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L’iniziativa pubblica e la definizione del problema dell’alloggio

L’iniziativa pubblica e la definizione del problema dell’alloggio Dopo l’unità d’Italia (1861) il ruolo dello Stato nello sviluppo dell’insediamento si esercitò in almeno quattro direzioni: • nella creazione di una serie di opere infrastrutturali, specialmente ferroviarie, per connettere un territorio storicamente frammentato e orograficamente impervio; • nell’affrontare attraverso piani i problemi specifici di singole realtà urbane (ad esempio, le capitali d’Italia, Firenze e poi Roma, e alcune città di rango nazionale come

Milano e Napoli); • nella dotazione di edifici che potessero rappresentare in modi differenti l’autorità statale e soddisfacessero l’esigenza di servizi: scuole, caserme, stazioni ferroviarie, ospedali, edifici governativi, spesso costruiti in aree liberate da precedenti tessuti urbani medievali; • nell’affrontare la questione della casa, che tanta parte ebbe nella definizione di una dimensione pubblica dell’abitare, che ha segnato da una parte l’assetto urbano di tante città italiane e la qualità del loro spazio pubblico, ma d’altra parte ha formato l’efficacia dell’azione disciplinare, la sua capacità di rispondere in tempi brevi a un’esigenza espressa da tanta parte della società. Nel quadro generale dello sviluppo nazionale italiano, allora, nella evidente necessità di dotare lo Stato di infrastrutture e servizi di ogni tipo, il problema della casa ha attraversato la storia unitaria, e poi repubblicana, emergendo progressivamente e definendosi, sia in termini di dialettica e conflittualità sociale, che come una delle chiavi della politica economica del Paese (Lamanna 2014). Per quel che qui interessa, i vari governi che si sono succeduti hanno fatto spesso ricorso al settore delle costruzioni quale motore di sviluppo economico: settore attraverso il quale prima impiegare una vasta platea di manodopera anche poco specializzata, e al quale poi assegnare ruoli rilevanti e cangianti nel quadro delle differenti politiche economiche. Dalla formazione di un moderno ceto proprietario sul quale formare lo Stato liberale, alle derive ultraliberiste di fine secondo millennio, il settore delle costruzioni e dell’edilizia in particolare ha rivestito dal secondo dopoguerra una importanza centrale sia nell’orientare il risparmio delle famiglie che nel determinare modelli di sviluppo e assetti territoriali tipicamente italiani. In questo quadro così velocemente delineato, si può senz’altro individuare uno specifico e importante ruolo della costruzione della “città pubblica”, ovvero della proporzione di edilizia per lo più residenziale che fu realizzata in Italia per diretto intervento dello Stato, attraverso la scrittura di norme, la stesura di piani, o tramite programmi di finanziamento ad hoc, localizzazioni attentamente studiate e precise modalità realizzati-

ve e scelte formali. È stato il tentativo da parte dello Stato di risolvere o arginare il problema dell’alloggio che, nel secondo dopoguerra, aveva assunto dimensioni preoccupanti e che ha accompagnato la redistribuzione demografica dell’Italia repubblicana. Ma è stato anche il campo dove si sono potute formare ed esprimere gradualmente categorie professionali specifiche, quelle degli architetti e degli ingegneri, base di formazione della figura dell’urbanista, e dove si sono compiute sperimentazioni urbanistiche e architettoniche anche radicali, spesso non disgiunte dalla ricerca sociale e antropologica. Si possono individuare almeno tre momenti salienti durante i quali le istituzioni pubbliche furono impegnate a far fronte alla questione dell’abitazione (Caudo, Sebastianelli 2008): il primo alle soglie del Novecento, con la promulgazione della legge Luzzatti che istituì gli ICP (Istituti Case Popolari); il secondo momento coincide con il ventennio del governo fascista; il terzo si colloca a partire dal secondo dopoguerra, con il doppio settennato dell’INA-Casa e l’intervento pubblico successivo reso possibile dalla promulgazione della legge 167 del 1962. Dal punto di vista della risoluzione del problema dell’alloggio, durante gli anni precedenti la prima guerra mondiale, le politiche pubbliche e le trasformazioni conseguenti (come, ad esempio, le ampie demolizioni dei centri storici di città di differente rango, anche a seguito di un orientamento della disciplina urbanistica informato dal pensiero di Calza Bini, cfr. Ventura 2003) portarono all’espulsione di vaste fasce di popolazione povera, che fu costretta a trovare sistemazione nelle periferie intorno alle città esistenti. Queste periferie, in mancanza di pianificazione, si espansero a macchia d’olio. In questa situazione, si crearono vere e proprie aree di disagio sociale e baraccopoli, e si costruì sovente edilizia economica senza alcuna pianificazione, spesso su terreni pubblici abusivamente occupati. È in seguito alla fine della grande guerra che ebbe inizio una crisi degli alloggi determinata principalmente dall’inurbamento di grandi masse di lavoratori e dal rallentamento della produzione edilizia dovuto a sua volta alla scarsa propensione mostrata dai capitali privati ad investire nel settore dell’alloggio economico, ritenuto poco remunerativo. L’emergere della tendenza all’inurbamento al seguito del rafforzamento delle strutture industriali, in parte esito della trasformazione civile dell’industria bellica, comportò un aumento delle iniziative pubbliche a livello nazionale per affrontare il problema dell’abitare (Scattoni 2004). L’affermarsi del regime fascista, nato in un brodo di coltura influenzato anche dalla situazione di precarietà e miseria della piccola borghesia e del ceto popolare, pose in essere un approccio controverso, profondamento anti-urbano. Il regime fascista considerava infatti lo sviluppo urbano come una patologia distruttiva delle campagne, mitizzando nel contempo la sua capitale, l’antica Roma. “Al contrario dell’ideologia mussoliniana, il pensatore marxista

Antonio Gramsci – morto alla sua uscita di prigione nel 1937 – si fa nella sua rivista La Città Futura il profeta di una metropoli innovativa, riprendendo le concezioni dell’avanguardia artistica dei futuristi. Anche la letteratura italiana degli anni ‘30, e poi del dopoguerra, testimonia gli sconvolgimenti culturali in atto nelle città, il cui fascismo non riuscirà a bloccare l’irresistibile sviluppo” (Janulardo 2010, p. 61). Il governo di Mussolini mise a punto programmi e progetti per il rafforzamento dell’insediamento rurale e la creazione di borghi medio-piccoli e città di fondazione specializzate, nel tentativo di esaltare la natura rurale della Patria e non nutrire la crescita delle già inquiete masse operaie urbane (Ciucci 1989). Nelle città esistenti avviò un massiccio programma di monumentalizzazione dell’edilizia rappresentativa pubblica, abbracciando temi architettonici pomposi di ispirazione neoclassica, nel tentativo di rinverdire i fasti della Roma imperiale, dopo un breve periodo iniziale apparentemente aperto nei confronti delle riflessioni razionaliste e moderniste. Così l’ONC (Opera Nazionale Combattenti), con le “città di fondazione” laziali, sarde, pugliesi, avviò un programma di colonizzazione degli spazi rurali marginali, che non infastidirono il grande latifondo, perché da esso difficilmente sfruttabili – ad esempio le grandi aree pontine la cui bonifica era un onere che nessun privato si sarebbe accollato – che ben presto si esaurì per l’emergere dell’importanza delle metropoli industriali. L’esperienza lasciò testimonianze urbane e architettoniche di eccezionale interesse (Borgo Segezia in Puglia, Fertilia in Sardegna, cfr. Pennacchi 2010), ma poco incisive sulle dinamiche di inurbamento che si sarebbero potentemente manifestate immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale. Durante il ventennio fascista si afferma, tuttavia, in qualche misura una edilizia residenziale statale. Lo Stato intervenne direttamente tramite la costituzione di appositi Istituti (ad esempio l’INCIS, Istituto Nazionale per le Case degli Impiegati Statali) nella costruzione di case destinate al cosiddetto ceto medio, ovvero gli impiegati statali. Negli stessi anni si consolidò il ruolo degli Istituti Case Popolari (ICP) impegnati nel realizzare l’edilizia per i ceti sociali più deboli. Durante la Seconda guerra mondiale (1939-1945), nel disfacimento del regime fascista e prima della definitiva caduta del 1943, emersero tuttavia nel campo dell’urbanistica alcune elaborazioni avanzate, colte e informate (e in parte sorprendenti, visto l’ambiente ove si svilupparono), che sfociarono nella formulazione della legge urbanistica 1150/1942 (Zoppi, Carbone 2018). Gli estensori della legge previdero la drammatica situazione nella quale si sarebbe trovato lo Stato uscito sconfitto dalla guerra: da una parte fortemente danneggiata dagli eventi bellici, ma anche già molto indietro dal punto di vista infrastrut-

turale e insediativo rispetto alle nazioni dell’Europa occidentale che si ritrovarono sotto l’ombrello della NATO, l’Italia intraprese un radicale e impressionante processo di trasformazione, quella “grande trasformazione” (Turri 1998b) che, benché innestata su di una armatura territoriale antica, ebbe delle dimensioni inedite e impressionanti. Industrializzazione massiccia del nord, primi prodromi della creazione dei distretti industriali, urbanizzazione generalizzata, redistribuzione demografica con fortissimi movimenti migratori interni e verso l’estero, elevatissima mobilità sociale, smantellamento della mezzadria nelle regioni dove essa era sopravvissuta e progressivo indebolimento dell’economia del primario: queste alcune tra le dinamiche che esplosero in quello che venne appunto definito il boom italiano. Inizialmente fu un periodo aperto alla sperimentazione, ove appaiono i retaggi di una certa Italia rurale, pronta a reinterpretare singolarmente l’industrializzazione: un esempio paradigmatico è quello di Adriano Olivetti, ponte tra il prima e il dopo della Seconda guerra mondiale (Olmo, Olivetti 2001): industriale colto costretto ad espatriare negli ultimi anni del fascismo, trasformò l’attività familiare in una società multinazionale di successo e si impegnò nella politica e nel sociale, sulle tracce di alcuni precursori dell’urbanistica moderna (Benevolo 1963). Se il discorso sulle sue “Comunità” (Olivetti 1956), definite su base locale per l’autorganizzazione della produzione e della vita sociale, non si affermò mai fuori dalla fabbrica, fu molto importante l’esperienza che Olivetti fece in seno all’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) e rimangono preziosi gli interventi a Matera: il quartiere La Martella è noto per la sua urbanistica sperimentale, promossa da Olivetti negli anni cinquanta (19521954), con fondi internazionali recepiti attraverso l’UNRRA-CASAS (Di Biagi 2001). L’esperimento coinvolse una folta schiera di architetti e intellettuali (Federico Gorio, Michele Valori, Ludovico Quaroni, Piero Maria Lugli, Luigi Agati) e dimostrò l’estrema dinamicità e l’interesse delle migliori energie della nazione alla formazione dell’urbanistica italiana, e un modo di lavorare in gruppi integrati mutuato dalle migliori esperienze internazionali. Ma fu con l’esperienza INA-Casa che il ruolo diretto dello Stato nell’edificazione della città post-bellica ebbe un picco. Il piano per l’incremento dell’occupazione operaia, detto Piano Fanfani dal suo promotore (Di Biagi 2001) fu istituito con la legge 43 del 28 febbraio 1949; inizialmente di durata settennale, successivamente venne prorogato di ulteriori sette anni, con decorrenza 1º aprile 1956 e sino al 1963. Giudizi articolati concordano nell’individuare come sostanzialmente positivi i suoi esiti nei più di cinquemila comuni italiani ove si agì tramite di esso. La storiografia ha gradualmente cambiato di segno, registrando una percezione via via più positiva di quella esperienza, di stampo “mumfordiano”, tra i precetti del regionalismo e del vernacolo. Una congiuntura particolare, come detto prima, rese possibile un travaso di esperienze tra le parti più vivaci dell’amministrazione pubblica, delle categorie pro-