Progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico | Butini

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riccardo butini

Progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico


La serie di pubblicazioni scientifiche Ricerche | architettura, design, territorio ha l’obiettivo di diffondere i risultati delle ricerche e dei progetti realizzati dal Dipartimento di Architettura DIDA dell’Università degli Studi di Firenze in ambito nazionale e internazionale. Ogni volume è soggetto ad una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata al Comitato Scientifico Editoriale del Dipartimento di Architettura. Tutte le pubblicazioni sono inoltre open access sul Web, per favorire non solo la diffusione ma anche una valutazione aperta a tutta la comunità scientifica internazionale. Il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze promuove e sostiene questa collana per offrire un contributo alla ricerca internazionale sul progetto sia sul piano teorico-critico che operativo. The Research | architecture, design, and territory series of scientific publications has the purpose of disseminating the results of national and international research and project carried out by the Department of Architecture of the University of Florence (DIDA). The volumes are subject to a qualitative process of acceptance and evaluation based on peer review, which is entrusted to the Scientific Publications Committee of the Department of Architecture (DIDA). Furthermore, all publications are available on an open-access basis on the Internet, which not only favors their diffusion, but also fosters an effective evaluation from the entire international scientific community. The Department of Architecture of the University of Florence promotes and supports this series in order to offer a useful contribution to international research on architectural design, both at the theoretico-critical and operative levels.


ricerche | architettura design territorio


ricerche | architettura design territorio

Coordinatore | Scientific coordinator Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze, Italy Comitato scientifico | Editorial board Elisabetta Benelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Marta Berni | Università degli Studi di Firenze, Italy; Stefano Bertocci | Università degli Studi di Firenze, Italy; Antonio Borri | Università di Perugia, Italy; Molly Bourne | Syracuse University, USA; Andrea Campioli | Politecnico di Milano, Italy; Miquel Casals Casanova | Universitat Politécnica de Catalunya, Spain; Marguerite Crawford | University of California at Berkeley, USA; Rosa De Marco | ENSA Paris-LaVillette, France; Fabrizio Gai | Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Italy; Javier Gallego Roja | Universidad de Granada, Spain; Giulio Giovannoni | Università degli Studi di Firenze, Italy; Robert Levy| Ben-Gurion University of the Negev, Israel; Fabio Lucchesi | Università degli Studi di Firenze, Italy; Pietro Matracchi | Università degli Studi di Firenze, Italy; Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze, Italy; Camilla Mileto | Universidad Politecnica de Valencia, Spain | Bernhard Mueller | Leibniz Institut Ecological and Regional Development, Dresden, Germany; Libby Porter | Monash University in Melbourne, Australia; Rosa Povedano Ferré | Universitat de Barcelona, Spain; Pablo RodriguezNavarro | Universidad Politecnica de Valencia, Spain; Luisa Rovero | Università degli Studi di Firenze, Italy; José-Carlos Salcedo Hernàndez | Universidad de Extremadura, Spain; Marco Tanganelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Maria Chiara Torricelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Ulisse Tramonti | Università degli Studi di Firenze, Italy; Andrea Vallicelli | Università di Pescara, Italy; Corinna Vasič | Università degli Studi di Firenze, Italy; Joan Lluis Zamora i Mestre | Universitat Politécnica de Catalunya, Spain; Mariella Zoppi | Università degli Studi di Firenze, Italy


riccardo butini

Progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico


Il volume è l’esito di un progetto di ricerca condotto dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. La pubblicazione è stata oggetto di una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata dal Comitato Scientifico del Dipartimento DIDA con il sistema di blind review. Tutte le pubblicazioni del Dipartimento di Architettura DIDA sono open access sul web, favorendo una valutazione effettiva aperta a tutta la comunità scientifica internazionale.

Si ringrazia la Dott.ssa Gabriella Poggesi della Soprintendenza Archeologica Toscana, Direttrice del Parco Archeologico di Roselle, per la preziosa collaborazione e il contributo critico generosamente fornito Hanno collaborato al corso Giulio Basili, Eva Camigliano, Giulia Fornai e Francesco Girelli Le foto dei modelli sono state realizzate dal Laboratori Fotografico di Architettura del DIDA Le foto alle pagine 8 e 25 sono state fornite dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana

in copertina Riccardo Butini, Paesaggio archeologico, 2016

Laboratorio Comunicazione e Immagine Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze progetto grafico Susanna Cerri in collaborazione con Gaia Lavoratti

© 2016 DIDAPRESS Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 14 Firenze 50121 ISBN 9788896080429

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni X-Per


indice

Premessa

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Roselle: da città etrusca e romana a parco archeologico

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Antico e rovine

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Paesaggio archeologico e progetto

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Una ‘porta’ per il Parco Archeologico di Roselle

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Progetti

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Bibliografia

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G. Cottafavi, Sepolcro volgarmente detto degli Orazii e Curiazii in Albano


premessa

Il rudere smozzicato, la colonna spezzata o l’arco semisepolto tracciano nel paesaggio urbano una serie di figure incongrue, che proprio per la loro frammentarietà, per il loro carattere di relitto, di parte che rinvia a un tutto concepibile solo nella nebbia di una memoria favolosa, si caricano di energie simboliche che attivano la visione nostalgica del passato, fungono da paragone con un presente oscuro e miserevole segnato dal trascorrere e dalla decadenza di tutte le cose e spingono a scrutare il futuro con rinnovato impegno (Vitta, 2005, p. VII).

Verrebbe da chiedersi se abbia senso, in un mondo dove tutto si consuma velocemente senza lasciare tracce tangibili, far riflettere dei giovani studenti della Scuola di Architettura sul tema della permanenza, della durata dell’architettura, sul concetto di rovina. Le immobili e silenziose rovine sono ancora in grado di suggerire e trasmettere caratteri e misure nel progetto d’architettura? Credo che di fronte all’evidente incapacità dell’architetto contemporaneo di riaffermare attraverso il progetto quella naturale continuità tra passato e presente, tra ciò che è stato e ciò che può essere, sia necessario ricollocare alla base della pratica progettuale la capacità d’interrogarsi sulla natura delle cose, fino a riconoscere la radice, la forma archetipica dalla quale ripartire, l’origine, che può risiedere nell’architettura antica come nella rovina. Solo così sarà possibile per tracciare nuove linee di ricerca, libere da virtuosismi linguistici dettati da passeggere necessità espressive, ma piuttosto indirizzate verso il riconoscimento degli elementi resistenti sui quali si può ancora appoggiare il progetto. Questa pubblicazione contiene una selezione dei progetti degli studenti del Laboratorio di Progettazione dell’Architettura 1, preceduta da alcuni scritti sul rapporto che può legare il progetto ai temi dell’antico, delle rovine e del paesaggio archeologico.


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roselle: da città etrusca e romana a parco archeologico Gabriella Poggesi

Soprintendenza Archeologia della Toscana

A Nord-Est di Grosseto, nei pressi del tracciato stradale che conduce a Siena e di fronte all’antica Vetulonia, sorge Roselle, città etrusca della Dodecapoli, più volte citata dalle fonti antiche (Dionigi d’Alicarnasso, Tito Livio, Plinio, Tolomeo), sviluppatasi in continuità a partire dall’età orientalizzante (VII secolo a.C.) su una collina già frequentata nei secoli precedenti, nel III secolo a.C. sottomessa da Roma, che vi deduce una importante colonia, iniziando a segnare fortemente il territorio circostante. Roselle costituisce un luogo speciale, un caso decisamente unico nel panorama dell’archeologia toscana per diversi aspetti. Appare prima di tutto determinante che l’abbandono precoce della città antica, con i lunghi secoli fortemente contrassegnati dall’emarginazione e dalla dolorosa povertà, abbia felicemente consentito a questo luogo di poter conservare nel tempo le sue originarie connotazioni etrusche e romane. A differenza di quanto accade nella maggior parte dei centri etruschi (Vetulonia, Populonia, Saturnia, Cortona, Chiusi, Fiesole, Volterra), dove le comunità umane hanno utilizzato gli stessi spazi senza soluzione di continuità fino ad oggi, a Roselle non si devono fare i conti con drammatiche sovrapposizioni moderne o con le esigenze della vita i tutti i giorni: la nuova Roselle — Bagno di Roselle — dista circa due chilometri dalla città antica, si è sviluppata intorno ad una importante area termale romana poi utilizzata in epoca granducale e oggi si presenta come una vivace frazione del Comune di Grosseto. Al contrario, l’unico segno di contemporaneità riconoscibile all’interno del parco archeologico è il complesso colonico situato sulla sommità dell’altura meridionale, un casale oggi diruto, dove a lungo hanno abitato gli agricoltori e gli allevatori che per decenni si sono presi cura del grande “podere rosellano”, esteso sia all’interno che all’esterno delle mura etrusche. Un altro aspetto sostanziale è il naturale rapporto di Roselle con il territorio: la città antica, con l’area urbana e le sue necropoli, appare perfettamente integrata in un raro paesaggio agrario, con morbide colline, oliveti, macchia mediterranea, una pianura ben coltivata nella quale si percepiscono in lontananza la distesa di Grosseto e il mare. Percorrendo il sentiero lungo la poderosa cinta muraria etrusca arcaica, lo sguardo spazia libero senza ostacoli ed è naturale acquisire una sorta di sensazione di riconoscenza e di rispetto nei confronti del luo-


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go che ci accoglie con i suoi odori e colori nelle diverse stagioni, con i suoi suoni, dal canto degli uccelli al frinire delle cicale, con le lievi tracce del passaggio notturno degli animali, che danno conto della frenetica vita che ha continuato a snodarsi qui, uguale a se stessa nel tempo. Un terzo aspetto da considerare è quello legato alla ricerca; le peculiarità rosellane appena ricordate hanno consentito alla Soprintendenza di programmare in questo luogo — debitamente protetto fin dalla metà del secolo scorso da un decreto ministeriale di vincolo — regolari campagne di scavo archeologico a partire dagli anni Cinquanta, con la graduale e costante realizzazione di un vasto parco attrezzato. La ricerca nell’area è tutt’altro che esaurita: i contesti ad oggi portati alla luce e consegnati alla pubblica fruizione costituiscono circa il 30% dell’esistente: Roselle vanta pertanto un fortissimo potenziale archeologico, che può nello stesso tempo diventare potenziale operativo e formativo per diverse discipline, dall’archeologia al restauro, dall’architettura alla geologia, dalle scienze naturali alle scienze della comunicazione, dalla promozione dei beni culturali alle nuove tecnologie applicate alla valorizzazione dei siti archeologici, al turismo, all’economia della cultura e altro. La vera sfida per Roselle consiste proprio nel far convivere in modo naturale e proficuo tutti questi aspetti, nel coniugare le esigenze di una straordinaria città etrusca e romana con quelle di un parco archeologico attrezzato, direttamente gestito dal Personale del Ministero Beni Culturali, quotidianamente aperto alla fruizione pubblica, frequentato durante tutto l’anno da persone di varia nazionalità e con varia preparazione, un parco dove l’attività di tutela deve armonizzarsi con quella dell’accoglienza in sicurezza per tutti e della mediazione culturale per le diverse categorie di pubblico, un parco dove integrare al meglio — quasi fino a farle ‘scomparire’ — le necessarie dotazioni finora acquisite, come il corpo di guardia, la biglietteria e i servizi igienici, l’impianto antintrusione e le telecamere di controllo, l’apparato didattico in doppia lingua con App e audioguida in corrispondenza dei principali complessi monumentali, l’impianto di illuminazione che consente anche le aperture in notturna. Per tutti questi motivi, ho apprezzato molto i lavori che gli studenti di Architettura hanno sviluppato quest’anno, dopo la visita a Roselle, alla quale ho avuto il privilegio di partecipare, nel desiderio di accogliere questi giovani nella ‘realtà’ autentica, sottolineando quindi le qualità e le positività del contesto, ma anche e soprattutto le fragilità, i problemi e le inadeguatezze.


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Gli studenti hanno capito, rispondendo con progetti ‘rispettosi’ del luogo, funzionali al concetto di accoglienza, spesso sviluppati tenendo conto — con misura — dell’esistenza di un sottosuolo straordinario, in qualche modo a recuperare e concretizzare quella ricerca interiore, quel rapporto fra archeologia (lo scavo del contesto antico per capire la storia del mondo) e psicanalisi (lo scavo dentro di sé per capire se stessi), che tanta fortuna ebbe agli inizi degli anni Ottanta e che ha segnato gli archeologi della mia generazione.

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antico e rovine

Nel suo trattato (De re aedificatoria) Leon Battista Alberti anticipa, quasi profeticamente, una delle principali cause della crisi che ha investito l’architettura a partire dal secolo scorso, ovvero l’incapacità, diffusa, degli architetti di ascoltare la storia, dialogare e collaborare con essa, collocando dentro a una grande frattura tutto ciò che è stato prodotto dopo l’architettura romana. Si sono conservati esempi di opere dell’antichità, come teatri e templi, da cui, come da insigni maestri, molto si può apprendere; e con grave sconforto ho notato che di giorno in giorno vanno in rovina. Vedevo altresì che gli architetti contemporanei si ispiravano a novità sciocche e stravaganti anziché ai criteri già largamente sperimentati nelle opere migliori. In tal modo, per ammissione generale, in breve tempo quest’arte, che ha tanta importanza nella nostra cultura, sarebbe sicuramente scomparsa del tutto (Alberti, De re edificatoria, VI, 1).

Queste parole, che ancora oggi suonano sorprendentemente attuali, rilevano un principio di crisi e, al tempo stesso, tracciano con decisione una precisa rotta da seguire, indicando nell’antico, prima ancora che nelle rovine, un sicuro riferimento in grado di alimentare il progetto d’architettura. Alberti prende coscienza della necessità di guardare la città in ogni sua parte in ogni suo edificio, di analizzarla attentamente per coglierne i segreti più nascosti, fino a scandagliare gli equilibri che ne hanno regolato la crescita, il suo farsi un po’ alla volta, lentamente. Le fabbriche antiche, sebbene evidentemente trasformate — ma solo così hanno potuto opporsi alla completa distruzione e trovarsi davanti ai suoi occhi — sono per lui la vera materia dalla quale può generarsi l’Architettura. Osservare con uno sguardo diverso, rinnovato, quel paesaggio, già fragile e frammentato, dove le emergenze iniziavano a vivere una progressiva condizione di isolamento, provocata da un ‘nuovo’, quello di allora, che a tratti già sfuggiva al dialogo con l’antico. Ma non tutta l’architettura antica interessa ad Alberti, che compie una selezione precisa del materiale a disposizione. In un passaggio a lui dedicato nella sua Autobiografia scientifica, Aldo Rossi, soffermandosi sulla sostanza dell’operato albertiano, scriverà: ero ammirato dall’ostentazione dell’Alberti, a Rimini e a Mantova, nel ripetere le forme e gli spazi di Roma, come se non esistesse una storia dell’architettura contemporanea; in realtà egli lavorava scientificamente con il solo materiale possibile e disponibile per un architetto (Rossi, 1999, p. 9).


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Senza ombra di dubbio possiamo sostenere che, nonostante il campanello d’allarme fatto suonare da Alberti e gli elementi di discontinuità riscontrabili, è evidente che l’architettura del mondo occidentale ha trovato alimento dalle opere dell’età classica e che gli architetti, a partire dal Rinascimento, hanno costruito sulla loro conoscenza la propria formazione intellettuale prima ancora che tecnica. Se ammettiamo, in questa sede, di compiere un salto temporale che ci consenta di portarsi a ridosso del nostro secolo, vale la pena di ricordare l’interesse con il quale alcuni tra i più importanti architetti del Novecento hanno guardato all’antico raccogliendo nei loro taccuini — tra i più celebri quelli di Le Corbusier e L.I. Khan — preziosi disegni che mostrano gloriosi monumenti ridotti in rovina, trasmettendo con pochi tratti essenziali la forza evocativa di queste architetture ‘attaccate’ dal tempo. Il tema della rovina è, forse per la prima volta, affrontato con una prospettiva rinnovata rispetto alle modalità proposte dal pittoresco o dall’inventario fantastico piranesiano. Non è, quindi, una semplice descrizione dello stato dei luoghi quella che ci viene consegnata in questi appunti grafici, ma, piuttosto, un principio di riflessione sul valore che l’antico e le rovine possono rappresentare nella pratica del progetto architettonico. Se la difficoltà della nostra epoca, spiega Marc Augé nel suo celebre saggio Rovine e Macerie. Il senso del tempo, è quella di dover ricostruire sulle macerie prodotte dall’architettura contemporanea, incapace di trasformarsi in rovina, possiamo affermare che le rovine del passato costituivano, anche idealmente, fondamenta solide e sicure, sulle quali potevano poggiarsi nuove costruzioni in grado di produrre a loro volta rovine, garantendo una circolarità alla vita dell’architettura. Le rovine esistono attraverso lo sguardo che si posa su di esse (Augé, 2004, p. 41).

Lo sguardo, il modo di guardare la rovina si è aggiornato in ogni epoca, consentendo alla rovina stessa di rappresentare una sorgente, pura, ancora in grado di alimentare il progetto. È chiaro che anche il nostro stare di fronte alle rovine sarà diverso da quello di chi ci ha preceduti, ma proprio qui sta il nostro compito, quello di trovare il giusto modo di osservare le cose. Le rovine — scrive Salvatore Settis — sono al tempo stesso una potente epitome metaforica e una testimonianza tangibile non solo del defunto mondo antico ma anche del suo intermittente e ritmico ridestarsi a nuova vita […] Secondo la tradizione occidentale, le rovine segnalano al tempo stesso un’assenza e una presenza: mostrano, anzi sono, un’intersezione fra il visibile e l’invisibile. Ciò che è invisibile (o assente) è messo in risalto dalla frammentazione delle rovine, dal loro carattere ‘inutile’ e talvolta incomprensibile, dalla loro perdita di funzionalità (o almeno di quella originaria) (Settis, 2004, pp. 84-85).


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Ma le rovine non potranno che leggersi come frammenti isolati, parti di un insieme oramai comprensibile solo attraverso una continuità deformata. Servono, quindi, occhi che sappiano guardare alle discontinuità, alle mutazioni, agli elementi fragili come fenomeni attraverso i quali si possa far maturare il progetto. Se un tempo era pratica comune ricostruire sulle vestigia delle architetture antiche, lasciando negli stessi segni materiali, tangibili, quale risultato di una consolidata e trasmissibile disciplina del progetto, l’attuale condizione culturale pone in una posizione ben diversa l’architetto contemporaneo, al quale sarà consentito, raramente, un intervento materiale su un’architettura antica o su una rovina, ma sarà, spesso, chiamato a progettare a ridosso di queste. Ecco che il difficile compito di ricostruzione non potrà attuarsi se non attraverso un principio di ‘trasmissione’ dell’antico al nuovo. Costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre (Yourcenar, 2014, p. 118).

Possiamo pensare, allora, di proseguire il nostro delicato lavoro di ricostruzione, guardando il paesaggio contemporaneo alla stregua di un’opera collettiva, mai compiuta, sulla quale siamo chiamati ad intervenire, modificandola, senza, tuttavia, completarla.

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paesaggio archeologico e progetto

Inesauribile fonte d’ispirazione per il progetto, i siti archeologici, da sempre, si sono offerti agli architetti come preziosi ‘depositi’ entro cui cercare ‘modelli’ o ‘frammenti’ da collocare all’origine di un’opera di ricostruzione concettuale e materiale. Il paesaggio archeologico è per sua natura stratificato e ci invita ad una lettura trasversale delle vicende che hanno prodotto quell’insieme di architetture sovrapposte, di linguaggi e di tecniche costruttive differenti, di materiali nuovi che si alternano a quelli di reimpiego, ai quali è stato affidato il compito di salvare, e ribadire, una necessaria continuità materiale dell’opera dell’uomo nel tempo. Paesaggio frammentato che comunica un senso di eterno e provvisorio assieme. Progettare nel paesaggio archeologico presenta, talvolta, delle difficoltà specifiche, ascritte anche al confronto diretto tra due discipline, spesso accostate, ma che evidenziano, nella realtà, importanti differenze di principio. Architettura e archeologia si interessano entrambe all’antico, alle rovine, ma lo fanno con approcci e prospettive molto diverse: l’architettura vede nelle rovine, che sono della sua stessa sostanza, una possibilità di ‘rinascita’, reiterando un fenomeno consolidatosi nel mondo occidentale. Diversamente, per l’archeologia, le rovine sono l’oggetto di indagini, esclusivamente rivolte alla ricostruzione di ciò che potrebbe essere stato. Eppure, è stato fatto notare in più occasioni quanto l’archeologo e l’architetto siano figure simili. L’architetto, come l’archeologo, scava pazientemente un suolo ideale, quello della conoscenza, delle informazioni derivanti dalla sovrapposizione dei segni alla ricerca della soluzione progettuale, quasi fosse già presente nel luogo dell’intervento, in attesa di essere scoperta. L’archeologo come l’architetto potremmo dire, sebbene si è portati a pensare che il suo lavoro si limiti allo studio delle rovine, al riparo dall’interpretazione personale, opera una serie di scelte delineando un vero e proprio progetto, attraverso il quale offre una lettura, tra quelle possibili, delle proprie scoperte. Ogni paesaggio archeologico è, quindi, il risultato di un processo critico, ma soggettivo, attraverso il quale si stabilisce cosa mantenere e cosa smantellare,


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che non riproduce integralmente alcun passato e allude intellettualmente a una molteplicità di passati (Augé, 2004, p. 36)

con i quali l’architetto dovrà poi confrontarsi. Ma quale epoca privilegiare, quali epoche sacrificare dal momento che l’archeologo […] crea un nuovo paesaggio, la forma nuova, sfrondando l’eccesso, sottraendo pezzi di storia agli strati sovrapposti? (Augé, 2004, p. 102).

In che modo, dunque, può essere superata l’impasse che da tempo rende difficili e, talvolta, improduttivi i rapporti tra le due figure, creando le condizioni per una costruttiva riflessione condivisa? È evidente che questo richiede un atteggiamento più aperto da parte dell’archeologo e dell’architetto, spesso non disposti a riconsiderare le proprie posizioni, per consentire che i tempi e gli obiettivi delle due discipline — archeologia e composizione architettonica — possano avvicinarsi tra loro. Se andiamo a vedere come gli interventi realizzati in Italia negli ultimi trent’anni si inseriscono nel paesaggio archeologico non possiamo che riscontrare, nella maggior parte dei casi, la difficoltà di questi sia ad integrarsi che a connotarsi come “segno nuovo” all’interno del cantiere storico dell’architettura. Dalle coperture delle aree di scavo, ai progetti dedicati ai ritrovamenti da valorizzare, alle strutture di servizio, i siti archeologici raramente mostrano episodi di architettura contemporanea degni di nota. L’effetto che ne consegue è doppiamente pericoloso, perché oltre ad alterare negativamente i luoghi dell’archeologia, le opere non restano tracce in grado di rappresentare, per gli interventi prossimi, un insegnamento da seguire. Sfortunatamente, alle numerose occasioni sprecate si affiancano solo alcuni interventi di valore, calati nel complesso e variegato paesaggio archeologico italiano che con la loro testimonianza possono, tuttavia, offrire delle risposte concrete e corrette al tema proposto. Senza entrare, adesso, nel merito del singolo intervento e di fornire un elenco di progetti e progettisti, possiamo dire che si tratta, perlopiù, di interventi di piccola dimensione, ai quali possiamo affiancare numerosi progetti non realizzati, frutto dell’operosa attività di ricerca di un gruppo ristretto di architetti sensibili e interessati al rapporto tra progetto contemporaneo a paesaggio archeologico. La composizione architettonica, sia che intervenga su un organismo esistente o ne realizzi uno nuovo, richiede un continuo confronto con il tempo storico, con la tradizione


e l’essenza più profonda dei luoghi. In essi, potremmo credere che risieda ancora il progetto, e che essi possiedano la capacità, attraverso letture aggiornate al nostro tempo, di suggerire funzioni e forme in grado di ristabilire gli equilibri sovvertiti, o più propriamente di individuare nuovi possibili equilibri. Indipendentemente dalla scala alla quale si è chiamati a lavorare, si tratterà di trovare il giusto modo di far convivere le parti antiche con le nuove, nel segno di una necessaria e rinnovata continuità. Potremmo affermare che il paesaggio archeologico non appartiene ad un tempo solo, ma che appartiene a più tempi contemporaneamente, o forse non appartiene a nessun tempo. In esso si affollano tracce, reperti, frammenti, rovine a compone una scena complessa dove fra i loro molteplici passati e la loro perduta funzionalità, quel che di esse si lascia percepire è una sorta di tempo al di fuori della storia (Augé, 2004, p. 41).

Il progetto, quindi, non potrà che confrontarsi con il tempo, sia quello che corrode, consuma le architettura e un tempo cosiddetto puro1. Far convivere le parti consiste nell’avvicinare i tempi dell’architettura fino a farli coincidere.

“La vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. È un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine” (Augé, 2004, p. 8).

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una ‘porta’ per il parco archeologico di roselle

Già abitata in età villanoviana, Roselle si sviluppa a partire dall’età etrusca orientalizzante e arcaica (VII-VI secolo a.C.), forte della sua posizione strategica in prossimità del fiume Ombrone e della sponda orientale del Lago Prile, proiettata verso Sud in direzione delle ricche città dell’Etruria meridionale, verso Nord in direzione di Vetulonia e della costa settentrionale tirrenica, verso l’interno in direzione di Volterra e Chiusi. Sottomessa a Roma (294 a. C.), vive fra l’età repubblicana e la prima età imperiale un periodo di forte impulso costruttivo, con la monumentalizzazione di vaste zone; è quindi sede vescovile di una vasta diocesi a partire dal V sec. d. C. e fino al 1138, quando il trasferimento della sede vescovile a Grosseto determina la fine della civitas di Roselle, da allora nominata solo come castrum e, a seguito di un progressivo ed inesorabile declino, abbandonata definitivamente poco tempo dopo. Praticamente dimenticata, Roselle si riduce nel corso di alcuni secoli ad una solitudine selvaggia di pietre e di cespugli spinosi — tana della volpe e del cinghiale, del serpe e della lucertola — visitata solo dal mandriano e dal pastore (Dennis, 1848),

come racconta George Dennis, diplomatico ed erudito inglese del XIX secolo, in occasione di una sua visita in Maremma. Sebbene non sia stata mai persa traccia della presenza dell’antico insediamento, è a partire dalla seconda metà del secolo scorso che è stata intensificata l’attività di scavo dell’area archeologica, così descritta nel 1965: Tra i rovi affiorava un muro romano o un tratto di strada lastricata; il resto giaceva indisturbato sottoterra […] La lenta rovina ha fatto crollare edifici, colonne, monumenti, pareggiando il terreno che gradatamente si è andato ricoprendo di terra. I livelli di vita dell’antica città, che si erano sovrapposti con l’andare dei secoli e delle vicende nel susseguirsi di distruzioni e ricostruzioni che gli scavi vanno chiarendo nei loro rapporti storici, ci forniscono un documento intatto dell’architettura e dell’urbanistica etrusche, quest’ultima finora quasi ignota. A chi va a Roselle per la strada che porta a Siena appaiono da lontano le mura, soprattutto al tramonto quando si illumina la collina; avvicinandosi, assumono un aspetto sempre più imponente e dominano con la loro altezza […] la strada che sale il colle attraversando l’antica necropoli e che entra nelle città per una larga interruzione della cinta corrispondente ad una delle porte. L’abitato si estendeva sulla parte alta della collina, costituita due sommità arrotondate con in mezzo


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un’ampia vallata protetta dai venti. Qui era il Foro della città romana, ma anche il centro della più estesa città del periodo etrusco […] un piccolo ben conservato Anfiteatro, quasi in miniatura (Laviosa, 1965, p. 666).

Visitando oggi il parco archeologico di Roselle cogliamo solo in parte la dimensione urbana della città etrusco-romana, per gran parte ancora sepolta. Eppure, è possibile rendersi conto della sua estensione e dell’importanza dalla poderosa cinta muraria, realizzata con grossi blocchi in pietra appoggiati sulla roccia viva, sicura fondazione naturale. Sul circuito murario, realizzato nel VI sec. a.C., con diverse ristrutturazioni fra l’età ellenistica e l’età romana, si aprivano almeno sette porte, tre delle quali sono attualmente visibili. L’impianto, la cui matrice è comune sia alla città etrusca che a quella romana, è leggibile dalle tracce del cardo e del decumano massimi e presenta una particolare soluzione all’intersezione dei due tracciati principali in prossimità del foro, dando luogo ad una T. Disposte lungo i principali tracciati e in prossimità di essi, si attestano i resti più ò meno leggibili dei principali edifici, testimonianza, spesso, di una un’attività progettuale, quella antica, propensa al recupero, anche nei ciclici stravolgimenti funzionali. Compresa tra le colline riferibili il primo nucleo di Roselle, trasformata in un pianoro dall’opera di riempimento realizzata dai romani, l’area del foro si offre ai nostri occhi come una grande opera d’arte collettiva, che invita ad una lettura trasversale di architetture sovrapposte, di linguaggi e di tecniche costruttive differenti, di materiali nuovi alternati a quelli di reimpiego, ai quali è stato affidato il compito di salvare, e ribadire, una necessaria e opportuna continuità dell’opera dell’uomo nel tempo. Attorno troviamo radunati i resti preziosi della basilica romana, uno dei fulcri della vita pubblica, la cosiddetta “domus dei Mosaici”, esempio tipico di abitazione romana, alcune tabernae, un complesso termale (trasformato in chiesa), alcune basiliche private. Sulla collina nord, in posizione dominante, si trova l’anfiteatro romano, impostato su edifici preesistenti, probabilmente sacrificati per fare spazio alla nuova costruzione. Esempio emblematico di resistenza della forma di un’architettura rispetto all’aggiornamento della funzione in essa contenuta, l’anfiteatro, in età medievale, per la sua posizione elevata e lo spessore delle murature, fu riutilizzato come edificio fortificato e da alcuni anni ospita spettacoli teatrali e musicali nella stagione estiva. Sovrapposte l’un l’altra le fase costruttive delle città che si sono via via realizzate rappresentano una testimonianza incredibile, di fronte alla quale non si può certo rimanere indifferenti.


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Percorrendo la strada in salita che conduce al parco si arriva ad un piazzale sterrato. Un modesto, ma funzionale, edificio in legno ospita il Corpo di Guardia e accoglie il visitatore. Poco dietro, le rovine di un complesso termale, testimonianza della tarda città romana, segnalano l’inizio dell’area archeologica. L’opportunità di riflettere sui principi della composizione architettonica nel paesaggio archeologico, a ridosso di testimonianze materiali dell’architettura antica, ha suggerito questo luogo per svolgere l’esercitazione progettuale del Laboratorio di Progettazione Architettonica 1. Si chiedeva di progettare un edificio per l’accoglienza dei visitatori, rispettando una traccia funzionale non vincolante, da adattare alla soluzione proposta, che prevedeva la biglietteria, il bookshop, la caffetteria, lo spazio espositivo, un piccolo auditorium, gli uffici e i servizi. Ridisegnare l’ingresso al parco, ideale ‘porta’, sostituendo le strutture presenti, cercando di misurarsi innanzi tutto con i temi che questo contesto specifico poteva suggerire. Ai temi della tipologia, si sono affiancati quelli del frammento, della rovina, dello scavo, dell’ipogeo. Temi architettonici, quindi, e temi archeologici attraverso i quali affrontare la condizione della ricerca compositiva contemporanea, troppo spesso distratta, e poco interessata all’ascolto della lezione degli antichi. Un esercizio di conoscenza, lettura e comprensione, seguito dalla verifica dei temi individuati, attraverso una continua ricerca di coerenza nelle scelte, nella selezione delle soluzioni possibili, animata da una disciplina del progetto, che consenta di preservare l’idea da eventuali speculazioni tecnologiche e condizionamenti normativi, riaffermando, piuttosto, che alla base del lavoro dell’architetto vi è un’attività concettuale che carica la mano di una precisa volontà, di una chiara intenzione (Venezia, 2011, p. 90).

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Progetti


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riccardo butini

Clarissa Fantastichini Giulia Francesconi

Situato in prossimità del tracciato originale della cinta muraria, il progetto si compone di un volume fuori terra a cui si affianca uno scavo delle medesime dimensioni: un positivo e un negativo, come un reperto archeologico che, ritrovato ed estratto, lascia nel terreno la sua impronta. Parallelo alla strada di accesso agli scavi, il corpo parallelepipedo di ingresso, che ospita la biglietteria, configura un canale, un percorso che dal piazzale di arrivo conduce, ininterrotto, nel sentiero di visita dell’area archeologica, permettendovi l’accesso diretto; le due testate corte di ingresso ed uscita sono dunque svuotate e chiuse da vetri, a disegnare un prospetto che è anche sezione, quella dei muri a sacco. Allo stesso tempo, attraverso una scala in linea, è possibile proseguire nel piano interrato, che si sviluppa tutto intorno alla corte rettangolare scavata. Qui trovano posto, nell’impronta del piano terra, i servizi, gli uffici e un’area ristoro, illuminati da tagli verticali; lo spazio espositivo vero e proprio si distende, totalmente ipogeo, attorno i restanti fronti dello scavo, interamente vetrati, scandito da una serie di setti paralleli che individuano, alla fine del percorso, anche una piccola sala conferenze.

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magazzino ufficio servizi igienici sala espositiva sala conferenze

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riccardo butini

Vittoria Ghiselli

Il disegno nasce dalla suggestione dei resti della cisterna di Roselle, due profondi scavi paralleli e comunicanti. L’edificio di progetto, ipogeo, si compone di tre moduli rettangolari paralleli affiancati, che rimandano, alla struttura della cisterna, mantenendone il rapporto tra pieni e vuoti: il modulo centrale, più grande e coperto, ospita le funzioni, ad esso si affiancano due scavi che contengono le scale per la salita e la discesa. Sopra il piano di campagna, la scansione dei moduli è segnata da muri alti 1 metro, che affiorano dal terreno e disegnano le tracce degli spazi ipogei, a rimarcarne l’ingombro e facilitarne la lettura e la comprensione. Il padiglione, così composto, configura preciso percorso di visita, che parte dal piazzale di accesso, scende nella terra attraverso il primo scavo, attraversa gli spazi museali e fuoriesce, nel secondo scavo dal quale una gradinata conduce direttamente sul Decumano. All’interno le funzioni si distribuiscono fluide all’interno di un grande open space, scandito solo da due elementi quadrangolari chiusi che ospitano gli ambienti accessori.

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progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico


riccardo butini

Matteo Fancello Giulia Giannetti

Il tema dello scavo suggerisce l’idea di progetto: lavorare in un paesaggio archeologico, per di più di matrice etrusca, ha spinto verso uno spazio ipogeo. La composizione si sviluppa totalmente al di sotto del piano di campagna, idealmente a recuperare la quota della città antica, a cui il progetto intende appartenere. Due solchi nel terreno, come lo scavo archeologico, permettono la relazione tra interno ed esterno, ma anche tra ciò che è e ciò che era, come se il nuovo edificio fosse un’architettura ritrovata. Disposti perpendicolari tra loro, richiamano la rigorosità degli impianti romani, la congiunzione tra cardo e decumano, la città romana che si è sovrapposta a quella etrusca. Il lungo corridoio a cielo aperto, che si dispone parallelo alla strada di accesso, contiene due scalinate, che permettono l’ingresso allo spazio coperto e, alla fine del percorso, l’uscita verso la visita agli scavi; su questo, si innesta ortogonale il secondo taglio, intorno a cui si distribuiscono gli ambienti ipogei: sulla stretta corte rettangolare si affacciano con fronti vetrati gli uffici, il foyer-biglietteria e la sala espositiva, mentre chiudono il fondo la sala conferenze e i servizi; la caffetteria, anch’essa interamente vetrata sul fronte, si dispone sul percorso di uscita.

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progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico

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uffici biglietteria-bookshop area relax servizi igienici sala conferenze sala espositiva caffetteria magazzino

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progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico


riccardo butini

Iacopo Gargiulo Daniele Iacobucci

Il progetto si affida ad un’alternanza di pieni e vuoti, positivi e negativi, che ricostruiscono un paesaggio sospeso, provvisorio, che descrive il processo di ritrovamento del reperto, lo scavo archeologico appunto. L’edificio si sviluppa quasi completamente al di sotto del piano di campagna, solo un elemento esce fuori terra a segnalare l’ingresso: i vuoti concedono la lettura di un’architettura ipogea, solo in parte svelata, che fa del susseguirsi di luci e ombre la sua essenza profonda. La composizione si basa su un modulo quadrato, che definisce gli spazi interni ed esterni, le corti e la suddivisione delle funzioni. Il progetto si struttura su un percorso univoco, che dal corpo di ingresso conduce, attraverso una scala, agli spazi ipogei; qui si trova un grande foyer a doppia altezza con biglietteria e bookshop, che introduce da una parte agli uffici e agli ambienti di servizio, dall’altra l’ambiente espositivovero e proprio: uno spazio fluido e continuo che prende luce e corpo dalle 3 corti: due, interamente vetrate, ospitano una parte dell’esposizione all’aperto, la terza ospita una scalinata che conclude il percorso ricollegandosi al sentiero di visita del parco.

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progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico


riccardo butini

Marta Goracci Chiara Livi

La composizione si appoggia alla solida geometria del quadrato, in cui si iscrivono volumi giustapposti a L, ad esaltare l’angolo di muratura, che si incastrano e si compenetrano su più livelli — il piano di campagna e l’ipogeo — intorno ad una piccola corte centrale scavata. La scatola muraria non è tuttavia chiusa, si frammenta perdendo compiutezza, avvinandosi al carattere sospeso della rovina: così il volume resta privo di alcune porzioni murarie, di parte della copertura, e acquista quel carattere di non-finitezza tipico del frammento. Due spessi setti murari, a definire il primo volume, racchiudono un primo spazio a cielo apertodi ingresso, che accoglie il visitatore giunto al parco e lo conduce all’interno dell’edificio, dove trovano spazio la biglietteria e il guardaroba; da qui la geometria stessa dell’edificio riconduce all’esterno, sul sentiero di visita, in un percorso continuo verso gli scavi archeologici. Accessibile tramite due scalinate esterne scavate — anch’esse ad indentificare un percorso univoco —, il piano ipogeo ospita caffetteria, bookshop, sala espositiva e sala conferenze: esso ripropone, specchiata, la geometria del piano terreno, e da essa si sviluppa concentrico rispetto alla corte quadrata interamente vetrata, unica fonte di luce naturale e cuore del disegno. Alla quota di campagna, due vasche d’acqua ricostituiscono, in un rapporto di complementarietà gli altri elementi, la figura archetipa del quadrato.

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progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico

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progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico


riccardo butini

Matteo Faceti

Ispirato alla stratificazione materica degli intonaci delle rovine della città, che ha visto il succedersi di popolazioni etrusche e romane, il progetto prevede una sequenza di quattro lunghi muri paralleli che, ideali strati di calce distaccati, che, fuoriuscendo dalla collina, suddividono lo spazio in tre grandi ambienti. Tra i setti sono comprese dunque le funzioni, chiuse da una copertura ribassata e da vetrate sui lati liberi a nord e sud, così da permettere la corretta illuminazione agli ambienti e una gradevole vista sulle due colline che incorniciano l’area di ingresso al parco. Il primo ambiente accoglie l’ingresso, in cui è posta la biglietteria, e, aldilà di una parete divisoria, servizi igienici e magazzino; poi, attraverso una serie di tre aperture poste in serie, si percorre lo spazio accedendo prima alla sala espositiva, che ha la possibilità di essere allestita per ospitare conferenze, successivamente alle funzioni più commerciali, quali la caffetteria ed il bookshop, così da avere la possibilità di acquistare documentazioni sul luogo prima di visitarlo o di fare uno spuntino al ritorno godendosi la vista sugli scavi più vicini. Oltre l’ultimo muro, si distende una pavimentazione che si riallaccia al sentiero di accesso agli scavi, permettendo al percorso di fluire dentro e fuori il progetto continuatamente.

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progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico

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progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico


riccardo butini

Mikhail Fabiani Alessandro Giacomelli

L’idea di progetto muove dal concetto di rovina: il nuovo edificio è pensato come costruzione antica che, subite le erosioni del tempo, permane, ritrovata, solo in alcune tracce di muro. Quattro setti murari in pietra, di altezze e lunghezze differenti, che affiorano, come resti archeologici, dal terreno in dislivello, si dispongono ortogonalmente al decumano, segno forte di costruzione della città. Tra i setti, chiuso da vetri, si sviluppa lo spazio protetto, che fluisce da quattro porte in infilata, ed accoglie le funzioni a servizio del parco archeologico: l’ingresso occupa il vuoto centrale, una grande sala che accoglie biglietteria e guardaroba; a destra e a sinistra trovano spazio da un lato sala conferenze e sala espositiva, dall’altro bookshop e caffetteria. I percorsi interni si compenetrano poi con i percorsi esterni di visita al parco: due porte permettono da una parte di uscire e percorrere il decumano, dall’altra di legarsi al sentiero che costeggia le mura antiche della città. Gli uffici si collocano nel vano centrale, sul retro, dove una corte in controterra, scavata a ridosso del colle, completa la composizione, aggiungendo complessità e permettendo la corretta illuminazione degli spazi. La copertura in cemento, elemento secondario, lascia salire i muri, elementi primari: dall’alto il nuovo edificio appare è esso stesso un frammento, appartenente al disegno della città archeologica.

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progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico

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riccardo butini

Matilde Ivagnes Laura Fideli

Il progetto propone uno spazio ipogeo ispirato alla tomba a tholos, modello diffuso nell’architettura funeraria etrusca. Solo un’incisione del terreno, disposta perpendicolarmente alla via di accesso al parco archeologico, modifica il paesaggio: un dromos, asse principale della composizione, lungo il quale si dispongono simmetricamente e in sequenza una serie di ambienti, alcuni separati, altri comunicanti tra loro. Il percorso a cielo aperto, scandito da gruppi di gradini in leggera discesa, introduce ad un’aula quadrata che accoglie l’area espositiva. Una spessa soglia, marca la netta divisione tra esterno ed interno. Nella sala il senso di costrizione, che caratterizza lo spazio del percorso, stretto tra muri, si perde e lascia il posto alla totalità dello spazio centrale. Qui, tre gradini concentrici, scavati nel suolo, disegnano una circonferenza, ideale impronta del caratteristico pilastro centrale presente nelle tombe etrusche.

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uffici biglietteria-bookshop servizi igienici magazzino sala conferenze caffetteria sala espositiva 25 m


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progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico


riccardo butini

Luciano Giannone Enrico La Macchia

Il progetto rappresenta un tentativo di sintesi tra due modelli: da un lato i grandi blocchi in pietra delle mura ciclopiche di Roselle, dall’altro l’archetipo costruttivo etrusco della tomba a tholos. Il disegno si compone dunque di quattro blocchi murari compatti indipendenti, che affiorano dal declivio come reperti ritrovati e si dispongono allineati lungo la via di accesso al parco: l’ideale muratura che si ricompone non è però continua, ma si interrompe tra i ‘conci’ e lascia passare la luce, mantenendo i blocchi stereometrici privi di aperture esterne; in una di queste intercapedini trova spazio l’ingresso all’edificio, disassato rispetto alla composizione. Una sala circolare ipogea costituisce il secondo elemento portante e ospita la sala per le conferenze; in sezione, come in pianta, si rifa al modello etrusco: il piano di calpestio scende con scaloni concentrici, la volta, gradonata, si conclude in un lucernario circolare centrale. I due spazi, così diversi per concezione e percezione, dialogano e si collegano per mezzo di un corridoio, disposto parallelo ai blocchi e leggermente rialzato rispetto ad essi, che ospita la sezione espositiva; esso dialoga con l’esterno attraverso i tagli di luce delle intercapedini. La soluzione prevede un rivestimento lapideo, a rimarcare la corrispondenza tra il nuovo edificio e le tracce del passato che identificano questo paesaggio.

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Chiara Farabullini

Le rovine di Roselle, fatte riemergere dall’azione umana dello scavo, affiorano dal terreno, immobili, incastonate in esso: su questo carattere, propria dei reperti archeologici, si fonda l’idea di progetto. Il modello, preso in prestito dalla città antica, è l’anfiteatro romano. Ciò che rimane, nel progetto, è appena un frammento, composto da poche pietre, tre blocchi sovrapposti e addossati alla collina: al piano terra, due volumi stereometrici affiancati si incastonano nel terreno, il terzo corpo vi si appoggia sopra, emergendo, come un reperto antico riportato alla luce. La rotazione e lo spostamento di uno dei blocchi, proprio come un frammento ritrovato, che ha perso il suo assetto originario, permette l’ingresso all’edificio, attraverso una ‘fessura’ tra le pietre, e il posizionamento di una scala esterna che permette di raggiungere la quota delle coperture calpestabili. Ai lati dell’ingresso si posizionano da un lato la biglietteria, gli uffici e i servizi, dall’altro la caffetteria e il bookshop, delimitati da un vetro che permette l’accesso ad una corte chiusa. Internamente una scala conduce allo spazio espositivo vero e proprio dove una grande vetrata si apre sulla vista del parco. I fronti esterni dei tre blocchi in pietra sono privi di aperture a rimarcare il carattere, la solidità e la pesantezza.

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bibliografia

Bibliografia generale Augé M. 2004, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri editore, Torino. Heidegger M. 2011, Essere e tempo, Mondadori, Milano. Heidegger M. 2012, Soggiorni. Viaggio in Grecia, Guanda, Milano. Rogers E.N. 1997, Esperienza dell’architettura, Skyra, Milano. Rossi A. 1999, Autobiografia Scientifica, Nuove Pratiche Editrice, Milano. Settis S. 2004, Futuro del “classico”, Giulio Einaudi Editore S.p.a., Torino. Summerson J. 1990, Il linguaggio classico dell’architettura, Giulio Einaudi Editore, Torino. Venezia F. 2013, Che cos’è l’architettura. Lezioni, conferenze e un intervento, Mondadori Electa S.p.a. Vitta M. 2005, Il paesaggio. Una storia tra natura e architettura, Giulio Einaudi Editore S.p.a., Torino. Yourcenar M. 2014, Memorie di Adriano, Giulio Einaudi Editore S.p.a., Torino. Zermani P. 2015, Architettura: luogo, tempo, terra, luce, silenzio, Mondadori Electa S.p.a. Bibliografia specifica | urbanistica etrusca e romana, Roselle e territorio circostante Bianchi Bandinelli R., Giuliano A. 2000, Etruschi e Italici prima del dominio di Roma, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli. Citter C. (a cura di) 1996, Grosseto, Roselle e il Prile, Documenti di Archeologia, SAP. Cristofani M. 1978, Etruschi. Cultura e società, De Agostini. Dennis G. 1848, Città e Necropoli d’Etruria, Londra. Keller W. 1981, La civiltà etrusca, Garzanti. Laviosa C. 1965, Le mura di Roselle, in Tuttitalia, Toscana, vol. 2, p. 666, Isituto Geografico De Agostini s.p.a., Novara. Mazzolai A. 1960, Roselle e il suo territorio, STEM. Nicosia F., Poggesi G. (a cura di) 1998, Roselle. Guida al parco archeologico, Nuova Immagine. Steingraber S. 1983, Città e necropoli dell’Etruria, Newton Compton.


Finito di stampare per conto di DIDAPRESS Dipartimendo di Architettura UniversitĂ degli Studi di Firenze Agosto 2016



Di fronte all’evidente incapacità dell’architetto contemporaneo di riaffermare attraverso il progetto quella naturale continuità tra passato e presente, tra ciò che è stato e ciò che può essere, sarà necessario ricollocare alla base della pratica progettuale la capacità d’interrogarsi sulla natura delle cose, fino a riconoscere la radice, la forma archetipica dalla quale ripartire, l’origine, che può risiedere nell’architettura antica come nella rovina. Solo così sarà possibile per tracciare nuove linee di ricerca, libere da virtuosismi linguistici dettati da passeggere necessità espressive, ma piuttosto indirizzate verso il riconoscimento degli elementi resistenti sui quali si può ancora appoggiare il progetto. Il paesaggio archeologico, per sua natura stratificato, ci invita ad una lettura trasversale delle vicende che hanno prodotto quell’insieme di architetture sovrapposte, di linguaggi e di tecniche costruttive differenti, di materiali nuovi che si alternano a quelli di reimpiego, ai quali è stato affidato il compito di salvare e ribadire una necessaria continuità materiale dell’opera dell’uomo nel tempo. Paesaggio frammentato che comunica un senso di eterno e provvisorio assieme. Il difficile compito di ricostruzione non potrà attuarsi se non attraverso un principio di “trasmissione” dell’antico al nuovo. Possiamo pensare, allora, di proseguire il nostro delicato lavoro di ricostruzione, guardando il paesaggio contemporaneo alla stregua di un’opera collettiva, mai compiuta, sulla quale siamo chiamati ad intervenire, modificandola, senza, tuttavia, completarla.

Riccardo Butini nato a Siena nel 1971 è laureato presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. Dottore di Ricerca, dal 2003 al 2007 svolge l’attività di tutor nel Master in Teologia e Architettura di Chiese presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. Dal 2009 è Ricercatore presso la Facoltà di Architettura di Firenze, dove insegna Progettazione Architettonica. Selezionato per il Premio Nazionale Inarch/Ance 2008. Nel 2007 pubblica il libro Giovanni Michelucci. Fotogrammi del museo, Diabasis editrice, nel 2012 Luoghi dell’ abitare. Tham & Videgard Arkitekter e nel 2014 Architettura Sacra. Paolo Zermani, Casa Editrice Libría. Suoi scritti e progetti sono pubblicati su riviste e testi di architettura. Tra le realizzazioni, la Nuova Sede della Società di Castelsenio (2004), la Sede direzionale e produttiva della Co.ri.m.a. (2008) e le Case a Carpineto (2014). Ha partecipato a concorsi d’architettura nazionali e internazionali affrontando principalmente i temi del recupero e ricostruzione di antichi complessi architettonici.

9 788896 080429

€ 15,00


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