Schola Nova | Mattia Gennari

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Una Scuola per artigiani a Venezia

mattia gennari Schola Nova
tesi | architettura design territorio

Il presente volume è la sintesi della tesi di laurea a cui è stata attribuita la dignità di pubblicazione. “Il progetto di tesi rappresenta un’ originale interpretazione del carattere urbano della città di Venezia, espressa attraverso la reciproca integrazione dei suoi elementi: acqua e terra, e ne costituisce, in un microcosmo, la sintesi”.

Commissione: Proff. F. Capanni, P. Zermani, A. D’Ambrisi, S. Secchi, R. Rossi, A. Merlo, A. Natalini, G. Bartocci.

in copertina

Muro in mattoni e fondamenta in pietra d’Istria, Ca’ Venier; area di progetto

progetto grafico

didacommunicationlab

Dipartimento di Architettura

Università degli Studi di Firenze

didapress

Dipartimento di Architettura

Università degli Studi di Firenze

via della Mattonaia, 8 Firenze 50121

© 2023

ISBN 978-88-3338-188-6

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset

mattia gennari Schola Nova

Una scuola per artigiani a Venezia

“Secondo me” ha scritto Josif Brodskij riferendosi al rapporto tra Venezia e l’acqua, “questa città riunisce in sé tutti i modelli visibili dell’elemento e di ciò che vi è contenuto”.

“Scrosciante, ruscellante, scintillante, fulgescente, iridescente, l’elemento si è proiettato in alto per tanto tempo che non stupisce che alla fine alcuni di questi aspetti abbiano acquistato massa e carne, e siano diventati solidi”. Nulla di più preciso è stato scritto forse, durante il secondo Novecento, riguardo al carattere veneziano, di quanto ci ha consegnato il poeta russo nel suo libro “Fondamenta degli incurabili”.

L’interpretazione parte dal presupposto che l’occhio è il più autonomo tra gli organi del corpo dell’uomo perché gli oggetti della sua attenzione si trovano inevitabilmente all’esterno:

“Questo spiega l’appetito dell’occhio per la bellezza, e l’esistenza stessa della bellezza. Perché la bellezza è sollievo, dal momento che la bellezza è innocua, è sicura. Non minaccia di ucciderti, non ti fa soffrire. Una statua di Apollo non morde, né morderà un cagnolino del Carpaccio. (….) Il senso estetico è gemello dell’istinto di conservazione ed è più attendibile dell’etica. L’occhio-principale strumento dell’estetica-è assolutamente autonomo. Nella sua autonomia è inferiore soltanto a una lacrima. In questa città si può versare una lacrima in diverse occasioni. Attraverso l’occhio la città che si riflette nell’acqua è lo specchio della bellezza perché l’acqua offre alla bellezza la possibilità di manifestare il suo doppio.

“Nel mondo in cui viviamo, questa città è il grande amore dell’occhio. Dopo, tutto è delusione. Una lacrima anticipa quello che sarà il futuro dell’occhio”.

Su un analogo presupposto, attraverso altri specchi incontrati nella laguna, Mattia Gennari ha costruito il suo lavoro di tesi consistente nella “Scuola per artigiani a Venezia”, rincorrendo il modo in cui, appena dopo il riflesso, appena oltre lo specchio, Venezia si concretizza nello spazio e l’acqua diviene struttura interiore, organizzazione dei luoghi e dell’anima, trama, ordito, tessitura, necessaria oscurità.

Così, sul sedime di un palazzo antico, ha ricostruito un’idea di identità lavorando sulla linea di sospensione che unisce e divide terra e acqua assumendo letteralmente quello spazio sospeso come vero punto di origine del progetto, portandone l’umore e la verità, attraverso una calle d’acqua, dentro il corpo dell’edificio e, viceversa, dall’edificio alla città e al mare.

“L’elemento” descritto da Brodskij ricade così a terra attraverso luce ed acqua e fissa nel tempo il corpo dell’architettura.

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Presentazione pagina precedente Mimmo Jodice Real in Venice 2010

Venezia [..] un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto al di fuori della sua bellezza, che qualche volta quando ammiriamo il suo languido riflesso nella laguna, rimaniamo incerti quale sia la città e quale l’ombra. Io vorrei sforzarmi di tracciare le linee di questa immagine, prima che scompaia per sempre e di raccogliere, per quanto posso, il monito che si sprigiona da ogni onda che risuona come un rintocco funebre, quando si frange contro le pietre di Venezia.1

(J. Ruskin, 1851-1853)

La condizione esistenziale della città non è che il riflesso della caducità dell’uomo e della sua opera, in completa balìa della natura e del tempo. Eppure, in questa drammatica umana impotenza, la persistenza di Venezia ha in se qualcosa di miracoloso. Nell’ammirazione per la città, Ruskin non può che avvertirne la precarietà: nello splendore, la percezione di un’inevitabile ed imminente perdita. Nel tentativo di salvare la città reale, nei suoi diari egli ne delinea un’ immagine ideale fatta di parole ed acquerelli nell’affannata missione di “ricrearla nella mente”, “pietra dopo pietra [..] sfumatura dopo sfumatura” 2, prima che le onde del mare ne cancellino le tracce per sempre.

qua, Venezia rivela tutta la fragilità della sua esistenza, nell’essere così “tra due elementi sospesa”3 Osservata da lontano, Venezia sembra galleggiare sul mare, come dotata di un’ incredibile leggerezza.

La bellezza della città pare risiedere nella sua apparente inverosimilità. Venezia, confinata dall’acqua nella solitudine, sembra appartenere ad un’altra dimensione: nella vista, l’incertezza di dove finisca la realtà e inizi l’illusione.

Con queste parole John Ruskin apre la sua opera Le pietre di Venezia descrivendo la romantica decadenza che avvolge la città; il senso di abbandono e di vuoto che vi aleggia sembra arginato dal suo unico abitante: la bellezza. Venezia rimane inerme di fronte al mare: l’ineluttabilità di un destino segnato. Nella saldezza delle sue pietre e dei suoi legni, è custodita la resistenza della città alle onde.

Nella trama dei suoi canali Venezia si guarda e le sue vesti di pietra, mattoni e intonaco realizzano le quinte nodose di un grande teatro in cui è in scena il gioco mutevole dei riflessi: la superficie dell’acqua è la tela increspata di un quadro in cui architettura e cielo si fondono.

Se al suo interno la vista alla città d’acqua non può che avvenire per sfuggevoli scorci verticali perchè, in balìa delle onde, è chiusa dalle pieghe di strette calli e canali, da fuori, dal mare o da altre isole, la dimensione cambia e la città diviene un breve tratto di orizzonte: sovrastata dal cielo e invasa dall’ac-

Insieme alle parole, il disegno diviene il luogo della resistenza, della contemplazione e della visione dove rappresentare una città possibile, frutto della percezione di quella reale: una Venezia dei sogni di uomini meravigliati davanti alla sua bellezza. Eppure, oltre che lo spazio personale dell’immaginazione, il disegno nella città d’arte rappresenta anche l’unico vero mezzo per misurare la legittimità dell’Architettura oggi davanti alla sua stessa storia4 e per cercare di indagarne ogni volta il Senso.

7 pagina precedente Venezia
dall’isola di S. Giorgio, Come un’enigma 2006, G. Chiaramonte
Introduzione

Nel tentativo di proporre una personale ricerca di tale Senso, il lavoro di tesi prende spunto da un concorso per studenti, che prevedeva il disegno di una Scuola per Artigiani in uno stretto spazio nel sestiere di Cannaregio, sul sedime di un’antica abitazione: Ca’ Venier.

Un luogo che, come ricorda la pianta-veduta del de Barbari, già prima del Cinquecento possiede delle precise misure urbane, indicate, più o meno velatamente, dalla città e dal costruito immediatamente adiacente.

Nella ricerca di queste misure, il progetto si confronta con gli elementi esistenti circostanti, la mole del quattrocentesco Palazzo Sceriman, il complesso delle Case della Scuola della Carità e le rovine di un alto muro di arginamento dei canali lungo tutto il perimetro dell’area.

Nell’acqua, che prende forma in Rio dei Gesuiti e Rio del Gozzi, ha il suo interlocutore principale.

Essa, così come rappresenta la linfa vitale che alimenta le isole di Venezia, parimenti nutre il nuovo corpo con una Vena5 che trova in una corte il suo cuore. Una calle d’acqua è l’anima del progetto. Essa si innesta nelle trame della città e ne diventa parte.

Una corte, come un piccolo bacino, accoglie l’acqua portata dal nuovo canale nel disegno di pochi gradini scavati nelle fondamenta, e l’infome prende ordine.

Attraverso il canale, la corte che ne è l’approdo diviene un giardino di pietra in cui la natura è l’acqua.

Nella ciclicità della marea, l’acqua di volta in volta prende le forme delle pietre dei gradini che ne misurano il lento levarsi ed abbassarsi. Come una grande meridiana, attraverso l’acqua, la corte manifesta il tempo di Venezia. L’architettura, nella sua immobile condizione d’essere, misura l’inesorabile divenire della natura.

La città è il costante riferimento del progetto nel suo tentativo di ricrearne un microcosmo, risultato del faticoso rapporto di prendersi e darsi forma tra terre emerse e mare, fondamenta e natura. Ma della città reale, la ricerca aspira alla sua apparente leggerezza e fragilità. L’architettura è sospesa su un grande spazio vuoto sopra una linea d’ombra, tra un antico muro e il cielo.

La metodologia adottata per affrontare il lavoro di tesi ha previsto un momento di studio dello sviluppo urbano di Venezia, con una digressione su Cannaregio, il sestiere del progetto; un’analisi tipologica dell’abitazione mercantile; una ricerca storica sui vicini edifici di Ca’ Sceriman e delle Case della Scuola della Carità, nonché un’indagine sulla perduta Ca’ Venier di cui il progetto idealmente ne restituisce memoria.

Gli artisti sono gli ospiti di questa nuova casa dell’arte, una Schola Nova, in-

tesa nell’accezione veneziana del termine, ossia come luogo dedicato alle arti e all’artigianato.

Una Scuola per Artigiani contenuta all’interno di un palazzo-fondaco che accoglie aule, laboratori e spazi espositivi, sospesa sui resti di una vecchia abitazione come momento di ricomposizione di quell’antica unità perduta immortalata dal de Barbari, quella che esisteva mediante una corte tra Ca’ Sceriman e Ca’ Venier fiancheggiate dalle Case retrostanti e dall’acqua: questo è il progetto.

Il disegno di quel frammento di ‘perennità’ scomparso.

La Scuola attraverso la corte ripristina il rapporto con Ca’ Sceriman e ne stabilisce uno nuovo, tra passato e presente. Quasi duecento anni dopo, la foto di Luigi Ghirri al Ponte dei Sospiri sembra dare immagine alla visione ‘fantastica’ della città descritta dalle parole di Lord Byron secondo il quale, come per il “colpo di bacchetta di un mago”6, le Prigioni e il Palagio si elevano dall’acqua.

Il fotografo nel ritrarre la realtà, sospende gli edifici sopra un’acqua vellutata da una luce inattesa, che nell’attimo della sua comparsa, viene incorniciata dal ponte.

La luce non è che la porta per un’altra dimensione, il ponte un varco.

Perfino il realismo di Ghirri cede al fascino della città: della realtà il fotografo non

ne consegna che un frammento evanescente ricongiungendo le due città... Venezia “sospesa”, Venezia dei sogni.

note

1 da Capitolo I “La Cava” de Le pietre di Venezia, John Ruskin (Londra, 1819 - Brantwood, 1900) 2 tratto da una lettera di Ruskin al padre del 1850, riportata nell’introduzione di J. Rosenberg in Le Pietre di Venezia , I classici della Bur, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1990

3 da De Situ Venetia Urbis , Marcoantonio Coccio Sabellico (Vicovaro 1436- Venezia 1502), riportato in Anglani L. , Bortoletto M. , Calabi D. , Concina E., De Min M. , Fozzati L. , Minini M. (a cura di), “Tra due elementi sospesa” Venezia, la costruzione di un paesaggio urbano, Venezia, Marsilio Editori, 2000 4 cfr M. G. Eccheli nell’ articolo Aldo Rossi e Venezia della rivista Firenze Architettura: il progetto nella città d’arte, 2.2001, Firenze

5 la Vena è il canale artificiale che taglia centralmente la piccola isola di Chioggia, nella parte meridionale del laguna veneta. Il nome è dovuto proprio dal fatto che essa rappresenta l’arteria principale dell’insediamento.

6 tratto dal Canto IV de Childe Harold’s Pilgrimage, Il Pellegrinaggio del giovane Aroldo, di Lord Byron (Londra, 1788 – Missolungi, 1824); la traduzione proposta è la prima in italiano dell’opera, fatta nel 1836 da Giuseppe Gazzino (Genova 1807 - Genova 1884) pochi anni dopo la morte del poeta. L’opera verrà poi tradotta da altri, incontrando anche più successo, ma le parole di G.G. “per magica virtù” riescono a rendere, meglio delle interpretazioni più letterali, l’inverosimilità di Venezia.

9 pagina precedente Ponte dei Sospiri in Paesaggio Italiano, 1987, L. Ghirri

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Ortofoto di Venezia con l’indicazione dell’area di progetto

Caustiche dell’acqua riflesse sull’intradosso della sostruzione di un ponte a Venezia

note

1 da Le città nella storia d’Italia, Venezia; p 32; G. Bellavitis, G. Romanelli

2 ibidem

3 da ‘Tra due elementi sospesa’Venezia la costruzione di un paesaggio urbano; Anglani L., Bortoletto M., Calabi D., Concina E., De Min M., Fozzati L., Minini M. (a cura di)

4 parole di Aldo Rossi in riferimento al convento delle Zitelle, riportate da M. G. E. nell’ articolo Aldo Rossi e Venezia, rivista Firenze Architettura: il progetto nella città d’arte, 2.2001

Venezia

Il territorio sul quale compaiono i primi insediamenti di Venezia si presenta come un complesso sistema naturale di isole, paludi e acque basse, dai confini piuttosto incerti e labili per via dell’azione del mare. La toponimia di questi ambienti ne ricorda le caratteristiche morfologiche naturali: Olivolo, un’isola nella punta orientale della città; Gemine, due isole simili dette perciò gemelle; Rivoalto e Dorsoduro, ad indicare una fascia rialzata di terreno dalle ‘alte rive’ e da un ‘duro dosso’ a fronte delle bassure paludose di Luprio; Canalecto, piccolo canale della foce del fiume Marzenego. Da queste sei regioni naturali si sono originati i sestieri di Castello, San Marco e Cannaregio, detti de Citra, perché al di qua del Canal Grande dove si trovava l’area governativa, e quelli di S. Polo, S. Croce e Dorsoduro, detti de Ultra, appunto al di là dal rio principale. Il primo nucleo insediativo si sviluppa sulle Isole Realtine, che rappresentano il gruppo di terre di poco più alte rispetto alle altre. La città si è poi formata attraverso un lento processo di annessione di terre bonificate e sottratte alla laguna: si tratta di un sistema aperto di espansione urbana, per aggregazioni successive. Pertanto il perimetro della città per molto tempo non è definito da un limite preciso. Dove non si affacciano

i portici, le ripe gradate, le porte d’acqua delle case dei mercanti, si cerca di contenere le singole isole, il corpo della città, attraverso arginature e opere di contenimento. A partire dal primo Cinquecento il dominio incontrastato della città sul Mediterraneo orientale comincia a far percepire la contrapposizione con l’incompiutezza della forma urbana. La volontà e l’esigenza di definire il confine tra spazio lagunare e spazio urbano attraverso delle fondamenta continue che concludano l’imago urbis di Venezia, è sancita attraverso il piano Sabbadino. Il progetto risponde alle spinte di espansione urbana della città proponendone un limite preciso. Con questo primo atto viene disegnata la ‘perennità’ di Venezia, ovvero il suo rapporto topografico con la laguna. Nella puntuale ponderazione di regimentazione e assecondamento dei canali naturali consiste il rapporto tra l’acqua e Venezia. La città arcipelago si articola attraverso una doppia trama di collegamenti via mare e via terra. Nella definizione dei suoi percorsi d’acqua Venezia si presenta come “sintesi di morfologia tentacolare e morfologia a tappeto, una duplicità che [ne è rimasta] la prerogativa nel tempo”1. Questo doppio modo di procedere, che riflette l’opportunità e la convenienza o di adattamento ai canali naturali o di scavo di altri artificiali, si legge in scala mi-

nore nelle vicine isole di Chioggia e Murano: la prima è costituita da un tessuto edilizio perpendicolare rispetto allo stretto canale artificiale rettilineo detto la Vena; mentre la seconda si flette per assecondare i canali naturali esprimendo una totale apertura verso le acque lagunari2. La combinazione di queste due morfologie elementari articola la complessità urbana veneziana. La città vista dall’alto sembra un grande organismo vivente che ha nell’acqua la sua linfa vitale, un “grembo [..] che la nutre” 3. Essa ne costituisce lo spazio urbano per eccellenza: l’acqua è il luogo dove si muovono le persone, si affacciano le case, si svolgono feste, si manifesta la vita della città.

Sulle vie d’acqua si specchia l’architettura, prima serrata lungo i grandi canali navigabili poi nel labirintico intreccio di campi e calli. Nella città mercantile la ricerca di un affaccio sui canali ha generato architetture protese all’acqua su cui sporgono con fronti stretti ed aperti. Dai grandi canali in poi i valori fondiari e le funzioni mercantili vanno di pari passo scemando e l’edificato asseconda le complesse questioni di proprietà ed orografia.

L’avvicendarsi dei palazzi sul Canal Grande, così come nelle fughe dei rii minori ha costruito la quinta urbana di un paesaggio introspettivo, “dove interno ed esterno si confondono”4

Venezia è aperta sui canali e scoperta verso la laguna, la città senza mura ha nel mare la sua prima difesa. La permeabilità della città alla laguna ha determinato un’architettura urbana introversa dove l’acqua, prima è natura fuori dall’opera dell’uomo, poi in continuità ne diviene l’anima interna. Venezia non guarda fuori, perchè ciò che prima è fuori, l’acqua, poi conduce nei suoi recessi più nascosti: in un certo senso la città guarda se stessa. I fronti sui canali sono il volto stesso della città verso l’esterno. La facciata, dunque, è il tema della città, con essa Venezia disegna la sua forma urbana stabilendo un confine preciso tra terra e mare, uomo e natura. Per le vie di terra si incontrano invece le corti dei palazzi, le botteghe e i retri delle case; la mostra della città è tutta rivolta all’acqua e nel Canal Grande trova la sua più lustre espressione. Parimenti l’area di progetto si affaccia sulle acque di Rio dei Gesuiti, dove una casa scomparsa occupava l’attuale vuoto. Alcune note sulla conformazione urbanistica della città, il rinvenimento dei tracciati del sestiere, una breve indagine tipologica sulla casa veneziana e uno studio sulle immediate preesistenze attorno all’area di intervento rappresentano il punto di partenza della ricerca progettuale.

13 Il luogo

Non è città in Europa, che abbia più palazzi e di gran circuito, così sul Canal Grande come fra terra, di Venezia, i quali noi chiamiamo case per modestia, non avendo nome di palazzo altro che del Doge. E certo che si discorre per le città principali d’Italia, come è Roma, Napoli, Milano, Genova, Fiorenza, Bologna, Padova, Verona e Pavia, non si troverà che habbiano più di quattro o sei casamenti per una, che meritino titolo di palazzi. Ma in questa se ne contano poco meno di cento, et tutti, così antichi come moderni, magnifichi e grandi, così nella compositura, come negli ornamenti, ne partimenti ne luoghi utili per habitare.1

La Venezia descritta dal Sansonivo è dunque una città di grandi e piccole case che si sussueguono l’uno all’altra secondo la costrizione degli esigui spazi insulari e rappresentano la vivacità della classe dominante, quella mercantile. La natura anfibia di Venezia ha un ruolo fondamentale nella definizione dei caratteri della sua residenza. L’acqua infatti, prima più di ora, rappresenta una complessa serie di funzioni, è spazio di mercato, è un vero e proprio sistema di difesa, è il teatro della vita della città. Il luogo dove la tipologia dell’abitazione mercantile venezia-

na trova massima rappresentanza è il Canal Grande. Il modello abitativo che vi si sviluppa viene ripreso come riferimento anche dai palazzi che sorgono lungo i canali interni. La libera circolazione di merci e persone sul canale genera una naturale apertura delle abitazioni che su di esso si affacciano. I primi edifici veneziani, quelli del XIXII secolo (di strutture più antiche non sono rimasti che frammenti, ed anche questi di difficile datazione), sono contraddistinti da un porticato al piano terra, eguagliato da una loggia al piano superiore che si estende lungo l’affaccio sull’acqua e si apre internamente su un lungo spazio retrostante. Portici e loggiati sono spazi accessori alla residenza dove mettere al riparo o esporre le merci: l’affaccio sul canale è caratterizzato quindi da una stretta relazione con il mondo mercantile. Dietro questo primo ambiente si distende l’abitazione che si allunga solitamente per aprirsi su una corte interna e si articola ai lati con uno o due corpi di fabbrica a racchiudere le stanze. Spesso gli ambienti laterali in facciata si elevano più alti del corpo centrale a mo’ di torrette, sono le ‘torreselle’, quasi dovunque scomparse. Di questa prima impostazione ne costituisce un efficace esempio Palazzo dei Patriarchi di Grado, ora scomparso, tra San Silvestro e San Aponal. La scomposizione tra ambiante late-

rale ed uno passante da origine, a seconda della dimensione dell’area e della presenza di edifici sui fianchi, ad una suddivisione interna tricellulare o bicellulare e al posizionamento laterale o terminale di un spazio aperto dove prendere aria e luce.

Nei primi del Duecento l’assetto dell’abitazione mercantile conferma la sua definizione in un corpo di fabbrica che procede perpendicolarmente alle curve del Canal Grande seguendo nei fianchi la topografia dei canali e dei calli, ed è aperto sia sul prospetto principale con uno spazio semi-privato per le attività mercantili, sia sul retro, o talvolta sul fianco, con una corte privata per le funzioni domestiche come il pozzo, il forno, le rimesse. L’ingresso all’edificio è quasi sempre doppio: uno via mare rappresentato dal portico del mercante, l’altro ‘gentile’ via terra dove vi accedono le donne, i bambini e la servitù. Il secondo accesso spesso avviene proprio dalla corte che, in diversi casi, ospita le scale esterne per raggiungere direttamente il primo piano dell’abitazione. Il piano terra quindi è uno spazio di lavoro, mentre quelli superiori accolgono gli ambienti nobili destinati alla residenza vera e propria. Questa conformazione è tutt’ora mostrata da Ca’ da Mosto, un edificio in stile veneto-bizantino risalente al XIII secolo con gli ultimi due piani annessi nel XVII e

pagina precedente Pianta-Veduta di Venezia , 1500, xilografia in 6 blocchi, Jacopo De’ Barbari (Venezia 1460/70 - 1516 circa), Museo Correr note da Venezia città Nobilissima et singolare, libro IX, p 1; Francesco Sansovino

XVIII secolo, definito da Ruskin ne Le Pietre di Venezia, “semplice, grazioso e vigoroso, il più originale e perfetto”. Escludendo le sopraelevazioni dei secoli successivi, anche i vicini Ca’ Dandolo-Farsetti e Ca’ Corner-Loredan sono riferibili a questo periodo; nelle piante si legge chiaramente l’apertura all’acqua e l’articolazione delle stanze laterali attorno ad un lungo salone centrale. Nel lungo corpo di questi edifici sembra già affermato “l’impianto distributivo-strutturale che tipologicamente perdurerà a Venezia per oltre sette secoli, cioè quello a sala centrale passante acqua-terra e smistante i vani laterali sia a piano terra che a piano nobile costituito da quattro murature parallele in profondità [...] con facciata portante e non solo legante-chiudente come [...] nel Gotico e [...] nelle più tarde case bizantine minori”2. La presenza di una certa simmetria si manifesta tuttavia con un relativa rarità, rappresentando più un’aspirazione che una norma3.”Le case ad impianto effettivamente simmetrico sono poche e situate soprattutto in luoghi di particolare nodalità. Vi è più che altro un’aspirazione progressiva verso la simmetria, spesso non raggiunta: così che essa appare carattere innovativo e più tardo rispetto a quelle molte case che mantengono un impianto dissimmetrico rimasto ancorato alla lettura del-

la presenza di un unico spazio chiuso e coperto, con la polifora che lo affianca. Tale impianto è da ritenersi fino ad un certo punto recessivo: nel senso che seguita ad essere attuato in ogni momento storico, anche nel tardo rinascimento, e resta a strutturare le case di passo minore, pertinente ad uno strato sociale meno emergente che non quello degli utenti delle grandi case ad impianto simmetrico”4 Nel corso del trecento e del quattrocento il palazzo veneziano affianca alla funzione abitativa quella amministrativa dei beni familiari nonché economica destinando spesso gli ultimi piani all’affitto. Durante questo periodo di grande attività mercantile, la casa veneziana assume la funzione di una vera e propria garanzia immobiliare, rappresentando un investimento sicuro rispetto alle incertezze che il commercio marittimo comporta. In aggiunta ad un’esigenza economica, si somma la volontà di dare rappresentazione della stabilità della famiglia: “a questi fattori corrisponde la misurata evoluzione che subisce la struttura e l’immagine del palazzo gentilizio privato, distribuito in tutta la città come fattore aggregante ed organizzativo del gran numero di artigiani, commercianti al minuto e addetti ai servizi domestici e pubblici, mantenuti in condizioni di ‘minorità e tutela’ attraverso il con-

trollo corporativo e familiare”5. Il palazzo viene quindi riorganizzato nel rapporto tra sala centrale, stanze laterali e cortile. La prima assorbe progressivamente il porticato frontale e il loggiato duecenteschi, che divengono spazi interni e privati sia al piano terra che nei piani superiori, assumendo il nome di ‘portego’. Il porticato inferiore viene sostituito da uno o raramente due portali d’acqua come nel caso del palazzo Pisani-Moretta in stile gotico fiorito della seconda metà del quattrocento e, anche quando rimane, come nel caso delle arcate duecentesche della Ca D’Oro della famiglia Contarini (1424- 1434), viene integrato nella fabbrica in gotico fiorito tre-quattrocentesca. Dalla porta d’acqua si accede al portego terreno che cresce in altezza per accogliere un piano ammezzato ai due lati per spazi amministrativi, e si apre ancora verso il cortile posteriore o laterale; in certi casi presenta il portone direttamente sulle vie di terra. L’ androne è fiancheggiato da ampi magazzini a piano terra, e il medesimo schema, un portego centrale fiancheggiato da due sfilate di stanze, si ripete ai piani superiori. A partire da questa precisa formula che individua il tipo prevalente a fine Quattrocento, si articolano una serie di combinazioni, che variano in riferimento alla situazione topografica e al contesto edilizio

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note 2 da La casa veneziana nella storia della città Venezia; p 76; P. Maretto 3 cfr La casa veneziana nella storia della città , Venezia; p 34; P. Maretto 4 da La casa veneziana nella storia della città , Venezia; p 25; P. Maretto 5 da Le città nella storia d’Italia , Venezia; p 61; G. Bellavitis, G. Romanelli

circostante incidendo soprattutto nel posizionamento della corte. A seconda di questo si originano e si perpetuano forme a L, T, C. La corte gentilizia in genere presenta una forma quadrangolare marcata da un alto muro di recisone e ha carattere familiare. L’acqua potabile è un problema particolarmente sentito a Venezia e alla corte spetta proprio il compito di serbatoio per l’approvvigionamento idrico: in genere infatti ospita un pozzo centrale e sotto di esso è scavata la cisterna, le cui dimensioni vengono riportate dal disegno della pavimentazione per facilitarne la manutenzione. Se nel corso dei secoli la casa del mercante conosce un’evoluzione per dimensioni e complessità, la corte mantiene intatto il suo ruolo di raccolta delle risorse idriche presentandosi sempre pavimentata con una vera da pozzo centrale e svuotata nelle fondamenta. L’impianto strutturale è organizzato prevalentemente su tre campate dimensionate in larghezza sulla luce di una trave mediamente di 6 m. Questa triplice suddivisione interna determina una composizione tendenzialmente simmetrica della facciata principale verso il canale, ma non sempre. Certo è che, a partire della caduta di Costantinopoli sotto la dominazione turca (1453) e al trattato di Lodi susseguente, la ricerca di una certa regolarità compositiva espri-

me l’aspirazione alla nuova razionalità classicheggiante del rinascimento veneziano. Fondamentale è dunque la relazione che si stringe fra lo sviluppo frontale del loggiato e larghezza della sala retrostante. Nonostante questo molti palazzi sia sul Canal Grande che nelle vie d’acqua interne, allo scopo di esibire dei loggiati molto sviluppati sulla fronte, secondo la metrica dei lunghi porticati duecenteschi, vengono costruiti su quattro campate nella parte anteriore e su tre campate sulla parte posteriore; ne sono un esempio i palazzi Bernardo, Pisani Moretta a San Polo, Corner dei Cavalli a San Luca, tutti databili nell’intorno del 1460, il cui portego in pianta è conformato a L o T e che si affacciavano sull’acqua con polifore a 8 o 6 arcate, mostrando una dimensione costruttiva in facciata maggiore di quella del corpo dell’edificio. Nella maggior parte dei palazzi, il portego mantiene comunque una dimensione costante dal fronte d’acqua a quello di terra, in questi casi la facciata sul canale esprime esattamente la metrica e la sintassi costruttiva generale; ne è un chiaro esempio il palazzo Franchetti-Cavalli a San Vidal (circa 1470): “la luce della campata mediana risulta perfettamente impaginata tra le pareti più chiuse delle stanze laterali e del basamento”6

I palazzi veneziani ancora oggi presen-

tano la facciata sul rio riccamente decorata anche quando si tratta di un canale minore, mentre non lo è quasi mai quella opposta, anche se prospiciente su uno spazio più vasto. La ragione è che il traffico più importante si svolge sui canali e non è affatto frequente che per vie di terra giungano visitatori importanti. La ‘mostra’ è riservata agli spazi rivolti verso l’acqua, l’affaccio sul rio è particolarmente ambito sia per “l’attracco e il carico-scarico, ma, a giudicare dalla monumentalità delle facciate [..], ormai anche per essere visti e per vedere”7. Dietro il fronte che acquista il ruolo di vera e propria quinta scenica, le fiancate si devono adattare, oltre che alla natura dei canali, all’intreccio labirintico prodotto dagli articolati problemi di proprietà della città comportando spesso lo scavo di veri e propri pozzi di luce ed aria tra un proprio fianco e quello dell’edificio adiacente. La grande tradizione del palazzo veneziano è collocata tra la fine del trecento e l’ultimo seicento, facendo la fortuna di architetti come M. Codussi (1440 - 1504), J. Sansovino (1486 - 1570), M. Sanmicheli (1484 - 1559), B. Longhena (1598 - 1682). Durante questi secoli il gotico maturo veneziano si apre alle istanze rinascimentali e poi barocche dando vita a palazzi particolarmente sfarzosi. Tra gli esempi più suggestivi del periodo Ca’ Vedra -

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note 6 da Le città nella storia d’Italia , Venezia; p 64; G. Bellavitis, G. Romanelli 7 da La casa veneziana nella storia della città , Venezia; p 88; P. Maretto
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Rilievo

Due delle quarantasette tavole di Dionisio Morettii che illustrano tutto il profilo dei due fronti del Canal Grande, dal volume di Antonio Quadri, Il Canal Grande di Venezia, Venezia 1828-1829

min-Calergi di Codussi (1481-1509); Ca’ Corner sul Canal Grande di Sansovino; la sontuosa facciata di Palazzo Grimani che evoca archi di trionfo, su ideazione di Michele Sanmicheli; Ca’ Rezzonico, iniziato da B. Longhena; Ca’ Pesaro iniziata nel 1628, emblema del barocco veneziano sempre di Longhena. Nel corso del Settecento, secolo di progressiva decadenza economica e politica, ma ancora di vitalità per le arti, si continua a ripetere il modulo tradizionale del palazzo veneziano, ma spesso alterando il salone centrale, le cui dimensioni si dimostrano strette per le nuove esigenze della società borghese. Numerosi porteghi vengono modificati per ospitare sale da ballo. In altri casi compaiono edifici separati nella corte ad uso di biblioteca. Durante l’Ottocento, assieme alla caduta della repubblica di Venezia e alla perdita dell’indipendenza, gran parte delle precedenti casate patrizie risultano emigrate o estinte; la crisi economica che accompagna la dominazione napoleonica e la prima fase della dominazione austriaca porta alla perdita o degrado di molti edifici. Nella seconda metà del secolo l’ondata di interesse per Venezia da parte dell’alta società europea spinge moltissimi estimatori d’arte stranieri ad adottare un palazzo che viene recuperato per essere trasformato in albergo, in una o più

residenze o in spazi museali e artistici. Nell’ultimo secolo, oltre ai privati, sono intervenuti lo Stato ed il Comune a restaurare moltissimi edifici, alcuni per essere occupati da istituzioni scolastiche ed universitarie, altri per essere convertiti in spazi museali e luoghi espositivi, altri ancora ospitano servizi della pubblica amministrazione. Accanto alla casa, a prendere corpo a Venezia è una struttura civile con funzioni specificatamente commerciali destinata ai mercanti esteri, sono i fondaci. Etimologicamente il termine arabo funduq indica un luogo riservato agli stranieri dove si gode di certe garanzie per gestire il commercio. Tra gli esempi più noti, il Fondaco dei Turchi, quasi interamente ricostruito, presenta un porticato di impostazione duecentesca in stile veneto-bizantino compreso tra due torreselle e il Fondaco dei Tedeschi anche questo ricostruito, adiacente al ponte di Rialto. Oltre ai fondaci un’altra struttura civile a se stante sono le Scuole, intese come luogo di riunione degli artigiani, associate per lo più alle chiese dove gli stessi hanno un altare dedicato al santo patrono. Nel caso degli artigiani, le Scholae di Venezia rappresentano l’equivalente delle Arti nelle altre città. Queste tuttavia non costituiscono un vera e propria tipologia edilizia, sia perché spesso ospitate all’in-

terno dei palazzi mercantili, veri e propri luoghi di produzione e raccolta di arte ed artigianato, sia perché in parte connesse alle proprietà ecclesiastiche, tanto è vero che “le facciate delle scuole veneziane non seguono un tipo tradizionale e quasi standardizzato come quelle dei palazzi privati. Quando vennero progettate le prime sedi, i committenti e i loro architetti dovettero decidere se attribuire loro più il carattere di un edificio sacro o di uno profano. Le soluzioni scelte non furono unitarie”8. In Venezia Descripta il Sansovino definisce le Scuole come “un modo di governare civile, nel quale i cittadini, quasi in propria Repubblica hanno i gradi et gli onori secondo i meriti e le qualità loro”9. Da menzionare la Scuola di San Rocco, la Scuola della Carità, la Scuola di San Marco, la Scuola della Misericordia, la Scuola di S. Giovanni Evangelista. All’interno prevale un piano terra diviso in tre navate e una sala per riunioni altrettanto grande situata al primo piano, “una tripartizione spaziale strutturale - comune a quasi tute le grandi scuole veneziane - che è difficile non collegare a quella del tipo domestico patrizio”10

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Rilievo di Ca da Mosto sul Canal Grande, piano terra, dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia raccolti durante i corsi di Elementi di architettura e disegno dal vero, cartoteca dello IUAV di prospetto di Ca’ Franchetti Cavalli sul Canal Grande, 1470, prospetto principale; rilievo di Tito Talamini, Il Canal Grande: il Rilievo note 8 da Venezia, l’arte del Rinascimento; p 118; N. Huse, W. Wolters 9 da Venezia Descripta, Jacopo Sansovino 10 da La casa veneziana nella storia della città , Venezia; p 164; P. Maretto

Cannaregio, il sestiere

Cannaregio è il sestiere più popolato di Venezia ed il più ampio dopo Castello. Si estende lungo tutto l’arco settentrionale della città al di sopra del Canal Grande, a partire dalla stazione ferroviaria di S. Lucia a nord del sestiere di Santa Croce, a cui è collegato tramite il Ponte degli Scalzi e il recente Ponte della Costituzione, fino a raggiungere prima rio dei Mendicanti, dove si affaccia sul complesso della Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, ed in seguito rio di Santa Caterina, che lo divide invece dal quartiere di San Marco. Il sestiere presenta un edificato piuttosto eterogeneo, coesistono infatti l’edilizia monumentale dei grandi palazzi lungo le sponde del Canal Grande, la prosecuzione del labirintico sistema insediativo che si dirama da Rialto nelle aree orientali, e aree abitative caratterizzate da un maglia urbana più chiara e regolare nella parte nord-occidentale. L’origine del nome ha una duplice interpretazione: una che fa riferimento ai vasti canneti presenti in queste campagne paludose almeno fino all’ X-XI secolo, la seconda che lo deriva da ‘canalecto’ ovvero ‘piccolo canale’, alludendo al piccolo ramo del fiume Marzenego che, sfociando in laguna in corrispondenza dell’attuale Mestre, si faceva strada nelle ore di bassa marea nel canale di Cannaregio che dalle ac-

que lagunari conduce direttamente al Canal Grande.

Al di la dell’etimologia, quest’area caratterizzata da un paesaggio di spiagge, bassi fondali, acquitrini lagunari, ha attraversato, praticamente indenne, il medioevo. Secondo le Cronache Veneziane del funzionario Giovanni Diacono, comprese tra il 994 e il 1008, i processi di urbanizzazione anteriori al XI secolo sarebbero consistiti nella costruzione di un civitatis murus per fronteggiare le acque; anche se, più che di un muro vero e proprio, è più probabile che il cronista alludesse alle opere di disegno, bonifica e consolidamento dei suoli urbani che permisero lo sviluppo della parte settentrionale e orientale della città, da Cannaregio a Castello. Attraverso un processo di innalzamento di muri di arginamento e opere di fondazione si compie l’urbanizzazione del sestiere che comunque nel X secolo risulta ancora piuttosto modesta. La soglia fra acque navigabili e non del Canale di Cannaregio è indeterminata proprio per la presenza di paludi lungo tutto il suo percorso.

La morfologia urbana del quartiere comincia a definirsi a partire dalla seconda metà del XII secolo quando l’area di Cannaregio e di Castello individuano senza interruzione la frontiera urbana esposta verso la laguna nord, dall’antico Canalecto all’isola di Olivolo. Le fa-

vorevoli condizioni economiche e politiche nel trecento e quattrocento contribuiscono ad un’urbanizzazione ancora più intensa e capillare di quella già avvertita nel Duecento, basata essenzialmente nella costruzione di residenze sia borghesi che operaie quanto di opere assistenziali.

La logica urbana con cui si realizzano tali cambiamenti è quella per cui consorzi di privati, ricchi mercanti, nobili nonché organizzazioni caritative come le Schole, investono nella costruzione di complessi residenziali organizzati secondo una più precisa regolarità di impianto. Ovviamente il campo di applicazione di questa logica urbana non è la Venezia dei quartiere antichi e centrali, ma quella recentemente bonificata lungo il margine settentrionale della città dove si da vita a fasce residenziali di profondità omogenea.

In tali meccanismi Saverio Muratori1, ritiene che l’urbanizzazione di questa zona trovi stimolo in avanzata età gotica nelle conquiste continentali della Repubblica e perciò nel nascere degli interessi verso la terraferma.

A partire pertanto dal XV secolo si cominciano a definire i confini urbani del sestiere rispetto alle acque lagunari che trovano compimento a fine Cinquecento con la creazione di un ultimo tratto di fondamenta. Quello di Cannaregio è “un paesaggio di la-

pagina precedente Ortofoto del sestiere di Cannaregio con l’indicazione dell’area di progetto

note

voro, di popolo e assistenza, di incolto lagunare”2; che nel corso del quattrocento e cinquecento conosce una costante attività edilizia. Questi spazi un tempo definite ‘terre vacue’, divengono estensioni caratterizzate, rispetto alle aree centrali, “dall’allentarsi delle maglie della trama insediativa, dalla crescita di dimensioni dello spazio organizzato, dal prevalere degli impianti regolarmente geometrici a media e grande scala, esito di controllo pianificatorio, piuttosto che di quelli più minuti e complessi che risultano da comportamenti organici di sviluppo del corpo della città”3. L’immagine del sestiere è dunque un disegno “di contrade di margine a maglie larghe e relativamente regolari, geometriche [...] Un disegno che è testimone diretto di una spinta alla crescita per tappe successive, dagli antichi insediamenti nucleari attratti dall’area realtina e dal Canal Grande verso settentrione, a discapito delle estensioni di bassi fondali lagunari di cui resta qua e la traccia anche nella toponomastica odierna4. Per definire queste aree viene usata la locuzione cinquecentesca di ‘mondo nuovo’ sia perché in buona parte di recente acquisto per la città sia perché diverse a questa stessa. I tratti di ruralità che contraddistinguono le periferie urbane di Venezia nel corso del cinquecento cominciano a diminuire ulterior-

mente per far spazio a nuove abitazioni e botteghe. Gli elementi attorno ai quali si intreccia il tessuto urbano sono la corte e la ruga. La corte va tuttavia declinata in diverse accezioni, sia come spazio chiuso e gentilizio di un palazzo, sia come spazio aperto attorno al quale si organizzano una serie di abitazioni che offre luce, aria, acqua potabile, aree di lavoro all’aperto assumendo pertanto una funzione collettiva e pubblica, tanto che per questo si parla più spesso di ‘corte di case’. A questa accezione si avvicina morfologicamente la ruga, ovvero uno spazio allungato compreso tra blocchi edilizi paralleli che più che comunitario e di servizio alle abitazioni è un tratto di viabilità urbana che presenta una dimensione maggiore rispetto a quella del calle. L’ultimo importante atto di definizione della forma urbana di Cannaregio è la realizzazione delle nuove fondamenta verso la laguna. Nel 1590 vengono avviati i lavori che regolarizzano per circa un chilometro i confini settentrionali delle contrade di Santi Apostoli, Santa Sofia e San Felice. Anche dopo la costruzione delle fondamente, la zona continua a costituire un’area di approdo per un fitto sistema di traghetti dalla laguna settentrionale.

La regolarità della struttura urbana di Cannaregio ben lontana dai percorsi labirintici dei sestieri di S. Marco e S. Po-

lo, si confronta con i quartieri che contemporaneamente si costruiscono in altre città europee quali Rotterdam ed Amsterdam, i cui canali, come osserva Tommaso Contarini nelle sue Relazioni Veneziane nel 1610, “sono larghi e dritti con le sue fondamente, da ogni banda larghissime, che rappresentano a punto il sito di Cannaregio”.

Il quartiere conta un nutrito numero di botteghe artigiane e attività commerciali che alimentano un intenso mercato interno legato più che altro all’autosufficienza degli abitanti. Depositi, squeri, magazzini caratterizzano soprattutto il margine lagunare mentre grandi macelli vengono aperti oltre San Giobbe all’imbocco del Canale di Cannaregio; sempre verso la parte occidentale si trovano molte ‘chiovere’, ovvero campi dove vengono stese ad asciugare le stoffe appena tinte. Unico vuoto ad interrompere la continuità del margine settentrionale è rappresentato, come è tutt’ora, dalla Sacca della Misericordia, un tempo bacino per la raccolta di legname che arriva dalla terraferma per fluitazione. Il più recente e noto intervento urbanistico che conferisce al sestiere le forme attuali è l’apertura della Strada Nova, ovvero quella congiunzione anulare che, circoscrivendo l’ansa settentrionale del Canal Grande, unisce la stazione ferroviaria di S. Lucia con la

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1 S. Muratori (Modena 1910 - Roma 1973), Studi per un’operante storia urbana di Venezia 2 da Venezia nell’età moderna; p 101; E. Concina 3 da Venezia nell’età moderna; p 54; E. Concina 4 da Cannaregio un sestiere di Venezia: la forma urbana, l’assetto edilizio, le architetture; G. Cristinelli

chiesa dei S. Apostoli. Questo processo che si sviluppa per interventi progressivi dal 1818 al 1871, porta all’interramento di diversi canali e rappresenta un tentativo di risanamento alla precaria situazione igienico-sanitaria.

Un caso singolare all’interno di Cannaregio è rappresentato dal ghetto ebraico situato alla confluenza di rio di San Girolamo con rio della Misericordia. L’area è denominata ‘Ghetto’ almeno dagli inizi del XIV secolo, poiché vi si trovano le fonderie pubbliche per la fabbricazione delle bombarde. Il toponimo deriva infatti dal verbo ghettare, cioè ‘affinare il metallo con la ghetta’. Verso l’inizio del Quattrocento le fonderie smettono di funzionare e l’area del Ghetto Nuovo viene affidata alla famiglia veneziana dei Bruolo, che intende edificarvi un complesso residenziale con case da affitto; alla fine il progetto viene abbandonato e l’area rimane disabitata per diversi decenni. All’inizio del Cinquecento gli sconvolgimenti della guerra della Lega di Cambrai portano numerosi ebrei a riversarsi dalla terraferma a Venezia, destando preoccupazioni da parte dei residenti cristiani. Nel 1516 il Senato confina gli israeliti nell’area del Ghetto Nuovo. Si tratta di una vera e propria isola pentagonale con tutti i lati chiusi come una fortezza; l’ingresso e l’uscita avvengono solo per due porte con ponti tenuti sot-

to controllo e chiusi la sera. Il modello insediativo è quello di una ‘corte de case’ deliberatamente isolata dal contesto. Rivelatosi presto insufficiente, nel 1541 viene concessa la fascia edilizia corrispondente al ghetto Vecchio, mentre una zona minore, il ghetto nuovissimo, sarà annesso nel 1633. I tre ghetti conoscono una forte crescita edilizia caratterizzata da un intenso sfruttamento dello spazio. Essi seguono dinamiche urbane indipendenti rispetto al resto del quartiere, le abitazioni sono poche, scadenti e costose. All’interno la vita è particolarmente vivace, segnata da un fitto intreccio di attività religiose, economiche, assistenziali, culturali. La caduta delle discriminazioni avviene parallelamente a quella della Repubblica di Venezia per mano di Napoleone. Dal punto di vista architettonico, oltre a modelli tipologici di edilizia minore, Cannaregio presenta anche molti esempi di palazzi di ricche famiglie sia lungo le sponde settentrionali del Canal Grande, come ad esempio Ca’ da Mosto e Ca’ d’Oro, che nei canali interni. Accanto alla grande varietà di edilizia civile privata si trovano anche grandi complessi religiosi come quelli dei Santissimi Apostoli e dei Gesuiti. Il primo è una parrocchia risalente al VII secolo e rappresenta un nodo fondamentale del sistema realtino predoga-

le, “caposaldo fortificato posto a difesa dell’accesso al Canal Grande dal litorale lagunare nord”5; mentre il secondo si origina intorno al XII secolo quando vi viene fondata la prima chiesa che dispone attorno di terreni e paludi, dove nel corso del tempo vengono realizzati un convento ed un ospedale. La forma attuale, in seguito all’abbattimento del vecchio edificio, è opera nel 1715 dell’architetto Domenico Rossi che disegna la Chiesa di Santa Maria Assunta secondo i canoni gesuiti.

L’area di progetto pertanto costituisce l’episodio ultimo della precisa maglia urbana che dal margine settentrionale del sestiere si sfalda incrociando la complessa logica inseditativa proveniente da Rialto e San Marco. Questo piccolo angolo di città è il risultato di un progetto di espansione in cui le aree da destinare alla costruzione sono chiaramente disegnate, esiti di veri e propri investimenti immobiliari. Come accade lungo le sponde del Canal Grande, l’area si protende verso le acque e conquista un prezioso affaccio per completare la quinta urbana sulla sponda settentrionale di Rio dei Gesuiti. A Ca’ Venier spetta la parte più ambita del lotto, quella appunto prospiciente il canale principale.

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pagina precedente Confluenza tra rio dei Gesuiti e rio di Santa Caterina, nelle vicinanze dell’area di progetto note 5 da Studi per una operante storia urbana di Venezia: quadro generale dalle origini agli sviluppi attuali; p59; S. Muratori

note

Ca’ Venier

A Santi Apostoli vicino a Crocicchieri vicino al rio [...] è anco il palazzo di Nicolò e Antonio Venieri di gran macchina, con nobile cortile, ornato nuovamente di statue, poste sopra piedistalli, fra le quali vi è un suonator di Piva, grande più del naturale di tutto tondo, significante il passatempo, o vero il Diletto. Una Donna della stessa grandezza, con un Satiretto, espressa per una Baccante, spremente l’Uva. Un Apollo con Dafne, che si trasforma in Lauro, dimostrante l’Avidità illecita. Et un Bacco puttino, che si ciba d’Uva in su uno scoglio. Tutte le suddette statue sono scolpite in marmo da Falcone Milanese. Vi è un’huomo grande più del naturale in atto di percuotere un drago che li sta avviticchiato alle gambe, rappresentante il dispregio delle cose vili. Et una donna nuda con doi Cornucopia, l’un drito, et l’altro in atto di riversiarsi, figurata per la Liberalità, scolpite da Clemente Molli Bolognese. Si continua a formar altre Statue, et a lavorar altri abbellimenti per render questo cortile ammirabile.1

Tra le fonti più significative riguardanti Ca’ Venier, oltre ai riferimenti cartografici dei vecchi catastali nonché alle varie piante vedute di Venezia che si susseguono nel tempo e che ne trat-

teggiano la volumetria, ci sono le parole contenute nelle note di Giustiniano Martinioni aggiunte al Venezia città Nobilissima et singolare di Francesco Sansovino (Roma 1521-Venezia 1586) figlio del noto architetto Jacopo Sansovino. Il Martinioni commenta la ricchezza della casa e, come più recentemente riporta Alvise Zorzi nella sua Venezia Scomparsa , “ è da credergli, perché il ramo della famiglia Venier che possedeva il palazzo, era dei più cospicui. Ancora nel Settecento era ricco ed importante, tanto è vero che Sebastiano, nato nel 1717, aveva conseguito nel 1762 la porpora di procuratore di San Marco, e suo figlio Niccolò occupava alla caduta della Repubblica la carica di ambasciatore a Pietroburgo. Vero è che il procuratore, dopo la morte della moglie, che era una Mocenigo, aveva sposato una donna da poco, la figlia di un macellaio, che tutti chiamavano la ‘procuratessa sporca’. Costei, donna volgare e violenta, finì col buscarsi una condanna all’esilio; il procuratore, invece, moriva improvvisamente al caffè Bonamigo di Mestre il 5 Ottobre 1774. Dal momento che non trovo, in quel torno di tempo, nessun altro Venier di nome Alvise, fu senza dubbio Alvise Venier, nato nel 1744, figlio del Procuratore Sebastiano e fratello dell’Ambasciatore a prendere in moglie Teresa Ventura, figlia di un vetturale di Vicen-

za, famosissima diva del canto e della danza [..] che morì nel 1790”2 Precedentemente alla dinastia Venier che lo aveva reso celebre, è ipotizzato che il palazzo sia costruito per “Gerolamo Michiel prima del 1464, anno in cui fu venduto all’incanto dai consoli dei mercanti a Mattio Tiepolo”3; quest’ultimo nel 1466 vende l’altra parte della proprietà, “un terreno cum suis fundamentis”4, a Gerolamo de Nicolò Toschan che vi realizza l’attuale Ca’ Sceriman, a condizione di non aprire finestre verso la corte che separa i palazzi. Su tale dettaglio del contratto di suddivisione in due proprietà dell’area, si certifica di fatto l’origine più antica di Ca’ Venier rispetto a Ca’ Sceriman. Secondo la ricostruzione riportata in Cannaregio un sestiere di Venezia: la forma urbana, l’assetto edilizio, le architetture , la perduta dimora, di dimensioni più contenute rispetto al palazzo retrostante, occupa la parte più preziosa del lotto, quella prospiciente rio dei Gesuiti, ed è inoltre dotata di una corte quadrangolare posteriore. L’ultima fonte a raccontare le vicende del palazzo è quella di Giovanni Battista Paganuzzi, nella sua Iconografia delle trenta parrocchie di Venezia (1821), dove il palazzo viene dato per esistente, benché non più abitato dalla famiglia, ma nella pianta dello storico non viene disegnato, e al suo posto

viene invece indicato un orto. In ogni caso l’ultimo Venier del ramo, Sebastiano Lorenzo, nel 1830 risiede a Padova e poiché dalla moglie, la contessa Elena Forzadura, non risulta abbia avuto figli, con lui la casata si estingue. Con la demolizione di Ca’ Venier databile all’incirca tra il 1812, anno indicato da Andrea Fasolo nei suoi Palazzi di Venezia e il 1821 suggerito dallo Zorzi sulla base del Paganuzzi, sono scomparse le sculture del Molli e del Falcone ospitate nella corte e disperse le fortune della famiglia collezionate all’interno del palazzo. Quello di Ca’ Venier non è certo un caso isolato, purtroppo con la distruzione, l’abbandono o il degrado di grandi palazzi, è avvenuta la dispersione di tutto ciò che essi contenevano. Da secoli le grandi famiglie veneziane accumulavano ininterrottamente ricchezze nelle loro case: opere d’arte, mobili di pregio, arazzi, argenterie, preziosi vetri di Murano, porcellane, broccati, damaschi. Così tra la schiera di edifici perduti, accanto a Ca’ Venier compaiono il cinquecentesco Palazzo Bembo, la mole gotica di Palazzo Michiel Malpaga, il romantico Palazzo

Guoro ai Carmini, Palazzo Corner di Scamozzi a Murano ed altri; perdite che, come rimanda l’opera dello Zorzi, alimentano il mito della Venezia Scomparsa

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pagina precedenti Ortofoto dell’area di progetto Vista da Rio dei Gesuiti dell’area di progetto con il muro in mattoni della perduta Ca’ Venier 1 da Venezia città Nobilissima et Singulare ; di F. Sansovino libro IX p 391, riportato in Venezia Scomparsa, p 306, Zorzi Alvise
3
4 ibidem
2 riportato in Venezia Scomparsa, p 306, Zorzi Alvise
ibidem

Ca’ Sceriman

Le prime informazioni su Ca’ Sceriman risalgono al 1466, anno in cui venne acquistata da Gerolamo di Nicolò Toschan la parte restante della proprietà di Mattio Tiepolo, Ca’ Venier, fatto salvo il divieto di aprire finestre prospicienti la corte del palazzo. Come raccontano le note di Martinioni nel libro IX del Venezia Descripta, al 1514 ne risulta proprietario Agostin Nicolò Gerolamo, i cui figli Zan Alvise, Nicolò e Zan Battista Dolce lo vendono nel 1544 ad Alessandro Contarini procuratore di San Marco. Nel 1648 l’edificio passa in mano ad un membro della famiglia Gozzi, mercanti di stoffe e sete a Rialto. Alla morte dell’ultimo Gozzi, Alberto, la moglie Adriana Donà, ritiratasi nel convento delle Cappuccine di Castello e rinunciando all’usufrutto di tutte le proprietà, pone in vendita il palazzo che viene acquistato da Stefano Seriman nel 1725. Gli Sceriman o Seriman, originari della Persia, arrivano in Italia verso la fine del seicento per sfuggire alle persecuzioni ottomane.

La famiglia viene accolta nella nobiltà veneziana per aver prestato somme ingenti durante periodi di guerra. L’edificio, che per anni è stato sede dell’Accademia degli Industriosi prima che questa si trasferisse a palazzo Morosini del Giardino, è stato restaurato ed ospita oggi un istituto di religiose.

Ca’ Sceriman è un’architettura del XV secolo che esprime la transizione dal gusto tardo-gotico a quello rinascimentale. Si tratta infatti di un edificio dalle dimensioni ragguardevoli, maggiori rispetto alla casa mercantile del duecento, ma inferiori e a quelle che caratterizzano i grandi palazzi dei secoli successivi.

L’edifico presenta due prospetti principali: quello minore, di terra, sulla salizada e quello più grande su rio del Gozzi. Negli altri due lati esso invece si affaccia per il lato lungo sull’edificato a schiera di Calle dei Volti e per l’altro più corto sulla corte dell’allora antistante Ca’ Venier.

I prospetti originali sono un’esempio di ‘gotico maturo o fiorito’, nel loro riferirsi fondamentalmente alla tradizione gotica precedente senza rinunciare all’inserimento di nuovi temi rinascimentali come la partizione geometrica delle aperture, la regolarità costruttiva dell’insieme, i capitelli della quadrifora centrale del piano nobile, il rimando a forme del periodo romanico nella prima cornice marcapiano. La facciata sulla salizada è composta da una imponente quadrifora centrale con archi acuti trilobati e riquadrata dietro i balconi di epoca molto più tarda; ai lati le due coppie di monofore sono di identico stile e disegno.

A piano terra, in posizione inconsueta-

mente centrale rispetto alle tradizione gotica, ma in linea con l’assialità rinascimentale, vi è l’ampio portale; il secondo piano, con semplice trifora ad archi a tutto sesto e coppie di monofore ai lati, è sempre di epoca cinquecentesca. La facciata su rio presenta una serliana di periodo tardo rinascimentale, che si apre con un profondo balcone sopra la porta d’acqua; ai lati tre monofore, ciascuna con un proprio balconcino. Nel corso degli anni svariate aggiunte hanno tentato uno sbilanciamento a favore del prospetto sull’acqua più scenografico a discapito di quello su strada.

All’interno la struttura è articolata da un lungo e buio salone centrale che si sviluppa secondo l’asse maggiore e sul quale si affacciano le varie stanze.

Nel suo schema distributivo Ca’ Sceriman rispecchia la tradizione tipologica del palazzo veneziano, tuttavia l’orientamento del lotto, che si sviluppa nel lato maggiore lungo il rio, e la mancanza di una spazio vuoto privato retrostante l’abitazione, hanno prodotto lo spostamento delle scale che invece che disporsi lateralmente al salone ne rappresentano la terminazione.

Secondo alcune ipotesi il palazzo potrebbe aver avuto in origine una pianta di tipo ‘C’ con un cortile e una scala scoperta dove si trova ora la serliana, disposizione piuttosto comune all’epo-

ca poiché permette agli edifici sprovvisti di spazio retrostante di avere comunque una piccola corte; di tale soluzione la Ca d’Oro ne costiuisce l’esempio più noto.

Nella decorazione degli interni spiccano il soffitto del salone, affrescato con una Apoteosi della famiglia Sceriman , dipinto da un seguace di Gian Battista Tiepolo (Venezia 1696 - Madrid 1770), ma parzialmente attribuito anche allo stesso, e lo scalone barocco rifatto da Antonio Gaspari (16561723), allievo di Longhena.

Il posizionamento anomalo di quest’ultimo a ridosso del prospetto minore interno, rappresenta un’ulteriore conferma, oltre a quanto espresso nel contratto di compravendita del terreno, della presenza di Ca’ Venier nella parte più preziosa del lotto, ovvero quella prospiciente su rio dei Gesuiti, con la propria corte a dividerla da Ca’ Sceriman.

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pagina precedente Prospetto di Ca’ Sceriman su rio del Gozzi dal ponte della Salizada dello Spezier

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sotto

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Le case della Scuola della Carità

Per la sua razionalità distributiva, il complesso della Case della Scuola della Carità lungo Calle dei Volti costituisce uno degli esempi tipologici più significativi dell’edilizia minore veneziana. Si tratta di case a schiera di quattro-cinque livelli, destinate ad affitto per il ceto medio-basso, che ospitano ai piani superiori le residenze e al piano terreno botteghe, magazzini e officine. Il complesso si sviluppa attorno allo stretto calle che ne diviene una sorta di corte privata allungata. Le due schiere sono di epoche diverse: quella più antica, lungo il rio, organizzata da un modulo tripartito e servita da scale a rampe semplici che si sviluppavano a partire dal calle interno, e quella più recente che si affaccia su Calle Venier, al contrario con scale leonardesche. Entrambe le schiere subiscono sostanziali modifiche, tuttavia dai rilievi attuali si intuisce il posizionamento delle lunghe scale a rampe semplici nella stecca più antica, ora tutte sostituite da altre a modello leonardesco ad eccezione di quelle dalla parte di rio dei Gesuiti. Le prime fonti scritte sul complesso giungono da un testamento che tale Tommaso Cavanza stipula nel 1460 nominando suoi eredi i fratelli della Scuola di Santa Maria della Carità e affidandogli il compito di vendere i suoi beni per costruire case la cui rendi-

ta possa essere destinata dalla Scuola a fini caritativi. Difatti nel 1491 la Scuola compra un’abitazione a quanto pare a costruzione ‘principiata’ ed “un teren murado intorno con tute pieve vive greze et lavorade se atrova in quelo et con suo pozo e sponza [...]posto nel confin di Santa Apostolo ape del ponte de piera nuovamente fato a crosechieri et son dito teren longo passa 42 et largo passa 12 in zerca [...]per ducati 1900”1; un lotto le cui dimensioni coincidono con quelle del complesso considerato. Le prime tracce di affitti risalgono a fine Quattrocento, ma sarà nel corso del XVI-XVII sec. che il complesso raggiunge le forme attuali, salvo poi subire ulteriori modifiche nel Settecento. Le epoche di alcuni di tali interventi sono attestate in incisioni lapidee murate sulle fronti, tutte indicanti il simbolo della Scuola. Si tratta pertanto di un’edilizia popolare e seriale esito di un investimento immobiliare che nel corso del tempo ha prodotto un complesso non distante dalla ‘corte di case’ e dalla ruga, che rappresentano, per l’edilizia minore veneziana, i modelli tipologici principali nello sviluppo urbanistico delle periferie. Calle dei Volti rappresenta “un organismo edilizio programmato e risolto non solo tramite l’architettura seriale, ma [..] come un fatto architettonico unico, un’architettura a scala edilizia”2

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pagina precedente Il fronte delle Case della Scuola della Carità su rio dei Gesuiti Partendo dal basso a salire il piano terra, il primo piano, il secondo piano, il terzo piano note riportato da Cannaregio un sestiere di Venezia: la forma urbana, l’assetto edilizio, le architetture; G. Cristinelli da La casa veneziana nella storia della città, Venezia; p385; P. Maretto

Schola Nova

Considerando la demolizione di un recente annesso addossato a Ca’ Sceriman, il progetto si inserisce in un piccolo spazio vuoto ed incolto contenuto nel rettangolo di fondamenta che disegnano i percorsi trasversali di rio Ca’ Dolce e rio dei Gesuiti e quelli longitudinali dei canali del Gozzi e di Santa Caterina, appena sotto Campo dei Gesuiti nel sestiere di Cannaregio. Quella realizzata dai canali è l’ultima precisa maglia del misurato sistema urbano che arriva dalla parte nord-occidentale del sestiere e si sfalda di fronte a Rio dei Gesuiti.

Oltre quest’ultimo, la struttura della città fa parte della più complessa logica insediativa che si dirama da Rialto e S. Marco. Ancora oggi arteria principale dell’area, il canale dei Gesuiti dalle acque settentrionali della laguna penetra all’interno del tessuto veneziano e, dopo aver bagnato l’antico Campo dei Santissimi Apostoli, si immette nella curva orientale del Canal Grande.

In particolare il progetto occupa quella che era, fino ai primi anni dell’Ottocento, la proprietà di Ca’ Venier, attualmente spazio pavimentato con una vegetazione spontanea attiguo a Palazzo Sceriman.

Un antico muro in mattoni, prima paramento di Palazzo Sceriman, delimita tutto il perimetro dell’area disegnando

gli argini dei canali adiacenti e il percorso di calle Venier su cui affaccia il lungo prospetto meridionale del complesso delle Case della Scuola della Carità. Ca’ Venier, Ca’ Sceriman e le Case della Scuola definivano in modo preciso questo spazio urbano relazionandosi attraverso una corte e un calle.

La compattezza della disposizione degli edifici è stata immortalata nel cinquecento da Jacopo de Barbari (Venezia 1460/70 - 1516 circa) nella sua celebre pianta-veduta della città. Nell’incisione il disegno di quell’angolo di Venezia appare perfettamente compiuto con una corte a tenere uniti i due palazzi che si alzano di un piano sulle Case della Scuola.

Questo piccolo brano di città sembrava aver raggiunto quella condizione di ‘perennità’ auspicata dalla visione cinquecentesca della Venezia ‘trionfante’ disegnata dal piano di Cristoforo Sabbadino nel 1557. L’unità della composizione si perde con la demolizione ottocentesca di Ca’ Venier a vantaggio di uno spazio aperto maggiore per la più grande Ca’ Sceriman. In questo modo però il fronte orientale di quest’ultimo edificio, aprendosi su un grande spazio vuoto a ridosso del canale principale, acquista importanza e i rapporti tra i prospetti risultano alterati. La percezione dell’edificio cambia: Ca’ Sceriman viene lasciata scoperta

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pagina precedente Dettaglio della pianta veduta di de Barbari, 1500; davanti al complesso delle Case della Scuola della Carità si alzano i volumi di Ca’ Sceriman e della perduta Ca’ Venier Catasto napoleonico 1801 Progetto di Palazzo in situ Paludoso, Palazzo del Duca; Antonio Averlino detto il Filarete (Firenze, 1400 circa - Roma, 1469), XV secolo
Il progetto
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nel suo prospetto meno significativo, quello quasi cieco dove internamente appoggia lo scalone Seicentesco.

Il progetto si propone quindi come momento di ricomposizione di un’unità perduta attraverso il disegno di un nuovo edificio che possa ricostituire quel frammento di città.

Il nuovo volume ricalca il confine tracciato dall’antico muro e lascia un vuoto alle sue spalle a ricreare lo spazio della vecchia corte. Il disegno è misurato dalla geometria quadrata di quest’ultima e dalle rovine su cui non appoggia, ma che sorvola con una stretta e continua fessura lasciandole intatte.

Il nuovo elemento è sostenuto da dei grandi setti trasversali interni nascosti dalla cinta muraria dando l’impressione che, come Venezia sembra sospesa tra l’acqua e il cielo, così l’edificio possa sospendersi sopra i resti di una storia passata.

L’altezza del volume si confronta con quella dell’adiacente Ca’ Sceriman, fermandosi dove si imposta la copertura del salone centrale. I due volumi si elevano di poco sull’edificato ‘in linea’ circostante, proponendosi come rinnovato punto di riferimento nel tessuto urbano.

Il corpo di progetto, richiamando la memoria della perduta Ca’ Venier, ripristina il dialogo perso con Ca’ Sceriman attraverso la corte e ne inizia uno nuovo, tra passato e presente.

La morfologia dell’area presenta un’evidente similitudine con le aree occupate dai palazzi mercantili sul Canal Grande, il lotto infatti si sviluppa stretto perpendicolarmente al canale principale su cui affaccia con il lato minore. La casa sull’acqua costituisce il riferimento tipologico del progetto. Il passo del lotto, pari circa a 20 metri, la disposizione centrale della vecchia apertura, la possibilità di avere fiancate libere e non cieche di cui una d’acqua e una di terra, sono gli elementi che conducono a considerare il modello tricellulare simmetrico con portego passante acqua-terra e corte terminale come il tipo connaturato al luogo.

La rilettura della casa veneziana si sofferma in alcuni suoi caratteri fondamentali: il doppio ingresso via mare e via terra, l’apertura all’acqua, la spazialità del salone centrale, la corte di pietra. Dalle tracce sul muro delle vecchie aperture vengono ripristinati gli accessi: su rio dei Gesuiti l’ingresso, ora tamponato, ritagliava centralmente la tessitura dei mattoni, mentre su calle Venier in prossimità di Ca’ Sceriman, i resti di un piccolo architrave in pietra lasciano ipotizzare il precedente accesso via terra di Ca’ Venier. Il fronte sul canale si spacca sulla dimensione della vecchia apertura realizzando un portale sull’acqua, quella che un tempo era la ‘porta del mercante’. Sul

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retro, lateralmente, viene recuperato l’accesso per via di terra che si affaccia sulla corte, l’ingresso ‘gentile’. Il taglio a tutta altezza del prospetto principale scava il corpo longitudinalmente rivelandone la struttura interna e crea sulle fondamenta il solco di un canale. La lunga fessura riflette “la sostanziale affinità di concezione - nello scarto tra pluralità di scala edilizia e unicità di scala architettonica - tra il complesso di corte dei Volti e il tardo gotico Palazzo Contarini Sceriman, che occupa l’altra metà dell’isolato insulare: dove l’assialità monodirezionale del portego passante tra polifore di testata e distributore delle stanze laterali del palazzo, corrisponde a quella della calle-corte passante tra i ‘volti’ di testata e distributrice delle case laterali del complesso edilizio”1

Seppur nella differenziazione tipologica tra palazzetto e casa in linea, il disegno dell’isolato è strutturato secondo la medesima assialità baricentrica longitudinale rileggibile, quasi secondo una logica frattale, dalla scala urbana a quella architettonica: calle Venier con le distese volumetrie dell’edificato ai fianchi, calle-corte delle Case della Scuola con le case in linea adiacenti, portego di Ca’ Sceriman con le stanze laterali.

Lo scavo richiama inoltre un noto disegno del Filarete proposto per il Duca di

Milano, Prospetto di palazzo in sito paludoso, nel quale viene rappresentato un edificio sul Canal Grande in cui le acque della laguna penetrano all’interno, facilitando il carico e lo scarico di merci e persone.

L’acqua, è condotta dal disegno all’interno e così come rappresenta la linfa vitale che alimenta le isole di Venezia, parimenti nutre il nuovo corpo con una Vena2, che trova nella corte interna il suo cuore. Così come nella piccola isola di Chioggia il canale artificiale La Vena struttura il corpo dela città, parimenti il nuovo rio creato dalla stretta e lunga fessura ordina lo spazio e si innesta nel reticolo dei canali di Venezia diventandone esso stesso parte e riunendo edificio, città e laguna.

Una calle d’acqua diventa l’anima delnuovo corpo.

Nella definizione dei suoi percorsi d’acqua Venezia si presenta come “sintesi di morfologia tentacolare e morfologia a tappeto, una duplicità che [ne è rimasta] la prerogativa nel tempo”3

Questo doppio modo di procedere, riflette l’opportunità e la convenienza o di adattamento ai canali naturali o di scavo di altri artificiali. Parimenti, se il fronte lungo rio del Gozzi segue irregolare il canale esistente, lo scavo interno ne realizza uno nuovo che corre rettilineo fino alla corte. L’acqua invade il tracciato centrale e, come

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Pianta del piano terra in caso di acqua alta: 1 esposizione esterna

note

1 da La casa veneziana nella storia della città, Venezia; p 387; P. Maretto

2 la Vena è il canale artificiale che taglia centralmente la piccola isola di Chioggia, nella parte meridionale del laguna veneta. Il nome è dovuto proprio dal fatto che essa rappresenta l’arteria principale dell’insediamento.

3 da Le città nella storia d’Italia , Venezia; p 32; G. Bellavitis, G. Romanelli

sangue, dà vita al corpo dell’edificio. Il progetto si propone quindi come una interpretazione del principio insediativo della città, rappresentando una piccola Venezia.

Il vuoto generato dallo scavo si confronta nelle immediate vicinanze con quelli operati dal sottoportego del Remer, negli edifici ad angolo tra rio dei Gesuiti e rio del Gozzi, e da Calle dei Volti nelle Case della Scuola della Carità. La distanza tra i setti portanti e la misura del canale interno si rapportano alle dimensioni del salone centrale di Ca’ Sceriman e a quella della calle-corte del complesso delle Case.

La corte è disegnata da pochi gradini che scavano la struttura delle fondamenta in pietra bianca d’Istria, la stessa che funge da basamento per il muro perimetrale in mattoni.

La centralità della geometria definita dagli scalini riporta la posizione della vecchia vera da pozzo che un tempo vi era alloggiata, mentre il vuoto dello scavo ricorda il luogo dell’allora sottostante cisterna. Nella vasca della corte il canale trova la sua terminazione e chiarisce il suo scopo: portare la natura di Venezia all’interno del progetto. La corte diviene un giardino di pietra dove la natura è l’acqua; pochi gradini ne tracciano il disegno e l’informe prende ordine.

Portata dal canale, l’acqua regolar-

mente invade ed esce da questo spazio, acquistando e perdendo la forma delle scale che la arginano. Attraverso questo costante e profano battesimo la corte acquista una sua ritualità: quella di essere alternativamente ‘campo’ veneziano e specchio d’acqua su cui l’edificio si riflette.

L’accesso da terra, quello che nelle antiche case veneziane era usato principalmente dalle famiglie dei mercanti, donne e bambini, si ingentilisce con una piccola coreografia. Il livello dell’acqua, mai costante, viene registrato nel suo lento e quotidiano levarsi ed abbassarsi dagli scalini di pietra. Tali scalini offrono le sedute di un piccolo teatro dell’acqua di cui l’architettura sospesa ne è silenziosa spettatrice e fondale.

Come una grande meridiana, la corte con i gradini misura il tempo di Venezia scandito dall’alternarsi dell’alta e della bassa marea. Attraverso il disegno delle fondamenta l’acqua prende forma, di volta in volta, nei quadrati che la pietra realizza: come nella nota Fondazione Querini Stampalia di Scarpa dove questa è raccolta in una serie continua di canalette, il moto ascensionale dell’acqua è reso manifesto dall’architettura stessa.

L’Architettura, nella sua immobile condizione d’essere, misura l’inesorabile e quotidiano divenire della

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Pianta del piano primo in caso di acqua a livello medio:

2 biglietteria

3 caffetteria

4 uffici

5 servizi

6 bookshop

7 sala riunioni

natura nel tempo.

Entrando dal portale viene svelata la ragione della sospensione del volume celata dal muro antico: così come Venezia è sostenuta da piloni lignei sommersi dal mare, parimenti sotto il volume si nascondono i setti che lo sorreggono. Nell’ombra su cui si sospende lo spazio architettonico, sopra i resti del muro antico e l’acqua, sta il rispetto dell’intervento contemporaneo nei confronti del sedime della città storica: l’antico diviene basamento a cui il nuovo si sovrappone sfiorandone con una fessura i ruderi: l’aggetto li custodisce.

La ripetizione dei muri portanti genera spazi di penombra che ricordano i sottoporteghi veneziani, scuri passaggi colonnati scavati ai piani terra delle abitazioni. Tra gli ultimi setti sono nascoste le scale per l’accesso ai piani.

La tripartizione del piano terra operata dalla fessura del canale si rilegge anche ai piani superiori. Il disegno ricalca la scomposizione della casa veneziana tra portego e stanze laterali: lo spazio vuoto ricorda la volumetria del salone centrale, mentre i setti scandiscono gli ambienti adiacenti. La stessa scomposizione si ripete identica per tutti e quattro i livelli e richiama il comportamento strutturale delle abitazioni veneziane, specie quelle del XII-XIII secolo. In questi casi infatti le facciate sull’acqua quasi mai svolgono una fun-

zione portante se non quella di sostenere se stesse. Queste sono lasciate libere di deformarsi per adattarsi ai possibili cedimenti strutturali che potrebbero verificarsi nel precario sottosuolo della città, che è tanto più instabile quanto più vicino all’azione dell’acqua. I fronti sui canali sono particolarmente traforati proprio nel tentativo di raggiungere una maggiore leggerezza evitando di gravare inutilmente. La funzione portante è per la maggior parte svolta dalle murature interne che poggiano su fondamenta più sicure e meno soggette a problematicità. Parimenti tutto il nuovo corpo è sostenuto dai setti murari interni e le facciate, in aggetto, sono traforate dal disegno delle aperture.

I prospetti riflettono la sintassi della pianta. Nel fronte principale le superfici cieche delle due ali inquadrano, come antiche torreselle4, il portale d’acqua, la cui apertura richiama lo svuotamento delle facciate veneziane generato dalla sovrapposizione delle polifore centrali. Mentre la fiancata su strada corre dietro il fronte rigida e parallela al prospetto meridionale delle Case della Scuola della Carità, quella d’acqua si flette per assecondare la sponda del canale. Ad incidere i prospetti laterali interviene il disegno delle aperture che li scandisce con una precisa geometria, riflettendo all’esterno il

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Pianta del piano terzo in caso di acqua a livello medio-alta:

5 servizi

8 laboratori

9 aule

10 esposizione interna

note

4 per torreselle si intendono delle strutture fortificate laterali al fronte principale, torrette difensive che inquadravano il loggiato della casa a due piani dei prime abitazioni mercantili; sono rileggibili per esempio nella Ca’ da Mosto o nel rimaneggiato Fondaco dei Turchi

passo delle stanze interne. Se il fianco di terra mostra severo queste tracce, quello d’acqua si concede una variazione per incorniciare la vista verso il centro della città. Sfruttando in quella posizione il diradarsi degli edifici in direzione di San Marco, la loggia quadrata rappresenta un’accidentalità organica ai tagli verticali delle finestre ed impreziosisce il fianco sull’acqua. Il prospetto retrostante chiude le successioni delle aperture dei lati con un muro cieco; l’edificio nel privarsi di un affaccio sulla corte ne accresce il silenzio. Nel tentativo di rinnovare la vocazione artistica che il mecenatismo dei Venier aveva impresso a questo luogo, gli ospiti di questo nuovo corpo non possono che essere le arti e gli artigiani. L’edificio riprende una funzione precisa dei palazzi veneziani quella di essere luoghi dove collezionare e produrre arte, diventando la casa degli artisti e il ‘fondaco’ delle opere che al suo interno vengono realizzate. Il volume di progetto accoglie le aule, i laboratori, gli spazi museali di una Schola Nova, nell’accezione veneziana del termine, ovvero come luogo dedicato alle arti e all’artigianato.

Nel ricordo delle statue del Molli e del Falcone che animavano la corte di Ca’ Venier il vuoto freddo, ma coperto, del piano terra ospita l’esposizione esterna. La distribuzione interna prevede al

primo piano le funzioni amministrative e di accoglienza della scuola e del museo: l’ala verso terra ospita gli uffici mentre quella verso il canale la sala riunioni, il bookshop e i servizi; nel grande ambiente retrostante si dispongono la biglietteria e il cafè. I piani superiori si suddividono tutti nello stesso modo lasciando il fianco lungo Calle Venier alla scuola con aule e spazi di studio, mentre quello lungo rio del Gozzi all’esposizione permanente. Le grandi sale posteriori ospitano i laboratori, a rappresentare un ponte ideale tra l’apprendimento teorico permesso nell’ala di terra e le opere d’arte finali esposte nell’ala d’acqua. I tre piani individuano tre diverse attività artigianali: tessuto, vetro e legno. Dai laboratori la vista segue le fughe dei solai scavati dalla fessura centrale che diviene un grande barco5 attraverso il quale “spiare Venezia e le sue fantasie dove interno ed esterno ancora una volta si confondo”5: come da sopra un ponte con sotto l’acqua e ai lati la città, così l’osservazione dalle sale è sospesa su un rio e chiusa dalle ali dell’edificio ad abbracciare Venezia. La fessura rappresenta un’incisione al corpo del progetto e ne rivela l’ossatura. A lenire questa ferita interviene dall’alto la luce che si diffonde dentro lo scavo fino a sfiorare l’acqua. Dall’acqua la luce stessa riparte

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Sezione longitudinale

Sezione trasversale

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Prospetto Est

Prospetto Ovest

Prospetto Sud

Prospetto Nord

proiettata sui solai nei piccoli riflessi bianchi delle increspature delle onde. Nella foto al Ponte dei Sospiri di Luigi Ghirri la luce si diffonde nella nebbia e sembra condurre in un’altra dimensione, dell’estraniamento dalla realtà prodotto essa ne diventa anche una via di fuga; così del progetto la luce è la rivelazione di un percorso altro, nuovo appunto rispetto ai canali esistenti. Riflessa dall’acqua, la luce torna a manifestarsi, stavolta mutevole e cangiante, attraverso le caustiche proiettate sull’intonaco bianco che ricopre interamente l’edificio poi destinato al tempo, affinché possa sovrapporci le sue preziose trame.

I disegni nelle pagine successive mostrano in ordine: il portale sull’acqua della facciata su Rio dei Gesuiti, il fianco lungo rio del Gozzi con la loggia che guarda San Marco, il fronte cieco del retro in un caso eccezionale di alta marea, la calle d’acqua interna che permette l’accesso in barca e la città spiata da dentro la Schola attraverso la porta del mercante.

note 5 parole di Aldo Rossi in riferimento al barco del convento delle Zitelle di cui cura un progetto di restauro nel 1982, riportate da M. G. Eccheli nell’ articolo Aldo Rossi e Venezia della rivista Firenze Architettura: il progetto nella città d’arte, 2.2001, Firenze: “ La parola barco ha in questo caso una straordinaria forza evocativa della vita veneziana: quasi a dire che un interno veneziano non può mai vivere soltanto della sua qualità di “interiour” ma deve fatalmente appartenere ai mari di Venezia e ai “legni” che li solcano, ossia diventare una macchina per spiare Venezia e le sue fantasie dove interno ed esterno ancora una volta si confondono[..]”

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Nella bellissima fotografia di Giovanni Chiaramonte Come un enigma, del 2006, il piano marmoreo del sagrato della chiesa palladiana di San Giorgio a Venezia è come generato dalla naturale estensione della superficie idrica lagunare che, nel suo avanzare e ritrarsi, delinea il disegno degli elementi dell’architettura.

Qui, l’acqua, quale fattore caratteriale di specificità, nella costruzione della città ne determina il tipo e ne definisce da sempre il senso dello spazio urbano, alimentando e facendo fluire linfa vitale nello spazio dell’uomo.

Il lavoro progettuale di Mattia Gennari per una Nova Schola per artigiani all’interno di un lotto dismesso, accanto a Ca’ Sceriman, tra rio Cà Dolce e rio dei Gesuiti, costituisce una riflessione sul rapporto simbiotico della città lagunare con l’elemento idrico, l’interpretazione tipologica di un principio insediativo in cui la convivenza tra acqua e organismo architettonico, tra interno ed esterno, tra la luce e l’oscurità, stabilisce le regole e le misure del comporre.

Con lo strumento del fuori scala Gennari disegna un frammento di città, la sintesi di un brano edilizio autoctono che sembra appartenere da sempre alla storia del luogo dove gli elementi caratterizzanti del progetto sono rappresentati dalla luce e dall’acqua.

Dall’ideale azione erosiva di una massa edilizia, concepita e indotta dalla postura e dalle dimensioni del lotto di progetto, un nuovo canale penetra la sostanza della materia architettonica, arricchendola di un nuovo patrimonio di codici genetici che ci restituiscono il senso del luogo.

Una rimessa in circolo di misure antiche, visibili e invisibili, che, interpretate e reiterate in chiave contemporanea, attraverso il fluire dell’elemento idrico radicano a terra l’edificio.

Una luce straniante contraddistingue le ambientazioni dei disegni del lavoro di tesi in cui lo spazio sembra essere pervaso da un’atmosfera al limite tra il reale e l’ideale, tra l’acqua e il cielo.

“Venezia - scrive Sergio Bettini nel 1978 nel suo libro Venezia. Nascita di una città - nasce tra l’aria e l’acqua: la sua immagine si innesta nel punto, quasi matematico, di contatto tra aria e acqua.

Lo storico dell’arte definisce lo stato di fatto della città di Venezia non come un “puro esistere” ma come una perenne forma d’arte urbana che perpetuamente si crea come riverbero di se stessa. “Proprio perché la forma di Venezia non è data, per così dire, una volta per sempre - scrive ancora Bettini - ma continuamente si discioglie e si ricompone: e ad ogni istante si crea di nuovo dentro il nostro tempo: proprio per questo essa non mente”.

61 pagine precedenti Plastici di tesi Mimmo Jodice, Real in Venice, 2010 Postfazione

Bibliografia

Sulla composizione architettonica

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Rilievi dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia raccolti durante i corsi di Elementi di architettura e disegno dal vero, cartoteca dello IUAV.

Crediti Fotografici

Chiaramonte Giovanni, 2006, Come un’enigma, Venezia, Edizioni della Meridiana, Firenze a pagina 8

Ghirri Luigi, 1989, Paesaggio italiano , Electa, Milano a pagina 10

Jodice Mimmo, 2010, Real in Venice nelle pagine 6 e 64.

Per i crediti fotografici si ringraziano i responsabili degli archivi dei maestri L. Ghirri, M. Jodice, G. Chiaramonte per la cortese concessione.

Le restanti fotografie sono dell’autore.

Presentazione 5 Paolo Zermani Introduzione 7 Il luogo 13 Venezia 13 La Casa 16 Cannaregio, il sestiere 24 Ca’ Venier 31 Ca’ Sceriman 33 Le case della Scuola della Carità 35 Il progetto 37 Schola Nova 37 Disegni 53 Modelli 58 Postfazione 61 Gabriele Bartocci Bibliografia 62 Indice
didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze giugno 2023

Solo un muro perimetrale in mattoni e bianca pietra d’Istria è sopravvissuto di Ca’ Venier, una perdita che non ha risparmiato nemmeno le antiche statue che ne abitavano il giardino e le sale. E se non fosse stato per la fortunata mano del De Barberi che ha immortalato la casa nella celebre Cinquecentesca pianta-veduta della città, poco altro più si saprebbe delle due porte chiuse incastonate in quei ruderi dietro Ca’ Sceriman, bagnati, preziosamente, dal rio dei Gesuiti a Cannaregio. Sul sedime di un’antica dimora, una nuova scuola per artigiani a Venezia è disegnata per riaccendere di un luogo le ceneri di uno spirito forse non del tutto assopito e misurare, sopra il suo stesso passato, la legittimità dell’architettura oggi nella città d’arte per antonomasia.

Mattia Gennari, Marsciano (Perugia), 1992. Dopo la maturità scientifica conseguita nel liceo del paese d’origine, si laurea presso la Scuola di Architettura di Firenze dove successivamente consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Progettazione architettonica ed urbana.

ISBN 978-88-3338-188-6

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