diffonde informazioni sull’economia e sulla società francese. 8 Il Piano di Indirizzo Territoriale con valenza paesaggistica è uno strumento di pianificazione territoriale della Regione Toscana, al quale si conformano le politiche regionali, i Piani e programmi settoriali che producono effetti territoriali, gli strumenti di pianificazione territoriale e gli strumenti di pianificazione urbanistica (art. 88, c. 1 L.R. 65/2014).

9 A questo proposito le ricerche dell’Irpet (Istituto Regionale per la Programmazione Economica della Toscana), forniscono dati che evidenziano le dinamiche socio-economiche del territorio della Toscana, come gli spostamenti auto-contenuti per motivi di studio o lavoro, che possono essere un ausilio per identificare sistemi territoriali omogenei. 10 Ad oggi l’unica Provincia ad aver adottato una variante generale al PTC adeguandone i contenuti al Piano Paesaggistico Regionale e alla legge 65/2014 è quella di Pistoia. 11 Si ricorda che la Legge 56/2014, la cosiddetta ‘Legge Delrio’, ha rivisto profondamente ruolo ed organizzazione delle Province nella prospettiva della loro soppressione, che non si è poi verificata. 12 Piano Strutturale Intercomunale Mugello. Documento di Avvio ai sensi dell’art.17 della L.R. 65/2014. 13 Il PIT/PPR individua per la lettura del territorio regionale e dei suoi paesaggi quattro invarianti strutturali, individuate attraverso caratteri, valori, criticità e obiettivi di qualità relativi ad ogni morfotipo (insediativo, infrastrutturale, agro ambientale) in cui esse sono articolate. I morfotipi sono una selezione delle principali situazioni territoriali, la cui analisi interpreta le forme che definiscono i caratteri identitari dei sistemi viventi che sono in continua evoluzione. 14 Ai sensi dell’Art.224 della L.R.65/2014, l’individuazione del perimetro del territorio urbanizzato tiene conto delle aree urbane degradate e le parti non individuate come aree a esclusiva o prevalente funzione agricola nei piani strutturali vigenti. Mentre ai sensi dell’art.4 il territorio urbanizzato è più specifico: è costituito dai centri storici, da aree edificate con continuità dei lotti a destinazione residenziale, industriale e artigianale, commerciale, direzionale, di servizio, turistico-ricettiva, da attrezzature e servizi, parchi urbani, impianti tecnologici, lotti e spazi inedificati interclusi dotati di opere di urbanizzazione primaria. Inoltre l’individuazione del perimetro del territorio urbanizzato tiene conto delle strategie di riqualificazione e rigenerazione urbana, inclusi gli obiettivi di soddisfacimento del fabbisogno di edilizia residenziale pubblica, laddove ciò contribuisca a qualificare il disegno dei margini urbani. Non costituiscono territorio urbanizzato invece: le aree rurali intercluse, che qualificano il contesto paesaggistico degli insediamenti di valore storico e artistico, o che presentano potenziale continuità ambientale e paesaggistica con le aree rurali periurbane, così come individuate dagli strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica dei

comuni, nel rispetto delle disposizioni del PIT; l’edificato sparso o discontinuo e le relative aree di pertinenza. 15 Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT). 16 Un problema di trasparenza.

De Luca G. 2012, L’efficacia della pianificazione di area vasta, Urbanistica Informazioni, n. 241. De Luca G. 2014, Piano strutturale coordinato “La città del Tufo”: un successo insuccesso, Urbanistica Informazioni, n. 255. De Donno M. 2017, La cooperazione intercomunale in Francia: appunti e spunti per le Unioni di Comuni italiane, Rivista istituzioni del federalismo n.2 p. 523-546. Maggioli Editore, Rimini. Documenti di Avvio ai sensi dell’art.17 della L.R. 65/2014. Piano Strutturale Intercomunale Mugello, 2018. <http://www.uc-mugello.fi.it/sites/ www.uc-mugello.fi.it/files/documenti/1_documento_avvio_pagg_0-126.pdf> (1/03) Relazione generale. Piano Strutturale intercomunale. Unione dei Comuni della Garfagnana, 2017. <http://ucgarfagnana.lu.it./wp-content/uploads/urbanistica/progettourbanistico/03Progettodipiano/documenti/Doc.4%20-%20relazione%20generale.pdf> (1/03) Pucci P. 2019, Urbanistica, già 199 i Comuni interessati ai Piani Strutturali intercomunali. <http://www.toscana-notizie.it/-/urbanistica-gia-199-i-comuni-interessati-ai-piani-strutturali-intercomunali> (1/04) Stato della pianificazione. Stato di attuazione della Legge regionale 65/2014 <http://www.regione.toscana.it/-/stato-della-pianificazione> (1/04)

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Riqualificazione: strategie e proposte operative


Fig.1 “Children of the Grave Again, Part 3”, by Dondy, 1980, New York. Foto di Martha Cooper


Street art e urbanistica: consigli per l’uso

Sarah Melchiorre

Dal writing alla Street art Il writing nasce negli Stati Uniti negli anni ‘60 come denuncia e risposta a quella emarginazione urbana, sociale, economica, culturale, che caratterizza in questo periodo le periferie delle città americane. I writwers, tramite un gesto illegale, un segno su un muro composto da uno pseudonimo e il numero della street di appartenenza, manifestano il proprio bisogno di uscire dall’anonimato, di incrinare quel muro di segregazione per affermare e riconoscere la propria identità e fare proprio quel luogo urbano. Attraverso il segno sul muro, e successivamente sulla Subway1 (fig. 1), i writers riescono a riappropriarsi dello spazio pubblico rivendicando il proprio diritto alla città (Lefebvre, 1970), che consiste in “un diritto collettivo, più che individuale, perché una trasformazione dei processi di urbanizzazione richiede inevitabilmente l’esercizio di un potere comune. La libertà di costruire e di ricostruire le nostre città e, di conseguenza, noi stessi è forse, a mio avviso, il più prezioso e, ciò nondimeno, il più negletto dei diritti umani” (Harvey, 2008). Nonostante i continui tentativi di repressione delle amministrazioni, negli anni si assiste a un’evoluzione del movimento che porta a una continua ricerca stilistica della firma e alla for-

mazione di crew, gruppi di persone che collaborano in un progetto di writing, aggregazioni simbolo della cultura Hip Hop. Inoltre, l’interesse dei curatori e galleristi e la continua attenzione dei media verso questo fenomeno, contribuiscono a una legittimazione sociale e artistica dello stesso, che si ripercuote sul territorio: intorno agli anni ’80 le periferie ghettizzate, come il Bronx, si emancipano dalla città centrale e acquisiscono una propria indipendenza, attraendo artisti da tutto il mondo e divenendo fucine di sperimentazione artistica. Col passare del tempo si assiste a un’ulteriore evoluzione del movimento che porta alla nascita della Street art che in breve tempo si diffonde in tutto il mondo grazie anche all’utilizzo della rete. In costante evoluzione e definizione, caratterizzata da numerosi stili e sfaccettature, la Street Art si manifesta non solo come atto illegale, ma anche legale, a seguito di commissioni pubbliche dovute alla mutata considerazione del movimento, a cui si inizia ad attribuire un valore e un riconoscimento artistico. Grazie alla sua volontà e capacità comunicativa, semplice ed immediata, la Street art riesce ad arrivare a un pubblico più ampio esterno al movimento che, oltre a coglier-

ne un valore estetico, riesce anche ad interpretare il messaggio dell’artista. Essa, oltre a creare una connessione con lo spettatore, stabilisce un dialogo anche con le forme e i luoghi della città, che diventano co-protagonisti dell’opera. Tra i vari stili riconducibili al movimento, i Murales (fig. 2) riescono, date le dimensioni e l’esplosione dei colori, a conquistare le pareti della città, e di conseguenza a diventare parte dell’architettura e del contesto urbano, arrivando a correggerne alcuni punti deboli, a plasmarne gli spazi e a modificare la percezione che il passante o l’abitante hanno di essi. In Italia il fenomeno del writing si manifesta intorno agli anni ‘80 principalmente sulla linea ferroviaria e sul muro con caratteristiche simili a quelle riscontrate a New York. Le principali città che vedono l’evoluzione del movimento sono Milano, Roma e Bologna, dove i centri sociali diventano fucine artistiche per gli artisti. La continua crescita del movimento comporta, in un primo momento, come già avvenuto nello scenario americano, uno scontro con le amministrazioni e con l’opinione pubblica, che vedono questo genere di opere artistiche come atti vandalici. Tuttavia lo stesso, successivamente, verrà rivalutato e visto in

Corso di Laurea Triennale in Pianificazione della Città, del Territorio e del Paesaggio Relatore: Prof. Claudio Saragosa Co-relatore: Prof. Maddalena Rossi Dicembre 2018

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Fig.2 “You make my heart spin around” di Millo a Safi, Marocco, 2016. Foto ripresa dal sito web di Millo

modo positivo da taluni cittadini e amministratori, cosicchè l’atteggiamento nei confronti del fenomeno artistico si situa su due distinti crinali: uno che lo criminalizza e tenta di reprimerlo, l’altro che ne percepisce le sue potenzialità e cerca di instaurare con gli artisti un rapporto collaborativo. La giurisprudenza italiana non trova un orientamento chiaro in merito al fenomeno, in quanto da un lato, prevede leggi che tutelano la proprietà privata dall’imbrattamento e dal vandalismo, criminalizzando l’opera di Street Art, e dall’altro, formula leggi che salvaguardano il diritto d’autore, difendendo l’operato dell’artista in caso la sua opera d’arte sia riconosciuta come tale. Di conseguenza, il nodo problematico

diviene il riconoscimento del valore artistico dell’opera di Street Art. Se quel dipinto sul muro è o meno un’opera d’arte. Anche lo scenario internazionale presenta degli atteggiamenti repressivi, con leggi ed azioni volte a limitare la Street Art, mentre altri paesi cercano di aprirsi nei suoi confronti, cercando forme di dialogo con il movimento. Questa forma di dialogo porta alla creazione di partnership tra amministrazioni e associazioni di artisti che danno alla luce progetti capaci di influenzare differenti ambiti, come quello educativo e sociale, e valorizzare e recuperare con risorse economiche modeste l’aspetto estetico di alcuni luoghi degradati. I progetti artistici si collocano in borghi storici, assumono un ruolo nella riquali-

ficazione urbana, rendono la città un museo a cielo aperto, riescono a modificare lo spazio attraverso l’utilizzo accentuato del colore e, infine, apportano un valore sociale e identitario al luogo d’intervento. Esempi internazionali e nazionali Al fine della ricerca, sono stati analizzati una serie di progetti e manifestazioni di arte urbana sia a livello internazionale che nazionale, individuandone potenzialità e criticità. Nel contesto internazionale sono state esaminate quattro esperienze reputate significative. Il primo progetto, Street art 13, nasce nel 2009 e si situa nel tredicesimo arrondissement, quartiere parigino che in questi anni ha previsto una serie di interventi volti alla riqualifi-

cazione e valorizzazione urbana, dove la Street Art, supportata da azioni partecipate con gli abitanti, diventa uno strumento per rivalutare gli spazi anche in chiave turistica. Di notevole importanza risulta essere la scelta della superficie da utilizzare, in quanto deriva da un’analisi del contesto urbano dove si ricercano e individuano pareti cieche in prossimità di luoghi pubblici e strade. La seconda esperienza analizzata è Grenoble Street art Fest, nata nel 2014 a Grenoble al fine di mostrare le potenzialità della Street Art in ambito urbano e creare un dialogo mediato tra il pubblico e gli artisti tramite progetti e collaborazioni con scuole, laboratori e workshop. Le opere realizzate si relazionano con le forme architettoniche, si inseriscono nel con-


Fig.3 “The Wire”, opera di Seth realizzata nel quartiere Fountaine per il Grenoble Street art Fest. Foto ripresa dal sito web di Grenoble Street art Fest.

testo urbano andando a modificarne la percezione dei luoghi, conferiscono un valore aggiunto e diventano un punto di riferimento nello spazio (fig. 3). L’insieme degli interventi artistici localizzati in aree definite della città, ne modificano l’aspetto, costruendo una nuova e condivisa immagine del contesto urbano in cui si inserisce. Due esempi internazionali che vedono nel colore della Street Art una potenzialità, sono il caso di Tirana e il progetto Favelas Painting Project. Nel primo il sindaco di Tirana Edi Rama, con l’intento di migliorare la situazione economica, sociale ed urbanistica del paese negli anni Duemila, adotta una serie di interventi di ristrutturazione urbanistica affiancati da uno studio del colore volto a rivitalizzare le aree della città e contrastare il grigio-

re dell’edilizia che rispecchia la povertà del paese. A seguito di un riscontro positivo da parte della popolazione, il progetto ricolora numerosi quartieri degradati, creando una nuova percezione positiva e un maggior senso di sicurezza negli abitanti, spingendoli a riappropriarsi dei propri spazi. Favelas Painting Project nasce invece dai due artisti olandesi Haans&Hahn nel 2006 e consiste in una serie di interventi artistici che coinvolgono la comunità in ogni fase progettuale, per contribuire all’educazione degli abitanti e modificare la percezione dei luoghi. Tra i vari progetti troviamo quelli nelle favelas di Rio de Janeiro, Villa Cruzeiro, dove un murale di dimensioni monumentali si colloca sulla scalinata di cemento, e Praça Cantāo, dove l’opera

si inserisce nell’unico spazio pubblico della favela, caratterizzato da una forma circolare e posto alle porte della baraccopoli, e l’intervento in Germantown Avenue a Philadelphia, dove si assiste a trasformazione cromatica della via commerciale (fig. 4). Le opere con i propri colori, dialogano con le forme architettoniche e con lo spazio che le ospita, modificandone la percezione visiva e affettiva e motivando gli abitanti a prendersi cura e a riconoscersi nei propri luoghi. Lo scenario italiano si presenta molto attivo nella redazione di progetti di arte urbana, proponendo numerosi interventi molto eterogenei che si inseriscono in contesti urbani altrettanto diversi. Alcuni borghi storici distanti ed emarginati dalla città, vedono nell’arte urbana (Street Art) la

possibilità di far rivivere i propri luoghi, per valorizzarli e conferirgli un aspetto più ‘fresco’, capace di attrarre nuovi visitatori e abitanti e di rafforzare l’identità locale indebolita. Fin dagli anni ’60 si sviluppa la Biennale del Muro Dipinto a Dozza (fig. 5) e il Muralismo Sardo che si diffonde nei paesi come San Sperate e Orgosolo, dove l’arte, offerta al libero godimento della collettività e del visitatore, ha una dimensione collettiva e popolare che assume una forte valenza identitaria. Recentemente anche il paese sardo di San Gavino Monreale, soggetto a dinamiche di spopolamento, ha adottato la Street Art come strumento per rivalorizzare il paese, rafforzarne l’identità e renderlo una meta 169 turistica e culturale.


Fig.4 Il progetto realizzato a Germantown Avenue nel Nord di Philadelphia. Foto ripresa dal sito web di Favelas Painting Project

La città di Torino mostra fin dagli anni ’90 un atteggiamento di inclusione nei confronti dell’arte urbana in quanto crede che la repressione nei confronti degli artisti non porti a ridurre la diffusione del movimento. L’amministrazione organizza assieme alle associazioni locali, numerosi progetti che adoperano l’arte urbana come strumento di valorizzazione estetica, sociale e civica, capace di intervenire in ambito urbano in maniera innovativa e creativa. I primi progetti, MurArte-Giovani Writers-Graffiti Urbani: da una libera espressione ad interventi di estetica urbana del 1999 e il festival PicTurin nel 2010, nascono con lo scopo di attivare iniziative a basso costo per migliorare le condizioni di degrado di alcune aree della città,

offrire nuove possibilità espressive per i giovani. Le iniziative, supportate da associazioni volte alla creatività urbana, offrono delle pareti pubbliche e private agli artisti e rendono la Street Art una forma artistica riconosciuta capace di convivere nella città e accrescerne il valore culturale. Nel 2011 Torino presenta nel quartiere Barriera di Milano un Progetto Integrato di Sviluppo Urbano che prevede una serie di interventi volti ad un miglioramento complessivo del quartiere da un punto di vista fisico, economico e sociale. Il programma si dirama in quattro assi principali, di cui uno volto all’ambito socio-culturale nel quale si inserisce il progetto artistico B.Art-Arte in Barriera con lo scopo di “interpretare e valorizzare la com-

plessità e la ricchezza dell’identità e delle risorse del territorio”2. La Fondazione Contrada Onlus e il Comitato Urban3 lanciano nel 2014 un concorso per la realizzazione di un concept unico composto da tredici opere da realizzare sulle superfici murarie scelte a seguito di un primo censimento delle facciate cieche del quartiere, e un lavoro di mediazione con i proprietari degli edifici. I vincitori del progetto vengono scelti da due giurie, una formata da figure specializzate nel settore artistico, l’altra formata dagli abitanti. Habitat di Millo (fig. 6), vincitore del concorso, affronta il rapporto tra l’uomo e la città, dove la sproporzione delle figure simboleggia una rivincita rispetto al mondo in cui viviamo, riponendo l’uomo al centro della città.

Una seconda fase precede la realizzazione effettiva delle opere, ovvero il confronto tra l’artista e gli abitanti, in modo da poter cogliere le richieste di quest’ultimi e poterle inserire all’interno del bozzetto, garantendo un miglior riconoscimento da parte dei cittadini nel progetto. Nella città di Torino troviamo inoltre uno dei casi italiani di museo a cielo aperto, il MAU (Museo di Arte Urbana), nato nel 1995 grazie a un progetto di riqualificazione urbana volto a creare un insediamento artistico permanente, dove le opere a cielo aperto usufruibili gratuitamente, si inseriscono nelle configurazioni urbane del Borgo Vecchio Campidoglio, conferendo al quartiere un valore aggiunto e una nuova identità, dove la creatività viene riconosciuta e ap-


Fig.5 “L’angelo di Dozza” di Giuliana Bonazza in Via XX Settembre per la Biennale del muro dipinto. Foto di Paolo Bonassin (utente Flickr)

prezzata dagli stessi abitanti che realizzano anche autonomamente interventi artistici sulle facciate delle proprie case. La città di Roma presenta due significativi progetti di arte urbana, che si inseriscono in quartieri popolari periferici. Il primo si colloca nel quartiere di San Basilio a nord est della città, dove l’associazione culturale The Walls cerca di raccontare e rafforzare il legame con il territorio e i suoi abitanti tramite le opere di Street Art e laboratori che permettono uno scambio tra gli abitanti e gli artisti (fig. 7). Il secondo progetto, ideato dall’associazione 999Contemporary, si inserisce nel quartiere di Tor Marancia posto nelle vicinanze dell’Eur. Tale progetto di riqualificazione urbana, sociale e culturale mira a tra-

sformare il quartiere in un distretto d’arte pubblica contemporanea mediante una successione di murales e, nel raggiungimento di tale obiettivo, prevede il diretto coinvolgimento della comunità locale, delle scuole e delle associazioni di quartiere nel concepimento e nella realizzazione delle opere d’arte. Ogni murales realizzato dai diversi artisti, tratta di una tematica differente, riprendendo anche storie locali. Nonostante entrambi i progetti mostrino notevoli riscontri positivi in ambito sociale ed anche in parte economico, visti i flussi turistici che attraggono, non sono completi, in quanto non sono accompagnati da veri e propri interventi di riqualificazione urbana. Palermo ospita invece un progetto di promozione sociale, denomi-

nato Borgo Vecchio Factory, portato avanti dall’associazione Push4 e Per Esempio Onlus, volto ad “arginare dinamiche di emarginazione sociale e rigenerare le aree urbane interessate”5. Il progetto consiste in una serie di laboratori di coinvolgimento della comunità locale da parte degli artisti e finalizzati alla realizzazione dei bozzetti e degli stessi murales. Essi hanno cercato di creare un contatto con la vita e gli abitanti del quartiere, invitandoli a rivalutare e ad avvicinarsi ai propri luoghi. Il laboratorio creativo 167/B Street di Lecce è stato finalizzato, attraverso 167 Art Project nato nel 2017 assieme alla collaborazione delle comunità attive nel quartiere Stadio, ad innescare un cambiamento volto a contrastare l’abbandono del quartiere

stesso6 e a rafforzare l’identità locale e il senso di appartenenza degli abitanti al loro contesto di vita, tramite opere che trattano anche della storia del luogo. La Street Art assume in alcuni progetti artistici anche una forte connotazione sociale, rispecchiando la storia del luogo e diventando uno strumento per avvicinare gli abitanti ai territori di appartenza. INWARD,ad esempio, è un osservatorio che svolge attività di ricerca e sviluppo in ambito della creatività urbana, operando dal pubblico al privato, collaborando con vari enti e aziende. La sua attività principale consiste nella realizzazione di interventi di rigenerazione sociale e artistica, in quanto l’arte ur171 bana assume una valen-


Fig.6 “King of Barriera”, opera di Millo realizzata nel 2014 per il progetto “Habitat” di B-Art: Arte in Barriera a Torino. Foto di Filippo Bongiovanni e Alice Massano, ripresa dal sito web di Millo.


Fig.7 Gli interventi artistici di San Basilio, Roma. Foto ripresa dal sito web “Walls”

za nell’ambito comunicativo e identitario, riuscendo ad innescare dei meccanismi di rivalutazione del luogo e di riattivazione di flussi turistici ed economici. Tra i progetti realizzati dall’osservatorio troviamo il Parco dei Murales nel quartiere Ponticelli7 di Napoli (fig. 8), composto da opere che trattano tematiche inerenti alla storia, al tessuto sociale e all’identità del luogo, e da laboratori, visite guidate e attività che cercano di includere gli abitanti e di innescare meccanismi di miglioramento nell’area da un punto di vista sociale ed economico, creando anche opportunità lavorative. Una serie di progetti analizzati che individuano nell’arte urbana una grande potenzialità sociale, appartengono al gruppo creativo Elektro Dome-

stik Force di Pontedera, che vede come punto di partenza per i propri interventi artistici “i luoghi, visitati e vissuti, la loro storia, le persone che vi abitano o vi hanno abitato, le esperienze ad essi legate”8. Nel 2016 il gruppo matura assieme al Comune di Pontedera, il progetto City Colors Correction (fig. 9) che mira ad apportare delle ‘correzioni’ alle imperfezioni della città e che successivamente si evolve in Tuscany’s Urban Color Correction, un progetto regionale che interviene in quei contesti degradati per migliorarne la percezione visiva ed affettiva del luogo. I progetti di Elektro Domestik Force sono caratterizzati da una continua volontà di interazione tra gli artisti e gli abitanti per la realizzazione delle opere, tramite occasioni di incontro, dialogo e collaborazione, per-

mettendo all’aspetto creativo di fondersi con le esigenze di questi ultimi. Proprio per tale motivo, il gruppo artistico definisce la propria arte, Arte Sociale, ovvero “una forma espressiva di riqualificazione di un ambiente pubblico o privato e nasce per creare armonia e bellezza laddove la trascuratezza della società abbonda” (Elektro Domestik Force, 2018). Le opere devono saper comunicare, riportare la storia locale, essere frutto dell’interazione tra artisti e abitanti in modo che questi ultimi riescano a riconoscersi all’interno di esse. Nico “Lopez” Bruchi, Direttore Artistico del gruppo, afferma a seguito delle varie esperienze maturate, che gli interventi stimolano l’abitante ad attuare delle piccole pratiche di auto-generazione di questi luoghi.

Un caso differente è il MAUA-Museo di Arte Urbana Aumentata, nato grazie al Bando delle Periferie promosso dal Comune di Milano, che consiste in una galleria a cielo aperto posta nella periferia di Milano, dove 50 opere di Street Art già esistenti vengono selezionate dagli abitanti del quartiere e trovano una propria elaborazione anche in formato digitale consultabile tramite la app Bepart. Il progetto si presenta debole, risultato di una ‘accozzaglia’ di opere che non mostrano un carattere organico, non rispondono a una tematica e non sono state realizzate per l’occasione; inoltre la loro distanza reciproca non permette una buona accessibilità e fruibilità, caratteristiche che invece un museo dovrebbe avere.


Fig.8 “Ael. Tutt’egual song’e criature” di Jorit, Parco dei Murales, quartiere Ponticelli, Napoli. Foto di INWARD

Conclusioni I progetti analizzati dimostrano come la Street Art giochi un ruolo rilevante nel coinvolgimento della comunità e nel rafforzamento dell’identità locale, in quanto diventa un luogo di incontro tra lo spazio urbano e i cittadini, permettendo loro di essere produttori dei propri luoghi e di ricucire il loro legame con il territorio. Lo spazio torna ad essere prodotto socialmente, l’abitante ne abbraccia le tre dimensioni riuscendo a percepirlo, pensarlo e viverlo9 (Lefebvre, 2018). Si assiste quindi a una riaffermazione del diritto alla città (Lefebvre, 1970), a una riappropriazione dei tempi e degli spazi urbani dove il singolo, la comunità, contribuisce ai processi di trasformazione della città. Inoltre si assiste al fenomeno delle Broken Windows (Wil-

son & Kelling, 1982) ma invertito, dove l’intervento di arte urbana stimola il cittadino a prendersi maggiormente cura dei propri luoghi e ad attuare delle azioni di auto-rigenerazione. Le esperienze analizzate dimostrano che il valore sociale dell’arte urbana è maggiormente riconosciuto laddove i progetti sono bottom-up, ovvero quando nascono cioè assieme alla comunità e trattano di tematiche che raccontano la storia del luogo e la sua identità. La Street Art riesce inoltre a dialogare con la sfera urbana, in quanto crea una relazione profonda con il contesto che la ospita, sfruttandone le potenzialità formali, inserendosi in quelle configurazioni spaziali, in quei pattern10 (Alexander, Silverstein, & Ishikawa, 1977) che compongono la

città, andando spesso a correggerne e a rafforzarne i punti deboli, come le facciate vuote che prospettano sulle strade, o a sottolinearne gli spazi pubblici (fig. 10). Un elemento da sottolineare è che tali opere sono spesso portatrici di colore, riescono a modificare la percezione degli spazi su cui incidono in quanto il colore stesso influenza l’emotività e la psiche dell’uomo. Molto spesso accade che proprio il colore diventa l’elemento che caratterizza e identifica gli spazi urbani; basti pensare alle città come Burano, Willemstad, il quartiere di Balat ad Istanbul o di La Boca di Maracaibo. Il paesaggio risulta trasformato, le opere artistiche assumono il ruolo di riferimenti all’interno della città, riferimenti che, secondo le teorie di Lynch, van-

no a comporre assieme ai nodi, i percorsi, margini e quartieri, l’immagine ambientale, accrescendo inoltre la figurabilità11 dei luoghi (Lynch, 2006). Viste le potenzialità, gli effetti e il continuo dialogo che la Street Art dimostra all’interno della dimensione urbana, sociale, culturale, economica, la pianificazione potrebbe aprirsi nei suoi confronti e inserirla nella propria disciplina, ad esempio nei progetti di rigenerazione urbana. A tale scopo si propongono dei ‘consigli per l’uso’ volti a favorire questo dialogo tra i due mondi.Innanzitutto occorre individuare un’area d’intervento ben definita in modo da conferire al progetto urbanistico, e di conseguenza al progetto artistico, una maggior forza e fruibilità. Successivamente è necessario redige-


Fig.9 Un’opera del City Colors Correction al Villaggio Piaggio di Pontedera al momento dell’inaugurazione. Foto di Andrea D’Antoni

re un Quadro Conoscitivo all’interno del quale inserire tre tipologie di analisi: la prima riguarda il tessuto urbano, dove si analizza la struttura, gli elementi fondativi, le configurazioni spaziali del luogo individuando le criticità e potenzialità da affrontare in fase progettuale. In questa analisi è importante capire anche la dislocazione delle funzioni e dei servizi urbani e censire tutte le superfici che possono ospitare le opere artistiche così da avere un’immagine più nitida delle potenzialità dei luoghi. Gli incontri partecipativi, le interviste e i sopralluoghi sul territorio contribuiscono all’analisi del tessuto sociale, individuando le caratteristiche della popolazione, la presenza di luoghi più o meno importanti per la collettività, criticità ed esigenze, e l’ana-

lisi sulla storia e l’identità del locale, cercando di capire cosa può rafforzare quest’ultima ed elencando, assieme agli abitanti, una serie di tematiche da rappresentare nelle opere artistiche. Gli incontri partecipativi dovranno affiancare la fase progettuale, chiamando gli abitanti a collaborare alla redazione del progetto, creando un’occasione di dialogo tra questi, l’amministrazione e gli artisti, al fine di tutelare gli interessi delle singole parti. Sarà necessario delineare degli obiettivi e delle strategie, redigere un programma ben strutturato capace di rispondere alle problematiche locali. Il progetto urbanistico dovrà prevedere di riqualificare o progettare spazi pubblici in quanto l’abitante ha bisogno di avere luo-

ghi qualificati di simultaneità e d’incontro (Lefebvre, 1970, p. 121), inserendo le opere del progetto artistico all’interno delle configurazioni urbane, opere che assumeranno il ruolo di riferimenti nella città aumentandone la figurabilità. Il progetto artistico dovrà raccontare le tematiche scelte assieme agli abitanti riguardo l’identità e la storia del luogo, al fine di rafforzare l’identità locale e la comunità e aiutare gli abitanti a riconoscersi nei propri luoghi. Un problema che potrebbe emergere dopo il passare degli anni è il deterioramento delle opere artistiche. Si propone quindi una soluzione ripresa dalle esperienze analizzate precedentemente, ovvero quella di affiancarsi alle associazioni di quartiere per realizzare un Festival artistico

periodico che preveda il rinnovamento delle superfici dipinte e la creazione di nuove opere, generando anche possibili nuovi flussi attrattivi capaci di apportare esternalità positive sia in ambito economico che sociale. Se l’urbanistica si avvalesse della Street Art in modo consapevole, risponderebbe all’esigenza degli abitanti di tornare ad essere produttori dei propri luoghi e al contempo la città si trasformerebbe in un laboratorio artistico permanente all’interno del quale gli abitanti stessi riuscirebbero a riconoscersi.

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Fig.10 Schema delle configurazioni urbane con l’inserimento delle opere di Street art.


Note

Bibliografia

1 Linea metropolitana che serve la città di New York 2 Urban Barriera: Report 2011-2015, 16 Dicembre, 2016 (op. cit. p 38) 3 Il Comitato Urban è uno strumento creato dalla Città di Torino per coordinare e seguire in ogni tappa l’evoluzione dei progetti inclusi nel programma, affiancando tutte le fasi della redazione e realizzazione del programma e istituendo un rapporto partecipativo con la collettività. 4 Laboratorio di design di Palermo volto a trasformare la città e a migliorare l’esperienza dei cittadini 5 Tratto da http://borgovecchiofactory.tumblr.com/streetartfactory (ultimo accesso 06/09/2018) 6 Il quartiere ospita negli anni ’90 i processi legati alla criminalità organizzata, portando a una continua militarizzazione del quartiere e all’abbandono delle attività commerciali. 7 Quartiere di Napoli nato negli anni ‘80 da una pianificazione poco controllata che porta al sorgere di agglomerati e complessi di edifici, ‘parchi’ appunto, privi di una struttura urbana; presenta numerose criticità socio-economiche, quali ad esempio l’alta disoccupazione e l’alto tasso di dispersione scolastica. 8 Tratto da http://www.edfcrew.com (ultimo accesso 08/09/2018) 9 Nel libro La produzione dello spazio (1974), il sociologo Lefebvre afferma che lo spazio sociale si può suddividere in tre dimensioni, ovvero la pratica spaziale, le rappresentazioni dello spazio e gli spazi di rappresentazione, cui corrispondono lo spazio percepito, lo spazio pensato e lo spazio vissuto. 10 Il saggio A Pattern Language: Towns, Buildings Construction, scritto nel 1977 da C. Alexander, S. Ishikawa e M. Silverstein, affronta un nuovo modo di rivolgersi all’architettura e alla pianificazione. Nel testo viene definito scientificamente il pattern, ovvero una regola che governa una parte funzionante di un sistema più complesso. Il pattern è un archetipo, è la soluzione di un problema rilevante che si presenta nell’habitat. Un insieme di pattern costituisce una struttura che assume la valenza di una lingua per conoscere l’ambiente. Tale struttura è patrimonio comune delle persone che la condividono in quanto condividono i pattern. 11 Il concetto di figurabilità enunciato da Lynch nel testo L’immagine della città consiste in quella qualità intrinseca nella forma, colore o disposizione di un oggetto fisico che aiutano la formazione di immagini ambientali vigorose, ben strutturate e funzionali. Una città altamente figurabile risulta essere ben conformata e distinta.

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Un progetto integrato per la riqualificazione della città marocchina contemporanea: il caso di Sefrou Omobolanle Adebajo Chiara Tanturli

Introduzione L’approccio allo studio di un altro Paese è tanto affascinante quanto complesso. La ricerca dei dati, sia cartografici che bibliografici, non sempre porta ai risultati sperati, bisogna cambiare le strategie lungo il percorso. Inoltre, non è semplice applicare una metodologia solitamente utilizzata all’interno della Regione Toscana ad un paese diverso, sotto vari aspetti. Il rischio maggiore è quello di ricadere in delle soluzioni banali in ambito progettuale o di tralasciare aspetti culturali importanti. Quando abbiamo scelto di occuparci della città di Sefrou non avevamo alcuna conoscenza a riguardo. Iniziando a leggere rari testi che la citavano abbiamo capito che questa piccola città aveva delle grandi potenzialità e dei caratteri del patrimonio architettonico e ambientale di grande valore. Non avendo molto materiale fotografico recente a disposizione, né informazioni esaurienti che ci permettessero di comprendere lo stato di conservazione della città, abbiamo ritenuto di recarci sul posto ai primi di giugno 2018. Inizialmente la tesi si sarebbe dovuta occupare soltanto della creazione del database cartografico e della realizzazione delle carte di analisi. Una volta che abbiamo visitato la città ci siamo rese conto che avremmo do-

vuto tracciare perlomeno delle linee guida di indirizzo per la risoluzione di alcuni problemi urbani. Approfondendo sempre più gli aspetti critici della città ci siamo accorte che erano presenti un gran numero di aree vuote esito di crolli (spontanei o programmati) o residuali dalla costruzione di nuovi quartieri residenziali. Seppur connotate da un alto tasso di degrado, tali aree possono costituire una rete di potenziali spazi funzionali che ricuciono pezzi frammentati di urbanizzato ridando una struttura complessiva alla città. Il progetto integrato che costituisce l’intento del lavoro nasce da uno sforzo di descrizione e di interpretazione della città oggetto di studio. Tutti i fattori locali come il sistema insediativo, ambientale e socioeconomico diventano indicatori con cui poter individuare delle aree che presentano delle caratteristiche morfologiche comuni, dei parametri da seguire per creare una tassonomia interpretativa per la realizzazione del progetto. Quadro metodologico di riferimento Secondo l’approccio territorialista, da noi adottato nello svolgimento della tesi, il territorio va considerato nella sua interezza, senza sepa-

rare l’antropico dal naturale, ma cercando di capire le relazioni tra queste due dimensioni così vicine e ricche di interazioni reciproche. Solitamente l’analisi di un qualunque territorio non può prescindere dallo studio dell’evoluzione storica dei suoi sistemi insediativi. Questo viene fatto confrontando cartografie storiche di età diverse, così da comprendere la dinamica insediativa di un luogo. Oltre alla mera datazione, questa prima analisi ci permette anche di conoscere quali tipi di modelli insediativi si sono susseguiti nel tempo, come sono cambiati i materiali utilizzati e le tipologie abitative. Queste sono il riflesso dell’evoluzione di una società, dei suoi bisogni, ma ci permettono anche di comprendere meglio quali sono ritenuti i luoghi più sicuri per un insediamento: per esempio a Sefrou gli insediamenti più antichi sono rimasti intatti anche dopo eventi calamitosi di natura eccezionale (come l’alluvione del 1950). È importante comprendere dalle carte anche come è cambiato il territorio agricolo circostante. Questo aspetto aiuta spesso a capire l’economia tradizionale del luogo e le sue dinamiche evolutive. L’altra carta fondamentale del nostro percorso di studi è quella del patrimonio territoriale.

Corso di Laurea Triennale in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio Relatore: Prof. Maria Rita Gisotti Co-relatore: Prof. Massimo Carta Dicembre 2018

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Questa carta può essere considerata sia come un elaborato di analisi che di sintesi, la cui redazione è un’operazione complessa, poiché non esiste un metodo unico per realizzarla o un solo parametro da evidenziare. In generale la carta del patrimonio serve a far emergere la struttura resistente del territorio descritta da Alberto Magnaghi come insieme di tutti quegli elementi che creano l’identità di un territorio, il cui valore viene riconosciuto dai propri abitanti e non. Tali elementi possono avere un carattere agricolo o architettonico, possono essere anche degli aspetti culturali o tradizionali. Per condurre la fase di analisi ci siamo concentrate anche sul tessuto urbano, tema ampiamente descritto da Christopher Alexander e da Saverio Muratori, con ottiche e concezioni diverse. Abbiamo deciso di individuare, all’interno della città, delle aree che ci apparivano accomunate da proporzioni uguali tra pieni e vuoti, o da comuni tipi edilizi, materiali utilizzati, disposizione degli edifici. Questa parte è stata particolarmente complessa. Abbiamo creato delle schede in cui inserire delle descrizioni delle varie aree, riguardo la viabilità, gli edifici, la morfologia, i materiali e lo stato di conservazione nonché una lista di elementi patrimoniali e di criticità. Per compiere l’analisi della struttura urbana non è stato facile distaccarsi dalla nostra concezione europea di città, che ci spingeva a continui rimandi con le città che conosciamo meglio. Lo sforzo è stato quello di cercare di essere più oggettive possibile nel descrivere la città per come è, appoggiandoci agli studi morfotipologici della città araba svolti da Stefano Bianca (2000), tra i più autorevoli nella letteratura disciplinare contemporanea. Un aspetto corposo e tra i più impegnativi del lavoro di redazione del-

la tesi è stato dalla creazione dei database cartografici. L’Agence Urbaine de Fès ci aveva fornito 20 fogli in scala 1:2000 in formato DWG creati nel 2013. Abbiamo inizialmente visto che questi fogli ricoprivano l’intera area urbana di Sefrou e parzialmente gli spazi agricoli circostanti, quindi avevamo già una base da cui partire. Bisogna specificare che non era la prima volta che utilizzavamo queste elaborazioni: infatti, durante il tirocinio svolto presso il laboratorio di cartografia del DIDA (nel 2017), avevamo già sperimentato la tecnica per la creazione di un database in scala 1: 2000 della città di Fès. Di questa avevamo una copertura molto frammentata che non riusciva a dare una visione d’insieme. Abbiamo quindi applicato per la tesi una metodologia che già avevamo utilizzato durante il tirocinio, (Adebajo, Gullì, & Tanturli, 2018) questa volta per creare una copertura cartografica completa della città. Inizialmente abbiamo cercato di capire quali dati vi fossero riportati, in seguito abbiamo esportato i files in un formato a noi più congeniale: lo shapefile, modificabile su Qgis (nel corso della triennale abbiamo imparato a digitalizzare e modificare i dati vettoriali in questo formato, è questa la motivazione della scelta fatta). La fase successiva è consistita nell’organizzazione di queste informazioni all’interno di un sistema di cartelle tipo matrioska, in cui si partiva da una dicitura generale per entrare sempre più nel dettaglio in base al tipo di informazioni in nostro possesso. Questo modello organizzativo è stato ripreso da quello del SIT della Regione Toscana. L’ultima fase è consistita nella risoluzione di problemi delle geometrie, soprattutto quelle inerenti alla viabilità (che abbiamo deciso di ridisegnare per intero) e in parte quelle relati-

ve all’uso del suolo, che andava aggiornato in base alle foto satellitari del 2018. Di conseguenza sono stati inseriti molti altri dati (come i volumi degli edifici), da cui si deduce che la città è ancora oggi in espansione. Il risultato di questo lavoro è stato la creazione di 20 database in scala 1:2000. Per la rappresentazione cartografica era impossibile gestirli tutti contemporaneamente, anche perché contenevano delle informazioni fin troppo dettagliate per via della scala di realizzazione. Al fine di sviluppare le nostre tavole di analisi, abbiamo deciso di raggruppare, con un’operazione di unione, le informazioni comuni a tutti i database in scala 1:2000 unendoli così da creare una rappresentazione unica in scala 1:10000. I dati sono stati poi organizzati sul modello del SIT di Regione Toscana in base alla geometria con cui venivano rappresentati: il punto, la linea ed il poligono. Arrivati a questo punto è stato possibile realizzare le numerose carte della nostra tesi. Inquadramento del caso studio Il nostro caso studio è la città di Sefrou, situata all’interno della regione di Fès-Meknès, nella regione del medio Atlante ad una quota di 850 mt. Oggi conta una popolazione di 80 mila persone. La città è composta da diversi quartieri: la Medina e la Qalaa, considerati i nuclei fondativi e ancora oggi circondati da mura. La Mellah, a sud del fiume Aggai, la Ville nouvelle, la Nuova Medina e altri quartieri di costruzione più recente. Sefrou è considerata una delle più antiche città marocchine, le prime tracce dell’insediamento berbero fortificato risalgono al VII sec. Questo era già composto da due nuclei distinti: la Medina e la Qalaa, esito della costruzione da parte di due diverse tribù. Vista la posizione lungo una via caro-

vaniera, questa piccola città diventa un centro di scambi commerciali. Intorno al XV secolo a seguito della diaspora spagnola, inizia a costituirsi una cospicuo nucleo ebraico che costruirà la propria Mellah e crescerà fino alla seconda metà del Novecento. Le prime testimonianze cartografiche si hanno all’arrivo dei francesi all’inizio del Novecento. Questi redigono alcune cartografie della città, ma realizzano anche dei piani in cui individuano le prime aree di espansione fuori dalle mura. Durante il protettorato viene costruito un accampamento militare poi fortificato (Fort Prioux), e nuovi quartieri destinati sia ai coloni che agli abitanti della città. La città conosce una crescita significativa a seguito della fine del protettorato nel 1956. Confrontando le varie cartografie e foto aeree fino ad arrivare ad oggi, abbiamo osservato una costante crescita della città che si sta espandendo fino alla collina sovrastante e verso sud (Gharbi, 2005). Sefrou è inoltre conosciuta come città della ciliegia da cui si può facilmente intuire la sua forte vocazione agricola. La sua caratteristica principale è quella di essere circondata da una fitta maglia di orti che creano una green-belt articolata e ben manutenuta. L’origine di queste coltivazioni è antica, una testimonianza certa che abbiamo riscontrato si trova in una carta redatta dai militari francesi negli anni Venti del ‘900. Anche se in modo molto semplificato, venivano rappresentate la Medina e la Qalaa circondate dalla parola jardins. La vigorosità della natura che circonda Sefrou è visibile anche nei boschi di conifere che si trovano a sud della città, e nelle numerose coltivazioni di olivo che caratterizzano i paesaggi circostanti.


181 Fig. 1 La crescita urbana (tav.3)


Fig. 2 Le funzioni urbane (tav.2)

Questa area è molto ricca di acqua, il fiume Aggai attraversa la città da nord-est ad ovest e dal corso principale sono stati creati una serie di canali che irrigano il territorio circostante. È questo il motivo per cui, guardando le foto aeree, si può notare la differenza del verde rigoglioso che circonda la città, rispetto alle aree più aride che caratterizzano il restante altopiano. Durante il protettorato era stata costruita una centrale idroelettrica che sfruttava l’energia del fiume per fornire elettricità alla città, questa è in funzione ancora oggi. Lungo le sponde del fiume, nel tratto di cit-

tà che separa la Medina dalla Qalaa, si trova un parco molto frequentato, in cui è possibile giocare anche all’interno del letto fluviale durante i periodi di secca. Oltre all’agricoltura, un’attività economica molto diffusa è quella estrattiva. Nell’area a sud-ovest della città troviamo ampie superfici utilizzate come cave attive o dismesse. Queste sono ben visibili dalla parte più alta della città poiché sono state realizzate sulle colline che circondano Sefrou. Sefrou è ancora oggi una cittadina vivace, come si può vedere camminando per i suk.

I suk sono gli elementi strutturantdella Medina, le vie commerciali solitamente coperte da tende o da reticoli di legno che creano ombra, in cui vengono esposte le merci. Una sorta di mercato diffuso all’interno della città diviso in settori, in ognuno dei quali viene venduto un genere diverso. All’interno della Medina troviamo la testimonianza, seppur in condizioni di degrado, del fondouk. Questo particolare edificio (conosciuto anche come caravanserraglio o fondò) è la testimonianza della presenza di mercanti e carovane. In questo luogo era possibile fermar-

si a mangiare e rimanere anche per la notte. Al piano terra si trovavano dei magazzini in cui i viandanti potevano lasciare le proprie merci e legare i propri animali nel chiostro interno. Anticamente i suk e i fondouk erano gli elementi originatori della Medina, da cui si articolavano le strade secondarie che portano all’ingresso delle varie abitazioni. Quest’ultime non si affacciano mai sulla via principale, rimangono alle spalle dei suk. Altre due funzioni che troviamo all’interno di ogni quartiere sono i forni, gli hammām e le moschee. I luoghi di culto si trovano generalmente al ter-


183 Fig. 3 Il patrimonio territoriale (tav.6)


Fig. 4 Ipotesi di trasformazione puntuale (tav.8)

mine delle strade principali o all’incrocio di esse. Difronte ai loro ingressi troviamo gli unici spazi più ampi per permettere la fruizione da parte degli abitanti. Non è sempre facile individuare le moschee camminando dentro le strade labirintiche della Medina, queste tendono a mimetizzarsi con le altre abitazioni vicine poiché hanno delle facciate molto sobrie spesso prive di aperture. L’elemento che più le rende individuabili è il minareto, un’alta torre solitamente colorata (Bianca, 2000). A sud del fiume Aggai si trova la Mellah. Prima di essere abbando-

nato dalla comunità ebraica questo quartiere ospitava tre sinagoghe e una prestigiosa scuola ebraica (Michels, 1973). In seguito alla mancata manutenzione il quartiere, che era già molto denso, ha visto un gran numero di crolli di abitazioni. La municipalità di Sefrou è quindi intervenuta demolendo gli edifici pericolanti. Oggi queste aree, alcune delle quali molto ampie, sono state lasciate a sé stesse, con macerie non rimosse e scheletri di edifici ancora ben visibili. Dal punto di vista delle funzioni urbane, questa piccola città è dotata

di molti servizi: ospedali, macelli, scuole di vario ordine e grado, uffici pubblici, prefettura e vigili del fuoco. Durante la fase di forte crescita urbana, sono stati creati nuovi servizi non lasciandoli concentrati in un unico quartiere centrale. Quello che si nota è una rete di servizi diffusa in tutti i quartieri, così come anche la presenza di molte aree verdi progettate o meno. La pianificazione marocchina è in forte fermento negli ultimi anni, da quando il Re Mohammed VI ha iniziato una fase di riqualificazione delle città con la volontà di diminuire le disparità tra i

vari centri e tra i cittadini. All’interno della pianificazione regionale, rientrano delle analisi e direttive specifiche anche per la città di Sefrou. Nel 2016 è stato emanato lo SDAU du Grand Fès (Schéma Directeur d’Aménagement Urbain de Fès, rapport final, 2016). Strumento urbanistico che riguarda anche la città di Sefrou. Questo piano è composto da una parte di analisi e da una parte che contiene linee guida. Vengono individuate le potenzialità e le minacce che ricadono in ambito urbano e rurale, e vengono date delle soluzioni progettuali.


Tra tutte l’attenzione si è soffermata sulla Medina, di cui è stata fatta un’analisi dello stato di salute e sono stati mappati gli edifici crollati o pericolanti. Lo SDAU si occupa anche della riqualificazione di alcune aree abbandonate o da bonificare (la discarica satura) e anche dell’ampliamento della viabilità. Insomma, il piano dà la possibilità di apportare notevoli cambiamenti alla città, per migliorare la vita dei suoi abitanti. Una proposta interpretativa e progettuale La città di Sefrou è collocata in un’area agro-paesaggistica di pregio, in cui si alternano coltivazioni di olivo a frutteti, generalmente ciliegi. L’aspetto di maggior pregio è costituito dall’oasi agricola che delimita la città. I margini degli appezzamenti di terreno orditi da filari di alberi e siepi creano una fitta rete ecologica che sembra intarsiare il terreno. Il fiume Aggai costituisce un altro elemento fondamentale per la città in quanto principale fonte di approvvigionamento di acqua ed energia. Ad est del fiume troviamo il parco urbano, ad oggi molto frequentato dagli abitanti, che necessita di piccoli interventi di messa in sicurezza in caso di esondazioni. Per quanto riguarda il sistema insediativo, i nuclei storici della Medina e della Qalaa insieme alla Ville Nouvelle di epoca coloniale e al quartiere della Nuova Medina sono riconosciuti come valore aggiunto per la città e di alto valore patrimoniale. Tuttavia, questi stessi elementi riconosciti come elementi patrimoniali, ad oggi presentano alcuni aspetti critici. Il fiume Aggai, di grande valore paesaggistico, risulta fortemente inquinato. Anche lo stato manutentivo degli argini è molto carente. All’interno della Medina la scarsa manutenzione degli edifici, sia pub-

blici che privati, ha generato uno stato di degrado diffuso in tutto il quartiere. Sono presenti molte aree frutto dei crolli spontanei e delle demolizioni controllate come il grande vuoto all’interno della Mellah. Nei quartieri più nuovi, che sono ancora in fase di completamento, si può notare la scarsa qualità dei materiali usati, la mancanza di un servizio efficiente di trasporto pubblico che permetta il collegamento e la presenza di aree residuali senza una vera funzione. Ogni città è caratterizzata da un proprio assetto urbano che la rende unica e riconoscibile, anche in virtù dell’interpretazione insediativa del contesto fisico. Le analisi effettuate vengono restituite tramite la creazione di un abaco dei tessuti, in cui i criteri adottati per la classificazione sono stati: la disposizione e conformazione degli edifici, la densità edilizia, la natura e conformazione delle strade, gli spazi aperti pubblici e privati. Per ogni tessuto individuato abbiamo previsto le seguenti azioni:

moderna, rispettando l’uniformità dei tessuti e le tipologie edilizie originarie e riconoscibili. Spazi pubblici • Valorizzazione delle aree libere lungo il fiume con nuove funzioni per la fruizione pubblica. • Manutenzione e riqualificazione, ove necessario, della pavimentazione della Medina. • Riqualificazione delle aree che sono esito di crolli o demolizioni con nuove attività e strutture in linea con le esigenze degli abitanti: inserimento di mercati, aree verdi, aree di socializzazione. • Riqualificazione e valorizzazione del sistema delle fontane pubbliche. • Connessione del nucleo della Qalaa alla Medina attraverso il parco urbano con l’inserimento di una pista ciclopedonale alberata. LA NUOVA MEDINA Edifici

Edifici • Manutenzione e ristrutturazione delle abitazioni che versano in condizione precaria. • Tutela degli edifici pubblici di pregio presenti all’interno del nucleo (moschee, hammam, scuole, Fondouk). • Riqualificazione del lavatoio integrato al contesto con lo studio di un piano unitario per gli arredi urbani. • In caso di ristrutturazione di edifici all’interno della Medina, utilizzo di materiali e tecniche tradizionali (terra cruda e legno). • Limitazione degli episodi di sopraelevazione dell’edilizia storica e

Edifici • In caso di ristrutturazione e restauro si consiglia l’utilizzo di materiali congrui con il tipo di edificio, che rimandino agli elementi presenti in precedenza. Spazi pubblici

• Inserimento di nuove aree destinate a parcheggi in alcune aree residuali. • Percorsi ciclopedonali che riconnettano la città di nuova espansione al nucleo storico e ad altri tessuti. • Possibilità di intraprendere operazioni di street art per la valorizzazione del quartiere. • Controllata espansione della città e completamento dei lotti già tracciati. • Riqualificazione delle aree residuali: inserimento di attrezzature pubbliche, aree gioco per bambini situate in corrispondenza di attrezzature sportive esistenti.

• Manutenzione dell’edificato tradizionale all’interno del quartiere.

LA CITTA’ STORICA

ESPANSIONE RECENTE

INSEDIAMENTO INFORMALE

• Nel caso di rifacimento del tetto si consiglia l’utilizzo del tetto a terrazza, coerente con le tipologie tradizionali del tessuto. Spazi pubblici

• Manutenzione e valorizzazione degli spazi pubblici esistenti. LA VILLE NOUVELLE

Edifici

• Manutenzione e miglioramento statico, energetico ed igienico degli edifici. • Tutela dell’edificato da eventuali rischi idrogeologici. • Demolizione e riallocazione degli abitanti nelle situazioni più critiche di sicurezza idrogeologica.

• Tutela e manutenzione dell’edili- Spazi pubblici zia risalente all’epoca coloniale. • Riconnessione e integrazione con la città. • In caso di ristrutturazione o sostituzione di infissi e finiture, utilizzo • Inserimento di servizi e attrezzadi materiali ed elementi architettonici simili a quelli esistenti. • Evitare l’aggiunta di superfetazioni all’interno dello spazio aperto di pertinenza delle ville.

ture a uso collettivo.

• Rafforzamento della viabilità esistente. Altre componenti rilevanti nella nostra analisi ri-

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guardano il fiume Aggai, elemento strutturante della città, ed il contesto agricolo che si inserisce all’interno della città. Per questi due tessuti abbiamo previsto le seguenti azioni: ASTA FLUVIALE • Bonifica del letto fluviale. • Riqualificazione paesaggistica e ambientale delle aree adiacenti. • Riconnessione mediante il parco urbano offrendo delle passeggiate, aree di sosta e piste ciclabili. • Manutenzione e controllo degli argini, con conseguente taglio della vegetazione in eccesso. • Adozione di misure di prevenzione e sanzionamento dello sversamento di liquami e rifiuti nel letto fluviale. SISTEMA AGROFORESTALE

• Salvaguardia delle aree agricole intercluse nella città e divieto di edificazione all’interno delle suddette aree. • Mantenimento dell’uso agricolo dei suoli possibilmente incenti-

vando filiere locali.

te sfruttate per le esigenze di chi

saggio, da utilizzare come elementi

• Creazione di reti ecologiche poli- vi abita. Il progetto di tesi pur vo- di valorizzazione territoriale, sia alla valenti che colleghino le aree verdi urbane con l’area rurale circostante. • Le cave oggi dismesse si trovano vicine alla città e potrebbero essere bonificate per creare nuovi spazi pubblici, o rivegetate per mitigare l’impatto visivo. La nostra ipotesi di trasformazione puntuale prende in considerazione tre aree: • Gli spazi pubblici all’interno della Medina • Il parco fluviale elemento di riconnessione tra la Medina e la Qalaa. • Le aree residuali sparse all’interno della città. La scelta di analizzare questi tre temi è una conseguenza scaturita dalle numerose problematiche individuate nella classificazione dei tessuti e successivamente dall’individuazione delle minacce. Il progetto si concentra su delle aree da rivalorizzare ma non adeguatamen-

lendo mantenere un’immagine unica, si propone di riprendere ed interpretare la Medina araba in tutte le sue sfaccettature, con l’obbiettivo di proporre uno spazio polifunzionale che riesca a rappresentare la cultura marocchina e le esigenze dei suoi abitanti con l’inserimento di mercati e pocket park lungo il fiume. La riqualificazione del parco fluviale consiste nel rendere più accessibile le aree adiacenti al fiume Aggai, con aree relax e un percorso di collegamento tra i due nuclei storici. Dalle analisi svolte, abbiamo notato la presenza di numerose aree residuali, ovvero spazi situati all’interno dei tessuti urbani con funzioni indefinite, lasciate abbandonate. Questi spazi possono rappresentare un’occasione anche per ridare forma ai sistemi insediativi, per riconnetterli e riqualificare il tessuto urbano in cui sono collocati. Le analisi svolte hanno portato sia alla definizione dei caratteri principali del pae-

valutazione dei suoi elementi di criticità. Lo scenario auspicato per Sefrou è quello di una città polifunzionale, che offre servizi al cittadino, che è manutenuta dalla collettività stessa, che si ricrea anche grazie alle azioni di cura che vi si svolgono. Il paesaggio diviene così uno spazio pubblico e un bene comune da preservare, riconnettendo al tempo stesso le varie aree della città e riqualificando tramite azioni mirate le aree abbandonate e degradate.


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Fig.1 Inquadramento e analisi degli insediamenti produttivi presenti sul territorio


Rigenerazione urbana in contesti estremi. Una proposta per Taranto.

Paola Caramia

Introduzione “Taranto è una città perfetta. Viverci è come vivere nell’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari” (Pasolini, 1959). Così Pier Paolo Pasolini descriveva la città, esattamente un anno prima della posa della prima pietra per la costruzione dello stabilimento siderurgico. Nei primi anni ’60, nel pieno di una crisi occupazionale, fu avviata, in un’area a nord-ovest del centro storico, la realizzazione del più grande polo siderurgico italiano. Lo sviluppo industriale risollevò, almeno in una prima fase, l’economia locale, ma innescò un processo di cementificazione che ha avuto come effetto la devastazione del territorio tarantino, accompagnato dall’inquinamento del suolo e dell’aria, con conseguenze gravissime sulla salute umana (Taranto è la città italiana con il più alto tasso di persone affette da malattie neoplastiche), di alterazione delle caratteristiche ecologiche del Mar Piccolo e di degrado dei quartieri Tamburi e Porta Napoli a ridosso della zona industriale. Pensare d’intervenire ‘cancellando’ l’area industriale non appare una via praticabile. La tesi tenta quindi di esplorare strade diverse, compatibili sia con un’eventuale dismis-

sione futura degli impianti, sia con il loro mantenimento/riqualificazione. Gli interventi proposti si concentrano quindi sulle aree prossime allo stabilimento. L’obiettivo è quello di rigenerare gli spazi degradati, “ricucendo” i quartieri periferici con il resto della città attraverso interventi di riassetto fisico, bonifica ambientale e immissione di nuovi contenuti culturali e sociali. Inquadramento dell’area Taranto si estende per 249,86 km² su una fascia che abbraccia il golfo al centro dell’arco ionico tarantino. È nota come la ‘città dei due mari’ per la presenza del Mar Grande e del Mar Piccolo, considerabile come un mare interno, attorno ai quali si è sviluppato l’insediamento dando alla città una caratteristica forma ad imbuto. Il Mar Grande si congiunge con il Mar Piccolo in soli due punti, rappresentati dal canale naturale di Porta Napoli e dal canale artificiale navigabile che separa la città vecchia (costituente l’isola originaria) dal ‘borgo nuovo’, formato dalle espansioni urbane otto-novecentesche. Nella seconda metà dell’Ottocento, infatti, si ha la suddivisione di Taranto in due sobborghi: quello orientale e quello occidentale. Lo sviluppo industriale e la progressiva crescita de-

mografica hanno favorito lo spostamento di molti nuclei familiari dalla città vecchia verso le nuove abitazioni del Borgo Nuovo, determinando lo spopolamento dell’isola e una forte espansione delle periferie. Le infrastrutture viarie principali sono costituite dall’Autostrada A14 Bologna-Taranto e dalle Strade Statali n. 106 ‘Jonica’ Taranto-Reggio Calabria, n. 100 Taranto-Bari, n. 7 ‘Appia’ Matera-Taranto-Brindisi. I collegamenti ferroviari sono assicurati da Trenitalia mediante le linee Taranto-Bari, Taranto-Crotone e Taranto-Brindisi. A Taranto è presente uno dei porti industriali e commerciali più importanti del Mediterraneo ed è sede di un arsenale della Marina Militare, nonché della principale Stazione Navale d’Italia. Il porto mercantile, distribuito lungo il settore nord-occidentale del Mar Grande sulla costa settentrionale del golfo, è dotato di installazioni all’avanguardia e riveste un ruolo importante dal punto di vista commerciale. Inoltre, un impianto per il trasporto di petrolio greggio posto nel Mar Grande alimenta la raffineria Eni attraverso alcune condotte sottomarine. Infine, per quanto riguarda il trasporto aereo, la città è servita dall’aeroporto di Taranto-Grottaglie ‘Marcello Arlotta’,

Corso di Laurea Magistrale in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio Relatore: Prof. Francesco Alberti, Co-relatore: Prof.ssa Ginevra Virginia Lombardi Luglio 2018

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storicamente costruito per scopi militari, attualmente utilizzato solo per servizi cargo. La presenza dei due mari, la loro pescosità, l’acqua dolce delle sorgenti, il clima temperato, il terreno fertile dell’entroterra sono stati fonte di prosperità per Taranto dalle sue origini fino ad oggi. Importante centro di scambi commerciali durante la Magna Grecia, Taranto cominciò a sviluppare la sua economia grazie alla lavorazione del bisso e della porpora sulle coste del Mar Piccolo. La pesca e l’agricoltura sono state, e sono tuttora, le principali fonti di approvvigionamento della popolazione. Il mare di Taranto è molto pescoso, ma la produzione caratterizzante l’economia legata al mare è la mitilicoltura: Taranto rappresenta una delle maggiori aree di produzione di mitili allevati in Italia. Nascita, sviluppo e conseguenze dell’area industriale di taranto La città di Taranto è stata protagonista degli interventi per lo sviluppo industriale promossi dalla Cassa del Mezzogiorno. Il dibattito sulla localizzazione del centro siderurgico Italsider (oggi ILVA), iniziato alla fine degli anni ’50, ha tenuto conto di aspetti geografici e ambientali che hanno portato alla scelta di Taranto sulla base di alcune condizioni operative rilevanti: presenza di vaste aree pianeggianti vicine al mare, disponibilità di calcare, facile reperimento di manodopera qualificata e un buon ‘gioco dei venti’ in grado di attutire l’impatto dei fumi dell’acciaieria sulla città adiacente. La costruzione del Centro Siderurgico, conclusasi nel 1965, ha mutato repentinamente la fisionomia della città e del territorio circostante: per far posto all’impianto, infatti, furono abbattuti circa ventimila alberi d’ulivo e un numero imprecisato di masserie.

Il Piano di Sviluppo Industriale di Taranto redatto nel 1964 dalla società Tekne successivamente l’inizio dei lavori di costruzione dello stabilimento, è stato per il Mezzogiorno il primo piano di industrializzazione incentrato sull’insediamento di un grande polo unitario. Fra il centro siderurgico ed il porto industriale esso prevedeva la localizzazione di una serie di lotti per attività logistiche e produttive, serviti da nastri trasportatori, raccordi ferroviari, strade e un “parco” per piccole e medie aziende. Centrale, nel piano, il ruolo delle infrastrutture viarie, risolte con soluzioni ingegneristiche di grande impatto (svincoli a più livelli, viadotti) fortemente caratterizzanti il nuovo paesaggio industriale. Lo strumento definiva nel dettaglio tutti gli elementi di progetto, comprese le aree verdi ricreative e quelle destinate ad attrezzature sociali. Per quanto riguarda gli insediamenti produttivi e infrastrutturali, il Piano è stato fedelmente applicato; non si può dire lo stesso per gli elementi ricreativi e gli spazi verdi che sono stati inizialmente realizzati, per poi dare spazio allo sviluppo urbano e industriale, disattendendo le direttive tracciate. L’evoluzione di questo importante insediamento industriale rivela le dinamiche di lungo periodo del suo impatto sull’economia locale. I dati censuari portano, con l’avvio della produzione, a grandi cambiamenti, in particolare la riduzione della popolazione attiva in agricoltura e l’aumento di quella occupata nell’industria e nel terziario. L’Italsider nasce come un’industria di base nel settore siderurgico; si caratterizza per essere uno stabilimento a ciclo integrale, dalle materie prime al prodotto finito (laminati piatti a caldo e tubi saldati), passando attraverso altre produzioni come il coke, la ghisa e l’acciaio.

Comprende perciò impianti che vanno dalla siderurgia alla chimica ed alla meccanica. Alla fine degli anni ’70, grazie all’ampliamento dello stabilimento, è entrato in funzione un impianto di laminazione a freddo per la produzione di lamiere. L’intera attività industriale è stata concentrata in gran parte nella zona a nord della città, con la presenza non soltanto del siderurgico, ma anche dell’Arsenale Militare, della Shell (con tutto ciò che comporta di negativo sul piano ecologico l’insediamento di una azienda petrolchimica immediatamente a ridosso della città) e tutt’intorno il proliferare di impianti di medie dimensioni. Ad oggi, l’assetto industriale è composto dall’ILVA, dall’Eni Raffineria (ex Shell), dalla Vestas, specializzata nell’installazione e assistenza di parchi eolici, e da piccole imprese (fig. 1). Tale concentrazione industriale ha inciso negativamente sulla salute dei cittadini di Taranto, in particolar modo su coloro che risiedono nelle zone più prossime agli stabilimenti, che, da decenni, sono esposti ad elevate concentrazioni di PM10, PM2,5 e benzo(a)pirene. Gli impatti cumulativi sull’ambiente sono enormi; già nel 1991 il Ministero dell’Ambiente ha dichiarato “area ad elevato rischio ambientale” l’ambito territoriale comprendente i comuni di Taranto, Crispiano, Massafra, Montemesola e Statte, su cui risiede una popolazione di ca. 260.000 persone1. Dal 2006 al 2012, nel territorio tarantino sono stati registrati 21.313 nuovi casi di cancro, che è più frequente nei residenti di Taranto e Statte rispetto all’intera provincia. Lo studio della mortalità, l’analisi dei trend temporali e l’analisi dell’incidenza oncologica mostrano, in entrambi i sessi, picchi di malattia dovuti alle esposizioni ambientali del SIN (Sito di Interesse Nazionale, classificazione riferita ai

siti contaminati estesi dichiarati pericolosi dallo stato italiano e che necessitano di interventi di bonifica). Per quanto riguarda lo stato di qualità chimico delle acque, le analisi hanno fatto emergere presenza di inquinanti inorganici ed organici; nei suoli si trovano arsenico, ferro, benzo(a) pirene, PCB e berillio, mercurio, manganese, cromo totale, selenio, tallio, fluoruri, solfati, dicloropropano, 1,1-dicloroetilene, cromo esavalente e le diossine; i pozzi, Mar Piccolo e le falde profonde sono stati contaminati soprattutto dal piombo, rinvenuto in percentuali non fisiologiche anche nelle urine di molti tarantini2. In questa fase della vicenda ILVA, un tema si impone quindi con forza: le malattie e la sofferenza subite dalla popolazione, l’ingiustizia di situazioni in cui ci si ammala per lavoro, le paure degli operai e delle loro famiglie, insieme a quelle di tutti gli abitanti. Le storie sono amarissime: quelle degli operai coscienti che un giorno si sarebbero ammalati, quelle di ragazzi colpiti in giovane età e quelle di bambini che, quando non colpiti direttamente da terribili patologie, hanno perso i parenti. Analisi dell’area urbana di taranto In via propedeutica all’elaborazione di una strategia progettuale per la rigenerazione urbana della parte settentrionale di Taranto, sono stati effettuati approfondimenti analitici riguardanti l’evoluzione insediativa, le funzioni urbane e gli insediamenti produttivi, gli strumenti urbanistici, gli elementi patrimoniali e le criticità del territorio. Per quanto attiene l’uso del suolo il dato più eclatante è il forte squilibrio tra la superficie urbanizzata a destinazione industriale, che occupa il 36% del territorio comunale e quella a destinazione non industriale, pari al 23%.


Fig.2 Analisi del patrimonio territoriale

Il Piano Regolatore Generale vigente è stato adottato nel 1974. Dopo oltre 40 anni, la situazione urbanistica della città resta drammaticamente complessa e di difficile gestione. Il Piano aveva immaginato una città estensiva che abbracciasse ampie porzioni di territorio urbano da ovest a est della città consolidata, interessando anche le aree a ridosso del Mar Piccolo. Negli anni ’70 l’abusivismo edilizio ha invaso terreni agricoli e la fascia costiera, allargando a dismisura la città, che ancora oggi fatica a gestire i servizi e a mantenere decorosa la manutenzione delle

aree pubbliche e delle infrastrutture: servizi per altro sottodimensionati, visto che gli standard previsti nelle norme del PRG sono quasi del tutto rimasti sulla carta. L’espansione urbana avvenuta prevalentemente verso sud-est ha fatto sì che la maggior quantità di funzioni urbane si sviluppassero nel borgo nuovo, dove oggi si trovano un considerevole numero di complessi scolastici, servizi sociali, giuridici e religiosi, pari al 77% dei servizi presenti nell’intera città, contro solo l’11% dei quartieri a nord, in cui si trovano l’area industriale e le principali infrastruttu-

re; inoltre, le aree verdi del quartiere Tamburi (limitrofo all’ILVA), non sono più fruibili a causa del forte inquinamento del suolo provocato dalla vicinanza con le industrie. Una nuova visione della città sembra si stia affacciando negli ultimi anni, ne sono testimonianza la redazione del Documento Programmatico Preliminare (documento d’indirizzo politico necessario alla stesura del nuovo Piano Urbanistico Generale) e l’approvazione del Piano Paesaggistico Regionale nel 2015, che ha indicato nel recupero funzionale, architettonico ed ambientale il punto

di partenza di ogni azione sull’intero territorio. La rigenerazione urbana ed edilizia deve trovare declinazione pratica in interventi qualificanti e mirati, che tendano a creare “reazioni a catena” positive a partire dal recupero delle periferie e degli spazi pubblici degradati, dalla creazione intorno ai centri urbani di cinture verdi per contrastare l’inquinamento e dal riuso delle aree industriali dismesse per impianti energetici da fonti rinnovabili3. Un punto di forza da cui muovere è il ricchissimo patrimo191 nio territoriale presente.


Fig.3 Analisi delle criticità urbane e ambientali

Nonostante gli scempi e l’incuria, Taranto offre ancora oggi un paesaggio di straordinaria bellezza, contraddistinto da rilievi, tra i quali spiccano le gravine (incisioni erosive profonde con pareti verticali, scavate dalle acque meteoriche nella roccia calcarea), l’altopiano composto da pascoli e boschi, la piana agricola caratterizzata da oliveti, vigneti e agrumeti; un paesaggio arricchito dalla presenza di resti archeologici risalenti all’età greca e romana, come le colonne doriche, l’acquedotto romano, gli ipogei (costruzioni sotterranee ottenute dallo scavo del banco

calcarenitico utilizzate come abitazioni, luoghi di culto e ambienti produttivi), e dalle masserie, edifici rurali risalenti al XVI sec. (fig. 2). Tra gli elementi critici che caratterizzano in particolare i quartieri Tamburi e Porta Napoli, a nord della città, vi è la presenza diffusa di spazi abbandonati ed edifici fatiscenti, fonte di degrado e ricettacolo di criminalità e la carenza di aree verdi e spazi pubblici, oltre naturalmente alla vicinanza delle cave e dell’area industriale, che occupa una superficie di ca. 2000 ha. All’interno dello stabilimento ILVA, la zona di lavorazione a caldo (la più inquinan-

te) è ubicata nell’area più prossima al quartiere Tamburi: una scelta fatta a suo tempo per ridurre la lunghezza dei nastri trasportatori, che portano il materiale ferroso dalle banchine del porto ai “parchi minerari” dello stabilimento; così nelle giornate ventose, dai nastri e dai parchi minerari si alzano nuvole impalpabili di materiale ferroso che coprono la città e le acque, inquinando il territorio (fig. 3). La rigenerazione delle aree industriali in crisi – casi studio A latere delle indagini riferite all’area urbana di Taranto, è stata con-

dotta un’analisi di benchmarking relativa ad interventi internazionali di rigenerazione urbana e territoriale in contesti caratterizzati dalla presenza di grandi insediamenti industriali all’origine di situazioni di forte degrado ambientale. Il recupero del bacino del fiume Emscher nell’area mineraria della Ruhr (Germania) Si tratta della più grande operazione di bonifica ambientale mai realizzata in Europa, nell’area (ca. 3200 ha.) ricompresa nel territorio dei 17 comuni del Land Renania-Vestfa-


Fig.4 Linee guida strategiche per la rigenerazione urbana

lia già formanti il distretto estrattivo e siderurgico della Ruhr. Gli interventi principali, a partire da un primo programma decennale (1989-1999) coordinato dall’agenzia IBA (Internationale Bauaustellung) per conto del Land e degli enti locali, e proseguiti fino a oggi attraverso il coordinamento fra piani locali e programmazione regionale, hanno riguardato la formazione di un grande parco paesaggistico strutturato sulla valle del fiume Escher (per decenni utilizzato come collettore degli scarti di produzione), reso fruibile da itinerari ciclabili nel verde, e la riconversio-

ne dell’ingente patrimonio archeologico industriale in attrezzature pubbliche, centri di formazione e ricerca, strutture ricettive, ecc.. L’area degli impianti di produzione di energia nell’Alumnae Valley (USA) Nell’Alumnae Valley, a Wellesley, in Massachusetts, è stata rivitalizzata un’area di ca. 13,5 acri, che ha ospitato la centrale elettrica del college della città, la stazione industriale di pompaggio del gas naturale e, successivamente, un parcheggio. La bonifica del suolo contaminato ha comportato dapprima la rimozione del terreno più

inquinato, mentre quello meno contaminato è stato filtrato grazie all’azione fisica e chimica di alcune specie vegetali. L’area è stata riprogettata dallo studio Michael Van Valkenburg Associates, nel 1997, e trasformata in parco, con l’inclusione di zone umide per immagazzinare carbonio. Dal punto di vista paesaggistico i tumuli lungo i sentieri riproducono l’effetto scultoreo della terra durante lo scioglimento dei ghiacciai dell’Era Glaciale; nuovi percorsi ciclo-pedonali, inoltre, collegano il parco con la parte a nord comprendente il parcheggio, il campus e la hall.

La riconversione delle industrie siderurgiche di Pittsburgh (USA) Nel 1850 a Pittsburgh erano già attivi trenta impianti siderurgici. A causa dello sviluppo industriale, la città è stata a lungo tra le più inquinate al mondo. Negli anni ’70 - ’80 del ‘900 ha dovuto affrontare una profonda crisi del settore siderurgico, conseguente la chiusura di decine di fabbriche che ne ha determinato un forte spopolamento. A fine anni ’80 le aree abbandonate sono state oggetto di un piano di recupero che, grazie a in193 genti finanziamenti pub-


blici e privati, ha portato alla bonifica dei suoli e alla riconversione di alcune grandi fabbriche in strutture produttive e di ricerca, indirizzando la produzione verso i settori della robotica, dell’ingegneria biomedica e nucleare, in centri finanziari e di servizio. La rigenerazione del quartiere Abandoibarra a Bilbao (Spagna) Nel distretto di Abandoibarra a Bilbao, sede di industrie siderurgiche e cantieri navali, la crisi degli anni ‘70 determinò un profondo crollo industriale. Gli impianti chiusi e abbandonati davano un’immagine di forte degrado, produttivo, urbanistico ed ambientale. In questo contesto, a partire dal 1998 è stato elaborato, sotto la guida dell’Arch. Cesar Pelli, il piano di recupero del distretto, inserito nel generale ‘Piano Strategico di Rivitalizzazione della Bilbao Metropolitana’, che prevede la riqualificazione e lo sviluppo sostenibile della città, mediante il coordinamento di interventi di ristrutturazione urbanistica (nuove infrastrutture, riconversione delle aree industriali dismesse) ed economica (sviluppo del settore terziario e nuovo polo informatico). La bonifica dei siti inquinati, finanziata soprattutto dal settore pubblico, è stata il primo step, seguita da progetti di rigenerazione per la valorizzazione del fiume Nervion, lungo le cui sponde le aree dismesse sono state trasformate con l’inserimento di nuove attività, prevalentemente residenziali, direzionali, commerciali, ricreative e culturali (tra cui il museo Guggenheim di Frank Gehry, divenuto l’icona della nuova Bilbao). Uno scenario progettuale per Taranto Alla luce delle indagini di contesto effettuate sono stati individuati gli obiettivi guida da perseguire nella costruzione di uno scenario progettua-

le per Taranto volto a risolvere, attraverso un sistema coordinato di azioni multilivello, le criticità emerse. L’idea generale presuppone il recupero degli spazi inedificati e delle aree dismesse, assumendo la rigenerazione ecologica come matrice della riqualificazione urbana. La creazione di una rete ecologica a scala territoriale ha sia l’obiettivo di mitigare l’impatto ambientale delle fabbriche che quello di riqualificare il paesaggio della zona industriale. Le strategie di intervento comprendono inoltre: • la realizzazione di un polo formato da un campus della ricerca sui temi della sostenibilità che prevede il coinvolgimento come partner dell’ENI (già attiva nel settore della ricerca) ed altre funzioni pregiate che diversifichino l’economia spingendola verso il settore terziario e quaternario. • la creazione di un polo per la produzione di energia da fonti rinnovabili; l’obiettivo è favorire una produzione locale di energia pulita da mettere a disposizione delle industrie del territorio a costi più contenuti rispetto a quelli di acquisto dell’energia da rete esterna, in cambio dell’adeguamento degli impianti alle normative vigenti in materia di inquinamento ed emissioni di CO2; • il reperimento di spazi pubblici e l’attivazione di servizi finalizzati all’inclusione sociale per il quartiere Tamburi; La strategia individuata pone le prime basi per una riconversione ambientale, da affiancare alla riqualificazione delle attività industriali che dovrebbe provvedere a migliorare le condizioni di lavoro e ridurre gli impatti sull’ambiente. Sulla base di tali presupposti, sono state individuate quattro “macro-azioni” a cui è affidata la rigenerazio-

ne dell’area: la fito-bonifica, le energie rinnovabili, l’arte, la messa in rete (networking) delle aree oggetto di riqualificazione con i principali capisaldi della città esistente (porto, centro storico, ecc.) (fig.4). La fitobonifica La bonifica tramite piante erbacee e arboree per il trattamento di contaminanti come metalli pesanti, elementi radioattivi e composti organici nel suolo e nelle acque è alla base della fitotecnologia. Questa sfrutta l’insieme dei processi biologici, chimici e fisici che permettono l’assorbimento, il sequestro, la biodegradazione e la metabolizzazione dei contaminanti, sia ad opera delle piante che di microrganismi. Tali tecniche hanno diversi vantaggi: i costi limitati, l’applicabilità su aree estese e su siti contaminati da più inquinanti mescolati tra loro, l’effetto di riqualificazione paesaggistica determinato dagli interventi di re-greening che si riflette anche in una percezione solitamente positiva da parte dell’opinione pubblica. Le aree libere adiacenti all’ILVA, ca. 120 ha, sono ideali per la creazione di una foresta urbana di estensione adeguata a contrastare l’inquinamento prodotto dalle attività industriali, tramite l’inserimento di piante specifiche, geneticamente modificate e rese sterili, come l’eucalipto (Eucalyptus globulus), il salice (Salix Alba), l’erba cannetta (Agrostis stolonifera), la canapa (Cannabis sativa), il vetiver (Chrysopogon zizanioide)4. La bonifica potrebbe essere finanziata dalle industrie presenti sul territorio, in particolare modo dall’ILVA, e/o sostenuta dai fondi strutturali gestiti dalla Regione. Le energie rinnovabili La produzione e l’uso dell’energia in un’ottica di sviluppo sostenibile ha

tre componenti chiave: il ricorso a fonti rinnovabili, il risparmio energetico ottenibile attraverso interventi di efficientamento, la riduzione delle emissioni prodotte dagli impianti. Nello specifico, l’obiettivo è anche quello di favorire una produzione locale di energia pulita da mettere a disposizione delle industrie del territorio a costi più contenuti rispetto a quelli di acquisto dell’energia da rete esterna, in cambio dell’adeguamento degli impianti, in linea con le normative vigenti in materia di inquinamento ed emissioni di CO2. Le azioni connesse a questa macro-azione sono due: oltre alla creazione dell’impianto sopra citato per la produzione di energia pulita, si propone di realizzare lungo la viabilità di grande comunicazione, per un totale di ca. 50 km, di barriere antirumore fotovoltaiche “LSC” (Luminescent Solar Concentrators), lastre trasparenti colorate che assorbono parte della luce solare e la riemettono a lunghezza d’onda maggiore; la radiazione è indirizzata verso i bordi dove le celle fotovoltaiche la trasformano in energia elettrica. Tra i benefici di tale soluzione tecnica vi sono il basso costo, la robustezza dei pannelli e la capacità di accumulare energia anche con cielo nuvoloso e l’effetto estetico che può essere ottenuto ricorrendo a diverse colorazioni dei pannelli. L’intervento può essere finanziato con i fondi europei destinati al “pacchetto energia”. L’arte L’idea di inserire forme d’arte “forti” come la Land art e la Street art nasce dall’esigenza di dare una nuova immagine al paesaggio industriale, trasformando in modo economico situazioni fortemente squalificate dal punto di vista percettivo in luoghi urbani dotati di una loro identità e attrattività.


Fig.5 Proposta di rigenerazione urbana per Taranto

Gli interventi previsti riguardano in primis il trattamento “pittorico” di ampie superfici esterne dello stabilimento ILVA, comprendenti tutte le recinzioni e le coperture dei parchi minerali, da rendere visibili grazie alla realizzazione di un “percorso belvedere” lungo la SS 7 Via Appia tratto Bari – Brindisi e la SP 49 Taranto - Statte. Inoltre, così com’è stato fatto a Gibellina da Alberto Burri sulle macerie del paese distrutto dal terremoto, si propone di combinare la realizzazione della centrale di energia pulita, localizzata nell’area dell’ex oleificio Costa, a nord del

porto mercantile, con un’opera di land art che vada a “ricoprire” gli edifici diruti esistenti. Altri interventi puntuali di street art possono essere pianificati all’interno del quartiere Tamburi, mentre lungo i percorsi interni ai nuovi boschi urbani (v. sopra) si possono immaginare itinerari di sculture realizzate ad esempio con scarti di acciaieria. Networking Le azioni connesse a questa macro-azione consistono nella riqualificazione, ricucitura e realizzazione ex novo di percorsi pedo-ciclabili a for-

mare un sistema continuo per connettere il centro storico della città, il porto e il territorio aperto, quest’ultimo da valorizzare come parco agricolo (“terra delle masserie”), superando le barriere infrastrutturali esistenti e attraversando i quartieri e le aree industriali a nord, all’interno del nuovo contesto paesaggistico. Tra le azioni connesse, vi sono anche il recupero, con funzione di passerella, di un binario dismesso sopraelevato a ca. 10 metri dal livello della strada che collega il porto con lo stabilimento siderurgico, e la realizzazione di una fascia di mitigazione in fregio

alla SS7 Via Appia, entro cui inserire un percorso-belvedere, con vista sul polo siderurgico. La declinazione in azioni specifiche delle prime tre macro-azioni dà una precisa connotazione agli spazi su cui si concentrano gli interventi di rigenerazione, ricadenti all’interno di quattro ambiti principali. Questi sono collegati fra loro dai percorsi afferenti alla quarta macro-azione. Procedendo da sud verso nord, il primo ambito, collegato alla Città Vecchia dal cosiddetto “ponte di pietra”, 195 coincide con l’area di ‘Por-


ta Napoli’, ubicata tra la stazione ferroviaria, il porto mercantile e lo svincolo delle autostrade per Bari, Brindisi e per la Calabria. Porta Napoli è un quartiere difficile da un punto di vista sociale ed economico, nel quale sono presenti capannoni artigianali risalenti agli anni ’30 abbandonati o in stato di semiabbandono, di cui si prevede il recupero finalizzato alla realizzazione del Campus per la ricerca scientifica, un polo fieristico, un centro polifunzionale, un centro di accoglienza turistica in prossimità del molo dell’idrovia per le isole Cheradi e un parcheggio scambiatore in prossimità della stazione ferroviaria e dell’adiacente autostazione. Il secondo ambito, a nord del porto mercantile, comprende l’area di circa tre ettari dell’ex oleificio Costa, ceduto nel 1984 al Gruppo Oleario Italiano per poi essere abbandonato agli inizi degli anni ’90. L’area, oggi completamente degradata, è fonte d’inquinamento a causa della presenza degli oli minerali, di metalli nocivi e amianto.

Nonostante siano in corso lunghe e lente opere di smaltimento, durante le giornate ventose le particelle di questi elementi si disperdono nell’aria. Il progetto prevede di destinare l’area alla realizzazione del polo energetico “verde”, combinato, come si è detto, a un’opera di land art ispirata al “Cretto” di Burri a Gibellina. L’obiettivo è quello di “bloccare” la fuoriuscita degli inquinanti tramite la realizzazione di una coltre di calcestruzzo al di sopra delle macerie della vecchia fabbrica da utilizzare al tempo stesso come supporto per i pannelli fotovoltaici dell’impianto. I terreni inedificati posti tra il quartiere ‘Porta Napoli’ e lo stabilimento ILVA costituiscono il terzo ambito d’intervento. La soluzione individuata per quest’area, fortemente contaminata, è quella di trasformarla in una foresta urbana che elimini o riduca a livelli non pericolosi gli inquinanti presenti nel suolo. Inoltre, una serie di sentieri falciati, mimetizzati nel paesaggio, consentiranno di passeggiare all’interno della foresta.

Nei pressi della recinzione sud dell’ILVA si colloca anche il quarto ambito, un’area libera di ca. 11 ha adiacente al quartiere Tamburi, ricoperta da vegetazione spontanea, destinata a parco pubblico, inserendo specie idonee alla bonifica dei suoli. Al suo interno si prevede d’installare alcuni container navali, modificati per ospitare attività ludiche, culturali e sociali (scuola di musica, biblioteca, asilo, ecc.) per il quartiere. Il quinto ambito d’intervento è la fascia che costeggia il confine est dell’ILVA, da trasformare in una “passeggiata nella storia e nell’arte” diretta alla “terra delle masserie”. Gli elementi che qualificano il percorso sono, da un lato, un acquedotto romano da restaurare e, dall’altro, la recinzione dell’ILVA, da trasformare in una galleria a cielo aperto di street art. Nella prefigurazione dell’intervento, si è immaginato che il tema delle opere sia una denuncia contro l’inquinamento causato dalla fabbrica e il richiamo all’esigenza di vivere in luoghi salubri (fig. 5).

L’ipotesi di rigenerazione urbana qui presentata ha l’ambizione di delineare l’immagine di una Taranto futura, più funzionale e inclusiva, in cui sostenibilità e sviluppo economico possano coesistere in armonia con il suo patrimonio territoriale.


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Riqualificazione urbana tra identità locale e partecipazione degli abitanti: il barrio cabanyal a Valencia. Marino Melania

Introduzione Il lavoro di tesi si è sviluppato grazie ad un percorso di studio iniziato nel corso di “pianificazione territoriale per la cooperazione allo sviluppo” tenuto dal professor Raffaele Paloscia e maturato durante un’esperienza di ricerca di tre mesi nella città di Valencia, in Spagna. Le tematiche affrontate riguardano le forme degli insediamenti informali presenti a scala globale, viste con occhio diretto durante un workshop universitario in Argentina e riscontrate successivamente in territorio europeo, in Spagna. Sensibilmente colpita da una realtà profondamente diversa e lontana da quella a cui si è soliti approcciarsi, ho deciso di rivolgere con particolare attenzione uno sguardo alla realtà valenciana, che ha raggiunto trasformazioni economiche e urbane assolutamente importanti in poco tempo, ospitando eventi di calibro mondiale come l’American’s Cup e la Formula Uno, svelando architetture moderne di forte impatto visivo pronte ad accogliere consistenti flussi turistici. Dietro tutto ciò, però, si nascondono retroscena che gli occhi dei turisti non possono vedere e che i muri possono nascondere, realtà apparentemente lontane, leggermente più sopportabili che gli occhi di tante altre culture più dimenticate sono abituati a vedere, a vivere e

habitare (G. Paolinelli, Habitare. Il paesaggio nei piani territoriali, 2011): gli insediamenti informali. Nelle diverse parti del mondo, gli insediamenti informali assumono diverse manifestazioni del loro vivere, in alcune aree risultano maggiormente difficili e in altre meno, talvolta presentano condizioni di povertà assoluta e talaltra relativa, ma di qualsiasi forma o intensità sia, questo fenomeno è sempre più vicino a noi più di quanto possiamo immaginare. Il caso di Valencia ha svelato il suo retroscena con un barrio marginale di assoluta bellezza, il Cabanyal. Il barrio del Cabanyal risale al 1563 quando furono costruiti i primi confini dell’insediamento costituito da capanne, termine che in spagnolo si indica con cabaña, da cui prende nome il quartiere, che nascerà come piccolo villaggio di pescatori e sarà indipendente fino al 1897, quando poi verrà annesso alla città di Valencia. Da quel momento in poi, la città sarà protagonista di innumerevoli trasformazioni e a sua volta anche il barrio subirà gli effetti di questo processo evolutivo, che culminerà nel suo attuale degrado sociale e urbano. La causa principale è sancita nel 1997 da un progetto municipale, che aveva come obiettivo la costruzione di una grande avenida in gra-

do di collegare il centro storico della città al mare, passando per il Cabanyal, demolendo 1651 abitazioni e distruggendone il tessuto urbano dichiarato Bene di Interesse Culturale (BIC) nel 1993. Il perchè della dichiarazione di Bene di Interesse Culturale è di per sé un elemento tangibile per chi attraversa il quartiere, ne osserva la bellezza, le testimonianze storiche, le architetture patrimoniali, i colori latini, l’identità da proteggere fortemente sostenuta dagli abitanti che hanno deciso di resistere e continuare a vivere lì, dove le demolizioni hanno iniziato a lasciare enormi spazi vuoti, case vacanti, strade deserte e a generare esclusione sociale, povertà relativa e micro-criminalità. A questo scenario si contrappongono gli attori locali, coinvolti nelle iniziative a favore del sostegno e supporto della rinascita e resistenza del quartiere, ovvero gli abitanti ‘sopravvissuti’ all’uragano municipale tramite i quali è stato possibile verificare le azioni sul campo, partendo dal basso per poi riuscire a realizzare azioni coerenti resistibili nel tempo attraverso attività di coinvolgimento e integrazione a supporto dei nuovi abitanti stranieri del barrio. Ciò che caratterizza questa realtà, difficile da riscattare, è la prima azione degli abitanti che hanno continuato a cre-

Corso di Laurea Magistrale in Pianificazione e Progettazione della Città e del Territorio Relatore: Prof. Raffaele Paloscia Correlatrice: Prof. Rosa Marìa Pastor Villa- UPV. Luglio 2018

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Fig.1 Barrio El Cabanyal, foto dell’area centrale del quartiere.

derci e a resistere, che non hanno ceduto ad un ricatto economico, che si sono fatti giustizia davanti alle azioni municipali delle prime demolizioni e che hanno riconosciuto apertamente la loro identità legata alla cultura marinara attraverso la quale hanno dichiarato espressamente la loro apertura nei confronti degli abitanti stranieri purché non venga perso il valore identitario del barrio. Attraverso la partecipazione degli abitanti e lo studio degli elementi identitari, che contraddistinguono questa realtà che oggi viene identificata come ‘zona ghetto’, è stato possibile costruire un’ipotesi di progetto che coinvolga azioni semplici in grado di trasferire la memoria e l’identità del luogo, di favorirne la conoscenza e garantirne una buona vivibilità. Fasi e contenuti Il lavoro di tesi si è svolto in diverse fasi e in diversi luoghi, al fine di integrare, ad ogni passo, tutti gli elementi necessari per giungere alla sua stesura. Le fasi constano essenzialmente di tre grandi periodi: • La fase propedeutica dedicata alla raccolta del materiale idoneo alla stesura del lavoro di tesi e alla sua organizzazione. Questa fase è costituita essenzialmente da un’accurata ricerca degli elementi foto-

grafici, cartografici e bibliografici, indispensabili per lo studio dell’area. Il materiale in questione è stato reperibile direttamente in Italia e ha accompagnato l’indagine sul posto nella fase successiva; • La fase investigativa nella città di Valencia della durata di tre mesi, in cui è stato possibile constatare effettivamente quali erano gli elementi identitari del luogo, effettuare indagini sul posto, vivere il barrio, avere incontri con la gente del posto e le associazioni locali, reperire ulteriore materiale necessario presso l’Università Politecnica di Valencia, tramite cui ho potuto stringere un contatto diretto con la Professoressa Rosa Maria Pastor Villa, correlatrice, che da anni si occupa delle problematiche del quartiere, istituendo nel 1997, insieme ad altri due architetti, una piattaforma culturale che è stata la genesi di Salvem el Cabanyal. In questa fase sono state realizzate interviste agli abitanti, che hanno fornito soluzioni e proposte indispensabili per la raccolta delle idee in vista di un’ipotesi progettuale, attraverso cui è stato possibile applicare un’interpretazione dei dati. Inoltre, sono stati effettuati reportage fotografici e contatti diretti con gli abitanti.

Il viaggio ha costituito una tappa fondamentale dell’indagine, dal momento che non ha fornito solo chiarimenti e constatazioni sugli elementi patrimoniali e di criticità del barrio ma, ha determinato una rete di relazioni attraverso momenti di integrazione con la comunità locale; • La fase conclusiva equivale al momento in cui è stato possibile riorganizzare tutti gli interventi di ricerca sul campo effettuati precedentemente, realizzando elaborazioni interpretative e pianificando alcune ipotesi progettuali, per la conservazione delle invarianti strutturali e degli elementi essenziali che costituiscono l’identità del luogo. I tre periodi di messa in opera del lavoro sono stati scanditi dalla ricerca effettuata tramite l’Università di Firenze e l’Università Politecnica di Valencia. Infatti, l’analisi e l’individuazione della scelta del tema è stata possibile solo dopo aver percorso un excursus culturale riguardo le varie forme di insediamento urbano e la loro relativa stratificazione a livello globale. I primi studi hanno riguardato gli insediamenti informali nel processo di globalizzazione e successivamente sono state approfondite le forme dei barrios marginales presenti in territorio spagnolo, cercando di capire quanto si siano sviluppati, quali cause li abbiano generati e che forma di stanziamento abbiano raggiunto. Gli slum trovano luogo in numerose aree del mondo e le loro denominazioni locali sono spesso entrate nell’uso comune. In portoghese, gli slums, sono conosciuti comunemente come favelas, termine usato solitamente per indicare le favelas brasiliane, il cui nome originariamente fa riferimento ad una pianta appunto la favela che cresce prosperosa in ambiente semi-arido.

Il termine inglese slum viene usato ormai genericamente, ma faceva riferimento alle baraccopoli delle ex-colonie britanniche come India e Kenya. In Sudafrica si usa il termine township, in Argentina villa miseria, in Chile callampas e in Spagna chabola o barrios bajos o marginales. Barrios bajos è un concetto dell’urbanistica della società industriale che emerge con la crescita delle città europee nel XIX secolo e determina la differenziazione sociale nella struttura urbana. Questo termine viene utilizzato in diverse accezioni per indicare quartieri marginali, quartieri poveri, quartieri degradati o abitati dalla classe degli operai. Si identifica la sua accezione con la condizione sociale dei suoi abitanti. Secondo la definizione dell’ONU barrio marginal è “il luogo in cui manca una o più delle seguenti condizioni: accesso ad acqua potabile, alla sanità, a spazio abitabile sufficiente, a un alloggio costituito da materiale solido e il diritto di usufrutto”. Possono essere denominati barrios marginales anche aree sociali marginalizzate o fisicamente centrali di un sistema urbano. In Spagna, dal XX secolo, il processo di urbanizzazione ha generato situazioni simili, soprattutto negli anni sessanta e settanta, per il suo carattere incipiente a causa del grande trasferimento di popolazione dalla campagna alla città come espressione dell’ineguale sviluppo economico di questi anni, essendo “un nuovo fattore di squilibrio nel modello di distribuzione della popolazione” (García, 1984: 92). D’altra parte, l’emigrazione e i flussi turistici accentueranno il boom economico delle città spagnole, favorendo l’apparizione delle prime periferie urbane. Nelle periferie urbane si concentrerà la maggior parte della popolazione immigrata. All’inizio degli anni Settanta si registra la tappa più in-


Fig.2 Medianera nel Barrio Cabanyal

tensa dell’urbanizzazione per quanto riguarda il sistema urbano spagnolo, dando il via ad un forte processo di trasformazione. Così, nel 1970 vivevano nelle agglomerazioni urbane il 54,3% della popolazione spagnola, che in relazione a 1960 rappresenta quasi il 10 % in più. In questo scenario, gli agglomerati urbani di Madrid e Barcellona segnano l’esponente crescita che Valencia raggiungerà solo qualche anno più tardi. La periferia si espanderà, nasceranno termini come ‘suburbanizzazione’, i centri storici subiranno un processo di deterioramento accentuato dal trasferimento di residenza

delle classi medie ai piccoli comuni vicini alle aree di lavoro (Rodríguez, 1995). Presto arriverà anche il momento dello sviluppo turistico nelle isole Baleari e Canarie insieme alla formazione di importanti siti di interesse attrattivo sulla Costa del Sol e Costa Blanca di cui fanno parte Alicante e Valencia. A Valencia i processi di trasformazione urbanistica sono stati innescati essenzialmente da due tipi di forze economiche, la prima è quella del turismo e la seconda del mercato immobiliare. Nel primo caso, gli interessi, come avviene nella maggior parte delle grandi città, han-

no mirato a rendere ospitali, vivibili, accoglienti e alternativi quegli spazi che fino a poco più della fine della seconda guerra mondiale erano aree periferiche. Da una parte, l’alluvione del fiume Turia ha innescato positivamente una forte crescita urbana, ma dall’altra, ha fatto si che le opere contemporanee prendessero forma in maniera a volte poco funzionale e prevalentemente estetica. L’esempio del grande progetto della Città delle Arti e delle Scienze è un caso paradossale. Infatti, la Città delle Arti e delle Scienze venne costruita per accompagnare il parco del fiume Turia, cercando di seguirne le logiche

funzionali e le forme dinamiche, ma oggi è costituita da imponenti strutture di cemento armato, che al loro interno racchiudono poche opportunità rispetto a quelle che realmente potrebbero offrire. La città di Valencia ha avuto trasformazioni sostanziali anche nell’area portuale; infatti, chi passeggia per la città, dal centro storico al nuovo porto turistico, percorre un’area pedonale che volutamente attraversa scenari ben studiati e di forte interesse turistico, evitando quartieri di altrettanta bellezza storica e patri201 moniale come il Cabanyal.


Fig.3 Patrimonio intangibile del Barrio Cabanyal

Il Cabanyal, le cui origini risalgono al 1563, come riportato dalle fonti visive di Antoine Wijngaerde in Le vedute di El Grao de Valencia in cui emerge la presenza di un piccolo villaggio di pescatori, risulta essere oggi un insediamento marginale, occupato abusivamente da gitani spagnoli e rumeni in continuo conflitto per l’accaparramento degli spazi. Oggi il Cabanyal è luogo di forti scontri sociali, politici ed economici, definito da numerosi passanti e abitanti del resto della città, un vero e proprio ghetto’ Nonostante numerose criticità, il Cabanyal presenta al contempo risorse patrimoniali di elevata bellezza, come ad

esempio l’arte e l’architettura di tipo popolare contraddistinta dai colori sgargianti dei materiali locali che richiamano in parte le caratteristiche latino-americane, il patrimonio etnografico, le tradizioni gastronomiche, il modello sociale della cultura marinara, le produzioni artigianali e le tradizioni culturali e religiose. Direttamente riscontrabile in loco è il patrimonio tangibile (R. Paloscia, 2012), riscotrabile attraversando il nucleo urbano storico del quartiere costituito da edifici del tessuto originario, dall’area di tutela dei beni di interesse culturale, dalla piazza, dal museo, dalla chiesa e dai siti di interesse storico e culturale.

Nato come villaggio di pescatori, ricostruito dopo numerosi incendi, protetto e salvaguardato con numerose battaglie dai suoi abitanti, oggi, il Cabanyal è un luogo che versa in forti condizioni di degrado in seguito all’emanazione del Plan Especial y Reforma Interior de El Cabanyal-Canyamelar (PEPRI) nel 2001. La forza e determinazione dell’associazione Salvem el Cabanyal ha ritardato l’esecuzione del PEPRI fino al 2009, per ordine del Ministero della Cultura. L’ordine chiedeva che il Consiglio comunale di Valencia sospendesse il piano fino a quando la sua revisione avesse ga-

rantito la protezione dei valori artistici e storici. Però, in attesa della risposta definitiva in merito all’ordine del Ministero della Cultura, la Generalitat Valenciana, nonché l’insieme delle istituzioni della Comunità Valenciana approva il decreto-legge 1/2010 del 7 gennaio, convalidato dalla legge 2/2010, che autorizza l’esecuzione del PEPRI, sollevando una questione di competenza gerarchica istituzionale trasferita sino alla Corte costituzionale. Solo nel 2012 si avrà una risposta da parte della Corte di Giustizia di Madrid nei confronti dell’Ordine del Ministero della Cultura, che aveva descritto il piano urba-


Fig.4 Patrimonio tangibile del Barrio Cabanyal

nistico del Cabanyal come una spoliazione. Numerosi furono i tentativi per confutare il Piano previsto, alcuni meritevoli, per esempio il raggiungimento della conoscenza del tema a scala mondiale nella mappa mondiale dell’associazione nordamericana World Monuments Fund (WMF) come “patrimonio in via di deterioramento e scomparsa” o l’intezione di inclusione nella Lista Rossa di Spagna Nostra, associazione nazionale volta alla conservazione del patrimonio architettonico. I conflitti politici, amministrativi ed economici stanno causando la perdita del patrimonio del Cabanyal, met-

tendo a dura prova l’identità storica, popolare e culturale del luogo attraverso la cui conoscenza è stato possibile delineare alcuni lineamenti progettuali. Inoltre, grazie alla partecipazione degli abitanti, ai quali sono state sottoposte le interviste con il metodo di indagine di Kevin Lynch, è stato possibile realizzare un chiaro quadro progettuale. Le interviste forniscono numerose informazioni sul quartiere, sulle aree di interesse specifico, sui nodi di riferimento, sui margini dello spazio da loro percepito, ma anche un ulteriore informazione; la convivenza sociale. Kevin Lynch si pose il problema di stu-

diare come gli esseri umani, nonché cittadini, abitino la città, e comprese che la realtà urbana non è che un’immagine mentale. Capì che era necessario partire da elementi percepibili, per poter comprendere il modo in cui gli esseri umani abitano la città. Non è sufficiente progettare con elementi fisici, ma bisogna anche saper cogliere gli elementi percettivi (K. Lynch, 2013). Con Lynch si inizia a parlare di cartografia percettiva, che d’ora in poi sarà un ottimo strumento per la pianificazione e la progettazione urbana, integrando la percezione dei cittadini e dando vita a quelle che sa-

ranno delle vere e proprie mappe, una degli esperti e una degli abitanti. La sua indagine sarà resa possibile dall’interpretazione dei segni attraverso cinque elementi essenziali: percezioni areali, riferimenti puntuali, margini lineari, percorsi lineari e nodi essenziali. Con questa metodologia, sono state effettuate le interviste agli abitanti attraverso delle domande mirate, che mi hanno permesso di indagare le percezioni spaziali, i sentimenti di appartenenza e le identità locali di questo modello sociale. La metodologia utilizzata, al fi203 ne di elaborare delle ipo-


tesi di lineamenti progettuali, prevede una messa a punto degli elementi di criticità che, integrati a quelli di valore patrimoniale, possano costruire uno scheletro su cui i due campi si incrociano e costituiscono un corpo unico, quello delle ipotesi di progetto. Gli interventi progettuali riguardano, in primis, la pedonalizzazione delle direttrici principali, che insinuandosi nella zona ghetto sono il mezzo tramite cui poter ricucirne la trama viaria e pedonale, fino a raggiungere i lati esterni del barrio che hanno come direzione sud il mare, a nord il centro di Valencia, a est il porto e il Canyamelar e a ovest il campus universitario. Questo piccolo intervento di pedonalizzazione ci permette di ricucire la trama urbana attraverso ulteriori interventi puntuali. Infatti, pensare solo ad una pedonalizzazione non avrebbe senso se non fosse seguita da un obiettivo maggiore, che riguarda quello di intervenire nei punti deboli e insicuri del barrio. Percorrendo il barrio, si trovano spazi vuoti lasciati dalle demolizioni eseguite dall’ Ayuntamento e bloccate dagli abitanti del Cabanyal. Questi spazi, per fare in modo che la trama urbana si ricolleghi al suo interno, dovrebbero essere ricuciti ospitando delle attività sociali. Per risolvere tale criticità si è pensato agli attori sociali presenti sul territorio, che investono nell’integrazione, nell’aggregazione e nell’educazione ecologica come quella svolta, per esempio, da Cabanyal Horta, associazione di giovani ragazzi che si occupano della cura e gestione degli spazi abbandonati, post-demoliti o degradati del barrio per incentivarne l’uso sotto forma di orti urbani. Questa azione è pensata sia ai fini sociali che urbani ed economici, perché tenta di ripristinare una filiera di attività con il territorio che, come abbiamo visto, è strettamente legata e connessa al modello sociale del Cabanyal.

Lì, dove una volta vi erano gli abitanti che si dedicavano alla pesca, alla costruzione e alla cura dell’orto, cerchiamo di immaginare, oggi, un Cabanyal rigenerato dove gli occupanti possano integrarsi, recuperare dalle condizioni di povertà ed essere inclusi nel barrio. Il tentativo di inclusione sembra essere fortemente avvantaggiato e già avviato dalle associazioni attualmente presenti, che attraverso vari eventi cercano di ri-occupare le aree vuote in memoria dei valori culturali ed etnografici del Cabanyal, interagendo fortemente con gli abitanti abusivi. A questo scenario, si aggiunge la richiesta esplicita degli abitanti del Cabanyal, che durante le interviste hanno dichiarato apertamente la loro identità e hanno manifestato il loro forte interesse all’integrazione sociale purché non si perda la memoria del luogo. Insomma, gli ‘originari’ abitanti del Cabanyal sarebbero disposti a qualsiasi cosa purché il loro barrio non venga distrutto dalle attività di irrazionale urbanizzazione. A tal proposito, come espresso sin dall’inizio, i lineamenti progettuali si avvalgono fortemente delle proposte emerse dagli abitanti, e affinchè queste abbiano riscontro, la progettazione prevede, oltre alla conversione degli ‘spazi vuoti’ in ‘spazi liberi per la coltivazione, anche ‘spazi di eventi per la rieducazione alla memoria del luogo’. Questi spazi, pensati per rivivere le tradizioni del patrimonio locale, si possono gestire in svariati modi e occasioni e in tutte le forme creative che gli abitanti desiderano attivare. Oltre a rigenerare e a integrare questi spazi, è stata pensata un’azione di riqualificazione e collegamento dei siti di interesse culturale presenti, che sono in parte attivi. Per quanto riguarda la Lonja de los Pescadores e Casa del Bous, la progettazio-

ne prevede, l’integrazione di percorsi inclusivi attraverso iniziative multietniche. Casa del Bous, in particolar modo, grazie alle attività delle associazioni e alla loro determinazione, è sede di interventi mirati all’aggregazione sociale. L’ipotesi progettuale prevede l’intensificazione di queste attività con quella della Lonja de los Pescadores, nella sezione centrale della struttura, che attualmente risulta essere completamente vuota e in disuso a differenza invece dei locali residenziali che risultano occupati. All’interno della zona ghetto si trova un punto di riferimento notevolmente interessante, ricordato anch’esso più volte dalle interviste verbali avvenute con gli abitanti, riguarda Plaça del Doctor Llorenç de la Flor, antica piazza del Cabanyal che oggi versa in condizioni di degrado. Per questo spazio, l’intervento progettuale prevede, sia una messa a dimora dalla pavimentazione e sia un’accurata progettazione dei suoi confini con una vegetazione di alberi da frutto, peculiarmente presenti nella città, al fine di creare un piacevole luogo di aggregazione che ospiti diversificate attività, eventi e spettacoli culturali. Questo punto cruciale e strategico del quartiere, da cui si diramano i percorsi principali pedonali, carrabili e ciclabili, funge da nodo con il suo antipodo, che si trova lungo la stessa carrer d’Empar Guillem, e collega l’area verde. Tra questi nodi principali, si è cercato di condensare e incorporare gli edifici sottoposti all’interesse di bene culturale e quelli di interesse economico e popolare come quello di El Clot. Questa scelta non è casuale, infatti, la sua integrazione all’interno di una forte rete ecologia verde che penetra i tracciati di attraversamento del barrio, è finalizzata a intensificare il collegamento, il passaggio e a suscitare l’interesse

sia dei cittadini che dei turisti, data la forte e notevole domanda turistica che riveste il lungomare che si trova a pochi metri di distanza. Il tentativo di collegare questi tracciati, attraverso un ‘corridoio verde’, strutturato da attività puntuali, dipende fortemente dall’interesse di fornire all’area di studio una prospettiva diversa. L’interesse principale è quello di restituire il legame mare – barrio - campagna, tre aree che hanno convissuto per anni e che sono state separate e frammentati dall’impietosa urbanizzazione e dai forti flussi turistici. Inoltre, per rendere esteticamente piacevole la visita al barrio, l’ipotesi progettuale prevede interventi di street art narrativa lungo gli assi principali, in grado di suscitare nei passanti la curiosità e la scoperta del luogo. Questi interventi sono stati pensati, soprattutto, per le facciate delle medianeras, (termine argentino con cui si indicano le pareti verticali senza finestre, che non trova un corrispettivo significato in italiano), e sembrano già aver preso piede sia nel barrio che in alcune zone del centro della città. Queste aree verranno collegate dai tracciati principali e secondari, in modo da sottolineare la loro gerarchizzazione e da permettere un flusso e una domanda diversificata. A questo scenario, a “scala di quartiere”, si aggiungono i siti di interesse patrimonale, che riguardano le aree principali dell’intero poblados marítimos tra cui, per esempio, las Arenas, vecchio lido del Cabanyal e luogo di cui si propone l’apertura al pubblico, e il Mercado del Cabanyal, antico punto di riferimento del barrio per cui il progetto prevede il collegamento con altre aree marginali attraverso un percorso ciclo-pedonale. Ricordiamo che, la città di Valencia presenta una buona progettazione della mobilità dolce e sostenibile. Oltre alla pedonalizzazione, la ‘ciclabilizzazione’ è un ulteriore strumento


Fig.5 Lineamenti per una proposta di Masterplan

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da progettare, che permette in questo caso, il collegamento di due reti parallele che si incontrano nei siti di interesse storico-culturale del Cabanyal. Le azioni puntuali e circoscritte, progettate per disporre di alcune linee guida per un’ipotetica riqualificazione del Cabanyal, sono destinate prevalentemente alla discussione di abitanti del luogo, primi attori coinvolti, che potranno scegliere di attivare percorsi di realizzazione, scanditi in tempistiche differenti, attraverso l’aiuto delle associazioni presenti e attive sul territorio. Conclusione Gli obiettivi del lavoro svolto riguardano il riconoscimento e il mantenimento dei caratteri identitari del barrio del Cabanyal, attraverso la conservazione degli elementi patrimoniali identificabili come invarianti del luogo, che si riflettono in forma fisica nel tessuto urbano e in forma sociale nella partecipazione attiva degli abitanti, protagonisti della resistenza del barrio nonostante i continui tentativi di demo-

lizione e sgombero da parte del municipio della città di Valencia. Sinteticamente, il lavoro di tesi ha permesso di constatare che: • studiare i barrios degradati, in un contesto di forte urbanizzazione, richiede un’indagine approfondita delle caratteristiche degli abitanti e del loro modus vivendi; • i lineamenti di riqualificazione urbana dovranno essere discussi e verificati con gli abitanti del barrio, le loro associazioni e i vari attori sociali coinvolti, nonché i protagonisti dell’identità del luogo; • l’indagine sul campo con le interviste agli abitanti è uno strumento fondamentale per comprendere come differenti etnie e culture possano consolidarsi in un lungo periodo, fornendo la chiave di lettura per lineamenti di riqualificazione urbana; • la valorizzazione del patrimonio territoriale è un elemento centrale per il processo di trasformazione del barrio; • il caso del Cabanyal ha rivelato l’e-

sistenza di un modello sociale di cultura marinara fortemente ancorato nell’identità locale. In conclusione, si può affermare che l’esistenza degli insediamenti marginali, rispetto all’aumento della globalizzazione, è una dura prova per chi tenta di sviluppare interventi di pianificazione. Ogni contesto è circoscritto e presenta un modello diversificato che può riflettersi nelle dinamiche identitarie locali o meno. Ogni realtà presenta modi diversi dell’habitare (G. Paolinelli, 2011), ma in qualche modo è in grado di fornirci insegnamenti di indagine partendo dagli abitanti stessi. Le forme di appropriazione degli spazi, da parte degli abitanti, sono l’espressione della capacità di adattare il loro modus vivendi nelle città, rendendosi auto-sufficienti nonostante la scarsità delle risorse. Il più delle volte, le loro pratiche di sopravvivenza si radicano al processo evolutivo, rimanendone escluse e nel lungo periodo riescono a creare la loro dinamica identitaria e il loro modello sociale.

Attraverso questo lavoro è stato possibile affermare che, mediante l’indagine minuziosa e attenta, nel rispetto dell’approccio al territorio e al suo sistema antropologico, è possibile risalire ad una ridefinizione semplice di questi spazi conflittuali, messi in crisi dall’urbanizzazione selvaggia e sottoposti ai ritmi meccanici della globalizzazione. Le singole strategie di intervento sono tali proprio perché la frammentazione dell’occupazione abusiva si ripercuote sulla diversità dell’area urbana. Nel caso del Cabanyal, gli insediamenti abusivi ricoprono un’area fortemente patrimoniale dal punto di vista storico, culturale e sociale e per tale motivo le azioni previste, nel rispetto di tutti gli attori interessati nonché essenziali all’individuazione del modello sociale, sono in grado di fornire un ottimo riferimento di indagine per comprendere come differenti etnie e culture possano essere resilienti in un lungo periodo ed essere la chiave di lettura di lineamenti di riqualificazione urbana.


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Finito di stampare per conto di didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze 2021




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