Ri-Vista 11/2009

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redazione

direttore / director Giulio G. Rizzo

comitato scientifico / scientific committee

Paolo Bürgi, Vittoria Calzolari, Christine Dalnoky, Guido Ferrara, Roberto Gambino, Jean-Paul Métailié, Giulio G. Rizzo, Mariella Zoppi

comitato di redazione / editorial board

Alessandra Cazzola, Michele Ercolini, Laura Ferrari, Silvia Mantovani, Gabriele Paolinelli, Antonella Valentini

progetto grafico / graphic design / editing Laura Ferrari

scrivere alla redazione rivista.drpp@unifi.it

editore / publisher

Firenze University Press Borgo degli Albizi 28 50122 Firenze e-press@unifi.it

Ri-Vista ricerche per la progettazione del paesaggio

rivista elettronica semestrale del Dottorato di Ricerca in Progettazione Paesistica Facoltà di Architettura – Università degli Studi di Firenze registrazione presso il Tribunale di Firenze n. 5307 del 10 novembre 2003 ISSN 1724-6768

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Ri-Vista ricerche per la progettazione del paesaggio

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un viaggio nel viaggio: tra paesaggi, parole, sguardi

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sommario

I

un viaggio nel viaggio tra paesaggi, parole, sguardi

1

Editoriale Laura Ferrari

tra parole e saggi 9

Viaggiare per osservare. Noterelle dall’esperienza del viaggiatore Roberto Burle Marx Giulio G. Rizzo

17

Viaggi possibili e paesaggi immaginati. Le frontiere mediali dell’esperienza turistica

Laura Gemini

27

Viaggi spirituali, itinerari culturali e cammini per lo sviluppo

34

L’attitudine “astratta” del paesaggio

Enrico Falqui e Chiara Serenelli

Valerio Morabito

lo (s)guardo estraneo 39 46

Eco e Narciso. Paesaggi inediti in provincia di Torino

Rebecca De Marchi

Lo sguardo del flâneur Giampaolo Nuvolati

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II

un viaggio nel viaggio: tra paesaggi, parole, sguardi

paesaggi in gioco 53

La lettura del paesaggio come strumento di turismo culturale Frederick Bradley

59

Il paesaggio, sfondo scenografico o realtà geografica da gustare nel turismo enogastronomico Erica Croce e Giovanni Perri

libri 65

Slow Travel: in viaggio con l’asino Silvia Mantovani

72

Dal paese al paesaggio con Alain Roger Gabriele Paolinelli

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editoriale

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Editoriale Laura Ferrari*

La vita è un viaggio, viaggiare è vivere due volte. 1 OMAR KHAYYAM

Il viaggio, un tema affascinante, articolato, complesso. Una dimensione dell’esistenza che ci permette di essere tutti esploratori, non soltanto di luoghi e paesaggi ma di pensieri, relazioni, identità, storia, tradizioni, …. Il viaggio, infatti, non è solo quello fisico che compiamo quando ci spostiamo da un punto all’altro dei vasti e molteplici paesaggi, meta delle nostre evasioni vacanziere o degli impegni lavorativi che ci richiamano ora in una città, ora in un’altra. In fondo, ciascuno di noi compie un viaggio ogni giorno. È innanzitutto un viaggio all’interno del paesaggio (fisico, sociale, …) che ci circonda e che abitiamo per un giorno, per un mese o per una vita intera. Ma ogni giorno ciascuno di noi compie qualcosa di più del semplice viaggio che ci conduce da un punto all’altro di quelle mappe vocali sintetizzate che, con fare autoritario, guidano il nostro andare, ora indicandoci di svoltare a destra, ora a sinistra, senza concederci il lusso di sbagliare o meglio di perderci. Perché in fondo il viaggio è anche questo. Così come la vita, di cui in fondo può dirsi metafora, il viaggio è spaesamento, esperienza dell’inaspettato, cambiamento, crescita. Deve continuare ad esserlo, nonostante gli schemi mentali in cui e con cui ‘incaselliamo’ il nostro mondo quotidiano, finiscano per prendere ovunque il soppravvento. “Una volta viaggiare era vagabondare. Oggi il tempo è raro e caro, bisogna farne economia, dunque organizzare il vagabondaggio come tutto il resto”2. Ma procediamo con ordine perché altrimenti anche in queste poche righe rischiamo, per l’appunto, di perderci, di vagabondare tra i mille spunti e i mille richiami che la dimensione del viaggio induce e porta con sé. Dicevamo che il viaggio è innanzitutto esperienza, in primo luogo un’esperienza fisica, di tipo spaziale. Nel viaggio compio uno spostamento, piccolo o grande che sia, di svago o di lavoro, in luoghi sconosciuti o in mondi a noi noti, a piedi, in treno o in automobile non importa. È in tutti i casi un’esperienza, anche quando apparentemente ne siamo meno consapevoli perché magari non riconosciamo i presupposti di ciò che comunemente identifichiamo come viaggio, o di ciò che comunicazione e marketing, attraverso i loro straordinari (eppure così ingannevoli) strumenti, ci inducono a considerare viaggio.

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un viaggio nel viaggio: tra paesaggi, parole, sguardi

In ogni caso, insomma, sia che si stia percorrendo la strada verso la meta (o le mete) delle tanto ambite vacanze, sia che si stia percorrendo il consueto tragitto che ci porta al luogo di lavoro, noi tutti stiamo compiendo un viaggio. Stiamo facendo esperienza di ciò che attraversiamo e osserviamo, di ciò che il nostro sguardo percepisce e che la nostra mente elabora, ‘traduce’, astrae. Ed è in questa capacità, o per meglio dire, in questo secondo processo che accompagna e affianca il compiersi dei nostri spostamenti che risiede l’altra esperienza che ogni viaggio concede. Se da un lato, infatti, il viaggio è esperienza dello spazio, della fisicità dei luoghi, dall’altro il viaggio è esperienza della mente, del pensiero (dei pensieri) che essa elabora incessantemente. Se ci pensiamo bene, d’altronde, il viaggio è un’esperienza a tutto tondo; coinvolge i cinque sensi, tanto che di ciascun viaggio (o esperienza) conserviamo nella nostra memoria suoni, voci, profumi, forme, colori, sapori, …. Ma va ancora oltre, se davvero ci abbandoniamo o meglio ci ‘apriamo’ all’esperienza del viaggio, alla ricerca di ciò che è nuovo, diverso, altro da noi, dal nostro microcosmo e dal nostro paesaggio o se, anche solo permettiamo al nostro sguardo di varcare quella patina di abitudine che, alle volte, non ci permette di osservare, distinguere, conoscere e ri-conoscere i luoghi e i paesaggi a noi più familiari e la varia umanità che li abita e che li rende così straordinariamente vitali e dinamici. D’altronde l’esperienza che risiede nel viaggio così come il viaggio stesso non finisce mai. “Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l'ombra che non c'era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio, sempre”3. Perché presupposto del viaggio, che lo si compia con il proprio corpo o solo con la mente, è in fondo quello di mettersi in gioco, di mettere in gioco la propria identità e il proprio modo di guardare alle cose affinché possa essere arricchito e riplasmato da ciò che si è incontrato, dagli altrove che abbiamo percorso e che possono permetterci di ri-leggere ciò che consideriamo ordinario, consueto, scontato con occhi nuovi. Ma cerchiamo per un attimo di riflettere sulla dimensione a-spaziale del viaggio, quella più propriamente legata al pensiero. Qui, forse con eccesso di semplificazione, possiamo guardare o meglio scorgere due punti di vista. Il primo ha un radicamento concreto e si lega al viaggio come esperienza fisica e spaziale. È la sintesi che la nostra mente elabora dell’esperienza fisica che abbiamo vissuto e che ci viene restituita (o che impariamo a restituire) attraverso alcune semplici parole o le immagini essenziali che permettono di rendere indelebile il ricordo di un’esperienza. Questa prima dimensione a-spaziale, in fondo, è però un processo che precede, accompagna e segue il viaggio.

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editoriale

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Guardiamo immagini, leggiamo descrizioni, selezioniamo mete e percorsi e inevitabilmente diamo forma ad una visione anticipata di un luogo, del viaggio o, meglio, della percezione e delle sensazioni di cui potremo fare esperienza. Il viaggio finisce per compiersi nella nostra mente ancor prima della realtà, tanto che poi alcune volte finiamo quasi per rimanere delusi4. Nel viaggio poi, il processo continua a svolgersi. Negli spostamenti, nelle relazioni che intratteniamo con i luoghi attraversati e visitati, la nostra mente ‘assorbe’ informazioni, immagini, sensazioni; confronta quella che era la visione anticipata del viaggio, la nostra aspettativa su un luogo con la realtà in cui ci troviamo immersi una volta che lo abbiamo raggiunto; articola considerazioni, esprime giudizi. Durante il viaggio la dimensione a-spaziale accompagna quella più propriamente fisica, la sostiene; qui le due dimensioni sono assolutamente inscindibili. Nel viaggio e del viaggio la dimensione legata al pensiero finisce per compiere una selezione. Di suoni, voci, parole, immagini, colori, sapori, profumi, forme, …. La nostra mente opera quello stesso processo di semplificazione o, appunto di selezione, che ritroviamo nell’arte. Omette, comprime, cancella ed indirizza la nostra attenzione verso ciò che ha avuto rilievo o ha acquisito senso, “conferendo all’esistenza [al viaggio], senza per questo abbellirla o mentire, una coerenza e una pregnanza di cui il presente, nella sua disorientante vaghezza, non di rado manca”5. In tutto questo la memoria, il ricordo rivestono un ruolo decisivo e particolare. In questo senso la dimensione a-spaziale è anche un processo che segue il viaggio. Come l’aspettativa, anche la memoria permette di dare forma al viaggio. In questo caso non si tratta più di una visione anticipata di un luogo, del viaggio o, meglio, della percezione e delle sensazioni di cui potremo fare esperienza ma della sintesi entro cui riusciamo a ricondurre suoni, immagini, forme e sapori di cui abbiamo fatto esperienza. Pensiamo d’altronde a come, ad esempio, la fotografia permetta di portare a casa un’inquadratura, un particolare istante del nostro viaggio. Sotto questo profilo, anche se l’uso delle macchine fotografiche digitali ha fatto perdere un po’ di quella capacità di selezione che era invece necessaria e, in qualche modo, insita nell’uso dei vecchi rullini, oggi, per quanti scatti si possano fare, ciò che poi rimane al ritorno da un viaggio è comunque una selezione di quanto abbiamo osservato, conosciuto, vissuto e percepito. Una selezione di immagini, raccolte più o meno ordinatamente nei nostri computer che viene però a perdere di significato, di vitalità ed intensità nella misura in cui a ciascuna di quelle immagini non si affianca il pensiero, o meglio ciò che la nostra mente ha rielaborato del presente che abbiamo vissuto, dell’irrequieto “vagolare” da un luogo all’altro, tra paesaggi, parole, sguardi. Parole e sguardi che aiutano ad osservare, a comprendere l’altrove, il viaggio, con occhi diversi. Entro la dimensione legata al pensiero che accompagna il viaggio non possiamo, infatti, trascurare l’esperienza sociale che compie un viaggiatore quando va incontro, incontra e si lascia coinvolgere dalla cultura del luogo, dagli usi e costumi locali, dalla varia e tanta umanità che affolla lo spazio che attraversiamo o in cui finiamo per sostare per un tempo più o meno lungo.

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un viaggio nel viaggio: tra paesaggi, parole, sguardi

Non sempre l’esperienza sociale del viaggio assume o riveste importanza. In alcuni casi non la cerchiamo nemmeno. Non tutti i viaggi consentono di viverla o, ancora, di sperimentarla allo stesso modo. Eppure anche questa è una dimensione importante del viaggio. È parte dell’inaspettato allo stesso modo di un paesaggio emozionante, di un gusto insolito, di un colore mai visto, di uno scorcio improvviso, di un suono sconosciuto. L’esperienza che viviamo quando entriamo in contatto con chi risiede nei luoghi meta del nostro viaggio ci permette, in fondo, di essere parte di quegli stessi luoghi, anche se in maniera, tutto sommato, un po’ anomala o solo per un frammento del tempo che li abitiamo. Da modo di mettere in gioco la propria identità, il proprio microcosmo per lasciarsi in qualche modo cambiare dal viaggio. “Ogni realtà è un arcipelago; vivere e scrivere [o anche viaggiare] significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria. La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturarmi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra”6. Il viaggio, dunque, come esperienza di relazione. Il secondo punto di vista che è possibile distinguere entro la dimensione a-spaziale a cui stiamo accennando è, invece, una dimensione più astratta o, forse, solo ed esclusivamente astratta, quando guardiamo ai viaggi che la nostra mente compie, allorché elabora la molteplicità di informazioni, stimoli, suggestioni cui siamo sottoposti ogni giorno, e scomponendoli e riaccostandoli come tessere in un “defrag”, spazia nei pensieri senza che questi possano ricondurci a nessun luogo. Perché viaggiare, infatti, non significa necessariamente partire. “Viaggiare e non partire”7, poche parole per significare la dimensione del viaggio di cui stiamo discorrendo. Una dimensione così lontana dalla prima? Forse solo in apparenza. Certo entro questo secondo punto di vista si aprono sfaccettature che andrebbero esplorate con attenzione ma non vi è tempo e, soprattutto, personalmente non posseggo gli strumenti necessari a darne conto in maniera compiuta. Si tratta indubbiamente di un processo fortemente connesso alla sfera onirica della nostra mente. Quante e quante volte, in fondo, capita di sognare ad occhi aperti, di viaggiare con la fantasia. Non vogliamo e non possiamo addentrarci troppo in questo argomento ma basti solo pensare a come i nostri pensieri diano forma al viaggio. Alle volte anche questo viaggio trova corrispondenza in un luogo o in un paesaggio ma più frequentemente è un viaggio in tanti luoghi e in nessun luogo. Entro questa dimensione è indubbio rivestano importanza le molteplici sollecitazioni che da più parti arrivano alla nostra mente. Come la memoria seleziona e riordina i fotogrammi dei tanti altrove che abbiamo percorso nei nostri viaggi reali, così il pensiero seleziona, compone e crea uno o tanti altrove entro cui ci troviamo sospesi e fluttuanti. Guardiamo una fotografia, leggiamo un libro, osserviamo un quadro, ascoltiamo un brano musicale. Quante di queste azioni e quante parole, immagini, suoni sollecitano la nostra mente a viaggiare.

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editoriale

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“Un libro, una finestra sul mondo”. Così, in fondo, possiamo leggere sull’involucro trasparente che racchiude la Biblioteca Foral de Bizkaia a Bilbao. Ma dove è il paesaggio? Non è una svista, non è stato dimenticato perché il paesaggio non può essere dimenticato. È parte del nostro quotidiano ed esiste nella misura in cui percepiamo e attribuiamo valore ad un determinato territorio, alle interrelazioni tra fattori antropici e naturali che ne danno forma. Alle volte è talmente parte del nostro quotidiano che non lo riconosciamo più, occorre partire e guardare altrove per tornare ad osservare e a ri-conoscere. Il paesaggio è parte del viaggio. È la dimensione fisica e spaziale di cui facciamo esperienza durante i nostri spostamenti, ciò che il nostro sguardo e la nostra mente percepisce, esplora e sintetizza ma è anche ciò che la nostra mente riproduce, elabora, disegna, astrae. Se quando guardiamo alla dimensione spaziale del viaggio, il paesaggio è qualcosa di concreto e reale che accompagna il nostro andare; nel caso della dimensione a-spaziale, invece, il paesaggio è si presente, è anche qui parte fondamentale del viaggio ma finisce per essere astrazione, giustapposizione di elementi che estrapoliamo dall’esperienza vissuta o da quella che arriva a noi filtrata dal pennello dell’artista, dalla penna dello scrittore, dai racconti di un amico viaggiatore. “Il paesaggio è storia, è umanità, è immaginario” afferma Édouard Glissant8. Ed è, in fondo, proprio entro queste tre parole che possiamo collocare il legame tra viaggio e paesaggio, laddove il viaggio diventa lo strumento attraverso cui facciamo esperienza di una storia, una umanità, un immaginario che sono estranei al nostro mondo e che proprio attraverso il viaggio, invece, entrano a far parte del nostro mondo. In modo forse banale e confuso ho esplorato, in queste poche pagine, le dimensioni del viaggio. Ho compiuto un viaggio nel viaggio. Ho dato forma, certamente in maniera molto semplicistica, ad alcuni dei pensieri che il tempo e i viaggi hanno lasciato sedimentare nella mia testa. Pensieri che, a loro volta, hanno preso forma leggendo, in maniera disordinata, eccentrica, irrazionale, tra le righe dei “giocolieri di parole”, noti e meno noti, dai quali mi faccio incuriosire. Pensieri che forse non sarebbero nemmeno transitati e appartenuti al mio mondo, se non mi fossi confrontata con alcuni compagni di viaggio, se non avessi accolto le loro voci, se non avessi imparato attraverso di loro a varcare la linea del mio orizzonte, a mettermi in viaggio. Con alcuni di loro ho viaggiato davvero. Ho percorso chilometri, osservato paesaggi, scoperto altre storie, … condiviso il viaggio. Con alcuni dei compagni di viaggio abbiamo dato forma a questo numero di Ri-vista. Un volume che, seguendo la linea del cambiamento avviato con l’inizio del secondo lustro della nostra rivista, raccoglie saggi, percorsi e letture ricche e stimolanti.

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un viaggio nel viaggio: tra paesaggi, parole, sguardi

In molti casi estranei al nostro consueto guardare al paesaggio e alle molteplici relazioni o punti di vista di cui è possibile o siamo soliti discutere, i diversi contributi diventano una “finestra sul mondo”, l’incontro con un inaspettato, il pretesto per un nuovo viaggio. Per scelta ci siamo discostati da una lettura del binomio viaggio e paesaggio che potesse ricondurre all’esperienza del Grand Tour. Pur senza negare la necessità di approfondire questa esperienza, magari con nuove chiavi di lettura e attraverso sguardi estranei, abbiamo voluto compiere e far compiere ai nostri lettori un viaggio nel viaggio, facendoci accompagnare da voci nuove, da cui imparare e con cui discutere.

* Architetto. Dottore di ricerca in Progettazione Paesistica e Specialista in Pianificazione del Territorio e dell’Ambiente. Docente a contratto presso il Politecnico di Milano.

Testo acquisito dalla redazione nel mese di ottobre 2009. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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editoriale

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Poeta persiano del XII secolo. PAUL MORAND, Viaggiare, Archinto, Milano 2009, pag. 24. JOSÈ SARAMAGO, Viaggio in Portogallo, Einaudi, Torino 1999, trad. Rita Desti.

“Tutti sappiamo bene che la realtà del viaggio non è quella che ci aspettiamo. (…) Ma forse sarebbe più giusto e costruttivo dire che essa è soprattutto diversa”. Alain De Botton, L’arte di viaggiare, Guanda, Parma 2002, pagg. 15-16. 5 Ivi, pag. 19. 6

CLAUDIO MAGRIS, Vivere significa migrare: ogni identità è relazione, conversazioni di Claudio Magris con Édouard Glissant, “Corriere della Sera”, 01 ottobre 2009. 7 Proprio così titolava un suo libro Andrea Bocconi che, in queste stesse pagine di Ri-Vista, ritroviamo con Claudio Visentin “In viaggio con l’asino”, raccontato dalla parole di Silvia Mantovani. 8 CLAUDIO MAGRIS, op. cit.

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un viaggio nel viaggio: tra paesaggi, parole, sguardi

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tra parole e saggi

Viaggiare per osservare. Noterelle dall’esperienza del viaggiatore Roberto Burle Marx

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Travelling to observe. Small notes by the experience of the traveller Roberto Burle Marx

Giulio G. Rizzo*

abstract Cent’anni orsono, il 4 Agosto del 1909 in São Paulo, nasceva Roberto Burle Marx. La Ri-Vista ed il suo direttore con questo breve scritto lo vogliono ricordare con la gratitudine che è dovuta al Maestro della progettazione paesistica planetaria. I viaggi, e ancor di più le spedizioni, da lui compiuti nelle foreste del Brasile hanno insegnato a generazioni di paesaggisti che la ricerca sul campo è, fuor di dubbio, la strada maestra da seguire per comprendere appieno le caratteristiche naturalistiche ed estetiche che le singole specie hanno, per poterle utilizzarle, con la minore violenza possibile, nelle loro proposizioni progettuali.

abstract One hundred years ago, in August 4 1909, Roberto Burle Marx was born in São Paulo. Ri-Vista and its director intend to remember him by this brief article with the gratitude due to the world-wide Master in landscape design. The journeys, and more, the expeditions, which he did in the Brazilian forests taught generations of landscape architects the importance of research on site. It certainly is the main road to the deep comprehension of the natural and aesthetic features of the species to use those in design compositions by less possible violence.

parole chiave Roberto Burle Amazzonia.

key-words Roberto Burle Marx, journey, expedition, Amazon.

Marx,

viaggio,

spedizione,

* Università degli Studi di Firenze, Dottorato di ricerca in Progettazione paesistica. pwriz@tin.it

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Roberto Burle Marx ha coltivato la passione per i viaggi, non solo, ovviamente, nelle foreste ma anche in giro per il mondo. Ha viaggiato nei cinque continenti conoscendo scienziati e paesaggisti, uomini di cultura, artisti e molte altre persone. Soprattutto, ha conosciuto paesaggi. Mi è capitato di accompagnarlo in alcuni di questi viaggi, principalmente in Italia, ma anche all’estero, per esempio negli Emirati Arabi. Era curioso di tutto ed osservava tutto con attenzione. Il suo credo è stato da sempre: osservare, osservare, osservare ed ancora osservare! Restava incantato nel guardare i pavimenti dei siti romani che visitavamo, così come restava ammirato nel passeggiare nelle serre raffreddate dello sceicco in Abu Dabhi. Rammento con quanta ammirazione osservava i giochi d’acqua a Villa d’Este a Tivoli ogni qual volta ci andavamo. Giochi d’acqua che ha sapientemente reinterpretato e ri-proposto in alcuni suoi progetti celebri: uno tra tutti il muro con le cascate d’acqua del Mar Hotel di Recife del 1983-85. In sintesi, per Roberto Burle Marx il viaggio era sempre una scoperta e, in quanto tale un arricchimento! Arricchimento per se e per gli altri, come vedremo. I viaggi più noti e che più gli hanno dato gratificazione sono stati, in ogni caso, quelli compiuti nelle foreste. Aveva iniziato giovanissimo ad inoltrarsi nelle foreste del Brasile. Era un’epoca, gli anni Trenta del secolo appena passato, nella quale la foresta era ancora intesa come un luogo ostile! Affermava lo stesso Roberto Burle Marx che fin dai primi decenni della scoperta delle Americhe, “al conquistatore del Nuovo Mondo, la foresta, soprattutto quella tropicale, incuteva terrore. Era il rifugio degli Indios e di esseri aggressivi: il giaguaro, il serpente, il ragno, l'alligatore e la zanzara. Per questo si creò

Viaggiare per osservare. Noterelle dall’esperienza del viaggiatore Roberto Burle Marx

nella mente dei nuovi abitanti la necessità di aprire radure strategiche e il complesso di abbattere e distruggere”1. Roberto Burle Marx si rese subito conto dell’importanza della flora delle foreste Brasiliane e ci confessa quando sia nata in lui questa consapevolezza. Fu nel Giardino botanico di Dahlem, nel lontano 1928, dove aveva trovato, in una collezione di piante raggruppate secondo criteri geografici, molti bellissimi esemplari della flora brasiliana a lui sconosciuti. Ha dichiarato Roberto Burle Marx: “quando mi domandano dove ho percepito le qualità estetiche degli elementi nativi della flora brasiliana, dove ho preso la decisione di costruire, con flora autoctona, tutto l'ordine della nuova composizione plastica, con il disegno, con la pittura, fino ad arrivare al paesaggio e ai giardini, che sono la parte più conosciuta della mia creazione, sinceramente rispondo che fu come studente di pittura, davanti a una serra di piante tropicali brasiliane, nel Giardino Botanico di Berlino. Sì, fu lì che ho visto la forza della genuina natura tropicale, pronta e nella mia mano”2. Dirà più tardi: “erano per me delle vive lezioni di botanica e ecologia”. Fu, dunque, proprio in Berlino che inizia in Roberto Burle Marx quella interessantissima sintesi tra l'archeologia interiore e l'ecologia esteriore - come ha scritto, parlando di lui, Leonardo Boff3 - che lo spingerà a percorrere luoghi inesplorati o poco noti in tutto il Brasile. I luoghi da lui visitati diventeranno in breve tempo veri e propri santuari della Natura riconosciuti tali da molti scienziati e, successivamente, dalle norme di protezione sia dal governo Federale Brasiliano sia dai governi dei singoli Stati federali. È il caso, per esempio, della Chapada Diamantina4, nello Stato di Minas Gerais, incredibile sito di inestimabile valore naturalistico con una

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biodiversità elevatissima e una concentrazione di generi e specie di piante di eccezionale bellezza. Roberto Burle Marx aveva esplorato in lungo ed in largo questo luogo scoprendovi molte nuove specie, alcune delle quali portano il suo nome. L’esperienza e la conoscenza acquisite nei tanti viaggi lo portano a diventare un cosciente propugnatore dei molti valori, anche culturali e didattici, che ha la flora brasiliana. E' per questo motivo che i suoi accostamenti di piante, la sapiente teoria della distribuzione nello spazio delle singole specie e delle masse, non ha risposto solo ad una cosciente costruzione estetica ma è stato il tentativo, ben riuscito, di riprodurre i microambienti - propri di ciascuna pianta - che ha tanto indagato nelle sue costanti esplorazioni delle foreste tropicali. Lo si sentiva dire spesso, mentre progettava, aqui colocamos un grupo, qui mettiamo un gruppo. Intendeva dire in questo luogo mettiamo un gruppo di piante che hanno la proprietà di vivere insieme, in gruppo appunto. Aveva tratto questa nozione dall’osservazione di come le piante si raggruppano nel loro ambiente e di come traggono da questa vicinanza maggiore vigoria: sperimentava la fitosociologia nella composizione paesaggistica! Altre volte indicava chiaramente di voler inserire un esemplare isolato e spesso citava il luogo dove aveva visto la pianta che intendeva utilizzare che staccandosi dal contesto faceva risplendere la sua morfologia. Proprio per questo, a volte, circondava la pianta, la isolava dal resto, con un muro, od altro; esempio ancora insuperato di questa interpretazione restano i patios del Parco dell’Est in Caracas! La prima applicazione cosciente dei principi fitosociologici applicati alla sperimentazione pratica fu, nel 1943, nel progetto del grande parco di Araxé, pensato, insieme al botanico Henrique


tra parole e saggi

Lehmeyer de Mello Barreto, come un complesso di venticinque sezioni - delle quali solo quindici realizzate - ciascuna delle quali riproduceva le specificità fitogeografiche delle varie parti dello Stato di Minas Gerais: significativa sintesi tra l'esperienza scientifica e la creazione artistica. È ormai noto che l'intensità plastica e l'originalità delle sue proposte, ottenute valorizzando i toni espressivi della vegetazione, costituiscono acquisizioni importanti di quella sintassi che Roberto Burle Marx si era costruito, progetto dopo progetto, utilizzando il ricco “vocabolario” (come lui stesso amava definirlo) fatto citando solo in parte le oltre cinquantamila specie vegetali e le oltre cinquemila specie di alberi presenti nel territorio brasiliano. Roberto Burle Marx, durante le sue numerose spedizioni nelle foreste del Brasile, ha scoperto molte piante. Era il suo orgoglio di uomo e di paesaggista. Nessun paesaggista al mondo, infatti, ha potuto rallegrarsi della particolare soddisfazione di incontrare nuove specie di piante. Quasi come un artigiano che si costruisce gli strumenti del proprio lavoro, Roberto Burle Marx è andato nelle foreste del suo paese a scovare nuove e bellissime piante per arricchire il proprio linguaggio e la sua tavolozza espressiva. Con non celata fierezza amava dire: “ho scoperto (molte piante) insieme ai miei amici, durante le escursioni. Ancora adesso abbiamo una botanica che sta qui, Helen Kennedy, che è venuta in Brasile con un interesse molto grande verso le Marantaceae. Nella nostra collezione, lei ha trovato cinque nuove specie. Costantemente invitiamo botanici e specialisti per farci aiutare nella classificazione delle piante del Sitio. Ho un amico, Patrick Watson, che sta venendo dal Sud Africa e, probabilmente, ci porterà alcune nuove piante. Come si può vedere, la

collezione aumenta indipendentemente dagli impedimenti che abbiamo incontrato”5. Durante una di queste spedizioni, quella fatta al Morro do Chapéu, un comune dello Stato di Bahia, il 29 settembre 1965, morì l’architetto e amico Rino Levi6. Roberto Burle Marx fu sconvolto da questa morte improvvisa e per molto tempo non fece altre esplorazioni nelle foreste Brasiliane. I suoi tanti viaggi nel cuore del Brasile lo hanno spinto, ma anche autorevolmente accreditato per la innata simbiosi che lo ha legato alla natura del suo paese, a denunciare, da pioniere - e in epoca lontana - le devastazioni all'ambiente e al paesaggio Brasiliano. “La distruzione della foresta brasiliana è partita da qui dall’Amazzonia. Se non c’è volontà di proteggere questo patrimonio, che è patrimonio di tutto il Brasile, quelli che verranno dopo di noi troveranno solo una terra devastata, come, per esempio, lo Stato di Alagoas che ormai è un immenso canneto. Quello che si è distrutto è cosa da pazzi!”7. Le sue battaglie contro la “Politica florestare e destruiçao das forestas”8, sono continuate, con decine di saggi su riviste brasiliane e centinaia di interviste nei quotidiani dagli inizi degli anni settanta fino alla morte. Era convinto che “è necessario proteggere la natura come un repertorio di bellezza e di vita, nella speranza che gli alberi continuino a fiorire per molti anni ancora. Questa è una speranza che dà un significato superiore alla nostra vita”9. Chiedeva non solo leggi severe per la protezione delle foreste, ma una nuova cultura collettiva per difendere il paesaggio e l'ambiente Brasiliano: ne è un esempio quanto riportato in una intervista apparsa sul giornale "Folha da Tarde" di Porto Alegre del 23 agosto 1973, dove, senza esitazione, afferma che la

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distruzione della natura dimostra la mancanza di base culturale. E' stato uno dei pochi che, con dovizia di documentazione, ha ingaggiato una violenta campagna contro la Volkswagen do Brasil rendendo di pubblico dominio la distruzione di 9.180 ettari di foresta, eseguita con il fuoco, da parte di quell'impresa e il pericolo che altri 61.000 ettari da lì a poco sarebbero stati distrutti10. Con la medesima massa di documentazione ha denunciato la ferocia con cui vengono aperte le strade in Amazzonia e ha descritto, di ritorno da un viaggiospedizione-sopralluogo, compiuto nel 1983 nel cuore della foresta, “la tecnica di costruzione di strade estremamente aggressiva e brutale”. Lo ha fatto con autorità presso organi ufficiali, il Senato Federale e sulla stampa. Si era attirato, proprio per queste battaglie e denuncie, antipatie che a volte hanno cercato inutilmente di isolarlo: fu il caso della conferenza mondiale per l'ambiente tenuta a Rio de Janeiro, Rio '92. Roberto fu abilmente e coscientemente ignorato dagli organizzatori Brasiliani. Era sfuggito a costoro il ruolo che ormai lui aveva acquisito in Brasile e nel mondo: per circa un mese, a cavallo della manifestazione di Rio, decine e decine di giornalisti, di televisioni di ogni angolo del mondo, presero letteralmente d’assedio lo studio di Roberto ed il Sitio per sentire la sua opinione e più spesso la sua denuncia. Un esempio tra i tanti. La spedizione in Amazzonia. Una delle spedizioni più importanti nelle foreste del Brasile, Roberto Burle Marx la realizzò nel 1983 dal 27 settembre al 17 novembre11.

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Roberto Burle Marx, all’età di settantaquattro anni, con una protesi nell’anca, percorse in lungo ed in largo il Brasile! Fu una spedizione di grande interesse, non solo per la lunghezza del percorso fatto e per la quantità dei luoghi esplorati, ma anche e soprattutto per le centinaia di piante raccolte, molte delle quali vive e portate al Sitio per essere allevate. In totale furono percorsi oltre diecimila e cinquecento chilometri di strade e quasi mille e ottocento chilometri di fiumi! Una media di oltre duecento chilometri al giorno di strade, molte delle quali sterrate o appena tracciate, e quasi trentaquattro chilometri di fiumi grandi e piccoli. Complessivamente sono stati esplorati centosessantanove luoghi disseminati nelle foreste dell’interno del Brasile. Tra le foreste esplorate vi sono: la Serra do Caiapó (nello Stato di Goiás), la Serra da Petrovina (nello Stato di Mato Grosso), la Serra da Moeda (nello Stato di Minas Gerais), la Serra da Caixa Furada, la Serra do Boi Morto (nello Stato di Mato Grosso), la foresta dell’Amazzonia attraversata durante l’andata e ripercorsa di nuovo al ritorno. La spedizione pur essendo iniziata a Rio do Janeiro, ufficialmente è partita da Jataí, nello Stato di Goiás, ed ha attraversato i seguenti Stati: Rio do Janeiro, Rondônia, Mato Grosso, Maranhão, Pará, Minas Gerais, Amazonas, Roraima, Amapá, São Paulo. In pratica quasi tutto il Brasile, partendo da Rio do Janeiro per arrivare all’estremo nord di Boa Vista, nello Stato di Roraima. Hanno attraversato varie riserve indiane tra le quali quella di Waimiri – Atroari, alcune grandi fazende come la Fazenda Sapê e la fazenda Santa Cruz, un accampamento militare, numerosi fiumi tra i quali il Rio dos Peixes, il Rio Amazonas, il Rio IguapóAçu, il Rio Araguaia, il Rio Branquinho, il Rio Alalaú, il Rio Jauaperi, il Rio Dos Peixes, il Rio Araça, il Rio

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Castanho, il Rio Tupana, il Rio Tocantins, il Rio Moares, il Rio Branco. I territori intorno ai porti posti lungo i fiumi come, Porto Esperidião e Porto Velho. Colline e montagne, come l’Alto do Araguaia, Pedra preta, le Colinas de Goiás, eccetera. Città e cittadine o semplici luoghi abitati, come Jataí, Caipônia, Cuiabá, Rodonópolis, Cáceres, Ariquemes, Jarú, Humaitá, Boa Vista, Caracaraí, Araguína, Açailândia. Hanno attraversato i territori di alcune città note, come Belém, Goiânia, Manaus, eccetera. Durante la spedizione sono state trovate e selezionate molte piante. Per le piante raccolte vive, l’architetto paesaggista Maria Fátima Gomes de Souza Menezes fu incaricato di organizzare la relazione di campagna. La selezione di Maria Fátima Gomes de Souza Menezes comprende quattrocentodiciotto esemplari ed è stata organizzata con annotazioni sui luoghi dove è stata prelevata la pianta, con le principali caratteristiche della pianta stessa annotando dove era possibile, il nome scientifico, e, infine, con disegni a mano libera fatti sul campo di grande effetto esplicativo. La relazione è stata accompagnata, sempre sul campo, da un secondo contributo, dove la stessa Maria Fátima Gomes de Souza Menezes ed il botanico californiano Paul Hutchison hanno aggiunto ulteriori annotazioni scientifiche. Alle piante vive si aggiungono le tre serie di piante erborizzate12, una di trecentodiciassette esemplari redatta da Paul C. Hutchison, una seconda di centoquarantatre compilata da William Rodriguez ed, infine, la terza di tredici esemplari scritta da Luiz Antonio Ferraz Mathes. Sia la prima che la seconda serie di piante erborizzate è stata accompagnata da una seconda relazione scientifica fatta da Paul C. Hutchison e Fátima Gomes de Souza Menezes, per la serie raccolta dal Paul C.

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Hutchison, e da William Rodriguez e Rosangela Cunha Rocha, per la serie selezionata da William Rodriguez. La spedizione, secondo l’elenco effettuato da Maria Fátima Gomes de Souza Menezes ha raccolto piante appartenenti a quarantasette famiglie. Solo nove sono state le piante non identificate direttamente sul campo. Le Araceae, sono la famiglia più numerosa: ne sono state trovate centoventiquattro, pari ad oltre il trenta percento del totale: Anthurium13 (15), Caladium (2), Diffenbachia (3), Monstera (8), Montrichardia (1), Philodendron (87), Philodendron mellobarretoanum (1), Syngonium (2), Urospatha (1), Xanthosoma (1); tre sono le Araceae non identificate. Seguono le Bromeliaceae, che sono quarantotto, pari a quasi il dodici percento: Abacaxi (2), Aechmea (3), Aechmea fernandae (1), Aechmea sprucei (1), Anas (2), Billbergia (1), Cryptanthus (1), Dyckia (8), Dyckia pummila (1), Guzmania brasiliensis (1), Hencholirium (1), Pictairnia (2), Tillandsia (5); non identificate (19). Le Musaceae trovate sono trentacinque, pari all’otto e mezzo percento: Heliconia (29), Heliconia espiscopalis (1), Heliconia hirsuta (1), Heliconia tarumanensis (4). Trentadue sono le Palmaceae, poco meno dell’otto percento: Aatrocaryum (2), Acrocomia (7), Astrocaryum (1), Attalea (1), Attalea acule (2), Bactris (2), Bactris o Acromia (1), Butia (1), Iriartera exorrhiza (1), Leptocarya tenue (1), Mauritiella aculeata (1), Mauritiella armata o echinata? (1), Morenia (1), Orbygnia (?) (1), Scheelea (2), Syagrus (5); due Palmaceae non sono state identificate. Le Orchiadaceae sono solo ventotto, poco meno del sette percento: Catasetum o Cyrtopodium (1), Cattleya (1), Cattleya nobilis (?) (1), Cyrtopodium


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(4), Epidendron (2), Rodriguesia (1), Sobrailia liliastrum (?) (1), Vanilla (2); quindici sono le Orchidaceae non identificate. Diciannove sono le Guttiferae, meno del cinque percento, diciotto Clusia ed una Kielmeyera. Furono trovate, inoltre, undici Marantaceae -due Calathea, due Ischnosiphpon e sette non identificate-, dieci Amaryllidaceae -Furcrarea (1), Griffinia (2), Hippeastrum (6), Zephyranthes (1)- e dieci Velloziaceae; sette Vellozia (di cui una selezionata dallo stesso Roberto Burle Marx) e tre piante di questa famiglia non furono identificate. Infine, vi sono altre trentanove famiglie rappresentate da piccoli numeri. Le piante vive furono portate nel Sitio14 per essere prima acclimatate e successivamente riprodotte. La gratificazione dei viaggi. La sua gratificazione, alla fine di un viaggio, era poter dire ho visto nuove cose. È nota a tutti la sua soddisfazione alla fine di un viaggio nelle foreste del suo paese. La soddisfazione aumentava e di molto quanto tornava a Rio do Janeiro con una pianta fino ad allora sconosciuta! Quest’ultima soddisfazione rasentava l’appagamento totale quando il frutto di ciò che aveva scoperto gli veniva riconosciuto. Infatti, i botanici hanno voluto che alcune delle piante scoperte da Roberto Burle Marx portassero il suo nome, altre sono state dedicate ad amici di Roberto o ad illustri studiosi della flora Brasiliana. Le piante che portano il nome di Roberto Burle Marx sono trentotto e quelle, da lui scoperte ma dedicate ad altri sono ventitre. L’elenco completo delle piante che portano il nome di Roberto Burle Marx è lungo e occorre

rammentare che esso è in continua crescita perché dopo la morte di Roberto Burle Marx i botanici continuano a dare il suo nome a nuove specie: Aechmea burle-marxii -chiamata anche Ortgiesia burle-marxii-, Alcantarea burle-marxii -conosciuta anche con nome di Vriesea burle-marxii-, Anthurium burle-marxii, Begonia burle-marxii, Burlemarxia pugens, Burlemarxia rodriguensii, Burlemarxia spiralis, denominata anche Barbacenia spiralis, Calathea burle-marxii 'Ice Blue', Calathea burle-marxii 'Snow Cone', Chaetostoma burlemarxii, Clusia burle-marxii, Criptanthus burlemarxii, Ctenanthe burle-marxii var. burle-marxii denominata anche Stromanthe burle marxii-, Ctenanthe burle-marxii varietà obscura, Dyckia burle-marxii, Encyclia marxiana, Encylia burlemarxii, Heliconia burle-marxii, Grazielanthus burle-marxii, denominata anche Grazielanthus piqueteana, Hohenbergia burle-marxii, Mandevilla burle-marxii, Melocactus sp "Burle Marx”, Merianthera burle-marxii, Microlicia burle-marxii, Nautilocalyx sp "Burle Marx", Neoglaziovia burlemarxii, Neoregelia burle-marxii, Neoregelia burlemarxii ss.pp Meeana, Ortophytum burle-marxii, Orthophytum burle-marxii varietà seabrae, Philodendron burle-marxii, Pictairnia burle-marxii, Pleurostima burle-marxii -denominata anche Barbacenia burle marxii- , Pontederia burle-marxii, Pseudolaelia burle-marxii, Tillandsia burle-marxii, Vellozia burle-marxii, denominata anche Barbacenia burle-marxii. Meno lungo, ma non per questo meno significativo, è l’elenco delle piante scoperte da Roberto Burle Marx e da lui dedicate a botanici o a suoi amici: Aechmea correia-araujei, Aechmea flavo-rosea, Aechmea grazielae, Barbecenia minima, Calathea annae, Calathea fatimae, Calathea grazielae, Calathea singularis, Heliconia adeliana, Heliconia

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aemygdiana, Heliconia mariae augustae, Heliconia pabstii, Hohenbergia edmundoi, Hohenbergia lanata, Nanuza plicata, Neoregelia elmoriana, Orthophytum gurkenii, Orthophytum lymanianum, Philodendron grazielae, Philodendron mellobarretoanum, Philodendron pulchrum, Pleurostima fanniei, Pleurostima piquetiana. Sei esempi di piante scoperte da Roberto Burle Marx nei suoi viaggi. Giusto a titolo di esemplificazione15, diamo conto in modo più esteso di alcune delle specie scoperte da Roberto Burle Marx. Si tratta di sei esemplari scelti tra i molti con un solo criterio soggettivo: sono piante a me care. L’Aechmea Correia-araujoi, pianta scoperta da Roberto Burle Marx nel 198016 nel sud dello Stato di Bahia e dedicata a Luiz Knud Correia de Araujo. Un bell’esemplare di questa pianta si trova ancora nel Sitio nel Bromeliario Margaret Mee. L’Aechmea burle-marxii17, chiamata anche Ortgiesia burle-marxii, è una pianta nativa dello Stato di Minas Gerais che appartiene alla numerosa famiglia delle Bromeliaceae -sub famiglia delle Bromelioidaeae, del genere Aechmeache racchiude sessantadue generi, per oltre duemilanovecento specie. La specie è simile alla Aechmea candida, dalla quale si distingue soprattutto nella parte terminale della foglia, che finisce con uno spino pungente, e per la dentellatura della foglia medesima. Fu trovata da Roberto Burle Marx in una delle sue escursioni negli Stati di Bahia e Minas Gerais. É una pianta tipica dell’habitat della Mata Atlantica, dove vive dal livello del mare fino a settecento metri, e preferisce una moderata ombreggiatura. È una bromelia

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delicata, di piccole dimensioni, che generalmente non supera i quaranta centimetri di altezza. Edmundo Pereira ci informa che la pianta è fiorita nel Sitio per la prima volta il dodici settembre del 1979. Lo stesso Edmundo Pereira la dedicò a Roberto Burle Marx con questa notazione: “dedichiamo questa nuova specie all’esimio pittore e paesaggista Roberto Burle Marx che l’incontrò in una delle sue escursioni negli stati di Minas Gerais e Bahia, e la coltiva nel suo Sitio in Rio do Janeiro”18. La collezione di Aechmea del Sitio è ancora enorme, ci sono ben sessantasette esemplari. Di Aechmea burle-marxii se ne trova una soltanto nel Bromeliario Margaret Mee. La Begonia burle-marxii, fu trovata da Roberto Burle Marx nel 1952 nello Stato di Paraíba. È coltivata, da allora, sia nel Sitio, sia nel Jardim Botânico do Rio do Janeiro. Somiglia alla Begonia microphylla, dalla quale si distingue soprattutto per la morfologia complessiva e per i filamenti liberi che presenta. Alexander Curt Brade la dedicò a Roberto Burle Marx con questa dizione: “dedichiamo questa specie al suo collezionista, nostro amico dottor Roberto Burle Marx, rinomato architetto paesaggista”19. Nel Sitio ci sono ben settantaquattro piante di Begonia, ma non c’è, attualmente, nessuna pianta di Begonia burlemarxii. Merianthera burle-marxii è una delle piante più belle del Sitio. Un bellissimo arbusto con fiori dal viola al rosso, che si trova in modo esteso nello Stato di Espírito Santo. La pianta è stata scoperta da Roberto Burle Marx presso un affluente del Rio Doce, il fiume Pancas, nel territorio di Colatina. Roberto Burle Marx si recò nel nord dello Stato di Espírito Santo per la prima volta nel 1941. In quell’occasione visitò le località di São Mateus, Conceição da Barra, Nova Venécia e Pancas nel

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municipio di Colatina. Proprio in quest’ultimo luogo trovò la Merianthera burle-marxi. Di questa spedizione trentadue anni dopo ebbe a dire: “ho visto (in Espírito Santo) una regione che mi abbagliò … per la sua bellezza interamente modificata. La valle del Pancas, vicino a Colatina, fu uno dei maggiori monumenti della natura che ho visto nella mia vita … vi era una tribù di Indios. Oltre alla foresta, nelle scarpate e sulle montagne di pietra vi cresceva una flora sui generis, di una ricchezza straordinaria. Dopo venti anni dalla prima visita quando fui li per la seconda volta, la regione era ancora bella. Nell’ultimo viaggio che ho fatto recentemente, sono rimasto turbato per le modificazioni, non solo del clima, per la scomparsa di molte specie che erano un incanto per tutti i botanici. Quello che resta continua ad essere distrutto dalle accette e dal fuoco”20. L’area nella quale è stata rinvenuta la Merianthera burle-marxi è stata nel 2002 vincolata21 come Parque Nacional dos Pontões Capixabas. La pianta studiata da Wurdac si trovava e si trova nel Sitio. È un bellissimo arbusto con fiori dal viola al rosso. Il Philodendron burle-marxii, descritta da Graziella Barroso, è una pianta epifita. La pianta è stata trovata per la prima volta nello Stato di Amazzonia nel municipio di São Gabriel da Cachoeira, in località Serra Uapici sulle rive del Rio Uaupés, nel 1947. È considerata endemica nel territorio di Humaitá, zona di foresta ombrofila densa nel cuore della foresta dell’Amazzonia dove, probabilmente, è stata rinvenuta anche da Roberto Burle Marx22. Ha foglie lunghe da cinquanta a settanta centimetri e larghe da otto a dodici centimetri. La pianta fu dedicata dalla stessa Graziella Barroso a Roberto Burle Marx nel 1957 con questa citazione: “al dottor Roberto Burle Marx, per l’opportunità che ci

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ha dato di studiare “in-vivo”, le meravigliose specie di Araceae brasiliane, come nostro modesto omaggio”23. Il Philodendron24 é un genere della famiglia delle Araceae distribuito quasi esclusivamente nelle zone tropicali. Fino ad oggi, appartengono a questo genere oltre cinquecento specie che sono organizzate in tre sub-generi: Philodendron, Meconostigma e Pteromischum. Il Philodendron burle-marxii è stato inserito nel percorso, organizzato al Royal Botanic Gardens di Kew, nel 1982, intitolato The plant world of Roberto Burle Marx, in occasione della mostra su Roberto Burle Marx al Royal College of Art di Londra, nell’aprile dello stesso anno. Il Philodendron burle-marxii, era una delle quindici specie introdotte nel percorso25 con la seguente motivazione: “the tour set out in this leaflet is an attempt to bring you closer to the shake, texture, coleurs and effects of some of the type of plants Robert Burle Marx has used most often in his work. … Here at Kew, however, we concerned with the plants he uses, and which make up his enormously rich plant at Campo Grande near the city of Rio de Janeiro … We have selected from the collections at Kew a range of species to show at first-hand the plant types and forms most important in Burle Marx’s work … To illustrate the botanical as well as the aesthetic importance of Burle Marx’s collections, plants from that collections itself are shown, which include a species new to science and still undescribed by botanists, and another only recently named after Burle Marx. In additions to these, the Orangery display shows plants that have been specially brought to Kew from Burle Marx’s estate for this exhibition”26. Roberto Burle Marx era entusiasta della sua collezione di Philodendron; nel Sitio, ancora oggi, sparsi nei vari Sombral ci sono


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cinquecentosessantanove piante di Philodendron. È una collezione tra le più importanti del mondo che aspetta ancora una completa classificazione ed identificazione dei vari generi. Infatti oltre il sessantatre percento delle piante di Philodendron non è stata ancora classificata. Si tratta di trecentocinquantanove piante27! Philodendron mello-barretoanum, questa pianta è stata scoperta da Roberto Burle Marx nello Stato di Goiás. È stata dedicata, dallo stesso Burle Marx, al botanico Henrique Lehmeyer de Mello Barreto amico e compagno di tante spedizioni e, inoltre, fidato ed ascoltato consigliere botanico in molti progetti di Roberto Burle Marx. Un bell’esemplare di Philodendron mellobarretoanum è ancora presente nel Sombral Graziela Barroso.

Testo acquisito dalla redazione nel mese di settembre 2009. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Roberto Burle Marx, “Jardim e Ecologia”, in "Revista Brasilera de Cultura", n.1, 1969. 2 Roberto Burle Marx, “Conceitos de Composiçao em Paisagismo”, 1954. 3 “Il San Francesco che abita dentro ciascuno di noi”, in "Roberto Burle Marx, Homagem é natureza", Rio de Janeiro 1979. 4 L’importanza di questo luogo del Brasile, situato nello Stato di Bahia, è sottolineata dal fatto che nel 1980 è stato istituito il Parque Nacional da Chapada Diamantina

con una superficie di mille e cinquecento venti chilometri quadrati. Il nome Chapada vuol dire ripide scogliere situate di solito ai bordi di un altopiano, mentre Diamantina si riferisce al rinvenimento di diamanti all’inizio dell’Ottocento. È un luogo semiarido che si distende tra ottocento e mille metri di altezza, dove però non mancano cime di quasi duemila metri. 5 Intervista a Artur Araujo del 4 agosto 1989, pubblicata sul giornale “Última Hora” di Rio de Janeiro con il titolo “Equilibrio perfetto con la Natura”. 6 Rino Levi era nato a São Paulo nel 1901 da genitori italiani. Aveva studiato prima a Brera e poi a Roma con Piacentini e, tornato in Brasile, fu uno dei fautori dell’architettura moderna nel paese. La sua collaborazione e amicizia con Roberto Burle Marx è stata lunga e carica di significato: scambio e integrazione tra due geni. Aveva insegnato, dal 1954 alla Faculdade de Arquitetura e Urbanismo da USP- Universidade de São Paulo. Morì a sessantatre anni, il 29 settembre del 1965, colpito da infarto durante una spedizione con Roberto Burle Marx alla ricerca di bromelie in uno dei luoghi più belli della Chapada Diamantina nello Stato di Bahia: il Morrão. Questo monte di poco più di mille e quattrocento metri, situato nel municipio di Morro Hat, è circondato da alcune delle foreste più belle di questa parte del Brasile Sobradinho, Lapão, Mucugezinho, Bacia e Serra do Morrão - dove Roberto Burle Marx era solito inoltrarsi alla ricerca di piante da utilizzare nei suoi progetti. 7 Dalla citata intervista concessa a Artur Araujo nel 1989, dal titolo “Equilíbrio perfeito com a Natureza”. 8 In "Cultura", Rio de Janeiro, N.3, 1969. 9

Conversazione con Amália Hermano Teixeira, pubblicata in Autori Vari: “Burle Marx. Homenagem à natureza”, Rio de Janeiro 1979. 10 La denuncia fu fatta nel corso di una conferenza tenuta nell'aula del Rettorato della Città Universitaria di Sao Paulo il 26 ottobre 1976. 11 Alla spedizione, oltre a Roberto Burle Marx, parteciparono tredici persone: José Tabacow – architetto paesaggista, all’epoca lavorava nello studio di Burle Marx,

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Maria Fátima Gomes de Souza Menezes -architetto paesaggista-, Luis Carlo Gurken –ricercatore-, Koiti Mori architetto paesaggista-, Oscar Bressane -architetto paesaggista-, Luiz Alberto Gomes Cancio –studente di paesaggismo-, Cíntia Aparecida Costa Chamas -architetto paesaggista-, Jorge Crichyno Pinto -architetto paesaggista-, Rosangela Cunha Rocha -architetto paesaggista-, Hugo Biagi Filho –stagista-. Inoltre, alla spedizione parteciparono con compiti differenti: William Rodriguez –botanico dell’Inpa (Instituto Nacional de Pesquisa da Amazônia)-, con il compito di collezionare piante per l’arborizzazione, Paul Hutchison botanico del Tropic World Fundation della California-, con il compito di collezionare piante per l’arborizzazione e il seccaggio delle stesse in loco, Luiz Antônio Ferraz Mathes -agronomo ed ecologo dello Iac di Campinas-, con il compito sia di collezionare piante per l’arborizzazione, sia di collezionare piante vive. I dati completi sulla spedizione sono stati raccolti nel volume: José Tabacow, Maria Fátima Gomes de Souza Menezes, Luiz Alberto Gomes Cancio e Cíntia Aparecida Costa Chamas, “Expedição Burle Marx a Amazônia – 1983”, Edizioni CNPq, Rio de Janeiro 1983. 12 Le piante arborizzate erano destinate all’erbario dell’Unicamp, Universidade de Campinas, al Jardim Botânico di Rio de Janeiro e all’Inpa – Instituto Nacional de Pesquisa da Amazônia. 13 Tra parentesi il numero di esemplari. Il punto interrogativo è presente nella lista compilata sul campo e rappresenta le piante di dubbia identificazione. 14 Per alcune piante delicate si è proceduto a spedirle per via aerea dalla città più vicina, allo scopo di non danneggiarle. Il successo della spedizione fu sancito dal fatto che solo meno del dieci percento delle piante raccolte non arrivò viva al Sitio. 15 Lo studio di tutte le piante con il nome di Roberto Burle Marx e di quelle da lui scoperte, si trova nel libro: Giulio G. Rizzo, “Il Sitio di Roberto Burle Marx”, Gangemi editore, Roma 2009. 16 Leme, EMC, “Aechmea flavo-rosea”, Journal of the Bromeliad Society, volume 40, 1990.

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Kirsten Albrecht Llamas, “Tropical Flowering Plants: A Guide to Identification and Cultivation”, Timber Press, 2003. 18 In “BRADEA - Boletim do Herbarium Bradeanum”. Rio de Janeiro, volume II, N°47, 1979. 19 Brade, Alexander Curt., “Begonias novas do Brasil”. In “Arquivos do Jardim Botânico do Rio de Janeiro”, volume 15, 1957. 20 Oswaldo Amorim, “A devastação é total” (intervista a Burle Marx), in Veja, del 19 settembre. 1973, pag. 4. 21 Con decreto del Presidente della Repubblica del 19 dicembre 2002, è stato istituito il Parque Nacional dos Pontões Capixabas nel territorio dei municipi di Pancas e Águia Branca, ricadenti nello Stato di Espírito Santo. Il parco è organizzato in tre aree distinte per complessivi diciassette mila e quattrocento e novantasei ettari. 22 Vari esemplari del Philodendron burle-marxii sono stati trovati nel 1968 da Ghillean T. Prance, insieme a J. F. Ramos e L. G. de Farias sulle rive del Rio Muru, nel comune di Tarauacá nello Stato di Acre a circa dodici chilometri dalla confluenza con il Rio Tarauacá. 23 Arquivos do Jardim Botânico do Rio de Janeiro volume 15, 1957. 24 Si veda Sakuragui, C.M. “Taxonomia e Filogenia das espécies de Philodendron seção Calostigma (Schott) Pfeiffer no Brasil. 1998”. Tesi di Doutorato presso l’ Universidade de São Paulo e Sakuragui, C.M.; Mayo, S.J., “Three new species of Philodendron from Southeastern Brazil”. Kew Bull., Londra, v.52, no.3, 1997. 25 Le ventidue piante scelte per il percorso erano: Philodendron bipinnatifidum, Anthurium cleistanthum, Anthurium gladiifolium, Alocasia, Anturium salviniae, Philodendron eichleri, Philodendron burle-marxii, Agave sspp, Pontederia cordata, Typhonodrum lindleyanum, Vriesia imperialis, Vriesia regina, Neoregelia concentrica, Tillandasia usneoides, Billbergia oxypetala, Ravenala madascariensis, Heliconia sspp –tre tipi esposti-, Cycads sspp – due tipi esposti -, Palms sspp.

Viaggiare per osservare. Noterelle dall’esperienza del viaggiatore Roberto Burle Marx

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Da “The Plant World of Roberto Burle Marx”, Londra 1982. 27 Le altre specie che fanno parte della collezione di Philodendron sono (si mette solo il termine identificativo della specie): tre esemplari di adamantinum, un esemplare di alternans, tre esemplari di altomacaense, un esemplare ciascuno di angustilobum e di anisotomum, tre piante di appendiculatum, due di atabapoense, due di auriculatum, due di barrosoanum, due di bipenifolium, cinque di bipinnatifidum, un esemplare di brevispathum, due di buntingianum, un solo esemplare con il nome di Roberto Burle Marx – Philodendron burle-marxii, tre di corcovadensis, ben sette di cordatum, due di cotonense, due di curvilobum, sette esemplari di danteanum, tre di davisoni, due di distandilobium, due di dressleri, sette di erubescens, due di eximium, un solo esemplare di fendlerii, tre di fragrantissimum, tre di glanduliferum, tre di gloriosum, uno di grandifolium, uno di graziela ed un altro di grazielae, uno di hastatum, tre di hederaceum, ben nove di henry-pittieri – di cui uno dubbio se si tratta di rorai – uno di hibrido vermelho, tre di hylaeae, due di imbe, tre di inaequilaterum, due esemplari di kautskyi, uno di lentii, sei di ligulatum, quattro di lindenii, due di linnaei, un esemplare di loefgrenii ed un altro di lynette, due di mamei, sei di martianum, due esemplari di maximum, tre di mayoi, sei di megalophyllum, tre di melinonii, un solo esemplare di mello-barretoanum, due di minarum, uno di ochrostemon ed uno di ornatum, uno di pastazanum, due di pedatum, quattro di pinnatifidum, tre di pterotum, otto di pulchrum, due di radiatum e due di rigidifolium, altri due esemplari di roraimae, uno di roseospathum, tre di rugosum, uno di sagitiffolium ed uno di scandens, due di schotianum, uno di sodiroi, uno di solimoesense, tre classificati come “specie nova”, uno specioso e cinque speciosum - di cui uno dubbio se si tratti di goeldii, uno di spectabile, due di squamiferum, cinque di squamipetiolatum, uno di subincisum, tre esemplari di tenue, uno di tweedianum, uno di uliginosum, tre di warszewiczii, due di wilburii, due di williamsii, ed, infine, uno wurdackii.

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Viaggi possibili e paesaggi immaginati. Le frontiere mediali dell’esperienza turistica

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Possible travels and imagined landscapes. The medial borders of the tourist experience

Laura Gemini*

abstract Immaginario, viaggio, comunicazione, esperienza. Il paesaggio come una costruzione mediale e comunicativa associata alla pratica del viaggio. Il saggio ne esplora le interrelazioni e le reciproche influenze in relazione alla società e ai suoi cambiamenti e aiuta a comprendere l'evolversi dei significati che oggi attribuiamo a viaggio e paesaggio.

abstract Imagination, travel, communication, experience. The landscape as a media construction associated with the practice of travel. The essay explores the interactions and reciprocal influences in relation to society and its changes and helps to understand the evolution of the meanings we attach to travel and landscape.

parole chiave media, comunicazione, immaginario, paesaggio, viaggio, turismo.

key-words media, communication, imagery, landscape, travel, tourism.

* Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Dipartimento di Scienze della comunicazione. Media, linguaggi, spettacolo.

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La natura comunicazionale del paesaggio. Premessa Se proviamo a considerare il paesaggio come una costruzione mediale e comunicativa associata alla pratica del viaggio e alla sua evoluzione abbiamo a disposizione gli elementi di una interessante quanto complessa correlazione. Il viaggio può infatti essere considerato come una particolare forma dell’esperienza umana che si afferma nel periodo romantico e nella società borghese prima di tutto come pratica dello sguardo1. Esso è dunque una dimensione dell’esperienza umana che si associa alla percezione della natura, del mondo, e della sua riduzione nell’immagine del “paesaggio”. Su questa linea il viaggio, una volta osservato sulla base del rapporto di omologia strutturale con la società e con le forme della comunicazione dei suoi media, segna anche il percorso evolutivo verso sempre nuove modalità di rappresentazione del paesaggio. Si tratta quindi di tenere conto di come la forma comunicativa che chiamiamo “paesaggio”, che pertanto in quanto tale non esiste in natura benché al principio si correli ad essa, sia una forma dello sguardo emergente dalla correlazione fra il viaggio, la società che lo forgia e le dimensioni dell’immaginario collettivo di stampo mediale. Se quindi il paesaggio è da intendersi come quella forma della comunicazione per immagini che dipende dal tipo di sguardo generato dal viaggio e dal suo rapporto con la società e i suoi media, allora è possibile anche osservare il passaggio da un immaginario di tipo prevalentemente rappresentazionista – di stampo moderno – ad un immaginario di tipo prevalentemente performativo – legato alla società tardo-moderna – che permette

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di tenere conto di quel processo di complessificazione di scenario che caratterizza l’esperienza contemporanea del viaggio e le diverse possibili forme dell’articolazione fra un qui e un altrove. Come potrebbe spiegarsi altrimenti la proliferazione di prodotti comunicativi legati al viaggio e al turismo? Come potremmo dare conto della possibilità di racchiudere nella parola “paesaggio”, potremmo dire nel “qui”, la varietà di “altrove”, la gamma di possibilità sempre più diversificate tanto da comprendere, come vedremo, i panorami artificiali e i mondi online? Se sul versante più propriamente sociologico, la questione rimanda all’evoluzione del sistema sociale del tempo libero, del mercato turistico e ai caratteri della società mobile (Urry 2000)2 è anche vero che questi fenomeni vanno associati alle modalità con cui il desiderio di altrove – l’immaginario – viene supportato e promosso dalla comunicazione. Al punto da definire il paesaggio non solo e non tanto come una particolare messa a punto dello sguardo, inteso principalmente come modo di vedere e rappresentare il mondo, quanto come forma dell’esperienza volta a penetrare e a sentire le immagini del mondo. Attraverso la lente di osservazione del paesaggio è perciò possibile mettere in evidenza il percorso evolutivo del viaggio e del suo immaginario, ossia dei modi in cui la rappresentazione del viaggio stesso convoglia in idee e pratiche specifiche, verso sempre nuovi paesaggi di cui fare esperienza. Il che significa: dall’esperienza del moderno e della correlazione “visiva” fra viaggio e paesaggio, dovuta al carattere prevalentemente iconico dei grandi media di massa, alle forme più complesse di oggi che sulla scorta del digitale integrano il visivo alla dimensione tattile e immersiva e che perciò

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dipendono dalla sempre più vasta compagine di paesaggi da esplorare e da penetrare.

Figura 1. Marco Cadioli, "Der Neue Wanderer", 2009.

Viaggiare per guardare. Il paesaggio come esperienza dell’immagine In molti sarebbero d’accordo nel considerare la famosa opera di Caspar David Friedrich del 1818 Der Wanderer über dem Nebelmeer l’immagine esemplare – ed esemplificativa – dell’atteggiamento del viaggiatore romantico e moderno. Di colui, cioè, che osserva la bellezza della natura tumultuosa mentre il quadro in sé rappresenta il modo in cui tale osservazione viene comunicata in forma di paesaggio. Come dire: il viandante rappresenta l’applicazione della prospettiva esterna, del modo cioè in cui una realtà osservata “da fuori” viene percepita come


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un’immagine del mondo. Questa applicazione di prospettiva riguarda anche il viaggio e il modo in cui si è sviluppato nel tempo lo sguardo turistico. In altri termini le condizioni sociali che hanno portato all’emergenza di un fenomeno che correla il viaggio al turismo sono le condizioni necessarie a comprendere come l’applicazione di una prospettiva esterna di osservazione a una certa realtà porti a definirla come “realtà turistica”. Ecco allora che la correlazione fra la struttura della società moderna e la cultura romantica riguarda da un lato il rapporto fra la figura del viaggiatore e delle destinazioni turistiche e, dall’altro lato, il tipo di immaginario e di forma della comunicazione che vi corrispondono. Intendendo l’immaginario come patrimonio simbolico che un sistema sociale utilizza per comunicare (Abruzzese 2001), e che si caratterizza come comunicazione per immagini (Durand 1996), è possibile quindi capire perché proprio con il viaggio romantico la pittura del paesaggio e il sentimento della natura segnino un passo fondamentale per la nascita dell’atteggiamento turistico. E come quest’ultimo non solo si vada via via a connotare come una forma evolutiva dello sguardo e dell’esperienza ma dipenda dal tipo di società e di pensiero scientifico che l’ha prodotto e con cui si trova in un rapporto di omologia strutturale. Non è quindi un caso, ad esempio, che Georg Simmel abbia messo in evidenza come soltanto nell’epoca moderna – cioè come conseguenza dell’esistenza astratta tipica della vita urbana basata sull’economia monetaria (Simmel 1900) e sulla tecnologia della scrittura – sia esistito un sentimento romantico della natura che ha permesso lo sviluppo della pittura paesaggistica. Così come il viandante di Friedrich, che noi

guardiamo guardare, così il dipinto di paesaggio è un’opera d’arte che sussiste nella distanza dall’oggetto, come immagine esterna appunto, e nella rottura dell’unità naturale con tale oggetto. Ecco allora che la sensibilità per il paesaggio non va vista tanto come recupero dell’idillio premoderno, come valore dello stato di natura perso per sempre, ma come un carattere difeso dal moderno dove tra l’altro il viaggio, lungi dal caratterizzarsi come fuga dalla modernità, si presenta piuttosto come una forma di redenzione della modernità stessa (Simmel 2006). Dal canto suo il viaggio borghese va visto invece come un processo di appropriazione del mondo mediante la sua incorniciatura: dalla formalizzazione della tecnica pittorica del pittoresco fino allo sguardo in movimento dei panorami visti dai finestrini dei mezzi di trasporto. Sta di fatto che il viaggio ottocentesco si stabilizza come pratica adeguata allo spirito scientifico del tempo, alla sua propensione a conoscere la realtà del mondo e a renderla rappresentabile, assimilabile cioè a parametri conoscitivi rassicuranti e ordinati. Non solo il pittoresco quindi ma anche l’istituzione del giardino inglese, il consumo da parte degli aristocratici nord europei delle pitture di paesaggio, dei voyages pittoresque e delle acqueforti come souvenir sono tutti fenomeni da far rientrare nella dinamica che permette di trasformare l’esperienza nella sua rappresentazione, nella messa a punto di un immaginario dei luoghi e degli altrove – visitati o da visitare – che va poi a caratterizzarsi come esperienza delle immagini3. Il paesaggio stesso può essere quindi pensato come uno degli elementi che caratterizzano l’ambivalenza del viaggio che si dispiega fra le pratiche di ricerca dell’altrove e l’addomesticamento dei luoghi o meglio dell’altrove

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portato qui, virtualizzato – cioè trasferito sui supporti mediali dalla pittura alla cartolina, al video – e riattualizzato come immagine.

Figura 2. Asian viandante (Asian Lednev aka Fabio Fornasari).

Il viaggio afferma con ciò il suo carattere metaforico o meglio il suo qualificarsi come metafora dell’immaginario collettivo diffuso dai media (Abruzzese 2000) proprio in virtù del fatto che l’altrove – e la sua desiderabilità – rimanda sempre a un’anticipazione mediale (Urry 1995). L’altrove è ciò che permette l’esperienza cognitiva ed emotiva del viaggio che mentre rappresenta il carattere cosmopolita del turismo aristocratico getta, paradossalmente, le basi della stanzialità borghese e moderna (Maffesoli 1997). Se la natura è l’oggetto cui l’uomo dell’epoca può attingere nella pittura paesaggistica questo accade, tornando a Simmel, perché la metropoli è il luogo fisico in cui il moderno meglio si rappresenta e si rende tangibile. Lo scenario urbano percorso dal viandante flâneur e dalla folla come nuovo soggetto sociale produce i suoi altrove con la loro natura

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artificiale: dalle Grandi Esposizioni Universali fino al panorama, vera e propria tecnologia della visione che rimanda al viaggio come pratica simbolica e alla localizzazione urbana di luoghi e scenari. Una tecnica pittorica, quella del panorama, in cui reale e immaginario, vissuto e rappresentato sono i territori simbolici cui l’uomo moderno ha imparato a muoversi applicando l’attitudine al viaggio in vista dello sviluppo dei grandi media di massa ossia di quelli che da lì a poco sarebbero stati i nuovi luoghi dell’esperienza di altrove. Su queste basi il panorama – cioè la grande pittura circolare inventata nel 1789 da Robert Barker – può essere pensato come una tecnologia della visione utile a creare un’importante illusione di realtà per coloro che non essendo ancora nelle condizioni di andare in vacanza possono usufruire di una forma-spettacolo della natura e della sua rappresentazione. Dal canto suo lo sguardo panoramatico (Benjamin 1955) è quello che costruisce una visione d’insieme, un paesaggio appunto, e di cui il viaggio si presta perfettamente a fare da metafora dell’esperienza visiva del mondo, del suo carattere prevalentemente iconico. La resa dei panorami sta dunque nella logica dell’intrattenimento garantita dalla cultura del loisir e dalla struttura della società di massa4. In particolare l’intrattenimento segna la distinzione fra una realtà che viene rappresentata con effetti speciali, di illusione immersiva, e la realtà “di prima mano” così da produrre un’ulteriore modalità di visione del mondo dove realtà e finzione, supportata anche dalla diffusione del cinematografo, procedono insieme nello spazio di azione della metropoli. L’abitante della città applica ora uno sguardo straniero, una prospettiva esterna di osservazione, sulle cose solite, proprio perché la città stessa diventa un paesaggio da vedere ed

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esplorare. Il delinearsi di uno spazio estetico, basato sulla sensorialità e principalmente sulla vista, è perciò il presupposto per la nascita di un’industria dell’immaginario che è quella dello spettatore/viaggiatore moderno, attratto fatalmente dai giochi di superficie.

Figura 3. Skin Tower (Asian Lednev aka Fabio Fornasari), 2008.

L’altrove in una “sight” Ecco perché la teoria sightseeing5 è quella che ha messo meglio in evidenza l’evoluzione del viaggio e del turismo nei termini della ricerca dell’immagine esemplare dei luoghi. Dalla panoramizzazione dello sguardo alla costruzione culturale del paesaggio, dalla contemplazione dei monumenti naturali a quelli artificiali, dai circuiti di produzione e diffusione della cartolina illustrata e dei souvenir, il concetto di sight sembra essere la migliore espressione del ruolo giocato dalla dimensione iconica nella definizione di un immaginario rappresentazionista del viaggio. Come “immagine

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allo stato puro” la sight rimanda, nel quadro delle teorie critiche sull’industria culturale e sulla cultura di massa, all’idea di messa in crisi di una supposta autenticità dei luoghi e del vissuto dei locali in favore di un turista che si accontenta o, peggio ancora, che è spinto soltanto verso la cosa da vedere. Su questi presupposti il problema evidenziato dalle teorie critiche sul fenomeno del turismo e della cultura di massa riguarda quindi l’impossibilità di accedere all’autenticità dei luoghi, del vissuto dei locali, dell’identità dei territori. In nome tra l’altro di una supposta quanto paradossale idea che la realtà del “diverso in quanto tale” possa essere scovata, compresa e rappresentata indipendentemente dal filtraggio dell’osservatore (Esposito 1992). Naturalmente, in estrema sintesi, a supporto di questa concezione c’è ancora l’epistemologia realista della scienza ottocentesca secondo la quale l’osservatore è al di fuori dell’oggetto della sua osservazione e può pertanto coglierlo oggettivamente6. Da questo punto di vista la sight come immagine decontestualizzata non può 7 che produrre una pseudo-esperienza che nulla ha a che vedere con la “vera” e sensata esperienza turistica. Tuttavia, e su un diverso fronte di analisi, la sight può essere anche considerata l’elemento che permette di accedere alla dimensione onirica e veramente altrove della vacanza, nel dominio dell’immaginario (Morin 1962). Ciò nonostante ci troviamo in entrambi i casi in una situazione caratterizzata dall’importanza della destinazione e dei suoi simboli. Non c’è da stupirsi quindi se il Tg1 del 30 luglio 2009 ha mostrato degli ammaliati Illary e Bill Clinton di fronte alle bellezze di Caserta durante l’inaugurazione del nuovo circuito sightseeing. Così


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come sembra non aver perso per nulla il suo appeal il turismo alla ricerca delle location delle fiction televisive (da Il commissario Montalbano a Carabinieri) e dei film più o meno famosi (basti pensare ai casi del Codice da Vinci o alla saga de Il Signore degli anelli) o addirittura che si possa avanzare la proposta di viaggio nella cultura pop. Qui ad esempio l’immagine esemplare è quella della casa nella via Gluk della celeberrima canzone di Celentano, o nella spiaggia di Questo piccolo grande amore di Claudio Baglioni8 che va ad affiancarsi a quella più antica del ben più mitico Monsier Houlot di Jaques Tati. Ma la propensione al visivo e alla ricerca di quell’immagine anticipata medialmente e che pertanto svela la sua desiderabilità trova riscontro in sempre nuove sight. È il caso di Ground Zero, tanto per fare un esempio ormai scontato, meta di pellegrinaggio per i visitatori di New York con 84.110 fotografie caricate Flickr9. Un luogo predisposto per essere visto in nome della memoria di un evento tragico ma anche dell’immaginario catastrofico del viaggio, che abbiamo apprezzato nella storia del Titanic e in molti altri casi, e nella resa turistica dei territori legati anche a vicende tragiche. Si tratta di un meccanismo certamente legato al mercato e al funzionamento del sistema turistico e del tempo libero in cui però è all’opera quel processo di esorcizzazione simbolica del lutto che rimanda alla funzione principale dell’immaginario e dei suoi archetipi (Durand 1963). Tutto questo per dire che sembra proprio l’ultima frontiera del turismo di massa a dirottare l’offerta turistica verso una domanda di altrove fortemente connotata nei termini dell’immaginario mediale. Resta solo da accettare il fatto che si tratti di una tradizione consolidata, potremmo dire originaria,

del viaggio e della sua declinazione in pratiche turistiche sempre più specifiche.

Figura 4. Asian viandante (Asian Lednev aka Fabio Fornasari).

Penultimi altrove. I mondi online l’immaginario performativo del viaggio

e

La relazione fra la pratica del viaggio e il dispiegarsi di tanti altrove può essere considerata la chiave per dimostrare e risolvere la funzione che vede il viaggio come metafora dell’esperienza che tiene insieme la meta-territorialità dell’immaginario. In altre parole gli altrove cui l’immaginario del viaggio permette di accedere sono sì territori fisici ma anche mentali, sono sì i mondi esotici e sconosciuti da esplorare ma anche i nuovi panorami dell’immaginazione, fino ai mondi artificiali e sintetici. Nel cambiamento di paradigma scientifico che porta a considerare l’osservatore oggetto della sua stessa osservazione e perciò a reintegrare la soggettività

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come leva interpretativa anche l’analisi del viaggio assume connotazioni nuove. Si tratta in altri termini di considerare non solo la prospettiva esterna di osservazione come modalità per definire in senso turistico le destinazioni ma di pensare che dal punto di vista interno, di ognuno, ciò che diventa rilevante è come ci si osserva nei confronti di una certa realtà, di una certa esperienza. Il focus sull’esperienza – come azione incarnata, biocognitiva – diventa in questi termini la chiave interpretativa di un immaginario di stampo performativo, legato cioè alla possibilità immersiva, all’esperienza centrata sul corpo che “penetra” l’immagine. Se ancora negli anni sessanta il cinema di fantascienza era il contesto più efficace dell’immaginario, capace di prefigurare possibili altrove da esplorare come nel Fantastic Voyage10 all’interno del corpo umano, micro-macro cosmo dall’inesauribile fascino, la diffusione dell’arte virtuale nelle forme delle installazioni interattive, degli ambienti sensibili e dei così detti sound environment11, ha permesso di concretizzare quanto il cinema ha potuto “soltanto” raccontare. Come nel caso di Osmose di Charlotte Davies (1995), un ambiente virtuale immersivo e interattivo che permette al fruitore di esplorare in maniera sinestesica la simulazione in 3D degli elementi della natura. L’installazione offre ai visitatori l’opportunità di seguire il viaggio di un individuo interagente attraverso le immagini di un simulacro della natura dimostrando così come quando la corporeità entra così fortemente in gioco sia l’esperienza stessa delle immagini – logica dell’immersione e della performance – a realizzarsi. Osmosi ha offerto una realtà totalmente nuova e una gamma di realtà alternative da percorrere attraverso la presenza fisica e mentale nel mondo

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reso in immagine. Tuttavia, ciò che dal punto di vista della comunicazione può sembrare più importante, è l’applicazione della prospettiva interna dell’osservatore che, facendosi coinvolgere intensamente è portato a trattare il mondo virtuale in cui è immerso non tanto come una costruzione che gli si impone, quanto come costruzione di un’esperienza personale e autentica che qui si traduce in impressione estetica dell’immersione12. Il viaggio è anche il tema dell’opera HAZE Express di Christa Sommerer e Laurent Mignonneau. Un’installazione interattiva che sviluppa la metafora del viaggio e dello sguardo sui paesaggi in movimento visti attraverso i finestrini dei mezzi di trasporto. Il punto è, secondo gli autori13, che quando si guarda un paesaggio che scorre velocemente non si può capire molto di quello che si vede, il dettaglio o la gente che ci vive. I paesaggi che scorrono diventano mera immagine, accumulazione di forme e colori, “haze of impressions”. Tuttavia è la tattilità, il tocco della mano sullo schermo, a far scivolare il paesaggio mentre le immagini possono essere fermate, guardate in dettaglio, nei particolari ed è così allora che l’opera, come il viaggio, viene a dipendere da chi ne fa direttamente esperienza. L’estensione delle forme di rappresentazione del viaggio non solo ne qualifica l’immaginario ma rafforza l’idea che si aprano sempre nuove frontiere del turismo. Le tecnologie digitali e Internet in particolare supportano un’estetica di superficie che mentre corrisponde all’emergenza di nuove forme di paesaggi e alla loro qualità pittoresca si caratterizza nella convergenza di spettacolarizzazione, sinestesia e sensorialità, comunicazione interattiva. In questo quadro il viaggio si caratterizza come esperienza di risensorializzazione attraverso le immagini e perciò

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come immaginario performativo. Basti pensare agli scenari tridimensionali di Google Earth, alle modalità di ricerca, di visione e di esplorabilità dei siti che questo programma mette a punto. Queste forme di panorama sono da intendersi come immagini-mondo che oltre a riarticolare il rapporto fra qui e altrove mettono anche in gioco il rapporto tra il vissuto e i media come luoghi dell’esperienza contemporanea. I paesaggi di Google Earth sono da esplorare in maniera polidimensionale grazie alla simulazione di un corpo performante che viaggia polisensorialmente fra le immagini. Ma quella che può al momento apparire come la frontiera più avanzata del viaggio e dell’immaginario di altrove è quella dei mondi persistenti online come Second Life14. Come ambiente artificiale in grado di soddisfare il desiderio di altrove il mondo online rappresenta prima di tutto una forma di esplorazione di un “luogo” ed è un territorio a sé sia perché esistono land e siti di fantasia, artisticamente e architettonicamente anche molto interessanti, sia luoghi che riproducono città e scenari esistenti in real life. Si potrebbe anche ritenere che in un certo senso SecondLife sia riuscita, grazie alla tridimensionalità, a realizzare al meglio l’obiettivo dell’immersività perseguito dall’arte virtuale. Dalla creazione di ambienti e installazioni per l’illusione del pubblico – ancora di cifra rappresentazionista – alla costruzione artificiale e tecnologica di mondi da penetrare, basati su un’interattività programmata, concessa in qualche modo dall’opera stessa. Nel Metaverso, al contrario, entrare e agire nei paesaggi è l’attività dominante degli utenti, il modo in cui quel tipo di fruizione di un contesto della comunicazione funziona. In SecondLife si è turisti e residenti allo stesso tempo, si visitano sempre posti

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nuovi o si torna in quelli preferiti, si incontrano le persone. Così come di solito succede nel viaggio off line.

Figura 5. Land LucaniaLab in Second Life (Asian Lednev aka Fabio Fornasari).

Con SecondLife, e in generale con i mondi online, siamo di fronte a una realtà in sé e per sé e il viaggio è il modo “naturale” per esplorarla.


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corpo/avatar (sprofondare, cambiare sguardo, volare, osservarsi osservare, ecc.) – che si caratterizza come “esperienza dell’esperienza” di una land (Boccia Artieri 2006, Gemini 2008). Forse è per questo che alcuni avatar amano produrre un’immagine di sé esplicitamente ispirata al viaggiatore sopra un mare di nebbia. Un avatar che si osserva guardare gli scenari fantasmagorici del mondo artificiale ma che con tutta probabilità non rimarrà in contemplazione del paesaggio e nemmeno di se stesso ma spiccherà il volo per attualizzare sempre nuovi sguardi sul mondo, sugli altri e su di sé. Scenari di viaggio e possibili altrove fra media e società. Tracce conclusive

Figura 6. Lucania in crystal ball (Asian Lednev aka Fabio Fornasari).

Teletrasporto, volo, ma anche modi diversi di guardare – ad esempio con la visione in soggettiva – e di osservarsi agire nello spazio sono le dinamiche percettive che vengono coinvolte nella realtà “aumentata” del Metaverso. Da parte sua l’avatar è un individuo-persona, incluso dal punto di vista dell’accesso alla comunicazione della società-mondo (Luhmann, 1998), attivo e in grado di sviluppare un livello di competenza comunicativa abbastanza complesso da collaborare all’emergenza di un immaginario sempre più performativo del viaggio, legato alla dimensione immersiva – garantita dalle possibilità di movimento del

Se proviamo a ragionare nei termini della complessificazione di scenario che associa il viaggio – come pratica ma anche come metafora dell’immaginario collettivo contemporaneo metaterritoriale e diffuso nei media – alle forme sempre più varie dell’articolazione fra un qui e un altrove non possiamo non tenere conto del processo evolutivo associato ai cambiamenti della società e alla comunicazione. In questo quadro osservare il viaggio attraverso la categoria concettuale del paesaggio può essere utile a cogliere la questione nei termini dell’immaginario, ossia del patrimonio simbolico su cui si costruisce la comunicazione e della sua specifica declinazione in comunicazione per immagini. Il punto sta quindi nel vedere come il paesaggio possa essere trattato come immagine che rimanda alla pratica cognitiva del viaggio e alla sua connotazione mediale.

Figura 7 e 8. Chakryn Forest (Ginevra Lancaster aka Adriana Ripandelli).

In quest’ottica il passaggio dalla concezione del turismo come fenomeno unitario all’idea più frammentata e varia dei “turismi” non fa altro che cogliere un aumento di varietà della domanda e dell’offerta di viaggio che, da un lato, riguarda un fenomeno legato alla società di massa e alla connotazione della società mobile e che, dall’altro lato, va messo in connessione con i processi

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dell’industria culturale e le derive evolutive della comunicazione contemporanea. In altre parole applicare lo sguardo mediologico al viaggio permette di tenere conto del fatto che il desiderio – e il bisogno – di altrove ha sempre fatto affidamento sulla sua traducibilità in rappresentazioni collettive. Se l’epoca moderna, con la sua forma del sapere connotata dal medium scrittura, ha fatto leva su un immaginario del viaggio come esperienza delle immagini centrata sul canale visivo, così l’epoca contemporanea trova nella logica del digitale un rinnovato senso dell’esperienza. Il viaggio alla ricerca delle origini del viaggiatore scientifico e verso le destinazioni predilette dai gran turisti – rappresentate nei paesaggi e connotate dal pittoresco (dalle capitali europee alle stazioni termali e alle colline toscane…) – è giunto, all’apice del moderno, fino alla qualità estetica e vitale della metropoli producendo nuovi “altrove”: nelle forme artificiali del panorama, dei parchi di divertimento, del cinema quali spazi dell’illusione costruiti in nome di una realtà rappresentabile e percepibile. Dal canto suo la folla turistica, resa visibile delle migrazioni di agosto, nei viaggi motorizzati, nei tour organizzati – in omologia il lavoro fordista – ha potuto accedere alla forma democratica della vacanza salvo poi trovarsi rappresentata come folla solitaria (Riesman 1950), etero-diretta verso immagini sempre più in autentiche del mondo. Tuttavia è ancora all’interno del quadro interpretativo della società di massa che la vacanza, come ambito privilegiato dell’accesso all’altrove sintetizzato però nella sight e nello stereotipo, apre all’immaginario e a nuove rivendicazioni del diritto a desiderare. I romanzi e il cinema sono forieri di rappresentazioni e di

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panorami per la mente ma anche generatori di destinazioni da raggiungere. In questi termini l’idea espansa di paesaggio può essere associata a quella relazione reciproca fra agire ed esperire che per Georg Simmel caratterizzava già l’esperienza della pittura paesaggistica come opera d’arte. Cioè a dire che la dimensione mediale del viaggio permette di prefigurare mondi da esperire ma questo esperire nei media diventa anche un agire.

È il caso del viaggio trasferito sui supporti digitali e connotato dalla logica del web. Ecco allora che ripartire dal senso turistico dei mondi online, come luoghi adatti alla ricerca di altrove, significa trattarli come lenti di osservazione utili alla comprensione del contesto comunicativo della nostra attualità. Un landmark rimanda a un territorio percepito in forma di paesaggio ma che richiede non tanto di essere guardato quanto di essere esplorato, attraversato, percorso attraverso la risomatizzazione del corpo (come avatar) nella simulazione. L’immaginario del viaggio riacquista così il suo senso, la sua originaria complessità, proprio perché l’altrove, gli altrove sono panorami della mente, prospettive di osservazione sul mondo – naturale o artificiale che sia – e sguardi dentro di sé necessari per cogliere la “reale” autenticità delle esperienze.

Riferimenti bibliografici

Figura 9 e 10. Chakryn Forest (Ginevra Lancaster aka Adriana Ripandelli).

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Riferimenti iconografici Figure 1: Marco Cadioli, "Der Neue Wanderer", 2009; photo transfer on paper cm 80x60, courtesy galleria Overfotox. Figura 2, 3 e 4: Asian Lednev aka Fabio Fornasari. Figura 5: immagine di copertina del numero di Ottagono 218 marzo 2009. Progetto e immagine di Asian Lednev aka Fabio Fornasari. Figura 7, 8, 9 e 10: Ginevra Lancaster aka Adriana Ripandelli.

Testo acquisito dalla redazione nel mese di agosto 2009. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Viaggi possibili e paesaggi immaginati. Le frontiere mediali dell’esperienza turistica

1

Le linee guida di questo contributo rimandano a Gemini L. (2006, 2007, 2008). 2 Cfr. anche Mascheroni G. (2007). 3

Si vedano ad esempio Leed E.J. (1991), Löfgren O. (2001), Brilli A. (2006). 4 Si veda ad esempio l’analisi di Morin E. (1962). 5

Cfr. Boorstin D.J. (1961), Burgelin D. (1967), MacCannel D. (1976). 6 Sull’analisi dell’evoluzione epistemologica dall’impianto scientifico realista a quello costruttivista si vedano fra gli altri Maturana H., Varela F.J. (1980, 1984), Foerster H. von (1984), Luhmann N., De Giorgi R. (1992), Mazzoli L. (2001), Boccia Artieri G. (1998, 2004), Gemini L. (2003, 2008), Giglietto F. (2006). 7 Parafrasando la definizione di pseudo-evento con cui Boorstin D.J. (1961) descrive il fenomeno turistico. 8 Mario Gerosa giornalista esperto di viaggio e di mondi online ha costituito a questo proposito un gruppo su Facebook per la realizzazione di Una guida turistica dell’Italia pop. 9 Dato aggiornato al 19 agosto 2009, ricerca effettuata con tag “Ground Zero”. 10 Film del 1966 diretto da Richard Fleischer. 11

Basti pensare in Italia al lavoro ormai ventennale di Studio Azzurro. 12 Cfr. Grau O. (2003), Gemini L. (2009). 13

http://www.interface.ufg.ac.at/christalaurent/WORKS/CONCEPTS/HAZEConcept.html. 14 Su Second Life cfr. fra gli altri Gerosa M., Pfeffer A. (2005), Gerosa M. (2007, 2008), Carr P., Pond G. (2007). Sul viaggio nei mondi online e in Second Life cfr. Fulco I. (a cura di) (2006), Perri G., Granieri G. (2009), Boccia Artieri G., Gemini L., Orsucci V. (2009).

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tra parole e saggi

Viaggi spirituali, itinerari cammini per lo sviluppo

culturali

e

Spiritual journeys, cultural routes, and development’s paths

abstract Il viaggio ha sempre avuto nell’immaginario letterario una duplice funzione: quella di rappresentare le finalità di un percorso ma anche la misura della distanza che ci separa da realtà sconosciute e uno stimolo alla ricerca del nuovo e del futuro. Seguendo questo messaggio letterario, il progetto di recupero e ripristino dell’antica via di pellegrinaggio che congiungeva Roma a Loreto (Via Lauretana) è una nuova occasione di “viaggio”, come strumento della conoscenza, nel sistema complesso del paesaggio e nel sistema storicoculturale del territorio influenzato dall’antico Cammino.

abstract The journey had played always a double function, in the literature’s imagination, meaning the goal and the final destination of the itinerary, but also the measure of distance from unknown realities and an impulse of searching new ideas and the Future. The outcoming Project of restoration an ancient route of pilgrimage from Rome to Loreto (Route Lauretana) is a new opportunity to create and increase the culture and the knowledge of the complex landscape and historical land’s systems whom are influenced in the ancient and in the modern age by the crossing Route of pilgrimage.

parole chiave Viaggi spirituali, paesaggi sacri, cammini per lo sviluppo, itinerari culturali.

key-words Spiritual journeys, holy landscapes, sustainable development’s paths, cultural routes.

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Enrico Falqui*, Chiara Serenelli **

* Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio, professore di Analisi e valutazione ambientale. enrico.falqui@tin.it ** TaskForce on the Cultural and Spiritual Values of Protected Areas per il progetto DELOS, IUCN/WCPA. chiaras@verdiananetwork.it

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Significati antichi e moderni degli itinerari di cammino: viaggi di conoscenza e pellegrinaggi spirituali. Il caso della Via Lauretana. Il viaggio ha sempre rappresentato, per le popolazioni nomadi e stanziali, una dimensione quasi imprescindibile dell’esistenza individuale e collettiva, l’elemento costante dell’evoluzione antropica fin dalle origini, seppur motivato da esigenze sempre mutevoli e in stretta correlazione con i diversi contesti culturali. Divenuto progressivamente metafora della stessa condizione esistenziale dell’uomo, emblema del suo sentirsi in fugace passaggio su questa Terra, ha rappresentato nel corso dei secoli attitudini, esigenze, volontà e desideri1, atteggiamenti che hanno caratterizzato la situazione umana nelle diverse epoche storiche e nei vari contesti socioculturali. Dall’atto di vagare alla ricerca di cibo e riparo, come condizione necessaria per trovarsi e costruirsi un proprio habitat, a quello spirituale e purificatorio del devoto e del pellegrino che si muove alla ricerca del contatto con il divino, lasciandosi alle spalle la materialità del vivere quotidiano, fino al “viaggio di conoscenza”, come strumento di apprendimento e istruzione. In tutti questi casi, per necessità o per attitudine religiosa e culturale, un elemento costante sembra aver accompagnato il viaggiatore, individuo o comunità: un diretto rapporto di reciproca influenza e positiva contaminazione con l’intorno, generatore di un atteggiamento rispettoso, per quanto non neutro, nei confronti dell’ambiente attraversato e vissuto; forse solo perché in questo modo esso poteva offrire cibo, riparo e conoscenza. In alcuni casi, soprattutto nelle tradizioni popolari e indigene, non solo in età pre-moderna, il tema del viaggio e la

Viaggi spirituali, Itinerari culturali e Cammini per lo sviluppo.

sua simulazione, a volte anche ripetitiva, rafforza la sacralità dei luoghi destinati ai riti religiosi molto spesso ambientati in contesti quasi selvaggi o dalle parvenze il più possibile naturali, determinando così il definirsi di alcuni dei paesaggi o luoghi sacri che oggi si conoscono2. In quanto carattere ampliamente diffuso e accomunante molte culture anche lontane nel tempo e nello spazio, il “vagabondare” umano su questa Terra, con o senza meta, materiale o spirituale, nella dimensione spaziale ma anche temporale, ha contribuito a definire il sistema delle esperienze umane e del loro incrociarsi con le altre forme di vita; una “rete” non materiale, perché costituente una maglia di relazioni sfuggenti, per quanto documentate attraverso l’iconografia e i diari, ma anche tangibile e ben visibile, nel disegno reticolare delle strade, principali e secondarie, che costituiscono il supporto materiale di ogni viaggio, mutevole anch’esso a seconda del contesto culturale e dei significati che il muoversi assume. La strada, elemento che non ha sempre avuto il solo scopo di unire due punti posti a una certa distanza tra loro, ma anche di disegnare territori e paesaggi3, è anche tra i segni più incisivi e durevoli che le grandi civiltà del passato hanno lasciato in eredità alle nostre generazioni: le consolari dell’impero Romano, che ancora oggi definiscono la struttura viaria dell’intera penisola italiana, disegnano un reticolo di vie in grado di mettere in comunicazione la sola Roma con il Mondo intero, allora conosciuto. L’impero Carolingio non fu da meno lasciando ai posteri il sistema di strade che diventerà l’ossatura portante degli itinerari religiosi francigeni, che al contrario di come si può pensare, pur esistendo un unico percorso ufficialmente riconosciuto come Via Francigena, ricostruito dal diario di Sigerico tra la Gran Bretagna e Roma,

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costituiscono un intreccio di vie di connessione di tutto il territorio europeo. In America Latina l’impero Inca non ha lasciato il proprio segno solo nei manufatti architettonici, ma anche nella viabilità, come dimostra la strada di connessione di tutto l’antico impero dalla Colombia all’Argentina, attraverso Ecuador, Perù, Bolivia e Chile: la Gran Ruta, ampia strada di collegamento dei vari possedimenti dell’impero, pensata per un popolo in continuo movimento4. Sono solo alcune delle grandiose e durevoli espressioni dell’elevata capacità di controllo politico, amministrativo e culturale dei territori di un antico impero, suo strumento di pubblicizzazione, crescita economica e del consenso, ma anche simbolo delle capacità di comunicare, conoscere, muoversi, viaggiare, rimaste, nel susseguirsi dei secoli, testimonianze storiche e supporto di tante attività. Queste antiche strade possono anche disfarsi, portando gli inevitabili segni del tempo, con il tramontare degli imperi che le hanno costruite e consacrate, ma non perdono la loro forza simbolica di maglia di connessione tra luoghi e popoli, continuamente ripresa nel corso dei secoli ed esistente ancora oggi, supportata dalle documentazioni iconografiche, cartografiche e archeologiche ancora esistenti. In Italia alcune di queste strade hanno determinato l’antica fioritura di borghi altrimenti non così conosciuti, come San Gimignano, sorta all’incrocio dei percorsi più transitati della Toscana medievale, e Lucca, per citarne alcuni5. In taluni casi una strada percorsa per un motivo particolare, quale la presenza di un luogo di interesse religioso, grazie al via vai di pellegrini e curiosi e allo stanziarsi di alcuni individui organizzatisi successivamente in una comunità, determina la nascita improvvisa di un centro abitato stabile, che si sviluppa lungo la


tra parole e saggi

strada di attraversamento principale che ha fatto da generatrice urbana, i cui proventi per il sostentamento vengono prevalentemente dalla presenza di viaggiatori; è il caso di Loreto, nelle Marche6, il cui pellegrinaggio ha definito la 7 morfologia della stessa città . L’andamento del reticolo stradale, scandito da tempi di percorrenza associati agli antichi mezzi di trasporto (le gambe, il mulo, la carrozza) ha contribuito in passato al disegno del territorio oggi conosciuto, che raramente, per motivi di praticabilità e sicurezza degli itinerari, riusciva ad ignorare la morfologia naturale del sistema di valli fluviali e rilievi, contribuendo alla nascita, lungo le direttrici, di centri strategici di accoglienza e sosta8. La possibilità di viaggiare attraverso un territorio, per mezzo di una rete di percorsi, la capacità di andare e sostare, cercare e scoprire, hanno contribuito quindi a definire almeno in parte, la conformazione del nostro attuale ambiente di vita. Paradossalmente oggi questa conformazione, di antica memoria, spesso non è più riconoscibile, pur avvalendosi, la civiltà moderna, di una rete di strade, o più propriamente, infrastrutture, molto più fitta ed apparentemente agevole. Probabilmente ciò è dovuto anche al fatto che la nostra epoca ha mutato, spesso degenerandolo, il senso del “viaggiare”; dalle moderne esplorazioni coloniali di “altri mondi” e loro non rispettosa conquista, fino al bisogno prevalentemente contemporaneo, di istantanea evasione dalle responsabilità sociali per assaporare attimi di relax o puro e semplice divertimento, atteggiamenti non a caso legati ad una rinnovata “visione economica” del mondo e delle sue risorse. Il mito, già rivelatosi chimera, della crescita economica e del progresso successivi alle rivoluzioni industriali e allo sviluppo tecnologico, e

l’annesso bisogno di efficienza, quantità e rapidità, hanno introdotto la necessità di velocizzare ogni istante di vita dell’uomo la cui essenza si avvicina sempre più a quella delle macchine che egli stesso ha costruito. I ritmi incalzanti, il terrore di “sprecare” tempo “utile” (dove per utile si intende con fini utilitaristici), inquinano la nostra esistenza di malattie croniche facilmente legate allo stress, combattute a stento con i mezzi che la stessa società che le provoca spietatamente ci fornisce; si profila allora il miraggio della “vacanza-viaggio” per ritrovare quella dimensione umana e sostenibile altrimenti irraggiungibile nella schizofrenia quotidiana. I mezzi di cui comunemente disponiamo per effettuare questo “falso viaggio” sono gli stessi a cui cerchiamo di sfuggire, che inconsapevolmente usati o forzatamente imposti, generano ulteriore disagio e malessere: la necessità di rapidità, efficienza, utilità ci accompagna anche durante questa tipologia di “viaggio”, divenuto ormai anch’esso misuratore di benessere (materiale), ricchezza (economica), capacità di acquisto, in un’epoca in cui l’unico imperativo sembra essere “consumare”. D’altra parte la globalizzazione dei costumi e la massificazione del sistema di comunicazione e informazione sembrano averci dato la possibilità di istruirsi e conoscere restando comodamente all’interno delle mura domestiche, svuotando in tal modo di significato l’andare per luoghi a questi fini; e lo sviluppo tecnologico di una società globale, creatrice di nuovi bisogni secondari e accessori9, imposti dal mondo economico a quello dei “consumatori”, ha contribuito a far perdere di vista il senso della reperibilità delle risorse primarie, ormai quasi totalmente inscatolate e distribuite “a domicilio”. Mentre la rapidità della macchina si è impossessata anche delle “strade” quotidianamente

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percorse, così sostituite da auto-strade, superstrade, linee ad alta velocità, le quali, non prevedendo lungo il tragitto alcuna percezione umana dell’intorno, o comunque limitandola al massimo, non hanno bisogno di permettere al “viaggiatore” di entrare in contatto con esso, lasciando al limite intravedere dai finestrini dell’auto i colori intensi e le luci intermittenti delle linee del guard-rail e dei cartelloni pubblicitari, accuratamente posizionati, mentre tutto il resto sfugge, effimero e surreale. Perché in effetti il tragitto perde di significato quando il “viaggiare” diventa solo arrivare più in fretta possibile alla meta, meglio ancora se completa di ogni optional. Ma questo non può, in effetti, chiamarsi “viaggiare”10. Sarebbe più facilmente paragonabile a quel senso di “spaesamento” con cui Farina identifica la perdita di conoscenza e capacità di riconoscimento del paesaggio, nelle sue riflessioni sul concetto di “paesaggio cognitivo”11. Senza voler in alcun modo condannare lo sviluppo tecnologico contemporaneo, occorre riflettere tuttavia sul fatto che le “protesi” tecnologiche di cui l’uomo moderno si avvale, molto spesso in modo non del tutto consapevole, quindi spesso subite passivamente, pur avendo smussato molte difficoltà che prima erano all’ordine del giorno, grazie alla loro capacità di semplificare, hanno contribuito ad appiattire anche la complessità della percezione del nostro intorno, quindi anche quella del paesaggio. E con essa la sua conoscenza. Per percezione non si intende la sola capacità di rielaborare oggetti, forme e colori su cui si posa il nostro sguardo, non rimanda cioè solo alla sfera visiva; la parola racchiude un concetto ben più profondo, in parte estrapolabile anche dal testo della Convenzione Europea del Paesaggio, e ha a

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che vedere con la “cultura” che un individuo, un gruppo, una comunità, hanno del proprio ambiente di vita, ciò che “consente di individuare (in esso) le risorse e i fenomeni ad esse collegate”12 e di riconoscerne i valori materiali e immateriali caratterizzanti il “sistema patrimoniale” che si configura nel paesaggio che siamo in grado di riconoscere. Cosa abbia a che vedere questo con il tema del viaggio è facilmente intuibile. L’uomo moderno ha perso o comunque sta perdendo, la capacità di interagire con il proprio ambiente, quindi con la Natura e la sua fisicità, attraverso la propria Cultura e spiritualità. Di conseguenza si trova nell’impossibilità di conoscere (e riconoscere) il paesaggio, di cui l’uomo comune difficilmente riesce a dare una definizione, se non in termini spesso contradditori o utilitaristici. Il viaggio, nel suo senso originario, connesso agli aspetti che legavano l’uomo e le comunità al proprio “habitat”, non sembra più possibile, tanti sono i filtri artificiali e cognitivi che si frappongono tra il moderno “viaggiatore”, più propriamente nominabile “turista”, e lo scenario o ambiente del proprio viaggio, quel contesto in cui natura e cultura si incontrano definendo la morfologia del paesaggio, che ci permette di entrare in simbiosi con l’elemento naturale (e comprenderne la valenza anche spirituale), accettandone il valore intrinseco, solo annullando la distanza che ci separa da esso. Ciò era ed è ben noto al pellegrino, che accetta di mettersi in viaggio lasciando ogni surplus di “beni artificiali” per accingersi ad affrontare la sfida della piena conoscenza di sé, della Natura e del raggiungimento della dimensione divina. La simbiosi con l’intorno, la cui separazione dalla propria interiorità si fa sempre più sottile, avviene

Viaggi spirituali, Itinerari culturali e Cammini per lo sviluppo.

per i pellegrini di ogni fede religiosa, e certamente è più forte se all’atto del peregrinare si associa un paesaggio naturale, anche selvaggio, ma pur sempre riconoscibile e non minaccioso, quindi appartenente alla sfera percettiva del viaggiatore, che può anche essere collettiva e condivisa, ovvero appartenente al suo background culturale. Un moderno viaggiatore può ritrovare questa dimensione di conoscenza e simbiosi, quindi di rispetto e consapevolezza, che non lascia spazio a timore e malessere, rallentando i tempi di percorrenza tra il punto di origine e la meta, e recuperando la dimensione del peregrinare attraverso i paesaggi. Ricostruendo il diretto rapporto, prevalentemente perduto, almeno per l’uomo moderno occidentale, con la Natura e le risorse che essa mette a disposizione degli esseri viventi, uomo compreso. Come nella scelta del proprio ambiente di vita, anche il contesto del viaggio è più facile che risulti meno ostile dove i luoghi appartengono all’immaginario del viandante, e in qualche modo definiscono la propria identità; il viaggio può avvenire però anche per paesaggi meno noti, accettando di esserne positivamente contaminati, con quel certo grado di umiltà di cui ciò necessita. Come infatti ricorda Farina, non è sempre possibile esperire un contesto, se di questo non si ha “cultura”: un deserto sarà insidioso e minaccioso per un cittadino europeo, che avrà bisogno di tutti i supporti tecnologici per sopravviverci, mentre per un indigeno costituisce l’unica casa e l’unico sostentamento, per questo un paesaggio percepito e riconosciuto13; ciò fa pensare al fatto che il valore di un paesaggio è determinato dalla percezione (cioè cultura) che i propri abitanti ne hanno, piuttosto che dall’appetibilità turistica dissipatrice, non utilizzatrice, delle risorse per l’uomo moderno.

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Ciò non entra in contrasto con il senso del viaggiare e peregrinare come definito sopra, in quanto quest’ultimo può essere di supporto all’acquisizione della consapevolezza del valore delle risorse del proprio territorio e della capacità di utilizzarle senza snaturarle. “Viaggiare” nel vero senso del termine, quindi, come strumento di Conoscenza, proprio perché la grande difficoltà a comprendere il paesaggio come sistema complesso14, ci costringe ad una visione olistica di sintesi, difficilmente raggiungibile esclusivamente con gli strumenti analitici. Provare a sentirsi “pellegrini” in viaggio alla ricerca di una possibile interazione con il mondo che ci circonda e che ci definisce come parti di un grande e complesso sistema, dai profondi legami tra i suoi elementi. Ciò è possibile anche nel mondo globale della tecnologia e dell’informazione di massa, in cui, se dal un lato, l’efficienza del moderno sistema infrastrutturale si rivela indispensabile ai rapidi spostamenti di persone e merci, ottimizzando i tempi di percorrenza e minimizzando gli sprechi, dall’altro l’esigenza di ritrovare una dimensione più umana della nostra esistenza, più prossima a quella naturale, rende necessari tempi più lenti e ciclici, misurabili nella dimensione del movimento peregrinatorio e spirituale del camminare. In quest’ottica sono sufficienti le ampie reti degli antichi itinerari da sempre percorsi da nomadi, santi, pellegrini, viandanti, di cui l’Europa è ricchissima. Nel primo caso (le moderne infrastrutture) la strada, linea di collegamento più rapido tra due punti, diventa una barriera fisica per tutti gli esseri viventi non dotati di supporti tecnologici. Nel secondo (l’antico “itinerario”) la strada può diventare la spina dorsale di un sistema leggero di


tra parole e saggi

connessioni, non ecologiche, ma che rispettano, anzi, si fondano, sui principi ecologici, e di fruizione (a scala umana) delle risorse (naturali e culturali). Può, anzi, questa rete, costituire elemento stabile e duraturo di sviluppo (sostenibile) per le comunità locali generalmente tagliate fuori dai macro-modelli contemporanei, creando una rete di relazioni culturali, sociali ed economiche, nel rispetto dei valori naturali del paesaggio. La rete che in questo modo si riscopre (perché in effetti già esistente), può andare a coincidere con l’insieme di quelli che la Comunità Europea chiama “itinerari culturali” concetto istituito negli anni Ottanta e ribadito, definendone i principi, con la risoluzione CM/Res(2007)12. Essa può essere di stimolo alla ricerca del senso profondo del “viaggiare” attraverso il paesaggio e “(ri)conoscere” il paesaggio, contribuendo altresì alla definizione di un sistema strutturato di luoghi e paesaggi, naturali e culturali, dove l’Uomo e la Natura possono recuperare l’originaria relazione, senza per questo prescindere dalla sfera economica, ma con una necessaria trasformazione del modello di sviluppo oggi dominante. Non è un caso che tra gli attuali Itinerari Culturali l’Unione Europea riconosca tutto il sistema delle vie di pellegrinaggio Francigene e di Santiago, che permettono la fruizione ai luoghi dello spirito più popolari, e alle quali si prepara ad aggiungersi l’insieme degli itinerari di fruizione al più famoso santuario mariano d’Europa, Loreto, con la via Lauretana.

Dalla Frammentazione all’Autopoiesi del paesaggio: una tesi di ecosviluppo per le Comunità attraversate dalla rete dei Cammini Lauretani. Proprio dal sistema di itinerari sacri della Via Lauretana, che in età medievale hanno ripreso la rete della viabilità romana a scopi religiosi, di evangelizzazione del territorio e di diffusione del culto mariano, riparte l’idea del recupero del senso antico del viaggiare, nel ripristino della struttura fisica delle strade da percorrere a piedi. Anche questo “cammino della spiritualità” nei secoli ha influenzato non solo religiosi, pellegrini, devoti, ma anche artisti, letterati, poeti, perfino scettici, consacrando il pellegrinaggio lauretano al significato profondo del “viaggio”, come sopra descritto. Nell’immaginario letterario, in particolare, il viaggio, ha sempre mantento una funzione duplice: quella di rappresentare le finalità di un percorso ed il raggiungimento della meta, ma anche quello di costituire uno stimolo naturale alla ricerca del nuovo, all’istintiva attrazione per ciò che ci è estraneo, la misura della distanza che ci separa da realtà sconosciute, la sfida al confronto anche con ciò che non sappiamo come affrontare, perché inesplorato e sconosciuto. Per Mario Soldati, scrittore e regista cinematografico tra i più conosciuti dalla cultura popolare italiana, il “viaggio” è “uno strumento per ordinare i significati, per illuminare il profilo delle cose e tenere insieme la complessità”15. Si può intuire da questa citazione che il viaggio è al tempo stesso “processo” cognitivo, ma anche “progetto” costruito sulla ricerca del nuovo e dell’inesplorato. Edith Wharton è stata una delle autrici che maggiormente hanno contribuito alla letteratura

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del viaggio e alla cultura artistica del paesaggio italiano. Considerata una delle maggiori scrittrici della letteratura del 900, in uno di questi “essays” di viaggio, “Uno sguardo all’indietro” (1934), la Wharton fornisce una chiave di lettura dei suoi racconti scritti nei numerosi brevi e lunghi viaggi fatti in Italia, ricordando al lettore che “la storia dell’arte insegna ad analizzare un luogo come fosse un’opera, secondo le indicazioni di una rigorosa filologia”16. Tuttavia per quanto accurata sia stata la ricognizione, secondo l’autrice, rimane sempre qualche elemento imponderabile, “una marginalità insondata”. Ed è proprio in questo campo dell’inesplorato che la Wharton trova il fascino autentico del viaggio, ciò che rende possibile la conciliazione tra “l’esclusività” del viaggio e “l’eccezionalità” della scoperta. Il paesaggio, secondo un’eclettica definizione di Ian Mc Harg, è una tela senza cuciture, singolare ed irriproducibile, la quale quotidianamente viene strappata nell’illusione che possa venire riparata o sostituita, ma essa è unica, così come è unico l’ambiente in cui viviamo. Oggi, noi sappiamo che la principale minaccia per la sopravvivenza di molte specie è dovuta all’alterazione ed alla frammentazione dei loro habitat. La frammentazione, dovuta sia alla perdita di habitat originari sia alla creazione di “barriere” che impediscono il libero movimento degli animali sul territorio, determina nel medio-lungo periodo un impoverimento della disponibilità di risorse naturali per lo sviluppo ed un fattore limitante per tutti i processi evolutivi attraverso i quali gli ecosistemi naturali “formano” il proprio paesaggio. Ciò che è importante sottolineare, è il fatto che, da parte degli abitanti contemporanei, la frammentazione è percepita al massimo come “disordine nel disegno urbanistico nel territorio”,

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non invece come perdita irreversibile di una ricchezza naturale di straordinaria importanza costituita dalla biodiversità; non è mai avvertita come “lacerazione” di un paesaggio unico e insostituibile. Basta percorrere a piedi la parte finale del tracciato dell’antica Via Lauretana (Macerata-Loreto), per rendersi conto che insieme alla perdita di biodiversità nella Piana del fiume Musone, si è lacerato un paesaggio “unico” che ispirava anche la sacralità dell’ultimo tratto del pellegrinaggio, in attesa che esso si concludesse al Santuario Mariano, in vetta al colle. Un geografo francese, Pierre Donadieu, che svolge le sue ricerche presso l’École Nationale Supérieure du Paysage di Versailles, ha sviluppato recentemente una teoria secondo la quale gli spazi agricoli periurbani (quelli che circondano ormai gran parte delle città medio-grandi europee) pongono delle condizioni ai pianificatori dello sviluppo urbano: “quello di essere spazi vuoti, spazi che portano una propria idea di naturalità, spazi che presuppongono una società e un’economia che li produce non solo rurale”. Donadieu non intende dirimere il conflitto “tra città e campagna”; bensì inverte le logiche della contrapposizione: è la città che dovrà farsi carico di tutelare la campagna, assicurando la permanenza del vuoto, portatore di valori di natura e di possibili progetti di riconnessione tra i diversi mosaici di paesaggio. Tuttavia, rimane il dubbio su “chi” riparerà queste lacerazioni e, soprattutto, nel contesto di Loreto, se sono ancora riparabili i danni apportati allo storico paesaggio sacro che, attraverso il cammino finale verso il Santuario, connetteva la piana rurale del Musone con il sacro Colle.

Viaggi spirituali, Itinerari culturali e Cammini per lo sviluppo.

Circa quaranta anni fa, uno dei più autorevoli biologi molecolari, Sidney Brenner, si interrogava a proposito dei processi fondamentali d’integrazione degli esseri viventi: “in che modo un organismo leso o lacerato si rigenera nella stessa identica struttura che aveva in precedenza? Penso che nei prossimi anni dovremo scoprire un nuovo linguaggio atto alla comprensione degli organismi viventi altamente integrati”. In questi ultimi anni, scienziati diversi, provenienti da campi di ricerca completamente lontani a livello disciplinare hanno approfondito alcuni concetti fondamentali di questo “nuovo linguaggio” alla ricerca di una “nuova interpretazione della vita” sul nostro Pianeta, determinando un mutamento di paradigma nel passaggio da una concezione meccanicistica del mondo ad una ecologica di tipo sistemico. Questo passaggio è di straordinaria importanza per cercare di immaginare progetti di riequilibrio in quei territori dove i processi di sviluppo hanno creato insieme ad una nuova dimensione della città e dello spazio urbano, anche un’enorme quantità di frammenti di natura e ambiente rurale o sistemi territoriali nei quali l’essenza universale di un mosaico di paesaggio è stata lacerata o cancellata, al punto da renderne difficile la riconoscibilità e l’identità del luogo. Lo sviluppo della cibernetica e della teoria generale dei sistemi (e le loro implicazioni sull’ecosfera e la tecnosfera), le nuove teorie dell’autoorganizzazione17 e dell’autopoiesi18 hanno costituito una cornice culturale nella quale collocare la visione degli ecosistemi come risultato degli equilibri dinamici tra i diversi processi naturali e quelli controllati in tutto o in parte dall’uomo. In tutti i sistemi complessi, il problema fondamentale oggi è l’approfondimento delle

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relazioni che intercorrono tra cambiamento delle strutture e sviluppo dei processi. La pianificazione del paesaggio, all’interno di un sistema complesso quale oggi è il territorio dove si localizzano gli insediamenti, le infrastrutture e le produzioni della città “ruralizzata” e della campagna “urbanizzata”, si basa, oggi, sulla costante dialettica tra struttura e processo. Da questo punto di vista, l’antica via di pellegrinaggio Lauretana, costituisce un vero e proprio laboratorio di sistemi territoriali, di paesaggi rurali e naturali, nei quali la difficoltà di qualsiasi progetto di recupero e valorizzazione del Cammino di pellegrinaggio, passa attraverso la comprensione dei rapporti che intercorrono tra strutture del paesaggio e processi di sviluppo di ciascuno di questi ambiti territoriali. Questi territori hanno tutti in comune il senso della “marginalità”, le cui cause sono profondamente diverse in ciascun ambito territoriale, anche in territori limitrofi distanti pochi chilometri tra di loro. Infatti, lungo la rete dei cammini Lauretani, incontriamo una “marginalità” che viene percepita come il prodotto di una “periferia urbana” in prossimità dei centri abitati di più estese dimensioni; ma troviamo anche “una marginalità” che viene definita come “economico-sociale”, poiché in questi ambiti territoriali fortemente caratterizzati dalla fisicità geografica e dalla morfologia del territorio, non possono insediarsi modelli produttivi che concorrono alla scala globale della competitività economica. Infine, incontriamo anche marginalità che possono essere interpretate come culturali, poiché in tali ambiti vi è una perdita forte di identità storico-culturale, di cultura materiale, senza che tali perdite siano state sostituite con altre risorse culturali.


tra parole e saggi

Ciò che oggi appare di difficile interpretazione in questi ambiti territoriali è proprio il nesso tra strutture (territorio, paesaggio) e processi (sviluppo, creatività, innovazione tecnologica), alla ricerca di un “nuovo linguaggio” che abbia una capacità progettuale autopoietica in ciascuno di essi, in modo da risanare le lacerazioni e le cancellazioni identitarie prodotte dal precedente modello di sviluppo fordista; ma anche capace di creare uno sviluppo durevole, perché ciò che nel precedente modello era definito “ambito marginale”, in futuro potrà essere definito e percepito come “ambito di risorse” per lo sviluppo sostenibile del territorio. Il fascino del progetto di riscoperta e recupero dell’antica via di pellegrinaggio tra le due città sacre di Roma e Loreto, risiede proprio in questa duplice sfida, culturale e scientifica: rigenerare un itinerario culturale e spirituale tra i più importanti in Europa e riscoprire, in ogni ambito territoriale attraversato dall’antico Cammino, i nessi profondi tra strutture e processi, attraverso una pianificazione territoriale dello sviluppo dotata di linguaggi autopoietici (ecologia del paesaggio) e di modelli d’uso delle risorse naturali, umane, culturali capaci di trasformare la marginalità d’uso in risorsa appropriata, la perifericità in centralità.

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Testo acquisito dalla redazione nel mese di luglio 2009. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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CORBETTA S., 2005, pp.6-22. CONAN, M., (edited by) 2007, pp. 3-14. 3 MORELLI, E., 2007. 4 ESPINOZA R., R., 2002. 5 STOPANI, R., 2004, pp. 137-148. 6 LONGARINI B., SOLARI A., 1986. 7 AVARUCCI, G., (a cura di) 1998. 8 STOPANI, R., op. cit., pp. 137-148. 9 FARINA A., 2009. 10 BELLIA, P., 2006, pp. 9-18. 11 FARINA, A., 2006, pp. 89-114. 12 Ivi, p. 110. 13 Ibidem. 14 ROMANI, V., 2008, 9-95. 15 SOLDATI, M., 1984. 16 WHARTON, E., ED 1994. 17 PRYGOGINE, NICOLIS, 1971. 18 MATURANA, VARELA, 1972. 2

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L’attitudine “astratta” del paesaggio

L’attitudine “astratta” del paesaggio.

The abstract attitude of landscape.

Valerio Morabito*

abstract Calvino, nel suo libro “Cinque lezioni Americane”, parla del mondo come una rappresentazione di immagini e forme. Contro questa apparenza del mondo di immagine, può usare la sola “arma” che lui conosce: un “idea di Letteratura”. Uno spazio bidimensionale usato per creare una relazione tra gli opposti, vasto nelle due direzioni che prova l’esistenza di due mondi utilizzabili per passare da una realtà ad un’altra, dalla materia all’anti-materia. In questo modo, forse, potremmo adoperare la stessa logica per ricercare una relazione tra il paesaggio e l’anti-paesaggio.

abstract Calvino in his book, “Six memos for the next millennium”, speaks about a world made up of representations of images and forms. Against this biased or common vision, he says that he can only use “a weapon he knows well”: an idea of literature. Thus, he believes in the existence of a two-dimensional space, capable of creating a relationship between opposites, a vast scenario that moves in two directions, which proves that two worlds exist: the material and the anti-material. We can extrapolates this logic, in order to consider an”abstract attitude of landscape”: a twodimensional space that allows us to pass from one reality to the other, from the material to the antimaterial realm, a middle ground between the landscape and the anti-landscape.

parole chiave paesaggio, astrazione, anti-paesaggio, letteratura.

key-words landscape, abstraction, anti-landscape, literature.

* Università Mediterranea degli Studi di Reggio Calabria, lecture professor alla PennDesing University of Pennsylvania. valerio.morabito@unirc.it

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tra parole e saggi

Ed eccoci improvvisamente catapultati dentro un paesaggio astratto. Per quanto paradossale possa sembrare questa affermazione, se riportassimo un passaggio tratto dal racconto “Dall’Opaco” di Calvino, lo sembrerebbe di meno: “(…) se dunque mi avessero domandato quante dimensioni ha lo spazio, se domandassero a quel me stesso che continua a non sapere le cose che s’imparano per avere un codice di convenzioni in comune con gli altri, e prima tra queste la convenzione secondo la quale ognuno di noi sta all’incrocio di tre dimensioni infinite, infilzato da una dimensione che gli entra nel petto e gli esce dalla schiena, da un’altra che lo trapassa da una spalla all’altra, e da una terza che gli perfora il cranio e gli viene fuori dai piedi, idea che uno accetta dopo molte resistenze e ripulse, ma poi farà finta di averlo sempre saputo, se dovessi rispondere in base a quanto avevo veramente imparato guardandomi intorno, sulle tre dimensioni che a starci in mezzo diventano sei, avanti indietro sopra sotto destra sinistra, osservandole come dicevo voltato con la faccia verso il mare e verso monte le spalle, la prima cosa da dire è che la dimensione dell’avanti a me non sussiste, in quanto lì sotto comincia subito il vuoto che poi diventa il mare che poi diventa l’orizzonte che poi diventa il cielo, per cui si potrebbe anche dire che la dimensione dell’avanti a me coincide con quella del sopra me, con la dimensione che a voi tutti esce dal centro del cranio quando state dritti e che si perde subito nel vuoto zenith, poi passerei alla dimensione dell’indietro perché incontra un muro uno scoglio un pendio scosceso o cespuglio, dico trovandomi sempre con le spalle al monte cioè a mezzanotte, quindi anche nella dimensione lì potrei dire che non sussiste o che si confonde con la dimensione sottoterra del sotto, con la linea che vi

drovrebbe uscire dalla pianta dei piedi e invece non esce un bel niente perché tra la suola delle vostre scarpe e l’impiantito non ha spazio naturale per uscire, e poi c’è la dimensione che si prolunga alla sinistra e alla destra e che per me corrisponde più o meno al levante e al ponente, e questa si che può continuare dalle due parti perché il mondo continua con il suo contorno frastagliato cosicché ad ogni livello si può rintracciare una linea orizzontale immaginaria che taglia la pendenza obliqua del mondo, come quelle che vengono tracciate sulle carte altimetriche e hanno un bellissimo nome, isoipse (…)”. La convenzione di un paesaggio astratto che percepisce il reale dimenticandosi che lo sia, si sintetizza ancora di più nella poesia di Giacomo Leopardi “L’Infinito”: tra le tante interpretazioni che si possono fare o si sono fatte, entra a pieno titolo quella dell’attitudine astratta del paesaggio. “Sempre caro mi fu quest'ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte De l'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminato Spazio di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo, ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l'eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e 'l suon di lei. Così tra questa Infinità s'annega il pensier mio: E 'l naufragar m'è dolce in questo mare”. Calvino narra l’attitudine astratta del paesaggio, ricollocandola con precise coordinate spaziali che si

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descrivono per autosufficienza. Leopardi azzanna l’immaginario e lo astrae per immagini successive. Calvino interpreta, Leopardi digerisce. Charles Baudelaire costruisce la sua attitudine al paesaggio astratto in “Corrispondenze”. “E' un tempio la Natura ove viventi pilastri a volte confuse parole mandano fuori; la attraversa l'uomo tra foreste di simboli dagli occhi familiari. I profumi e i colori e i suoni si rispondono come echi lunghi che di lontano si confondono in unità profonda e tenebrosa, vasta come la notte ed il chiarore. Esistono profumi freschi come carni di bimbo, dolci come gli òboi, e verdi come praterie; e degli altri corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno l'espansione propria alle infinite cose, come l'incenso, l'ambra, il muschio, il benzoino, e cantano dei sensi e dell'anima i lunghi rapimenti. Baudelaire rompe gli schemi, il punto e virgola dopo “verdi come praterie” è la siepe di Leopardi, mentre l’inizio dopo la punteggiatura “e degli altri corrotti ricchi e trionfanti” sancisce un passaggio dallo spazio conosciuto verso una indotta consapevolezza all’astratto. Nel racconto “Lettera al vento” di Tabucchi: “Finestre: ciò di cui abbiamo bisogno, mi disse una volta un vecchio saggio in un paese lontano, la vastità del reale è incomprensibile, per capirlo bisogna rinchiuderlo in un rettangolo, la geometria si oppone al caos, per questo gli uomini hanno inventato le finestre che sono geometriche, e ogni

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geometria presuppone gli angoli retti. Sarà che la nostra vita è subordinata anch’essa agli angoli retti? Sai, quei difficili itinerari, fatti di segmenti, che tutti noi dobbiamo percorrere semplicemente per arrivare alla nostra fine. Forse, ma se una donna come me ci pensa da una terrazza spalancata sul Mar Egeo, in una sera come questa, capisce che tutto ciò che pensiamo, che viviamo, che abbiamo vissuto, che immaginiamo, che desideriamo, non può essere governato dalle geometrie. E che le finestre sono solo una forma pavida di geometria degli uomini che temono lo sguardo circolare, dove tutto entra senza senso e senza rimedio, come quando Talete guardava le stelle, che non entrano nel riquadro della finestra”. Quando Van Gogh, scrivendo al fratello Teo racconta di aver “sentito”, una sera, di ritorno a casa, le foglie “gialle” cadere, diviene un esempio straordinario dell’impercettibile legame del paesaggio con il suo opposto astratto. L’attitudine del percepire, il colore o il suono, nel luogo e nel momento in cui è impossibile vedere e sentire, distinguere e riconoscere, è il paesaggio che si trasforma per essere ancora più esatto a se stesso, più vero e più reale nella sua forma più estrema dell’astrazione. La memoria non lineare è lo strumento essenziale che crea dei vuoti, aree di scompenso a cui è essenziale aggiungere le narrazioni “astratte” per ricollegare i processi. L’attitudine astratta del paesaggio è appunto quel sistema di non regole tale da rendere il racconto coerente con le più improbabili realtà fisiche, dove l’inconsapevole diventa consapevole e il caos si trasforma in regola. La memoria dunque non è innocente e quando, colpevolmente applicata al paesaggio, a quel sistema eterogeneo di cose a cui

L’attitudine “astratta” del paesaggio

Figura 1. Paesaggio astratto, studio sulla formazione della città.

non c’è rimedio per comprenderle se non usando le “finestre”, la memoria, dimenticando la coerenza della narrazione attraverso l’episodio, struttura un paesaggio astratto, immaginario, illusorio, dedicato alle attività indotte da una necessaria condizione alla creazione. Se mai vi dovesse capitare di visitare la città di Chefchauen in Marocco, e se mai vi dovesse capitare di affittare una macchina e seguire il fiume che forma un lago artificiale nella valle su cui si affaccia la città, e se dovesse capitarvi, o vi è capitato, di proseguire verso il mare all’interno di un alta fessura nella roccia a strapiombo, e se continuando oltre la centrale idroelettrica che si incontra lungo la strada, costruita tra la confluenza di due grandi fessure nella roccia, andando oltre la cascata di acqua che si può osservare da una di queste fessure, se continuerete per ancora un poco facendo attenzione alla parete opposta dalla stretta strada a mezza costa che state percorrendo, vi accorgerete di una specie di triangolo in cui si

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allarga la parete della roccia. E se fate proprio tanta attenzione stando sempre sulla macchina, potreste accorgervi di un colore azzurro. Scendendo allora dalla macchina con una curiosità affamata di una stessa curiosità legata ad un luogo semplicemente fuori dal comune, vi accorgerete che nel triangolo disegnato dall’apertura nella parete di roccia, ad un centinaio di metri più in basso, quasi al livello del fiume, c’è un piccolissimo villaggio rurale. L’agricoltura affacciata per lievi terrazzamenti verso il fiume e disegnata come potrebbe essere una scheda madre di un computer, è di una precisione così disarmante che si arrampica nella memoria per segnare inequivocabili e imprudenti messaggi di ordine, di tranquillità, di precisione, di consapevolezza. Niente sembra fuori posto in un mondo talmente minuto da sembrare inesistente e incomprensibile. Il verde è intenso, le sfumature di verde sono così calcolate da creare una sorta di paletta dei colori per cui ti sembra di poterli riconoscere tutti nella loro identità singola, per poi invece sfuggirti se li volessi ricollocare perfettamente all’interno di un percorso unico della memoria. Ecco che di nuovo


tra parole e saggi

tutto si rimescola e devi ricominciare a ricollocarli, per cui inizi a fotografare nel tentativo vano di una prova tangibile dell’esistenza reale: un desiderio compulsivo nello sforzo di dissacrare la loro precipua attitudine ad essere immaginari e dunque precisi.

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Ma è quando, tentando di capire il motivo profondo, in un posto scomodo e chiuso, distante dal mondo e dal nostro sapere, del perché, una comunità piccola, decide di dipingere le poche case adagiate sulla morfologia del terreno di azzurro, che pensi possa esistere realmente un paesaggio astratto. L’attitudine astratta del paesaggio non è il fine, ma è lo spazio bidimensionale che Calvino usava come “idea di letteratura” da sostituire all’immagine. Uno spazio che mette in relazione gli opposti, quel passaggio vastissimo nelle due direzioni che sancisce l’estrema esistenza di due mondi, la materia e l’antimateria: l’attitudine astratta del paesaggio è quello spazio bidimensionale che possiamo utilizzare per passare da una realtà ad un’altra, dalla materia all’anti materia o forse, esprimendosi con troppa enfasi, dal paesaggio all’anti-paesaggio.

Riferimenti iconografici Figure 1, 2 e 3 : disegni dell’autore.

Testo acquisito dalla redazione nel mese di settembre 2009. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

Figure 2 e 3. Paesaggio astratto, studi.

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L’attitudine “astratta” del paesaggio

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lo (s)guardo estraneo

Eco e Narciso. Paesaggi provincia di Torino

inediti

in

Eco e Narciso. Unknown landscape in the district of Torino

abstract Nell’ambito del progetto Cultura Materiale della Provincia di Torino, è nato e ha al proprio attivo più edizioni il programma di arte pubblica Eco e Narciso. Lo spirito dell’attività viene rappresentato mediante la concatenazione di alcuni passaggi delle produzioni artistiche dell’edizione 2005, incentrata sulla scrittura. Altre informazioni di natura tecnica completano questo quadro che colloca Eco e Narciso nell’ambito dell’esperienza paesaggistica.

abstract The program of public art Eco e Narciso worked out inside the project Cultura Materiale of Torino Provincial Government. The article represents the meaning of this activity by a sequence of some artistic productions of literature, from 2005 edition. Other technical informations complete this frame putting Eco e Narciso in landscape experience.

parole chiave ecomuseo, arte pubblica, cultura, paesaggio

key-words eco-museum, public art, culture, landscape

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Rebecca De Marchi*

* Eco e Narciso, Torino. info@ecoenarciso.it

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“L’acqua scorre sotto la strada, la si sente scrosciare sotto le grate dei tombini. Il mondo ha una circolazione idrica tutta sua: qui scorrevole; laggiù impetuosa; altrove stagnante; oppure ciclica, a fasi, maree. Ci sono zone in pendenza che non conosceranno mai la risacca, il risucchio delle vene, ma solo l’effusione arteriosa, la dispersione, la perdita. Questo è pendio di deflusso. Chiomonte si trova su un terrazzo di depositi fluvioglaciali, come li chiamano i geologi. È disposta su una veranda a metà altezza della valle. L’acqua defluisce su questo pianerottolo di terra. Di fronte, dall’altra parte della valle, a Les Ramat, l’acqua cade in tutt’altro modo: precipita. Si intuba nei condotti che fanno girare le turbine della centrale elettrica a fondovalle. «Una volta quest’acqua muoveva i tram di tutta Torino», mi dice la mia guida. Questo paese-terrazza invece conosce un altro modo di cadere dell’acqua: lo scorrimento ostinato della pendenza lieve, la perdita ininterrotta. L’acqua se ne va in continuazione, non torna mai: impersona una forma speciale di abbandono, fatto di sempiterno congedo. Esistono dunque due specie di abbandono: uno, il più conosciuto, è il famigerato distacco drastico: superato il punto di crisi, dopo la lacerazione, si resta soli. L’altro è l’allontanamento continuo, il congedo diluito, che attuandosi sempre non si realizza mai del tutto. È come se quest’acqua continuasse a pronunciare la parola «addio», senza andarsene mai”1. “Viene da prima di noi, l’acqua, e ci oltrepassa”, prosegue Tiziano Scarpa, un po’ come i luoghi di cui, con autenticità, dobbiamo prenderci cura, imparando ad ascoltarli e a conoscerli, e agendo con una forma di tutela attiva.

Eco e Narciso. Paesaggi inediti in provincia di Torino

Figura 1. Ecomuseo delle Guide Alpine di Balme.

Figura 2. Ecomuseo dell’Argilla MUNLAB di Cambiani.

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È quanto la Provincia di Torino, sul piano culturale, si propone di fare con il progetto Cultura Materiale2 di costituzione di una rete ecomuseale e con il programma di arte pubblica Eco e Narciso3. Il perno è la provincia di Torino. Che include si Torino, ma che si sostanzia prevalentemente nel territorio che l’abbraccia. L’arco alpino che si estende a nordovest, linea di confine con la Francia e la Valle d’Aosta, la collina ad est verso l’astigiano, e la fascia della pianura trattenuta tra le prime due nell’area metropolitana e aperta a sud verso il cuneese e a nord est verso il vercellese. Un susseguirsi di vallate a raggiera da cui si diramano corsi d’acqua che si uniscono, alimentandolo, al Po. Una lettura volutamente sommaria che introduce elementi utili a seguire nel tempo le più recenti evoluzioni antropiche. L’economia rurale ha lasciato spazio sin dai tempi più lontani alle attività estrattive, con una ricca e variegata disponibilità di materie nell’area montana, a partire dalle pietre da costruzione, e di cave di argilla in pianura, elementi che hanno profondamente segnato le tipologie architettoniche, che hanno marcato con scale cromatiche naturali gli insediamenti sino al primo dopoguerra. Ma anche rame, legno, ferro, talco, e ancora pietra e argilla che hanno dato forma, insieme alle pelli, al cuoio, al cotone, alla canapa, alla lana a tutto un campionario di oggetti e attrezzi frutto dell’incontro tra le proprietà dei materiali stessi e l’intelligenza e i saperi dell’uomo. “(…) Ecco, le case ad esempio. Il modo in cui le costruivano. La montagna in fondo è anche il sogno di alcuni architetti. È lei a decidere come costruire, è la stessa montagna a fornire i materiali per la realizzazione di un’opera. Lo fa in funzione del suo territorio, del pericolo ad esempio, di frane e


lo (s)guardo estraneo

smottamenti. L’edilizia dunque è spontanea ma rispettosa del territorio. Basta guardare le case. Alcune sono veramente belle, non sembrano case, ma un’appendice della montagna, un rifugio naturale che offre ai suoi ospiti. Sarà che qui tutte le abitazioni sembrano avere un’unica matrice: quella delle balme”4. Non può mancare tra gli elementi l’acqua, che si presenta allo stato solido, a scala geografica, come ghiacciaio, superficie che divide e unifica, e che acuisce l’ingegno dell’uomo – contrabbandiere, guida alpina – per attraversarlo e superare i confini. Ma anche l’acqua dolce che nutre, irriga i campi, disseta; a cui si applicano sapere tecnico e opere di ingegneria per il potenziamento dell’agricoltura con i Canali Cavour e Caluso.

“(…) Parla del ghiaccio. Del piccolo lago ghiacciato che si era formato vicino al museo della fornace, il Munlab, e di come insieme ad altri quattro ragazzi che lavorano in uno studio di architettura ricavato nei locali della vecchia fornace, ti sei messo a fare quattro cinque passi sulla lastra del lago ghiacciato. Di’ com’era spaventosamente bella la collina dietro alla fornace di Cambiano. Ricordati di come ti sembra sempre malinconico non catturare la bellezza, non poterla condividere, non potersene impossessare, non poterla ridare”5.

Figura 3. Museo Miniera Brunetta di Cantoira. Figura 4. Canale Cavour.

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Più di tutti gli altri materiali, l’acqua ha segnato l’insediamento delle attività protoindustriali e industriali nella fase iniziale di quella stagione, prima che a dettarne la collocazione fossero ragioni legate alla vicinanza alle vie di comunicazione. Fonte di forza motrice, ha influenzato, in montagna come in pianura, la presenza di attività produttive. Per citarne due quanto più distanti tra loro, ma soggette entrambe ad una lettura culturale rispetto al loro contesto da parte delle comunità locali che hanno dato vita a degli ecomusei: il Feltrificio Crumière di Villar Pellice, a 650 m sul livello del mare, che ha conservato le sue peculiarità produttive, e ora, organizzato in cooperativa, ha resistito alla crisi del tessile inserendosi in un mercato internazionale di nicchia. Altro caso quello dell’IPCA di Ciriè – l’Industria Piemontese dei Colori all’Anilina – sorta negli anni ’20 che oltre a sfruttare le acque della Stura, sfruttava le permissive leggi italiane, impiantando un’attività pericolosa che avrebbe negli anni causato la morte di molti operai per cancro alla vescica. Vicenda drammatica all’origine di un impegno civile da parte di due ex operai malati – Albino Stella e Benito Franza – che con la loro ultima lotta combattuta nei tribunali riuscirono a garantire maggiori tutele per i lavoratori e per i consumatori italiani. Alla concretezza materiale si intrecciano le storie degli uomini, lo sviluppo dello spirito, del pensiero e del posizionamento politico, dall’impegno di Stella e Franza, alla Resistenza, dalla comunità Valdese nel pinerolese, all’utopia concreta olivettiana a Ivrea. “(…) Dopo aver rievocato l’episodio, affacciandosi oltre la valle dell’Angrogna che guarda verso la Rocca Berra, Renzo Sereno mi racconta di un

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aeroplano inglese che, partito dal porto di Taranto per dei lanci di supporto alle formazioni di Giustizia e Libertà, precipitò su questi monti in una sera del ’44: «Si disse che fu abbattuto dalla contraerea», mi confida Sereno «ma io quella sera mi trovavo proprio da queste parti e lo vidi bene. Non ci fu nessuna esplosione in cielo. Solo la bolla di fuoco al momento dell’impatto al suolo. Fu un sabotaggio. Ne caddero altri tre quella notte. E i “garibaldini” che controllavano la zona non ci fecero nemmeno passare per andare a portare soccorsi. Per una volta tanto, i lanci erano arrivati a loro. Quando, mesi dopo, arrivarono gli inglesi a riprendersi le salme, fu la prima volta in vita mia che vidi i sacchi di plastica per i cadaveri, le BODY BAG». Ecco, è bastato questo perché avvenisse il piccolo miracolo. È bastato che Renzo Sereno dicesse “io”. Forse perché immalinconitosi sul far della sera ricordando un’altra sera di tanti anni fa, nel suo racconto il vecchio partigiano è passato per la prima volta dalla terza persona plurale alla prima persona singolare. Fino a questo momento aveva sempre detto «I partigiani attaccarono la scuola», «I partigiani ingaggiarono un cruento scontro a fuoco con le SS», «I partigiani stivavano il grano», poi d’un tratto Renzo Sereno si è ricongiunto con il partigiano che anche lui è stato e, tramite quel partigiano, con tutti gli altri”6. Una trama da cui è germinata negli anni la volontà prima di non perderne la memoria, anche se si trattava di storia minore, di raccogliere i ricordi, le testimonianze dei saperi immateriali, dei dialetti e delle lingue, dei riti delle feste, delle canzoni e delle danze. Di conservare i beni materiali anche loro testimoni della tradizione, dai sentieri, ai muretti a secco, alle architetture rurali come industriali, agli attrezzi, ai manufatti. Un sentire diffuso nel

Eco e Narciso. Paesaggi inediti in provincia di Torino

passaggio epocale del secondo dopoguerra, di chi ha voluto con orgoglio non destinare all’oblio la scala quotidiana dei decenni precedenti. Una conservazione originariamente fondata su personali passioni, sulla nostalgia dei bei tempi andati, sul folklore, sull’archeologia industriale. Materiali che sono poi stati oggetto di indagine di storici, etnografi, antropologi, architetti che li hanno catalogati, classificati, studiati e interpretati, creando da un patrimonio di vita un patrimonio culturale, conferendogli nuovo valore, ma anche sfumando il mito dei bei tempi andati, e lasciando intravedere la fatica e la fragilità di quelle vite.

progettualità messa in atto da un’aggregazione di cittadini che attivamente si prendono cura del territorio in cui abitano, per salvaguardarne le specificità, che sono fatte di luoghi e di attività, di manufatti e di gesti, partendo da queste per definire uno scenario di sviluppo sostenibile.

Figura 6. Sangone.

Figura 5. Ecomuseo all’IPCA.

Una conservazione di un patrimonio che in parte ha consentito, per rimanere su un piano culturale, l’elaborazione di altri modelli museali, ed in particolare dell’Ecomuseo, ossia di una

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Ecomuseo

della

Resistenza

dell’Alta

Val

È sull’ecomuseo che si fonda il progetto Cultura Materiale della Provincia di Torino avviato nel 1998 – a tre anni dalla emanazione della Legge Regionale 31/95 in materia di “Istituzione di Ecomusei in Piemonte” – mediante un’analisi condotta sul territorio, in collaborazione con il Politecnico di Torino, al fine di cogliere i contesti a vocazione ecomuseale, come umile filo che inanella le perle presenti sul territorio, valorizzandole, per usare un’immagine presa in prestito da Flaubert.


lo (s)guardo estraneo

Figura 7. Museo a cielo Aperto dell’Architettura Moderna di Ivrea.

Figura 8. Scopriminiera di Prali.

Questa prima ricerca ha evidenziato una trentina di realtà, alcune delle quali non hanno avuto sviluppi, alle quali si sono aggiunte nel tempo altre realtà che si sono dimostrate molto attive. Tra queste, per riallacciarsi alla lettura del territorio accennata nei passaggi precedenti, la comunità di Villar Pellice, che ha sentito l’urgenza di dar vita all’Ecomuseo Feltrificio Crumière per valorizzare a fianco degli aspetti economici anche quelli culturali, dei saperi di fare, delle storie della tradizione, e degli incontri con gli esponenti della ricerca contemporanea, ritenendo fondamentale ogni occasione di relazione e di confronto, a maggior ragione per una piccola realtà di fondo valle minacciata dall’isolamento. Così come l’Ecomuseo all’IPCA sorto dalla tragica vicenda del colorificio, che si fonda sui temi dell’educazione ambientale e della tutela dei lavoratori, facendosi luogo di memoria, ma soprattutto di sensibilizzazione e di impegno per uno sviluppo sostenibile. Il progetto Cultura Materiale ha voluto dar ragione del ruolo fondamentale svolto nei decenni precedenti dai musei demo-etnografici ed ha quindi accolto a fianco della rete ecomuseale la numerosa compagine di tali musei7. L’intenzione della Provincia di Torino era facilitare la nascita degli ecomusei in quei contesti in cui stavano germinando le prime esperienze, per accompagnarli maieuticamente nelle fasi di maturazione e sviluppo, costruendo una rete capace di mettere in collegamento le singole realtà, generando occasioni di scambio e confronto, ma anche creare massa critica, mediante la costituzione di un sistema, prospettando modelli culturali alternativi a quelli dominanti, fondati sui beni aulici e sugli eventi. I primi anni la rete ha operato principalmente in termini di affermazione della stessa – mediante attività di comunicazione

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che hanno riguardato l’immagine coordinata, la produzione di video e la partecipazione a saloni e fiere – e di conoscenza e recupero, sia di strutture che di saperi, con uno sguardo rivolto prevalentemente al passato. È latente in ogni operazione in cui la tradizione e il passato hanno un elevato peso specifico il rischio di localismo e di campanilismo, di ricerca di un purismo mai esistito, fatto salvo negli esercizi di invenzione della tradizione stessa8, e al quale non occorre guardare come gli stessi antropologi sottolineano ricordando il ruolo di straordinaria importanza che – ad esempio per la cultura orale – svolge l’utilizzo della ghironda nei gruppi musicali contemporanei, non inferiore, e anzi più rivitalizzante della schedatura del patrimonio culturale stesso9.

Figura 9. Il territorio di Rorà.

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Figura 10. Ecomuseo Feltrificio Crumière di Villar Pellice.

Ma l’ecomuseo è “specchio di una comunità”10 in movimento, “radice del futuro”11, progetto di una cittadinanza attiva. È proprio per stimolare questi aspetti che nel 2003 è stato avviato ECO E NARCISO, un programma di arte pubblica rivolto agli ecomusei e musei demo-etno-antropologici, intesi come narrazione di primo livello del territorio, finalizzato a far incontrare gli stessi con i linguaggi della contemporaneità, insieme filtri di interrogazione delle realtà stesse, attivatori di progettazioni partecipate, occasioni di scambio con ambiti culturali differenti, portatori, attraverso la sensibilità che li contraddistingue, di nuovi spunti di riflessione, basati sull’approfondita conoscenza del contesto locale e coniugati con la coscienza umanistica e poetica capace di aprire nuovi scenari per questi paesaggi fragili.

Eco e Narciso. Paesaggi inediti in provincia di Torino

Una contaminazione che rispecchia e rispetta l’evoluzione culturale, che offre agli artisti nuovi giacimenti di ricerca e alla popolazione locale l’occasione per l’incontro e la relazione con tematiche del contemporaneo, misurandole sul proprio contesto, con la possibilità di essere interlocutori attivi del fare artistico, e anche di essere di fronte all’altro. Eco e Narciso si fonda sulla residenza degli artisti sul territorio, affinché possano approfondirne la conoscenza, sia in modo diretto che attraverso l’incontro con la comunità raccolta attorno all’ecomuseo. Il contesto è la materia su cui lavora l’artista, e la comunità vi è coinvolta anche nella realizzazione dell’opera, generando in questo processo la partecipazione attiva della stessa. Ogni edizione ha attivato la collaborazione con operatori culturali, e non solo, del luogo e non, nazionali ed internazionali, rafforzando le opportunità di relazioni e scambio, con ricaduta locale, che sono alla base della natura ecomuseale, consentendo di valorizzare le risorse locali, e di far conoscere a pubblici diversi il territorio e i suoi ecomusei. Le cinque edizioni che sin qui si sono succedute si sono differenziate per la disciplina artistica e per il territorio coinvolto. Nel 2003, diciotto artisti contemporanei, anagraficamente giovani, ma professionalmente riconosciuti, si sono misurati con undici musei ed ecomusei, realizzando delle opere site specific. Nel frattempo, sin dalla primavera dello stesso anno, dodici fotografi si stavano confrontando con il territorio provinciale, suddiviso in altrettante zone, a partire dai trenta ecomusei e sessantotto musei e dalle loro riverberazioni sugli spazi esterni. Ne sono emersi dei fondi fotografici che presi singolarmente danno corpo all’identità di un territorio, condensando tempo e spazio per

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giustapposizione di immagini. Il confronto, attraverso una lettura trasversale, dei vari corpus mette in evidenza identità e differenze delle varie aree geografiche. Nel 2005, la lettura del paesaggio della provincia di Torino è stata affidata a quattrodici scrittori italiani, provenienti dalle altre regioni, per ricevere sguardi esterni, non viziati da una conoscenza pregressa. Ad ognuno di loro è stata assegnata una porzione di territorio, che hanno tradotto in pagina scritta, fondendo la propria personale idea di scrittura e la complessità paesaggistica con cui si sono misurati. Nel 2006, sono stati otto musicisti che hanno dato voce, cogliendone l’anima sonora, a cinque ecomusei, con altrettante installazioni sonore appositamente concepite. Il design ha impegnato nel periodo 2007-2008, dieci designer docenti che, con una selezione di studenti, hanno realizzato nuovi progetti, prototipi e prodotti in collaborazione con gli ecomusei e con industrie testimoni di lavorazioni tipiche del territorio ed ancora operanti sullo stesso, partendo da sei materiali locali: acqua, cotone, argilla, talco, pietra e feltro. Da qui un rimando ai cenni sul territorio e al ruolo dell’acqua, fonte naturale che confluisce negli acquedotti e negli stabilimenti di imbottigliamento; è il caso dell’Ecomuseo delle Guide Alpine di Balme, con un richiamo diretto agli uomini e ai loro saperi e attrezzi, ma anche al paesaggio e alla materia di cui è composto, tra cui l’acqua Pian della Mussa, su cui hanno lavorato designer londinesi nell’edizione dedicata al Design di Eco e Narciso, coinvolgendo la comunità locale a interrogarsi sul consumo responsabile dell’acqua, sulla tutela e la valorizzazione dei luoghi in cui abitiamo, nel rapporto tra l’uomo e la natura in un’ottica di sviluppo sostenibile.


lo (s)guardo estraneo

Si tratta di pratiche che, pure se in misura lieve, possono innalzare l’aspettativa della cittadinanza locale nei confronti degli interventi che interessano il territorio, al di là dell’ambito esclusivamente culturale. In tal senso Eco e Narciso è stato esteso indiscriminatamente all’intera area provinciale, non limitandolo alle realtà ecomuseali, bensì con il L.A.P. - Laboratorio Artistico Permanente suggerendo ai comuni di coinvolgere per progetti già programmati, e quindi già finanziati e di sicura realizzazione, degli artisti capaci di dare risposte dedicate alle singole realtà. Il Comune risulta infatti l’interlocutore privilegiato, essendo il soggetto che, per decisioni assunte o mancate programmazioni, incide fortemente sul disegno del territorio. In tal senso l’arte pubblica perde l’etichetta strettamente culturale per andare ad assumere un compito più trasversale, che intercetta istanze sociali, di pianificazione paesaggistica, turistiche, ambientali. L’invito ad avvicinarsi ai dispositivi dell’arte pubblica è stato esteso a tutti i referenti delle amministrazioni, indipendentemente dalle materie di competenza. Funzionari e assessori degli enti locali dei servizi cultura, ambiente, servizi sociali, urbanistica, istruzione, hanno partecipato a workshop appositamente realizzati per presentare una casistica di progetti di arte pubblica, al fine di facilitare la comprensione di un fare sempre molto variegato e non riconducibile a schemi. Un ulteriore sviluppo, ancora in fase di definizione, è stato l’inserimento della progettualità di Eco e Narciso nell’ambito della Pianificazione Strategica Ambientale della Provincia di Torino, nelle azioni riferite all’uso e alla valorizzazione delle aree periurbane, alla salvaguardia e allo sviluppo di attività produttive tipiche e alle mitigazioni e compensazioni nei casi di interventi soggetti a VIA, sempre nell’ottica della cultura come categoria

trasversale che, insieme ad altri interlocutori, può delineare attitudini diverse di abitare. “Noi siamo la vita che siamo, ma siamo anche i morti che saremo e su queste due gambe dobbiamo camminare anche se ci portano in strade diverse”12.

Riferimenti iconografici Tutte le foto sono state realizzate nell’ambito di Eco e Narciso / Fotografia. Figure 1,3,5: Eugenio Castiglioni. Figura 2: Alessandro Dominici. Figura 4: Andrea Botto. Figura 6: Luigi Gariglio. Figura 7: Emanuele Piccardo. Figure 8,10: Marco Saroldi. Figura 9: Giuseppe Piredda.

Testo acquisito dalla redazione nel mese di luglio 2009. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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5

Raimo C., Le cose di qui, in De Marchi R., Voltolini D. (a cura di), op. cit., pp. 197-208. 6 Scurati A., Breve viaggio contro-natura in Val Pellice, in De Marchi R., Voltolini D. (a cura di), op. cit., pp. 227250. 7 A oltre dieci anni dall’avvio del progetto, dopo una lunga fase di maturazione occorrerebbe ora compiere un’azione di valutazione dei soggetti facenti parte della rete, per collocarli correttamente nelle categorie museali o ecomuseali a cui dovrebbero appartenere alla luce dei loro sviluppi, ed aprire a eventuali nuove realtà. Per garantire maggiore coerenza, tale azione dovrebbe avvenire nel quadro della revisione della legge regionale, annunciata in occasione dell’incontro del Coordinamento nazionale degli ecomusei tenutosi a Torino il 4 luglio 2009, e in prospettiva delle definizioni nazionali. 8 Cfr. Eric J. Hobsbawm E. J., Ranger T. (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino 1987 (Cambridge 1983). 9 Il riferimento va all’intervento di Gian Luigi Bravo nel corso dell’edizione del 2009 del Festival dell’Oralità. 10 Dalla definizione evolutiva di ecomuseo di GeorgesHenri Rivière del 1980. 11 Il riferimento va a Hugues De Varine e in particolare a Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, 2005. 12 Arminio F., Un paesologo in Val Germanasca, in De Marchi R., Voltolini D. (a cura di), op. cit., pp. 37-58.

1

Scarpa T., Alta Val di Susa, in De Marchi R., Voltolini D. (a cura di), Eco e Narciso. 14 Scrittori per un paesaggio, Milano 2005, pp. 209-226. 2 Per approfondimenti: www.culturamateriale.it. 3 4

Per approfondimenti: web www.ecoenarciso.it.

Pascale A., Il futuro ha un cuore antico, in De Marchi R., Voltolini D. (a cura di), op. cit., pp. 145-169.

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Lo sguardo del flâneur

The gaze of the flâneur

Lo sguardo del flâneur Giampaolo Nuvolati*

abstract Individuare il ruolo e l’efficacia della flânerie come strumento interpretativo, comprendere il contributo che il flâneur può apportare nell’analisi del paesaggio urbano, intendendo naturalmente con questo ultimo termine non solo gli sfondi naturali o artificiali che caratterizzano la città ma anche le figure che la popolano quotidianamente. Una sorta di breve diario dove la trattazione del flâneur riguarda ora la sua genesi, ora i suoi caratteri prevalenti, ora la sua vicinanza/distanza da altre figure urbane ora la sua utilizzabilità in campo didattico.

abstract Identify the role and effectiveness of flânerie as a tool of interpretation, understanding the contribution that the flâneur can bring to the analysis of the urban landscape, meaning of course the latter term not only natural or artificial backgrounds that characterize the city but also the figures that the inhabit daily. A sort of diary about the treatment of the flâneur covers its origins, its characteristics prevalent, its proximity/distance from other urban figures and its usefulness in teaching.

parole chiave flâneur, paesaggio urbano, scienze sociali, viaggio, turista.

key-words flâneur, urban landscape, social sciences, travel, turist.

* Università degli Studi giampaolo.nuvolati@unimib.it

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di

Milano

Bicocca,


lo (s)guardo estraneo

Premessa Negli ultimi anni mi sono dedicato allo studio del flâneur scrivendo un testo e vari articoli che avevano come obiettivo principale quello di dare forma ad una riflessione sul tema del rapporto tra la città e i suoi narratori (Nuvolati 2006; 2008). Tema tanto difficile da dipanare tanto (forse proprio per questo motivo) indagato da varie discipline: dalla geografia alla letteratura, dalla architettura alla filosofia. Il mio interesse, di natura prettamente sociologica, era comunque quello di individuare il ruolo e l’efficacia della flânerie come strumento interpretativo da affiancare ai metodi di ricerca più tradizionali delle scienze sociali per lo studio delle realtà urbane. Volevo cioè capire il contributo che il flâneur può apportare nell’analisi del paesaggio urbano, intendendo naturalmente con questo ultimo termine non solo gli sfondi naturali o artificiali che caratterizzano la città ma anche le figure che la popolano quotidianamente1. Il mio percorso di ricerca si è fatto nel tempo, esso stesso, una sorta di flânerie contraddistinta da momenti di entusiasmo sulla forza euristica della narrazione letteraria, accompagnati da disillusioni che richiamavano da vicino l’antico contrasto positivista di fine Ottocento tra la sociologia, tutta tesa a divenire scienza, e la letteratura (o altre forme artistiche intente a descrivere della città: dalla fotografia al cinema) per loro natura ancorate alla finzione e dunque lontane dal raggiungere la verità2. Nel mio erratico percorso di indagine, intriso di serendipity, incontravo sorprese e conferme sui temi trattati, collegamenti inediti con altre questioni e confini tematici più netti, testimonianze in forma di micro-storie e argomentazioni di portata più generale. Complessivamente però la montagna di appunti, di

articoli, di suggestioni e suggerimenti raccolti ha continuato ad aumentare confermandomi che il tema stava pian piano trovando l’attenzione che a mio avviso meritava3. Nelle pagine che seguono cercherò di individuare le tappe di questo percorso se vogliamo anche personale, sottolineando di volta in volta la rilevanza specifica dello sguardo del flâneur, argomento al centro di questa sezione di ri-vista. Una sorta di breve diario, dunque, dove la trattazione del flâneur riguarda ora la sua genesi, ora i suoi caratteri prevalenti, ora la sua vicinanza/distanza da altre figure urbane ora la sua utilizzabilità in campo didattico. Prima tappa. Il flâneur, tra marginalità e arte La parola flâneur presenta varie origini ed usi. Alcuni la fanno derivare dall’antico scandinavo flana: correre vertiginosamente qua e là, altri da una parola irlandese che corrisponde al nostro libertino. Ritroviamo il termine nella Encyclopedie Larousse del XIX sec. in riferimento ad una persona oziosa. In molte regioni d’Italia parlando di chi bighellona tutto il giorno si dice che fa flanella, cioè tira a campare senza affannarsi troppo. Originariamente coloro che facevano flanella erano i frequentatori dei bordelli che però non consumavano ma appunto perdevano il proprio tempo conversando con la tenutaria e le prostitute, anche nella speranza di ottenere prestazioni gratuite. Nata nell'Ottocento per designare poeti e intellettuali che passeggiando tra la folla ne osservavano criticamente i comportamenti, codificata dal Benjamin dei Passages parigini (1927-1940), la nozione di flâneur sollecita oggi con forza l'interesse delle scienze sociali e della

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filosofia, ma anche della letteratura e del cinema, per la capacità di identificare una particolare pratica di viaggio e di esplorazione dei luoghi, di rapporto riflessivo con le persone e gli spazi. La riflessione sul flâneur ha preso recentemente diverse angolazioni: per alcuni egli è il simbolo della modernità avanzata; per altri l’erosione delle esperienze collettive in spazi pubblici sancisce invece la fine del flâneur; altri ancora parlano di privatizzazione della flânerie. Animale urbano per eccellenza, allevato alla dura scuola della metropoli moderna, il flâneur incarna il desiderio di libertà errabonda nell'individuo imprigionato da vincoli territoriali, ideologici, professionali; la ribellione contro le pratiche consumistiche di massa, specie contro il turismo mordi e fuggi; l'aspirazione ad assaporare la vita secondo ritmi più meditati; il recupero della sensibilità come forma di conoscenza. Trapiantata dalle gallerie parigine nelle periferie urbane e nei grandi centri commerciali metropolitani, la figura del flâneur sembra testimoniare lo smarrimento dei nostri giorni, ma anche il desiderio di sperimentare nuove relazioni con i luoghi e i loro abitanti. L’atteggiamento del flâneur viene notoriamente considerato come provocatorio sia nei confronti delle vecchie categorie di lavoratori dell’epoca fordista, caratterizzati da ritmi estenuanti di lavoro, sia nei confronti degli uomini e delle donne postmoderni/e affannati in conseguenza della crescente competitività e responsabilità che spetta loro nella soluzione dei problemi quotidiani. Per Bauman (1999) il flâneur è la tipica figura della modernità radicale che si affianca al vagabondo, al turista, al giocatore come emblemi del terrore dell’uomo postmoderno di essere legato ad un unico posto. Ma se il flâneur in passato era il regista occulto della vita urbana, ora è solo un attore-compratore,

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il destinatario di una regia seduttiva oppure, nel prevalere della dimensione domestica su quella pubblica, un semplice cyberflâneur (Featherstone 1998). Per Giddens (1991) il flâneur è il simbolo della condizione di anonimità che caratterizza la società urbana attuale. Il flâneur peraltro trova molti legami anche con l’homo aestheticus (Maffesoli 1985), con l’homo ludens, l’espressione più avanzata dell’edonismo e del narcisismo di cui parla Sennett (1990). Per Amin e Thrift (2002) in un mondo in rapido cambiamento, soprattutto nei contesti urbani, il flâneur costituisce l’unica figura in possesso di una sensibilità poetica e scientifica al tempo stesso, tale da consentirgli la lettura dei cambiamenti stessi, di sovvertire gli stereotipi, di analizzare le varie forme d’uso della città.

Lo sguardo del flâneur

Dal punto di vista di chi scrive molti soggetti pur non essendo definibili flâneur tout court presentano con essi alcune affinità. Mi riferisco ad altri riconosciuti protagonisti della erranza come gli hippies vagabondi, i poeti, i giovani sbandati (Maffesoli 2000) fino agli attivisti politici che partecipano alle manifestazioni per la pace in tutto il mondo (Leontidou 2006) o ai senza fissa dimora che si spostano in continuazione: dai barboni agli immigrati. Come si può notare si tratta di accezioni che complessivamente ci ritornano una immagine negativa del flâneur, oppure un’idea di debolezza, di marginalità. A questa immagine occorre però affiancare anche la parte più titolata di questa figura. Flâneur è, infatti, anche lo scrittore, l’intellettuale, l’artista che si perde nella città e che grazie alla sua sensibilità è in grado di interpretare i significati più nascosti del vivere urbano, il genius loci della città. Nella saggistica letteraria flâneur per eccellenza sono considerati: Charles Baudelaire e Honoré de Balzac per Parigi, Charles Dickens e Virginia Woolf per Londra, Nikolaj Gogol’ per San Pietroburgo, James Joyce per Dublino, Alfred Döblin per Berlino, Ferdinando Pessoa per Lisbona, John Dos Passos e Paul Auster per New York, Orhan Pamuk per Istanbul, Nagib Mahfuz per Il Cairo, fino Pier Paolo Pasolini per Roma. All’origine di questa flânerie letteraria c’è naturalmente L’uomo della folla di Edgar Allan Poe. Seconda tappa. Aristotele

Figura 1. La città e il suo flâneur, alcuni esempi.

Il

flâneur,

il

traceur

e

Nell’ottobre 2007, si è tenuta a Montreal una giornata di studi sul tema del rapporto tra il corpo in movimento e lo spazio urbano4. Tra le varie figure urbane prese in considerazione vi era anche

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il flâneur e ciò ha consentito di riflettere ulteriormente sulle sue caratteristiche distintive (Nuvolati in stampa). Rispetto al passante, a colui che pratica jogging o il parkour5, il flâneur relega in secondo piano l’esercizio fisico-atletico, mentre in lui prevale il gioco intellettuale nel rapportarsi alla città. La sua pratica essenziale è dunque quella della osservazione rivolta al contesto che lo circonda e della riflessione. Così piedi, occhio e mente sono i suoi strumenti fortemente connessi. Lo sguardo è fondamentale perché è l’atto con cui il flâneur prende possesso della realtà circostante. Non è uno sguardo fine a se stesso, ma che può trovare sbocco in una analisi e interpretazione del visto e, infine, nella realizzazione di un prodotto (romanzo, poesia, fotografia, altro) capace di restituire le sue sensazioni ad un pubblico più allargato6. Il flâneur è altra cosa anche rispetto ai discepoli della scuola peripatetica di Aristotele del 335 AC. Per questi ultimi il camminare nel giardino del Lyceum era un semplice modo per dibattere di scienza e filosofia. Il moto e il contatto con la natura viene visto come uno stimolo all’esercizio intellettuale (anziché puramente fisico), ma l’eventuale contesto geografico e sociale sullo sfondo scompare, perché negli allievi di Aristotele non esiste alcuna velleità di indagine. Viceversa il flâneur moderno e tardo moderno è interessato a scoprire e poi leggere il mondo che lo circonda, camminare lentamente significa osservare e interpretare la realtà, fin nelle sue manifestazioni più banali. Nel fondere la componente straordinaria e quella ordinaria dell’esistenza umana egli diviene allora l’emblema della quotidianità creativa e della creatività quotidiana, dell’ovvietà e dell’unicità che insieme contraddistinguono la modernità avanzata. Forse è il turista la figura che potremmo avvicinare al flâneur, ma con molte difficoltà perché il turista


lo (s)guardo estraneo

non conosce la stessa profondità di sguardo, osserva curioso e frettoloso la realtà che visita ma non è interessato o capace di svelarne i significati più reconditi. Il flâneur rappresenta l’icona della libertà, della autonomia di movimento e riflessione, della capacità intellettuale di lettura originale della città ed è dunque ben diverso dal turista costretto nei tempi ristretti del suo viaggio a seguire circuiti predefiniti e a praticare condotte pur sempre codificate. La condizione rara, privilegiata del flâneur ne fa forse solo un modello astratto (quasi leggendario) cui ci avviciniamo in varia misura nell’abbandonarci a qualche flânerie, a qualche distrazione, persi nella folla, subito compensata però dal distacco, dal disimpegno blasé simmeliano che predomina nella nostra quotidianità. Non a tutti è data la possibilità di abbandonarsi con frequenza alla contemplazione.

Figura 2. Le azioni del flâneur.

Terza tappa. Lo sguardo femminile Nel giugno 2009, il colloquio sul flâneur tenutosi presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Milano Bicocca è stata l’occasione per parlare di flâneuse. Tema non nuovo, a dir la verità, ma che ha ribadito la diversità dello sguardo femminile nella lettura del paesaggio urbano. Già Wearing e Wearing (1996), in particolare, avevano richiamato la peculiarità dell’approccio femminile distinguendo tra flâneur e choraster in una prospettiva di genere. Mentre il flâneur rimanda ancora ad una modalità di perlustrazione distaccata e fredda del territorio, fatta più di sguardi che interazione vera e propria con la realtà osservata, dunque, rinvia ad una cultura di stampo maschile, il/la choraster nel relazionarsi al luogo visitato – inteso come chora, spazio a metà tra l’essere e il divenire nella filosofia di Platone – pone più profondamente in discussione se stesso/a e costituisce dunque una alternativa femminile alle pratiche più tradizionali di turismo, una apertura al mondo più che un semplice dominio e controllo. L’origine di questo orientamento è in parte riconducibile alla natura stessa delle donne nel farsi grembo della propria prole, dunque nell’ospitare l’alterità. Occorre ricordare che nella tradizione di fine ‘800, ma che si è a lungo trascinata anche nel secolo successivo, le attività flâneuristiche erano esclusivamente praticate da uomini che si muovevano liberamente nei quartieri della città. Alle donne era sconsigliato esplorare da sole le metropoli proprio per evitare situazioni pericolose o essere oggetto di facili illazioni (Wolff 1994). Il movimento femminista operando critiche pungenti alla visione maschilista del flâneur di Benjamin ha fortemente sottolineato il mancato (o stigmatizzante: la prostituta) riconoscimento del

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ruolo delle donne negli spazi pubblici (Wolff 1985), sebbene nella versione meno estrema del femminismo, quale è quella espressa da Wilson (1992), si confessi che, in realtà, la pratica femminile della flânerie pur variando nel tempo e da città a città, sia comunque sempre esistita. In particolare, in passato riguardava le donne appartenenti alla classe media che frequentavano le sale da tè, i grandi magazzini, i buffet delle stazioni ed altri luoghi pubblici. Oggi, sebbene il flâneur costituisca ancora un ruolo prevalentemente maschile, si può affermare che, in generale, la strada non connota più negativamente la donna, ma anzi ne rappresenta un momento di liberazione e realizzazione. E proprio nel concepire il viaggio e la fluidità del movimento non solo come esperienze fisiche ma anche come processi interni, psicologici, di emancipazione che Parsons (2000) in Streetwalking the Metropolis: Women, the City and Modernity fà della flâneuse una protagonista assoluta della modernità. Nel seminario di Milano, Trasforini (2009) ha approfondito l’argomento delle flâneuse con una serie di esempi interessanti che richiamano non solo l’oggetto dello sguardo ma anche il punto di osservazione. L’attenzione si è concentrata in particolare sulle donne artiste, sul loro desiderio di immergersi nella folla urbana. Riportiamo un passaggio «Una suggestiva rappresentazione di questo movimento interno e fisico [dallo spazio privato a quello pubblico: NdR] è suggerito da un’opera del 1892 della pittrice tedesca Käthe Kollwitz (1867-1945), Autoritratto al balcone, in cui l’artista si ritrae di tre quarti, seduta alla finestra. Nell’analizzare questo disegno, Rosemary Betterton (1998, 21) ha messo in rilievo come la posizione dinamica della figura che si tiene stretta un ginocchio, sembra suggerire il movimento

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imminente e al tempo stesso trattenuto: andare verso la città che è laggiù, fuori e che si intravede in lontananza. La città, finalmente raggiunta, compare in un’altra opera. E’ un’incisione del 1910 dell’americana Anne Goldthwaite che ritrae un’insolita scena di bistrot At Montmartre: fuori da ogni criterio perbenistico, due ballerine riprese di spalle danzano sfrenatamente, davanti ad un pubblico misto, con in primo piano una donna, con una sigaretta in bocca e un bicchier di vino. L’artista è dunque uscita, è finalmente protagonista e spettatrice della scena del café e narratrice della propria vita (Swinth 2001, 174)». Bastano queste poche righe per farci capire il rilievo che le donne artiste possono avere nella lettura, interpretazione e rappresentazione dei paesaggi urbani.

Figura 3. Anne Goldthwaite, At Montmartre (1910).

Lo sguardo del flâneur

Quarta tappa. La didattica: Piacenza, Alghero, Milano Nell’AA 20008-2009 ho tenuto corsi in varie facoltà e città italiane7 all’interno dei quali ho sperimentato con gli studenti alcune forme di flânerie. L’assunto di base era che attraverso questa esperienza gli studenti potevano avvicinare il genius loci delle città e dei loro quartieri, potevano sviluppare un rapporto più empatico nei confronti delle realtà urbane, potevano combinare metodi di ricerca (quantitativi e qualitativi) e approcci disciplinari differenti (dalla sociologia urbana alla architettura alla geografia). Il lavoro ha previsto una serie di passaggi: a) l’introduzione al tema del flâneur, b) la realizzazione di un protocollo che gli studenti dovevano seguire per la realizzazione della flânerie, c) la realizzazione della flânerie stessa (ne erano previsti tre tipi: esplorativa, osservativa e shadowing; queste ultime due sulla falsariga di Edgar Allan Poe ne L’uomo della folla, 1840), d) la selezione di una o due flânerie, e) infine, un sopraluogo con tutti gli studenti e docenti di varie discipline sui percorsi selezionati per una rilettura complessiva dei luoghi narrati. Non è semplice dar conto in poche pagine dei risultati delle esperienze condotte. Ritengo comunque che si sia trattato di lavori interessanti forieri di ulteriori sviluppi soprattutto in termini di integrazione con altri strumenti più tradizionali di indagine sociologica sul territorio. Il flâneur e la flâneuse, come oggetti e soggetti della analisi sociologica, rappresentano figure emblematiche e riflessive della nostra società in continua mutazione, delle sue irrisolte contraddizioni. Essi possono anche costituire esempi da cui partire per avvicinare gli studenti ad

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lo (s)guardo estraneo

un lavoro sul campo per invitarli ad una lettura più diretta della realtà urbana. In tutti i casi è lo sguardo a venir sollecitato: uno sguardo mai fine a se stesso ma capace di costituire un punto di appoggio, un filtro per l’interpretazione della città e del paesaggio urbano nella sua complessità, per la realizzazione di opere e scritti che restituiscano alla collettività il senso più profondo dei luoghi stessi.

Riferimenti bibliografici Amin A. and Thrift N., 2002, Cities. Reimagining the Urban, Cambridge, Polity Press. Bauman Z., 1999, La società dell’incertezza, Bologna, il Mulino. Benjamin W., [1927-1940] 1999, The Arcades Project, Cambridge (MA): Harvard University Press. Betterton R., 1998, “Women artists, modernity and suffrage cultures in Britain and Germany 1890-1920”, K. Deepwell (ed.), Women Artists and Modernism, Manchester, Manchester University Press, pp. 18-35. Borenstein A. 1978, Redeeming the Sin: Social Science and Literature, New York, Columbia University Press. Featherstone M., 1998, “The Flâneur, the City and Virtual Public Life”, Urban Studies, 35, pp. 909-925. Giddens A., 1991, The Consequences of Modernity, Cambridge, Polity Press. Leontidou L. 2006, “Urban social movements: from the ‘right to the city’ to transnational spatialities and flâneur activists”, City, 10, pp. 259-268. Maffesoli M., 1985, “Le paradigme esthétique: la sociologie comme art”, Sociologie et Sociétiés, 17, pp. 33-40. Maffesoli M, 2000, Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, Milano, Franco Angeli. Nuvolati G., 2006, Lo sguardo vagabondo. Il flâneur e la città da Baudelaire ai postmoderni, il Mulino, Bologna. Nuvolati G., 2008, “Vagabondare in città: il flâneur”, R. Lavarini (a cura di), Viaggiar lento. Andare adagio alla scoperta di luoghi e persone, Hoepli, Milano, pp. 129-154.

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Testo acquisito dalla redazione nel mese di agosto 2009. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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La città con la sua folla, soprattutto a partire da Baudelaire, rappresenta il luogo più adatto per il flâneur. Sebbene il camminare possa invitare il flâneur a spingersi fuori dai confini urbani alla ricerca della natura incontaminata (Thoreau 1989) e nonostante Sansot in Passeggiate. Una nuova arte del vivere (2005) parlando dei piaceri legati al camminare e alla flânerie proponga diversi percorsi, alcuni dei quali urbani altri più naturalistici, è nelle strade della città e negli shock che il contesto urbano procura che il flâneur trova il senso più compiuto della propria esperienza, sia come scrittore che come essere umano. 2 Sebbene Borenstein in Redeeming the Sin: Social Science and Literature (1978, XV) sottolinei come scienze sociali e letteratura convergano nel presentare entrambe un lato artistico. «Living realty is the source and substance of social science and of fiction. It is therefore inevitable that the fiction writer and the social scientist will meet time and again. Now, it is commonly assumed that the fiction writer enjoys a greater measure of freedom than the other, that he exercises his imaginative powers to the fullest whereas the social scientist must rein his imagination and abide by the cannons of scientific method. Upon closer inspection, however, the exercise of the imagination and the taking of certain liberties are found to enter into the shaping of many a social fact. Social science is an art at least by half. In the “data” gathered in questionnaires and interviews, in case studies, and in statistical tables and chart and graphs, there is “faction”, a blend of fiction and fact. In the works of social science, as in fiction, there is verisimilitude.» 3 Per chi si occupa di è veramente difficile resistere alla tentazione di imitare (sempre indegnamente) il Benjamin dei Passages nella sua raccolta di citazioni, aneddoti, pensieri, appunti di varia natura. 4 (VRM) Villes Régions Monde, Réseau interuniversitaire en études urbaines et régionales, Journée d’étude : Les figures du corps en mouvement au cœur de l’espace urbain. Le piéton, le flâneur, le joggeur, le traceur et le danseur, INRS-UCS, Montréal, 25 Octobre, 2007.

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Lo sguardo del flâneur

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Con questo termine si intende l’attività fisica svolta dai traceur, giovani acrobati della città che si spostano scavalcando gli ostacoli (muri, tetti, recinti, etc.) che di volta in volta incontrano nel loro percorso o tracciato originale. 6 Mi viene in mente, tra gli esempi più attuali, la collana di Laterza, Contromano per la quale alcuni tra i più bravi giovani scrittori italiani sono stati chiamati a descrivere città e regioni italiane. 7 Mi riferisco alla Facoltà di Sociologia dell’Università di Milano Bicocca, alla Facoltà di Architettura e Società del Politecnico di Milano Polo di Piacenza e alla Facoltà di Architettura di Sassari ad Alghero.

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paesaggi in gioco

La lettura del paesaggio come strumento di turismo culturale.

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Landscape comprehension as a tool for cultural tourism.

Frederick Bradley*

abstract Il progetto GUIPA, Guide al Paesaggio d’Italia, nasce nel 2004 con l’obiettivo di sviluppare un preciso segmento editoriale. Esso è finalizzato alla divulgazione delle diversità paesaggistiche del territorio italiano attraverso letture correttamente fondate su basi scientifiche. L’incentivazione di un turismo culturale espressione di una consapevolezza diffusa dei caratteri e delle dinamiche dei paesaggi italiani è vista come una leva culturale importante per la loro stessa salvaguardia. Il progetto è in costante sviluppo, con nuove guide, che progressivamente ne incrementano la copertura rispetto al territorio nazionale, e con evoluzioni delle modalità di fruizione.

abstract The GUIPA project, Guide al Paesaggio d’Italia is going on since 2004 with the goal to develop a specific editorial space. It intends to spread the landscape diversities of Italy by a sequence of lectures based on scientific informations. Development of a cultural tourism, expression of a diffuse knowledge about character and dynamics of Italian landscapes, could be an important cultural inducement in their protection and management. The project is developing, with new guides, which are increasing its covering of italian territory, and with new modality of enjoyment.

parole chiave turismo, cultura, paesaggio

key-words tourism, culture, landscape

* Guipa – Guide al Paesaggio d’Italia, www.guipa.it. info@guipa.it

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Da alcuni anni in Italia il paesaggio è un argomento molto ricorrente nel dialogo pubblico. Con frequenza crescente i principali media nazionali si occupano a vario titolo del paesaggio, proponendo saggi e interviste o dando spazio a manifestazioni culturali che abbiano come oggetto il paesaggio, ed in particolare quello italiano. Di fatto il paesaggio sembra uscito dai confini dello stretto ambito in cui costituisce materia d’indagine di varie discipline professionali e accademiche (urbanistica, agronomia, eccetera), per divenire oggetto di interesse anche per i non addetti ai lavori. Di paesaggio si parla sempre più anche nelle diatribe di carattere politico, e con la recente ratifica della Convenzione Europea del Paesaggio per la prima volta l’approccio normativo che regola la materia a livello nazionale si è dovuto confrontare con ambiti internazionali. Ma come nasce e, soprattutto, come si sviluppa questo nuovo interesse per il paesaggio italiano? Senza entrare nei dettagli della questione, che esulano dagli scopi del presente articolo, vale comunque la pena ricordare un fatto nella nostra storia recente che risulta illuminante a questo proposito: la valutazione da parte dell’opinione pubblica di costruzioni che oggi vengono comunemente identificate con il termine “ecomostro”. Com’è noto si tratta di grandi costruzioni, in genere ad uso abitativo turistico-residenziale realizzate in Italia nella seconda metà del secolo scorso. Nel periodo della loro comparsa esse, soprattutto in ambito politico, furono considerate sinonimo di sviluppo economico e le voci contrarie alla loro realizzazione si limitarono a quelle di pochi personaggi illuminati. Fu solo in seguito, con il crescere e il diffondersi di una certa sensibilità paesaggistica, che fasce sempre più larghe di popolazione cominciarono a valutare

La lettura del paesaggio come strumento di turismo culturale

negativamente l’impatto di tali strutture, fino al loro attuale rifiuto sia dell’opinione pubblica nazionale, che della classe politica in genere. Nonostante l’etimologia del termine eco-mostro, però, ci sembra che questo mutamento di rotta abbia avuto il suo motore principale più nella valutazione estetica del paesaggio che non nella consapevolezza del danno ambientale arrecato al territorio. In effetti si tratta di una visione abbastanza ovvia per una società il cui pensiero è storicamente influenzato dal gusto del bello, un approccio che è alla base della stessa percezione estetico-formale del paesaggio tipica, appunto, della cultura italiana. Del resto, la diffusione del concetto di paesaggio come sistema di eco-sistemi, identificabile con la landscape ecology, che trova le sue origini nella scuola tedesca fin dal 1930, è in Italia un fatto relativamente recente e ancor più recente è il superamento della sua contrapposizione con il classico approccio percettivo, a favore di un’interpretazione che vede le due visioni contribuire alla formulazione del concetto di paesaggio cognitivo. E’ anche a questa elaborazione del concetto di paesaggio che probabilmente si deve la crescente diffusione della cultura del paesaggio, sia esso inteso come sistema ecologico (comprendendo in questo termine la componente ambientale e quella antropica del territorio e le relative interconnessioni in quanto elementi di un unico ecosistema), o come espressione culturale, per il significato che si suole attribuire alla componente antropica (storica) del tipico paesaggio italiano. Insomma anche da noi, purtroppo con notevole ritardo rispetto a altri paesi europei, si comincia a capire che un paesaggio non è soltanto una bella cartolina ma ha un preciso significato ambientale,

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storico e culturale e la sua preservazione è alla base del mantenimento dell’identità nel nostro territorio. È un po’ tardi per un paese come l’Italia che ha costruito gran parte delle sua immagine proprio sul paesaggio, ma meglio tardi che mai. Ha aiutato non poco in questo senso la crescente consapevolezza tra la popolazione che il paesaggio visto alla luce delle nuove concezioni ha un elevato potenziale economico. Anche tra i non appassionati alla materia, infatti, si comincia a capire che il tipico paesaggio italiano, pur senza conoscerne le modalità di interpretazione, rappresenta un potente motore per un tipo di turismo, quello culturale, in grado di attirare milioni di persone tra cui la quota di stranieri appare senz’altro maggioritaria. È una scoperta che per molti, al di là di ogni altra valutazione, giustifica la preservazione del paesaggio nella stessa misura in cui la si pretende per i Beni Artistici. Se dunque è stato fatto un passo nella direzione giusta, resta ancora largamente irrealizzata la necessaria opera di divulgazione che trasmetta il nuovo pensiero da un ambito tutto sommato ancora di nicchia, al grande pubblico. In realtà, la divulgazione di una cultura del paesaggio è divenuta una necessità improrogabile con la ratifica della Convenzione Europea del Paesaggio (C.E.P.). Tra le novità espresse dalla C.E.P. vi è il coinvolgimento diretto della popolazione locale nella valutazione del paesaggio del proprio territorio. Si tratta senz’altro di un fatto di notevole importanza sul piano normativo, che tuttavia presuppone una conoscenza e una sensibilità verso il territorio di appartenenza che non sempre appaiono scontate.


paesaggi in gioco

GUIPA – Guide al Paesaggio d’Italia Purtroppo l’evoluzione che sta subendo il concetto di paesaggio nell’opinione pubblica italiana non sembra coinvolgere più di tanto l’editoria nazionale. La grande maggioranza delle pubblicazioni a carattere divulgativo che trattano di paesaggio insistono soprattutto sull’aspetto scenico, riducendo in pratica l’osservazione del paesaggio a quella di un bel panorama in cui spesso le stesse forme del territorio risultano poco visibili. Quando invece si parla di paesaggio in termini più appropriati, allora il tema compare spesso a margine di tematiche naturalistiche (flora, fauna, eccetera), a cui viene dedicata l’attenzione maggiore. Nell’ottica di ridurre questa importante lacuna informativa, nel 2004 chi scrive ha creato GUIPA Guide al Paesaggio d’Italia, un marchio registrato sotto cui realizzare una collana di pubblicazioni a carattere divulgativo concepite espressamente per far conoscere il territorio italiano attraverso la lettura e la comprensione del paesaggio. Dal punto di vista pratico si è trattato di creare un prodotto editoriale che traducesse in forma appetibile al grande pubblico l’approccio che lo studioso del territorio normalmente ha verso il paesaggio: una lettura finalizzata alla comprensione delle dinamiche naturali e umane la cui evoluzione e interazione hanno portato al territorio come oggi si presenta. Ogni guida è formata da un itinerario composto da una serie di punti panoramici (punti GUIPA) da cui si vede un paesaggio che presenta caratteri utili alla comprensione dell’assetto naturale e antropico (prevalentemente storico) del territorio. Per ogni punto GUIPA si riporta una cartografia di localizzazione, una foto panoramica del paesaggio

osservato e un testo che ne spiega in forma divulgativa gli elementi che lo compongono e le relazioni tra gli stessi. Applicando questa formula a una serie ragionata di punti GUIPA, al termine dell’itinerario proposto il fruitore della guida avrà modo di conoscere i principali caratteri del territorio attraverso l’interpretazione dei paesaggi osservati. Va sottolineato che la novità più che nell’impostazione editoriale consiste nel fatto che le guide GUIPA fungono da vero elemento di interazione tra il fruitore ed il territorio. In sostanza, le guide, dando riscontro diretto della realtà che circonda il fruitore, gli offrono la possibilità di calarsi nel paesaggio e quindi nel territorio.

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sostanza pronto per accogliere il messaggio che la collana si prefiggeva: capire le forme del paesaggio, la distribuzione dei suoi componenti e il rapporto che vige tra loro equivale a dare un significato alle forme naturali e scoprire come l’azione dell’uomo ha modificato l’ambiente naturale. A cinque anni dalla prima guida la collana conta sei pubblicazioni realizzate in quattro regioni italiane, e nell’anno in corso ha pubblicato le prime audiovideo guide elettroniche, chiamate GUIPA-SAT, fruibili con strumenti di telefonia mobile, realizzate sempre seguendo la filosofia e la struttura editoriale delle guide cartacee. Il progetto I PAESAGGI ITALIANI

Figura 1. Esemplificazione della possibilità di scaricare e utilizzare le guide anche sul posto attraverso un cellulare.

Ovviamente, data la natura totalmente nuova del prodotto editoriale, le incertezze erano molte e i conseguenti rischi d’impresa piuttosto alti. Fortunatamente fin dall’uscita della prima pubblicazione si è avuta l’impressione che il pubblico a cui ci si rivolgeva fosse recettivo, in

Nel corso del suo sviluppo, GUIPA ha esteso l’attività anche al di fuori dell'ambito editoriale in senso stretto, per realizzare alcune iniziative che si associano e si interconnettono con la collana stessa. Dei nuovi progetti, il più rilevante è la rappresentazione del paesaggio italiano finalizzata soprattutto, ma non solo, all'incentivazione di forme di turismo culturale. Nella pratica, questo progetto si esprime essenzialmente attraverso il sito www.guipa.it, con la sezione I Paesaggi Italiani. Scopo del progetto è quello di creare un quadro esaustivo e facilmente consultabile dei tipici paesaggi del territorio italiano, descritti seguendo la medesima filosofia che è alla base delle guide della collana Guide al Paesaggio d’Italia. Data la grande varietà di paesaggi che lo contraddistingue, il territorio italiano viene rappresentato tramite l'individuazione di singole "unità paesaggistiche" in

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cui si riconoscano quei caratteri che fungono da elementi chiave per la sua comprensione. Nella parte generale della banca dati, consultabile on-line, le singole unita paesaggistiche sono organizzate in una griglia in cui si riportano: un codice identificativo dell’unità paesaggistica, l’anteprima della foto panoramica, dati inerenti la localizzazione e l'accessibilità del punto di osservazione (punto GUIPA), la data di scatto della foto, le parole chiave del territorio rappresentato, le principali caratteristiche compositive del territorio rappresentato. Infine, qualora si desideri un maggior approfondimento d'informazione, se ne indica la possibilità di accesso tramite la consultazione dei prodotti editoriali: cliccando sull’apposito pulsante si entra nella sezione del sito che rende disponibile l’acquisto della guida elettronica GUIPA-SAT dell’unità paesaggistica in esame.

La lettura del paesaggio come strumento di turismo culturale

La guida è composta da una foto panoramica che ha la possibilità di scorrere sul monitor, un audio di circa quattro o cinque minuti in lingua italiana e inglese, che descrive in forma divulgativa i caratteri del paesaggio secondo le modalità adottate per gli altri prodotti GUIPA, le coordinate geografiche del punto di osservazione, eventuali informazioni generali di carattere turistico (punti di ristoro, eccetera). La foto panoramica presenta diversi richiami all’audio sottoforma di zone di interesse indicate con punti colorati; di queste zone si riporta il nome e, nei casi più interessanti, una foto di dettaglio. La guida può essere scaricata ed essere inserita sul proprio cellulare e/o visibile on-line sul PC. Le varie unità paesaggistiche sono raggruppate per aree geografiche, intese come parti del territorio italiano con caratteri paesaggistici tra loro assimilabili, ad esempio: Alpi, Prealpi, Pianura padana, Appennino, eccetera.

Figura 2. Il paesaggio del versante marittimo delle Alpi Apuane (TOa4).

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Le stesse unità paesaggistiche sono raggruppate anche per Regioni e per specifiche tematiche (storiche, ambientali, eccetera) che riguardano il territorio italiano e di cui il paesaggio è elemento di grande rilevanza, ad esempio: Via Francigena, Parchi Naturali, I Paesaggi del Gusto, eccetera. Entrando nel merito del criterio adottato per l’identificazione e la trattazione dei vari paesaggi, va specificato che, pur mantenendo un taglio decisamente divulgativo, ci si è ispirati sia all’analisi di tipo scientifico del paesaggio (inteso quindi come sistema di eco-sistemi), sia, seppur con minor frequenza, al concetto di paesaggio cognitivo, funzione quindi anche della conoscenza che l’osservatore ha degli elementi del paesaggio. Gli esempi che seguono aiuteranno a capire meglio questi due diversi approcci metodologici. Il paesaggio TOa4 rappresenta il versante marittimo delle Alpi Apuane. Qui il primo carattere paesaggistico messo in evidenza è il rapporto tra il profilo tormentato della catena e il colore delle rocce affioranti.


paesaggi in gioco

Si tratta di un carattere geomorfologico che evidenzia come diversi tipi di roccia, con diversi colori, generano diverse forme erosive, con diversi profili. Diversi tipi di roccia costituiscono anche altrettanti substrati in grado di ospitare associazioni vegetali tra loro completamente diverse. Le differenze dei caratteri litologici e vegetazionali danno luogo a sistemi ecologici distinti, ma in continua interconnessione. Di questa interconnessione fa parte anche la componente antropica del paesaggio: i paesi sono presenti solo dove affiorano formazioni in grado di generare un suolo suscettibile di coltivazione; dove invece la roccia è arido marmo, si riconoscono i segni delle escavazioni, sia sotto forma di cave, sia, più frequentemente, di discariche dei detriti prodotti dall’attività estrattiva (ravaneti). Figura 3. Il paesaggio della “Valle del Biologico” a Varese Ligure (LIc1).

Nel paesaggio LIc1 a costituire il maggior interesse, in pratica ciò che definisce la linea guida della lettura, non sono tanto gli elementi che si vedono, ma come questi possono essere percepiti dall’osservatore e quindi il significato che sono in grado di esprimere. I prati sono pascoli della cosiddetta Valle del Biologico di Varese Ligure, un territorio tra i più rinomati, anche a livello internazionale, per la produzione agro-pastorale con metodi biologici. Un indirizzo economico di tipo sostenibile che si riscontra anche nella presenza di due pale eoliche destinate alla produzione energetica (la foto è di qualche anno fa e ora le pale sono quattro). Applicando l’approccio cognitivo, chi osserva il paesaggio è in grado di comprendere la sensibilità ecologica di chi quel territorio abita e amministra, a prescindere da valutazioni di carattere estetico sull’opportunità o meno di installare gli aerogeneratori.

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Date le finalità commerciali della banca dati, mentre la consultazione on-line della sua parte generale è gratuita, l’accesso alle informazioni oggetto della produzione editoriale è a pagamento. A fine giugno 2009 la banca dati conteneva duecentouno unità paesaggistiche identificate in sette regioni italiane; di queste una cinquantina erano già state descritte ma non ancora pubblicate e ventidue disponibili sotto forma di guida elettronica. Le guide sono acquistabili in pacchetti preconfezionati per aree geografiche e/o tematiche (Guide Itineranti) o singolarmente (Singoli Paesaggi). Ciò per offrire sia itinerari di validità generale, sia la possibilità di creare percorsi personalizzati. In un prossimo futuro a questa soluzione si affiancherà la possibilità di stipulare un abbonamento per accedere a un’area riservata in cui sarà possibile visionare direttamente sul proprio PC e senza costi aggiuntivi tutte le guide pubblicate.

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La possibilità di inserire le guide nel proprio cellulare è rivolta a coloro che intendono effettuare fisicamente la visita sul terreno. In questo caso il telefono sostituisce il supporto cartaceo, offrendo un cospicuo magazzino dati in uno spazio ridotto (una guida per singola Unità Paesaggistica occupa meno di un megabyte di memoria). La visione su PC consente invece un viaggio virtuale, che può essere preparatorio alla visita sul campo, ma anche fine a sé stesso e quindi fruibile a distanza da ogni accesso a internet. Conclusioni Al di là dell’aspetto economico, che potrebbe essere limitato o eliminato del tutto dall’intervento pubblico, riteniamo che il progetto abbia un potenziale enorme per l’Italia, sia in termini di immagine, che in termini di promozione turistica a livello mondiale, uno strumento che attualmente nessun altro paese al mondo è in grado di vantare. Infatti, offrendo una rete di punti panoramici territorialmente, ma anche culturalmente, connessi tra loro, si vuole proporre un percorso che non trovi fine se non nell'esaurimento dello stesso, a completamento della visita a tutto il territorio nazionale. Un percorso in cui si enfatizza il collegamento tra paesaggio e ambiente, cultura, gastronomia locali, portando alla chiusura del cerchio, dove i numerosi aspetti di elevato interesse si valorizzano l'un l'altro in una visione olistica del territorio. In quest'ottica il paesaggio diviene il primo elemento di attrazione per il viandante-turista, lo stimolo che induce a una visita approfondita e capillare dell'intero territorio, anche di quelle parti non osservabili direttamente nella scena panoramica.

La lettura del paesaggio come strumento di turismo culturale

In realtà l'archivio-censimento in via di realizzazione può trovare diverse applicazioni anche al di fuori dell'ambito turistico. Ad esempio, il fatto che i panorami siano georeferenziati e provvisti di data di scatto potrebbe costituire una base per il monitoraggio dell'evoluzione paesaggistica del territorio. Il progetto potrebbe essere impiegato nella didattica, a vari livelli di approfondimento, e una certa utilità si potrebbe avere anche nelle fasi iniziali della programmazione dell’uso del territorio per facilitare la comprensione delle aree su cui si intende operare. Infine, qualora diventasse una realtà economica importante, il progetto sarebbe in grado di offrire non poche opportunità di lavoro. La mole di informazioni necessarie alla sua realizzazione associata al fatto di interessare tutto il territorio italiano, richiede l’impiego di numerosi collaboratori sia in fase di identificazione e descrizione delle unità paesaggistiche, sia negli aggiornamenti che di volta in volta si renderanno necessari. E’ anche in funzione di questa necessità che, sempre nell'ambito di GUIPA, si organizzano corsi di lettura del paesaggio. Scopo delle iniziative è di trasmettere con un taglio divulgativo e pertanto accessibile a tutti coloro che abbiano interesse all'argomento i concetti di base per la lettura e l'interpretazione del paesaggio come strumenti per la scoperta del territorio.

Riferimenti iconografici Tutte le foto sono state realizzate nell’ambito di GUIPA e sono coperte dal relativo © Copyright.

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Testo acquisito dalla redazione nel mese di luglio 2009. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.


paesaggi in gioco

Il paesaggio, sfondo scenografico o realtà geografica da gustare nel turismo enogastronomico

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The landscape, scenographic background or geographic reality to taste in the wine and gastronomic tourism

Erica Croce e Giovanni Perri *

abstract Il paesaggio rappresenta l’enciclopedia primaria del nostro sapere. Il differente grado di appeal turistico delle destinazioni e dei prodotti tipici di diversi territori è sempre più legato alle sensazioni che ciascuna persona (abitante o semplice visitatore) percepisce, legando a quella esperienza sentimenti e piacere di appartenere a quel luogo. Nel turismo enogastronomico il paesaggio assume poi una connotazione ancor più coinvolgente, perché il turista - attraversandolo e scoprendolo lo assapora con tutti i 5 sensi.

abstract The landscape is the primary encyclopaedia of our knowledge. The different grade of touristic appeal for different destinations and typical products depends on the sensations of everyone (inhabitant or tourist). Every subject links his experience with the pleasure to belong to that place. In the wine and gastronomic tourism the landscape is more interesting because the tourist tastes it with all five senses, crossing and discovering the different places.

parole chiave Turismo, Paesaggio, Percezione, Cultura, Abitante e turista.

key-words Tourism, Landscape, Inhabitant and tourist.

Perception,

Culture,

* MERIDIES, www.meridies.net.

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Il paesaggio riflette il “senso” del territorio in sé rappresentato: offre in modo fotografico e sincronico la sua capacità di trovare una forma di regolamentazione identitaria del proprio assetto. Presenta i segni di un divenire diacronico raccontato dall’evoluzione di fenomeni generatisi al suo interno e dall’integrazione più o meno assimilata di elementi provenienti dall’esterno, con cui inevitabilmente scambia modelli e fenomeni. Dispiega una scenografia su cui proiettare le azioni di pianificazione futura, spesso irreversibili, nel segno della mediazione con la tradizione o dell’innesto più o meno creativo di novità. Il paesaggio è la vera riserva umana di qualità della vita: grazie all’interdisciplinarità del rapporto tra significanti e significati racchiuso nella sua proiezione di complessità geosistemiche sensibili, costituisce l’enciclopedia primaria del nostro sapere; attraverso i valori insieme intrinseci e soggettivi che esprime in ogni segno, è artefice della nostra consapevolezza civica e della nostra maturità affettiva; le sensazioni suscitate alla sua percezione declinano sentimenti e piacere di appartenenza ad esso, e dunque avvalorano l’esperienza trascorsa in esso di residenti o passanti. «Quando ci troviamo davanti a un paesaggio che per la sua grandiosità ci colpisce e ci supera, la sensazione di piacere che proviamo deriva anche da un moto di appartenenza. Vogliamo esserne parte. Far parte di una sorta di unità con quello che vediamo, un’apparenza di totalità che in quell’istante sentiamo armonica1»: le parole di Tullio Pericoli fissano chiaramente l’essenza di una “residenzialità affettiva” legata alla bellezza del paesaggio.

Il paesaggio, sfondo scenografico o realtà geografica da gustare nel turismo enogastronomico

assapora con tutti i cinque sensi i territori e le loro produzioni. «Perché - citando Soldati2 - fare sul serio la conoscenza di un vino non significa affatto, come forse si crede, assaggiarne due o tre sorsi, o anche un bicchierotto. Significa innanzitutto, sulla località precisa e ben delimitata dove si pigia il vino che vogliamo conoscere, procurarsi alcune fondamentali nozioni geologiche, geografiche, storiche, socio-economiche. Significa, poi, andare sul posto, e riuscire a farsi condurre esattamente in mezzo a quei vigneti da cui si ricava quel vino. Passeggiarvi, allora, in lungo e in largo.

Figura 1. Palme e vigne a Napa Valley.

Questo è uno degli aspetti di maggior peso ponderale (insieme magari al prezzo) nella determinazione del grado di appeal turistico delle destinazioni e dei prodotti turistici, specialmente quelli legati a segmenti di tipo culturale. Vacanza dunque come esperienza di vita, in cui il turista culturale vuole vivere anche il cosiddetto “mito del Deserto”, ovvero l’emozione di sentirsi abbagliato dall’armonia estetica o dalla forza comunicativa di un paesaggio, prodotta non solo dai miraggi nello sconfinato mare di sabbia, ma anche da una collina ammantata di viti, da un appezzamento di olivi secolari, da un prato con capi di bestiame al pascolo ... Nel turismo enogastronomico il paesaggio assume poi una connotazione ancor più coinvolgente, in quanto rappresenta uno dei filtri principali attraverso cui il turista realmente motivato

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Figura 2. Paesaggio secondo le annate.

interno:

i

colori

dell’Armagnac

E studiare, intanto, la fisionomia del paesaggio intorno, e la direzione e la qualità del vento; spiare sulla collina l’ora e il progredire dell’ombra; capire la forma delle nuvole e l’architettura delle case


paesaggi in gioco

coloniche; ancora di più, significa conversare con la persona che presiede alla vinificazione, proprietario enologo fattore... Significa passeggiare a lungo anche nelle cantine, sottoterra, o nei capannoni, fra le vasche di cemento: scrutare le connessure tra le botti, fiutare l’odore del vino che ancora fermenta, individuare la presenza talvolta dissimulata, di apparecchi refrigeranti o, peggio, pastorizzanti: infine, assaggiando, in paziente, lenta alternativa, e con frequenti intervalli, paragonare l’uno all’altro i sapori delle annate». Il modello di viaggio/soggiorno enogastronomico si snoda lungo un percorso compreso sostanzialmente tra due poli estremi: il prodotto di qualità (un cru, un prodotto tipico, un presidio Slow Food, un prodotto a marchio geografico Dop, Doc ecc.) e lo spazio geografico in cui esso si genera. I contenuti di questo tipo di esperienza turistica vengono però definiti solo se si prevedono soste nei 4 nodi concettuali di terroir-milieu-territorio-paesaggio. Non importa l’ordine di analisi né il senso della direzione adottato lungo il percorso, quanto piuttosto riuscire a costruire collegamenti logici organici tra tali quattro “termini di tappa” che sanno svelare l’affascinante e complicato intrigo di fattori geografici, architettonici, sociologici, antropologici, economici… connessi a questa tipologia di turismo integrato. Se interpretati con il giusto approccio interdisciplinare e interattivo, essi rappresentano il prerequisito imprescindibile per la pianificazione territoriale e/o aziendale da parte di un amministratore o di un operatore del settore e costituiscono motivo di piacere per chi viaggia. Il paesaggio, in questo itinerario strategico e tematico, rappresenta l’aspetto contenutistico più importante poiché racchiude in sé, come già accennato, gli elementi-significanti delle altre tre “stazioni” concettuali enogastronomiche e ne

filtra/asseconda la percezione/consapevolezza. Il terroir, inteso come tutto l’insieme di funzioni e di relazioni espresse, nell’ambito compreso tra atmosfera, suolo e sottosuolo, in uno spazio limitato caratterizzato da una chiara localizzazione e posizione geografica: una sintesi di aspetti geomorfologici, pedologici, agronomici, meteorologici... ma anche umani e culturali ampliati dal significato congiunto di territorio (visto come spazio modificato dall’uomo) e di milieu (ovvero patrimonio comune, identità collettiva di un luogo).

Figura 3. Vigne nel villaggio di Puligny Montrachet, Borgogna.

Il paesaggio, dunque, in quanto aspetto direttamente percepibile e più ampiamente sensibile del sistema territoriale, risulta un elemento fondamentale nella valutazione dell’esperienza turistica. Il paesaggio è una realtà culturale, è il risultato del lavoro umano, il riflesso

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delle differenti pratiche antropiche sulla natura; ed è anche un oggetto di osservazione, di consumo e di speculazione. Anche nel turismo enogastronomico, che sembrerebbe essere una forma di “uso” dei luoghi a fini di leisure più rispettosa dell’identità territoriale socio-economica e scenografica (sulla quale basa sostanzialmente il suo successo), le minacce di omologazione, standardizzazione, banalizzazione, “ingressione” di aspetti urbani “impropri” incombono sull’infinità varietà geomorfologica, antropologica, culturale e produttiva che almeno l’Italia annovera. Ciò avviene anche nelle terre dell’eccellenza. Si pensi al consumo spregiudicato delle risorse; alle speculazioni edilizie nell’equilibrio delicato di contesti rurali; al cambio della funzione d’uso (da agricola a turistica) di molte dimore d’epoca, esempi di architettura ormai svuotati dell’originario merito; oppure alla prepotenza dell’estensione di alcune colture (vigneti) a danno di boschi o di altre colture locali, magari meno redditizie; ai problemi sul tessuto socio-economico ospitante legati all’impennata del valore di rendita o ai processi di spiazzamento e monocoltura economici; ai rischi di perdita di identità sociale, o a quelli di deterritorializzazione o de-regionalizzazione legate a forme autorizzate di colonizzazione economica. Son tutti fenomeni che violano la carrying capacity dei luoghi e che inevitabilmente si imprimono nel paesaggio. Si potrebbe affermare che non c’è paesaggio senza osservatore. La sua interpretazione è la chiave di volta per la sua gestione emotiva (in viaggio) e di pianificazione (“in ufficio”). L’obiettivo è quello di accrescere il più possibile la consapevolezza del vissuto, cogliere la personalità e l’irripetibile identità dei luoghi, stimolare comportamenti responsabili, godere appieno delle esperienze,

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anche turistiche, magari partendo dai sensi sollecitati dalla degustazione di alcuni cibi. In queste direzioni il turismo enogastronomico, se ben progettato, gestito e vissuto nell’ottica dell’integrazione tra cibo, viaggio, territorio, cultura e introspezione, aiuta molto. « Il vero viaggio, in quanto introiezione d’un “fuori” diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura (non solo le diverse pratiche della cucina e del condimento ma l’uso dei diversi strumenti con cui si schiaccia la farina o si rimesta il paiolo), facendolo passare per le labbra e l’esofago. Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona (…)3».

Figura 4. Dublino dal bar panoramico dello Storehouse Guinness.

Il paesaggio, sfondo scenografico o realtà geografica da gustare nel turismo enogastronomico

Spesso il paesaggio è considerato (oppure preteso) dai turisti come semplice scena di sfondo o come atmosfera non familiare o stereotipata, in cui però bisogna essere immersi perché il giudizio sulla vacanza trascorsa sia positivo. Nel turismo culturale ed enogastronomico ciò non basta: il paesaggio e il territorio devono essere visitati e interpretati; devono essere fisicamente e psicologicamente introiettati, assimilati. La difficoltà di questo processo risiede nel trasformare la risorsa enogastronomica in prodotto turistico, ovvero nella capacità di strutturazione strategica delle esperienze di visita nelle varie destinazioni. Anche nelle pratiche di marketing aziendale e territoriale il paesaggio deve rappresentare un’opzione tematica imprescindibile per la costruzione di un prodotto organico, più coerente possibile con il contesto geografico in si inserisce.

Figura 6. Hiking verso il monte Amiata.

Figura 5. Piscina panoramica in un bananeto di un’azienda agrituristica a Gran Canaria.

L’industria delle vacanze, seppur al servizio di bisogni sociali di svago e relax, deve mediare, soprattutto in ambito enogastronomico, tra l’offerta di occasioni funzionali al benessere personale e un’attenzione alle esigenze di ricerca culturale e interiore e di rispetto territoriale che vada al di là dell’esigenza di autoaffermazione da parte dei clienti. Questo può funzionare meglio se si ottimizza l’uso della leva-paesaggio: il paesaggio modula l’appeal, regola la funzione estetica del soggiorno, comunica valori, crea immagine e costituisce, come già detto, il primo passo verso l’analisi critica del territorio e della propria esperienza di vita in determinati luoghi. Le strategie di offerta di prodotti turistici organizzate in relazione al sistema territoriale di riferimento - curando per esempio l’interfaccia tra atmosfera interna e ambiente esterno - riescono ad attirare il cliente, a veicolare un messaggio, a

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stimolare reazioni, a creare stati d’animo geografici (il profumo del mosto in periodo di vendemmia, le vetrate dell’area degustazione aperte sul paesaggio, lo stile antico o contemporaneo dell’immobile comunque contestualizzato, gli arredi o i colori delle pareti che si ispirano alle tonalità del paesaggio, il silenzio, la quiete che favorisce il relax, il calendario di escursioni guidate nei dintorni ...). Al di là dell’utilità di certificazioni ambientali o di procedure gestionali e di servizio, la qualità turistica si basa molto sul momento del contatto con il territorio-destinazione (l’arrivo nella destinazione) e sull’impatto con il paesaggio che ha valenze emozionali intrinseche, dovute a esperienze sensoriali, conoscenza, condivisione del piacere, determinate appunto dall’incontro con le risorse, la cultura, l’autenticità, la genialità, la bellezza, il gusto, lo spirito del luogo. A questo contribuiscono moltissimo le architetture (di stabilimenti produttivi, strutture ricettive, centri di accoglienza turistica o congressuali...) che abbiano, in maniera diversa, la capacità di inglobare il paesaggio negli edifici e farlo proprio, comunicandolo così più adeguatamente, facendolo “vivere e respirare” a turisti, dipendenti e residenti in genere. In molte situazioni si esplicita un valore aggiunto dell’immobile dato dalla sua appartenenza a un particolare stile artistico o dalla firma di un bravo architetto; dall’impiego di pregiata pietra locale o di materiali innovativi; dal disegno delle forme in continuità con la tradizione o di rottura rispetto essa, ma pur sempre all’interno di un discorso logico e creativo di equilibrio e di valenza paesaggistica. Nell’architettura di questi edifici e nel valore delle cose in essi contenute si identificano i luoghi di produzione, e si offre una valenza (anche turistica) che integra, per esempio,

le produzioni alimentari paesaggio del luogo.

con

paesaggi in gioco

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la

Anche un particolare architettonico, un oggetto d’arredo o un semplice dettaglio - come l’utilizzo di illuminazioni, musiche di sottofondo o di colori e materia che ripropongano il terroir - possono regalare al visitatore un’esperienza di visita fatta non solo di tecnica della degustazione, ma anche di atmosfere e suggestioni paesaggistiche. Questo può accadere anche grazie alla sensibilità di professionisti che non siano geografi, designer o architetti, di persone che applicano a scala geografica le proprie abilità non necessariamente corografiche o topografiche: si pensi ad esempio allo sforzo di ricercare il paesaggio in un orticello o in un chiostro ornato da un giardino di essenze oppure ancora alla genialità culinaria di riprodurre un “micro-paesaggio” in un piatto che riproponga suggestioni di colori, odori e gusti che rappresentino un tributo alla terra di provenienza degli ingredienti usati.

cultura

e

il

Figura 7. Frank O. Gehry e il paesaggio della Rioja D.O. a Marqués de Riscal.

Nei tanti casi ormai forniti dal mondo del vino, alcune cantine rievocano la memoria storica di paesaggi antichi (inserite in castelli medievali, dimore nobiliari o tipiche – palazzi, bagli, masserie, ville venete...), altre paesaggi di guerra (poiché ricavate da bunker degli ultimi due conflitti mondiali), altre richiamano tematiche ambientali contemporanee (realizzate con tecniche di bioarchitettura...) o sollecitano nel visitatore immaginari più o meno fantastici (anticipando le tendenze del domani attraverso ardite soluzioni di design come bolle sospese, torri, vele, forme astratte...), alcune sono letteralmente radicate nel “culto” della geologia o della geomorfologia del posto (scavate nel calcare o nel tufo, o invisibili ventri di colline o ancora riflessi di situazioni morfotettoniche del paesaggio circostante riprodotte dalla forma del tetto), altre sono un inno all’arte contemporanea (in quanto pensate come contenitori anche di opere di artisti di vario genere), alcune infine con la memoria dei paesaggi industriali trascorsi (grazie al riuso di capannoni o altri manufatti produttivi dismessi).

Figura 8. Micropaesaggio dei lukumi nelle vetrine: i colori di Istanbul.

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Il turismo enogastronomico dovrebbe aiutare ad assaporare lo spirito del luogo, attuando una vera e propria “cattura” di atmosfere e paesaggi rurali, montani, costieri o urbani che cerchi di superare quanto di museificato, iconico o folcloristicamente banale avviene nei territori più esposti agli effetti negativi del turismo. Può rappresentare dunque una valida occasione per far comprendere meglio quanto l’imprescindibile valore identitario per uomini e territori sia legato al “peso” del paesaggio in quanto rappresentazione di vitalità e funzionalità integrata ambientale, sociale ed economica.

Il paesaggio, sfondo scenografico o realtà geografica da gustare nel turismo enogastronomico

Testo acquisito dalla redazione nel mese di giugno 2009. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

1

Dalla mostra SEDENDO E MIRANDO, i paesaggi (dal 1966 al 2009): Ascoli Piceno - Galleria d’Arte Contemporanea, 21 marzo – 13 settembre 2009. 2 MARIO SOLDATI, Vino al vino, Mondadori, Milano 2006, pag.16 (I edizione Libri Illustrati, 1977). 3 ITALO CALVINO, Sotto il sole giaguaro, Mondadori, Milano 2006, pag.33 (I edizione: Garzanti, Milano 1986).

Riferimenti bibliografici CROCE ERICA, PERRI GIOVANNI, Il Turismo Enogastronomico. Progettare gestire vivere l’integrazione tra cibo, viaggio, territorio, Franco Angeli, Milano 2008. NUTI G., Paesaggi, Pontecorvoli, Firenze 1998. QUAINI MASSIMO, L’ombra del paesaggio, Diabasis, Reggio Emilia 2006. TURRI EUGENIO, Semiologia del paesaggio italiano, Longanesi, Milano 1979. TURRI EUGENIO, Il paesaggio come teatro, Marsilio, Venezia 2006. VALLEGA A., Le grammatiche della geografia, Patron, Bologna 2004. ZERBI MARIA CHIARA, Il paesaggio rurale: un approccio patrimoniale, Giappichelli, Torino 2007.

Riferimenti iconografici Figure 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 8: Meridies. Figura 7: Ufficio stampa Marqués de Riscal.

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libri

Slow Travel: in viaggio con l’asino

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Slow travel: a journey with a donkey

Silvia Mantovani*

abstract In viaggio con l’asino è un diario di bordo scritto a quattro mani da Andrea Bocconi e Claudio Visentin, che oltre a raccontare le disavventure di umani ed animali lungo un antico percorso nel cuore dell’Abruzzo, rievoca il leggendario viaggio con l’asino nelle Cévennes di Robert Louis Stevenson, fornisce utili asinerie - indicazioni pratiche e filosofiche per rapportarsi con gli asini -, ma soprattutto suscita considerazioni trasversali in tema di viaggi, territori, identità e paesaggi. Una lezione interessante, che invita alla riflessione attraverso molteplici piani di lettura: dietro al semplice libro di letteratura di viaggio, che affascina, diverte, incuriosisce, sono infatti molti gli spunti importanti che affiorano in filigrana, e che riguardano alcune delle questioni più attuali in tema di paesaggio.

abstract In viaggio con l’asino (A journey with a donkey) is a travel book written by Andrea Bocconi e Claudio Visentin, which describes the adventures of humans and animals along an ancient path in the heart of Abruzzo, as well as recalling the legendary travels with a donkey in the Cévennes don by Robert Louis Stevenson, providing useful informations - practical and philosophical suggestions to manage donkeys – but above all promoting remarks about travelling, territories, identities and landscapes. This is an interesting lesson, wich invites to reflect on different readings: behind a simple travel book, that fascinates, amuses and intrigues, there are many important ideas that emerge in the watermark. They concern some of the most pressing issues about landscape.

parole chiave viaggio, paesaggio, asino, slow travel

key-words journey, landscape, donkey, slow travel

* Università degli Studi di Firenze, Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica. silvia.mantovani@unifi.it

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È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo. […] La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo. FERNANDO PESSOA1

Se è vero, come sostiene Pessoa, che il viaggio sono i viaggiatori, cosa succede quando un professore universitario di Storia del Turismo e un exprofessore di liceo, oggi scrittore-psicoterapeuta, decidono di mettersi in cammino? Che come minimo il viaggio sarà stravagante, epico, e per questo “del tutto privo di ragioni che gli altri possano comprendere”2. Tanto più se il mezzo scelto per viaggiare è l’asino. “Tutto ha avuto inizio “ tenta di spiegare Claudio Visentin, ideatore dell’avventura “leggendo il Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino di Robert Louis Stevenson”3. Ma è “una spiegazione che non spiega”, e le motivazioni vanno forse cercate nella stanchezza di una quotidianità fatta di “vouyerismo turistico”, di giornate passate al computer a recensire libri di viaggio, “immerso in geografie e avventure altrui”4. Andrea Bocconi, invece, l’altro protagonista dell’avventura, non è estraneo ai viaggi stravaganti: qualche anno fa era partito concedendosi un anno per fare “il giro del mondo in aspettativa”5. Alla proposta di Visentin accetta dunque d’impulso, limitandosi ad osservare che, in fondo, “un professore e un asino sono una coppia naturale”6. Ai due intellettuali e ai due asini si aggiungono infine due bambini (i figli dei protagonisti, che asini non sono, ma li capiscono meglio dei professori), a

Slow travel: in viaggio con l’asino

completare la comitiva e il curioso, caleidoscopico gioco delle parti. In viaggio con l’asino L’esito di questa stravagante impresa è divenuto un interessante diario di viaggio scritto a quattro mani, che oltre a raccontare le disavventure di umani ed animali, rievoca il leggendario viaggio di Stevenson, fornisce utili asinerie - indicazioni pratiche e filosofiche per rapportarsi con gli asini -, ma soprattutto suscita considerazioni trasversali in tema di viaggi, territori, identità e paesaggi. Ma perché proprio l’asino? Questo animale, infatti, non è particolarmente bello: “Dio deve averlo creato in un momento di distrazione (o di buonumore), probabilmente mentre si congratulava con se stesso per aver creato il cavallo” 7. Per tradizione non è neppure troppo intelligente, o quanto meno non troppo disciplinato. Anche l’etimologia non è dalla sua parte: “il termine latino asinus potrebbe essere una contrazione di animalsine-sensu (a-si-nus), cioè «animale senza sentimento»”8. Certo è però che l’asino è stato a lungo utilizzato come cavalcatura, come normale mezzo di trasporto in molte regioni del mondo, specialmente in quelle più povere e disagiate. L’utilizzo di cavalli e carrozze, e poi dei treni, delle moderne automobili e degli aerei, è infatti acquisizione relativamente recente nella storia dell’uomo. Ma come spesso accade, la modernità, in omaggio alla tecnologia, ha presto cancellato le tracce di un passato obsoleto. Gli asini sono così divenuti oggi “creature poco in linea con i tempi, l’immagine di

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Figura 1. La copertina del libro di Andrea Boccioni e Claudio Visentin, “In viaggio con l’asino”.


libri

un passato povero e rurale, da lasciarsi alle spalle prima possibile”9. Tanto che il loro numero è estremamente diminuito, fino a far temere, agli inizi degli anni Novanta, la loro estinzione. Fortunatamente, una recente inversione di tendenza, ha visto la nascita di numerose associazioni per la tutela e la valorizzazione degli asini, che hanno iniziato una seconda vita sia come animali da compagnia, sia come ausili in terapie psicologiche per bambini disabili o in difficoltà, sia come mezzo di trasporto per trekking sostenibili. Quello che gli asini offrono in tema di turismo, è infatti “un viaggio a bassa, bassissima velocità” per nuovi turisti rispettosi dell’ambiente, del paesaggio e della cultura del territorio. La velocità media è di circa 2,5 chilometri all’ora: un po’ meno di una normale passeggiata a piedi. Ma la media per gli esseri viventi, a differenza delle macchine, è un dato poco significativo: gli asini possono procedere di buon passo per lunghi tratti, e poi fermarsi irrevocabilmente per ore. Inoltre, una delle maggiori attrattive del viaggio, è il corso intensivo di mezza giornata per diventare esperti asinai. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’asino non serve per trasportare i viaggiatori, in genere troppo pesanti per la povera schiena di questo animale, ma il bagaglio: è quindi indispensabile innanzi tutto imparare a montare il basto. Inoltre, benché sia necessario imparare a guidarlo, a differenza di un’auto, o di una mountain bike, ogni asino ha la propria personalità, che è bene conoscere prima di partire. Il viaggio inizia quindi all’insegna della lentezza: non solo per la velocità ridotta, ma perché, come sottolineano gli autori “quello dell’asinaio sarà un mestiere facile, ma è pur sempre un mestiere; e

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come tutti i mestieri si impara con pazienza e umiltà”10. Slow tourism, identità e paesaggi Il viaggio con l’asino, il turismo lento, è un modo antico di viaggiare, fatto per chi pensa che non servano mete esotiche per ritrovare il gusto dell’avventura, o che non sia necessario andare lontano per scoprire nuovi mondi. Per chi, cioè, per dirla con William Blake, è ancora capace di “vedere un mondo in un granello di sabbia e un paradiso in un fiore selvatico, tenere l’infinito nel palmo della mano e l’eternità in un’ora”11. Visentin e Bocconi per la loro epica avventura hanno dunque scelto un antico sentiero d’Abruzzo, da Tagliacozzo a Celano: una intera settimana per percorrere un tragitto che, con l’auto, sulla vicina autostrada, si copre in poco meno di mezz’ora. Non è certo la lunghezza del percorso, infatti, a fare il viaggio. “Mi piace l’idea che la meta sia vicina”, scrive Visentin, e per spiegare la sua scelta cita un bellissimo passo dal breve testo di Thoureau Camminare: “Una prospettiva assolutamente nuova rappresenta una grande felicità, che può venire colta in qualsiasi pomeriggio. Due o tre ore di cammino mi possono condurre nel luogo più straordinario che mi sia mai accaduto di ammirare. Una fattoria isolata, mai vista prima, può avere lo stesso fascino dei domini del Re del Dahomey. Ed effettivamente è possibile scoprire una sorta di armonia tra le risorse di un paesaggio entro un raggio di dieci miglia, o i limiti di una passeggiata pomeridiana, e i settant’anni della vita umana. Né gli uni né gli altri vi diverranno mai troppo familiari”12.

Figura 2. Il viaggio ha ripercorso un antico tracciato, nel cuore dell’Abruzzo, che unisce Tagliacozzo a Celano.

Un viaggio lento, inoltre, permette di visitare diversamente i luoghi senza lasciarsi travolgere dalla necessità di vedere tutto e subito. Uno slow travel inizia infatti molto tempo prima della partenza. Nasce, cresce, si nutre di informazioni e dubbi, poi rallenta e spesso cambia direzione, costringendo a scegliere un'altra meta rispetto a quella prefigurata. E’ un viaggio libero, talvolta povero, in cui il percorso prima della partenza è spesso piacevolmente più lungo e avventuroso di quello effettivo. La preparazione, l’attesa, sono metà del viaggio: poi c’è la partenza, ma, come sempre accade, solo la strada è maestra. Oggi, invece, il viaggio è sempre più spesso sinonimo di velocità: si può andare ovunque, in poco tempo, decidendo pochi minuti prima, grazie ai last minute, partenza e destinazione. La lontananza costituisce di per sé un valore aggiunto, e la meta accentra su di sé tutte le aspettative, azzerando il valore del percorso. Bocconi e Visentin provano a porsi fuori dalle logiche di un turismo veloce e vorace, tentando di riscoprire il gusto di percorrere le strade, senza sfrecciarvi attraverso, ma guardando quello che c'è

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intorno, provando cioè a recuperare un viaggio a passo d'uomo. Per questo In viaggio con l’asino è una lezione interessante, che invita alla riflessione, attraverso molteplici piani di lettura: dietro al semplice libro di letteratura di viaggio, che affascina, diverte, incuriosisce, sono infatti molti gli spunti importanti che affiorano in filigrana, e che riguardano alcune delle questioni più attuali in tema di paesaggio. L’asino, quindi, non costituisce solo un bizzarro mezzo di locomozione, ma cambia l’intera prospettiva del viaggio. Innanzi tutto, scegliendo un percorso lento, dandosi il tempo di vedere e capire, è possibile andare oltre i propri pre-giudizi e le immagini da cartolina, cogliendo il senso del territorio attraversato, che spesso diverge, talvolta sorprendentemente, da fantasie e aspettative.

Figura 3. Claudio Visentin con l’asino Nino (disegno di Stefano Faravelli)

Slow travel: in viaggio con l’asino

Quando il viaggio virtuale, sognato e segnato sulla carta, pian piano prende corpo, infatti, i nostri viaggiatori si scontrano subito con la realtà. Prima con le condizioni meteorologiche, che non sono esattamente quelle sognate, poi con le indicazioni errate, infine con il fango e la stanchezza. I viandanti iniziano allora a vacillare, inconsciamente delusi, forse già pentiti. La montagna, il paesaggio incontaminato, la natura amica, i simpatici animali: tutto diventa ostile. La prima lezione che bambini e professori sono quindi costretti ad imparare, è che in un contesto naturale, lontano dalla civiltà, le gerarchie possono essere capovolte: l’esperienza prevale sulla tecnologia, e tra uomo ed asino non è più così chiaro chi insegna e chi impara, chi traccia la strada e chi la segue. La campagna, poi, che dall’autostrada sembra solo un bel paesaggio indistinto, attraversata lentamente, con attenzione, rivela tutte le contraddizioni del nostro tempo. Ovunque giacciono tracce di una civiltà contadina, si attraversano campi coltivati, si incontrano greggi e rari pastori. Ma i paesi sono ormai vuoti, desolati: aperti solo il sabato e la domenica, per i pochi turisti di passaggio. Alcuni anziani resistono, come in esilio, i giovani se ne sono già andati da un pezzo. In mezzo a tanta desolazione, si iniziano però ad incontrare nuovi abitanti: sono “i nuovi migranti interni, quelli che abbandonano la città e portano in campagna un’altra cultura: gruppi d’acquisto, ecologia, ricerca interiore”13. Si potrebbero definire i cugini di quelli che Pierre Donadieu ha chiamato, in ambito urbano, “gli abitanti paesaggisti”14, portatori di un'idea diversa di natura, di relazioni e di comunità, contro le omologazioni e le generalizzazioni del nostro tempo. Sono migranti di ritorno, talvolta vittime, più spesso semplicemente cittadini

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delusi dai sogni urbani, da logiche unicamente funzionali o economiche, che tornano in campagna, ma la abitano con una nuova consapevolezza, una diversa cura ed un maggiore rispetto, concedendosi l’odierno lusso che è una vita povera per scelta, e non per necessità. Un’altra scoperta che offre il viaggio lento, è la miriade di opere d’arte minori, non contemplate da guide e tour operator, di cui è costellato il nostro territorio. Importanti non solo per il loro valore artistico, ma anche, e soprattutto, per il carattere identitario che rivestono per le popolazioni locali. Dietro ognuna di esse, infatti, c’è spesso un toponimo, che le radica alle origini del luogo; una leggenda, che ne amplifica l’importanza; una tradizione, che ne rinnova il senso nel tempo. Bocconi e Visentin si incantano ad esempio davanti alla chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta, “un capolavoro di semplicità”, la cui facciata asimmetrica “è perfettamente armonica, perché l’inclinazione del tetto è la stessa dei clivi del Monte Velino che domina la valle”15. Il toponimo della valle è oscuro, ma c’è chi pensa derivi semplicemente dal fatto di essere “luogo selvaggio adatto all’allevamento di porci”16. La leggenda, invece, è più poetica, e parla di un merlo che, beccando l’intonaco, scopre il volto dipinto di una madonna antica, che diviene subito oggetto di venerazione. Ma ciò che tiene ancora in vita il luogo, è “la processione di Pasqua da Rosciolo, un momento in cui si perdonano i torti e si sanano inimicizie antiche e nuove”17. Sono questi i presídi sconosciuti, che più di leggi e vincoli contribuiscono a tenere in vita e a preservare quelli che la Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) ha definito i paesaggi della quotidianità18. La custode di questo tesoro dimenticato è una vecchia signora di settantotto anni: Costanza. E’ lei


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che “prepara per i matrimoni, pulisce, fa da guida a chi arriva fin qui. Fino all’anno scorso veniva a piedi dal paese, ma ora le fanno male le ginocchia”19. E’ Costanza che si è fatta carico della cura della memoria e dell’identità dei suoi compaesani, sicuramente ignara del fatto che la CEP ha stabilito nel preambolo che “il paesaggio rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione comportano diritti e responsabilità per ciascun individuo”20. Ma come chiosa giustamente Bocconi: “le cose funzionano quando c’è una comunità fatta di persone volenterose, che non aspetta tutto dalle istituzioni. Sono le Costanze che tengono aperti i monumenti, in mezza Italia”21.

Figura 4. La chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta è “un capolavoro di semplicità”: la facciata asimmetrica risulta perfettamente armonica, perché l’inclinazione del tetto è la stessa dei clivi del Monte Velino alle sue spalle.

Infine il viaggio lento, aprendo la strada ad un diverso tipo di turismo, promuove anche una concetto nuovo di valorizzazione del paesaggio. Sempre più spesso, infatti, viene sottolineato il valore economico di un paesaggio caratteristico, per tentare di trovare le risorse per salvaguardarlo. Atteggiamento che però ha innescato il fenomeno perverso per cui gli abitanti tendono oggi a rivendicare la propria identità non tanto come appartenenza, quanto come marchio (doc, igp, ecc…) da cui trarre vantaggio economico. Così il paesaggio non è più l’immagine dell’ambiente di vita, nel quale riconoscersi, né tantomeno il substrato della costruzione identitaria delle popolazioni, ma sta diventando un prodotto da mettere in vendita. Se è certamente vero che, anche in passato, le trasformazioni del paesaggio erano legate alle attività economiche, oggi però è il paesaggio stesso ad essere divenuto merce, per soddisfare non tanto l’immaginario di chi lo abita, ma del turista che viene da fuori. E sono sempre più frequenti i falsi paesaggi locali, creati unicamente per rispondere alle richieste del mercato del turismo. Secondo Visentin e Bocconi, invece, lo slow tourism propone una importante alternativa non solo ludica, ma anche economica: “piccoli numeri, ma distribuiti lungo tutto il corso dell’anno (primavera e autunno, quando il clima è mite, sono i periodi migliori per questi viaggi), e non solo in alta stagione. Un guadagno modesto, ma che rimane interamente sul territorio”22. La lentezza consente inoltre una valorizzazione reale del paesaggio, non superficiale o predatoria, perché questo tipo di turismo, a differenza di quello mordi e fuggi, consente di “recuperare e valorizzare la rete dei sentieri, alcuni dei quali antichissimi, che rischiano altrimenti di scomparire” e “in questo

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modo, in aggiunta ai guadagni del turismo, si contribuisce alla cura e alla tutela del territorio, e ci si riappropria dei luoghi fuori mano, evitando che diventino discariche”23. In Francia l’Associazione “Sur le chemin de R.L. Stevenson”, in seguito ai festeggiamenti per l’anniversario del viaggio con l’asino compiuto dallo scrittore scozzese, ha ritracciato il percorso da lui effettuato da Monastier-sur-Gazzeille a Saint-Jeandu-Gard, ha costruito una rete di alberghi, pensioni o abitazioni private in grado di ospitare il viandante e il suo eventuale amico quadrupede, ed infine ha allestito alcuni centri di nolo asini, dove è possibile scegliere, all’inizio del cammino, il proprio compagno di viaggio. Attorno al percorso sono inoltre cresciuti servizi di trasporto bagagli e persone, centri di informazione e laboratori artigianali per la produzione e la vendita di basti e altre attrezzature. Le Cevénnes, una regione emarginata e trascurata dal resto della Francia, ha iniziato così a cambiare aspetto: “i locali hanno imparato a comprendere meglio se stessi e il loro territorio attraverso gli occhi del viaggiatore scozzese; il crescente flusso di escursionisti, desiderosi di ripercorrerne il cammino, ha rotto il tradizionale isolamento e aperto una prospettiva per contrastare il declino economico e lo spopolamento della regione attraverso il turismo sostenibile e responsabile”24. Alla scuola dell’asino Scriveva Stevenson nel 1878: “siamo tutti viaggiatori in quella che John Bunyan chiama la desolazione di questo mondo; tutti viaggiamo con il nostro asinello e il massimo che possiamo aspettarci dal nostro viaggio è di trovare un amico sincero”25. Lo

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scrittore, alla fine del suo percorso, finirà per rimpiangere proprio l’asina Modestine, che dopo un inizio difficile, si rivelerà un sincero appoggio nei momenti più difficili, divenendo uno dei personaggi più amati nati dalla penna dello scrittore, al pari di Long John Silver o del Dottor Jekyll e di Mister Hide. Certo è che viaggiare con un asino facilita e moltiplica le occasioni di incontro. Come sostengono Bocconi e Visentin, “la principale ragione per viaggiare con l’asino è la sua capacità di catalizzare esperienze interessanti. Un viaggio con l’asino non è mai noioso, e stabilire rapporti umani è facilissimo (anche troppo a volte). Ovunque siamo stati accolti con curiosità e simpatia: i bambini accorrevano, e i vecchi si fermavano per raccontare le proprie esperienze di gioventù e festeggiare la ricomparsa dell’animale. Basta davvero poco, e ci si ritrova inseriti senza sforzo nella comunità locale: in fondo è l’aspirazione di ogni viaggio”26. Grazie agli asini, inoltre, il viaggio diventa necessariamente povero, (nessun hotel di lusso accetterà di alloggiarvi assieme ai vostri animali) e il viaggiatore si presenta così umile, essenziale. Questo aiuta gli abitanti locali a superare diffidenza e fastidio verso il turista, facilitando l’immediatezza e la spontaneità dei rapporti umani. L’asino in viaggio si trasforma quindi in maestro: di strada e di vita. Gli autori alla fine del libro provano addirittura a stilare un elenco di quanto imparato camminando questo animale: semplici lezioni che vanno dal lavorare senza strafare e con pause frequenti, all’obbedienza mai cieca ma solo agli ordini sensati, al coraggio non disgiunto dalla prudenza, alla pratica della curiosità e dell’amicizia. “Per quanto possa sembrare paradossale, da un asino si può imparare: a guardare il mondo con oc-

Slow travel: in viaggio con l’asino

chi diversi, a contemplare la natura che si attraversa, a stabilire relazioni con le persone incontrate, a scoprire mestieri e prodotti tipici del territorio. Alla scuola dell’asino si impara soprattutto a rallentare il passo (...)”27.

Riferimenti bibliografici BOCCONI ANDREA, VISENTIN CLAUDIO, In viaggio con l’asino, Guanda, Parma 2009, pag.12. ROBERT L. STEVENSON, Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino, Ibis, Pavia 1992.

Riferimenti iconografici Figure 1, 2, 3: BOCCONI ANDREA, VISENTIN CLAUDIO, In viaggio con l’asino, Guanda, Parma 2009. Figura 4: sito internet Rete Comuni Italiani http://rete.comuni-italiani.it/foto/2008/39322

Testo acquisito dalla redazione nel mese di luglio 2009. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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FERNANDO PESSOA, Il libro dell'inquietudine, traduzione di Antonio Tabucchi e Maria José de Lancastre, Feltrinelli, Milano 2000. 2 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, In viaggio con l’asino, Guanda, Parma 2009, pag.12.

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ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.c it.,Parma 2009, pag.11. 4 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.10. 5 Da quel viaggio è nato un libro dal titolo Il giro del mondo in aspettativa, Guanda, Parma 2004. 6 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.14. 7 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag. 117. 8 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.115. 9 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.129. 10 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pg.137. 11 WILLIAM BLAKE, Gli auguri dell'Innocenza, in Poesie, Newton & Compton, Roma 1991. 12 Henry David Thoreau citato in ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.15. 13 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.68. 14 Per approfondimenti vedi PIERRE DONADIEU, Campagnes urbaines, Actes Sud, Arles 1998, trad. it. a cura di MARIAVALERIA MININNI, Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, Donzelli Editore, Roma 2006. 15 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.76. 16 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag. 72. 17 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.73. 18 Vedi l’art.2 della Convenzione Europea del Paesaggio (CEP), firmata dagli stati membri a Firenze il 20 ottobre 2000, e convertita in legge dello Stato Italiano nel 2006 (L. n.14 del 9 gennaio 2006). 19 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.71. 20 Vedi il Preambolo della Convenzione Europea del Paesaggio (CEP), firmata dagli stati membri a Firenze il 20 ottobre 2000, e convertita in legge dello Stato Italiano nel 2006 (L. n.14 del 9 gennaio 2006).


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ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.73. 22 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.133. 23 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.133. 24 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.165. 25 ROBERT L. STEVENSON, Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino, Ibis, Pavia 1992, pag.3. 26 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pag.136. 27 ANDREA BOCCONI, CLAUDIO VISENTIN, op.cit., Parma 2009, pagg.135-136.

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Dal paese al paesaggio con Alain Roger

Dal paese al paesaggio con Alain Roger

From country to landscape with Alain Roger

Gabriele Paolinelli*

abstract Il “Court traité du paysage”, del filosofo francese Alain Roger, uscito nel 1997 in Francia dall’editore Gallimard, è stato pubblicato in Italia nel 2009 da Sellerio, nella traduzione di Maria Delogu. L’autore articola la teoria dell’origine culturale del paesaggio come doppia artialisation, in situ e in visu. Il testo offre un punto di vista peculiare sul rapporto tra il viaggio e il paesaggio, articolato secondo tre categorie di autismo.

abstract The “Court traité du paysage”, of the french philosopher Alain Roger was published in 1997 in France by the editor Gallimard. It has been published in Italy in 2009 by Sellerio, with the translation by Maria Delogu. The author articulates its theory about the cultural beginning of the landscape by the double artialisation, in situ e in visu. The book offers a particular point of view about the relationship between the journey and the landscape, articulated in three categories of autism.

parole chiave artialisation, paese, paesaggio, viaggio

key-words artialisation, country, landscape, journey

* Università degli Studi di Firenze, Dottorato di ricerca in Progettazione paesistica. gabriele.paolinelli@unifi.it

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Alain Roger è per certo riuscito nel sua volontà di scrivere un “breve trattato” che affrontasse in modo organico la complessa tematica della concezione del paesaggio con la caratteristica rara di essere “lieve”, piacevole alla lettura, che risulta in ogni caso ricca di concetti, sollecitazioni e di loro articolate documentazioni. Il volumetto, intitolato giustappunto “Breve trattato sul paesaggio”, pubblicato da dodici anni in Francia da Gallimard, è uscito in Italia quest’anno dall’editore Sellerio di Palermo, nella traduzione di Maria Delogu. Breve trattato in quanto “come i matematici, io credo che l’«eleganza» di una dimostrazione non sia un lusso. Amo la concisione, detesto il pletorico, l’obesità delle tesi, gli ammassi fastidiosi, l’adiposità che spesso produce la nostra Università, dilatando in migliaia di pagine ciò che potrebbe essere condensato in cento, con grande profitto per il lettore”1. Attraverso le parole dell’autore è possibile introdurre nel modo più efficace il proposito di fondo del libro di colmare una lacuna teorica, la cui attribuzione al contesto francese nulla toglie all’interesse generale dello scritto. “Nonostante la proliferazione di lavori, molto spesso collettanei, che da circa vent’anni trattano del paesaggio, in Francia manca un vero trattato teorico e sistematico dell’argomento. Le ragioni sono due, peraltro opposte. La prima è una certa carenza sul piano concettuale. Nessuno, salvo forse Augustin Berque (…), ha cercato di elaborare una dottrina del paesaggio. Ci si attiene solitamente alle opinioni specialistiche di geografi, storici, paesaggisti e così via, spesso stimolanti, ma mai determinanti. (…) Il paesaggio, o meglio i paesaggi, rappresentano acquisizioni culturali e non si vede come si possa parlarne senza conoscerne a fondo la genesi. Certo, esistono lavori eccellenti

sulla «invenzione» della campagna (Piero Camporesi), della montagna (John Grand-Carteret) o del mare (Alain Corbin), tuttavia questi studi non sono mai stati riuniti, integrati e, se posso dire, assimilati in un insieme organico in cui la storia alimenta la teoria che, in cambio, la rende più chiara”2. “Viaggio e paesaggio”, tema di questo numero della rivista, è anche il titolo del sesto capitolo del libro. Proprio l’”insieme organico” di cui parla Roger fa sì che la sua lettura risulti intimamente connessa con l’intero volume, nel quale l’autore propone una metafisica del paesaggio3 che può essa stessa essere letta come viaggio, nel senso di percorso culturale, dal paese al paesaggio. Si vogliono allora delineare per punti salienti queste due anime complementari che si attribuiscono al libro rispetto al tema del rapporto tra viaggio e paesaggio. Paesaggio Introducendo la trattazione della sua metafisica del paesaggio, Roger si colloca “(…) a metà strada fra coloro che credono che il paesaggio esista di per sé – secondo un naturalismo ingenuo che la storia della rappresentazioni collettive smentisce di continuo (…) – e coloro che immaginano che «tanta bellezza sulla terra» non possa essere spiegata senza l’intervento divino (…). Ma se il paesaggio non è immanente né trascendente, qual’è la sua origine? Umana e artistica è la mia risposta. L’arte rappresenta il vero mediatore, il meta della metamorfosi, il meta della metafisica del paesaggio. La percezione, storica e culturale di tutti i nostri paesaggi (…) non ha bisogno di nessun intervento mistico (…) o misterioso (…), ma deriva

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da ciò che, riprendendo un termine di Montaigne, definisco artialisation (…)”4. La trattazione si apre all’insegna del rapporto tra natura e cultura con la critica di “una illusione che è assurta al ruolo di dogma: l’arte è, deve essere una compiuta imitazione della natura”5. La cultura occidentale è detta vittima di tale illusione da due millenni, mentre “(..) la vita imita l’arte molto più di quanto l’arte imiti la vita. (…) Considerate i fatti dal punto di vista scientifico o metafisico e converrete che ho ragione. Cosa è veramente la natura? Non è una madre prolifica che ci ha generato, ma una creazione del nostro cervello; è nata dalla nostra mente. Le cose esistono perché noi le vediamo, e la sensibilità come pure la forma della nostra visione dipendono dalle arti che ci hanno influenzato”6. Roger ritiene rivoluzionaria questa osservazione di Oscar Wilde e la colloca al centro della sua teoria, provocando a sua volta il lettore: il mondo è stato creato “tante volte quante si è presentato un artista originale”7. Il cuore concettuale della teoria risulta il dualismo paese-paesaggio, che l’autore dichiara di mutuare, “(…) fra l’altro, da uno dei grandi giardinieri paesaggisti della storia, René-Louis de Girardin, il creatore di Ermenonville: «Lungo le grandi strade e anche nei quadri di artisti mediocri, si vede solo il paese, ma un paesaggio, un scena poetica, è una situazione scelta o creata dal gusto e dalla sensibilità». Esistono paese e paesaggio (…). La natura è indeterminata e viene determinata solo dall’arte: il paese diventa paesaggio, secondo due modi di artialisation: mutevole (in visu) e stabile (in situ)”8. La trattazione immediatamente seguente dei concetti di genio del luogo, paese, paesani e paesaggio, induce a non trascurare una possibile deduzione ulteriormente provocatoria rispetto allo

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scritto del filosofo francese, il cui valore teorico egli stesso afferma nella premessa “si misura anche nella sua potenzialità polemica”9. Se le cose stanno in tutto così come delineate da Roger, al paradosso che egli cita da Wilde il ragionamento proposto dall’autore fa seguire una visione che può risultare altrettanto paradossale. Forse non è del paesaggio che i paesaggisti debbono preoccuparsi, bensì molto più profondamente e sollecitamente del paese. Quest’ultimo presenta infatti quello stato grezzo, indeterminato, che attraverso i processi culturali di artialisation in situ e in visu può evolvere in paesaggio, arricchendo in tal modo il patrimonio territoriale delle comunità. Si, perché quanto è paesaggio, quanto ha raggiunto tale stato culturale, ha probabilmente nei suoi creatori i soggetti titolati alla sua cura, gli artisti nel senso ampio proposto da Roger fino alle comunità, in quanto essi sono autori e portatori della percezione culturale che ha appunto evoluto il paese preesistente in paesaggio. L’aneddoto sul monte Fuji in Giappone che l’autore riporta pare infatti illuminante da tale punto di vista. In relazione alla potenza della artialzation in visu, Roger dice il Fuji “(…)«montagna ispirata» come nessun altra agli occhi dei giapponesi e soggetto obbligato per tutti i pittori, anche per quelli astratti. Non credo che nessun altro luogo al mondo sia stato oggetto di una tale devozione estetica e di tante rappresentazioni codificate (…). Qualche anno fa, dunque, ero a Tokyo per un congresso sul paesaggio. Pronuncio la mia comunicazione, e quale non è la mia sorpresa quando sento attraverso la traduzione simultanea questa sconcertante domanda: «Onorevole collega, vorremmo sapere il suo parere sul destino del Fuji. È ammalato, si incrina, si sgretola. Bisogna lasciar fare la natura o dobbiamo intervenire, dato che la

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tecnologia ce lo consente. Cosa ne pensa?». Cosa penso … Il monte Fuji … 3.800 metri … mi domando se non si tratti di uno scherzo giapponese e mi guardo intorno; ma no, i miei ospiti hanno l’aria seria … Per cinque minuti, o forse più, esalto il Fuji, questa opera d’arte, opera d’arte ancestrale, creazione di Hokusai e di intere generazioni di pittori eminenti e sconosciuti, non importa, perché tutti hanno contribuito alla gloria del Fuji, e il Fuji sono loro! Non dimentico nemmeno i poeti, gli haiku paesaggi concisi, modelli limitati a poche parole; non dimentico i romanzieri; no, il Fuji non è più un elemento naturale, ma una creazione millenaria di mille geni della cultura giapponese e vedo un sorriso illuminare il volto dei miei ospiti; si , il Fuji è un monumento da salvaguardare e dunque da restaurare come Versailles o Venezia; sarebbe un delitto contro il genio sacrificarlo all’erosione naturale, abbandonarlo a questa natura stupida e silenziosa quando il soffio dell’arte cessa di ispirarla … Ho fatto di più in questi cinque minuti di arringa improvvisata che in un’ora di comunicazione per convincere l’uditorio della fondatezza dell’artialisation “10. Alla luce di questi elementi, in relazione alla precedente ipotesi circa il soggetto disciplinare del paesaggista, si può osservare che se il Fuji non è un elemento naturale, bensì come paesaggio esso è una creazione culturale – individuale, poi plurale, poi collettiva – pare si ponga la questione della salvaguardia e eventualmente del restauro di tale suo stato di paesaggio, nel quale si è evoluto attraverso l’artialisation. A questo punto non dovrebbe angosciare i colti ospiti giapponesi di Roger il processo di evoluzione naturale che nei tempi geologici potrà portare alla scomparsa della realtà fisica, biologica e ecologica del monte. Essa

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infatti, in quanto natura, paese, non esiste come paesaggio e inoltre ciò che lo ha trasformato in paesaggio è diversamente e perfino altrove conservabile, secondo processi culturali di consapevole distinzione del paesaggio dall’entità naturale primigenia su cui l’estro umano lo ha innestato e coltivato, fino a coglierne i frutti eccellenti. Dunque torna l’ipotesi iniziale: per progettare e porre in atto efficaci politiche di salvaguardia e restauro di una entità paesaggistica siffatta,non pare servano proprio i paesaggisti, bensì molto più appropriato e efficace sarà servirsi dei filosofi, degli artisti e delle comunità civiche; dei primi due soggetti per le loro specificità disciplinari come saperi esperti, delle terze per il senso artistico che esprimono attraverso la loro percezione sociale del paesaggio, senso artistico che lo stesso Roger sottolinea non debba essere inteso in senso esclusivo, quanto inclusivo e diffuso senso culturale. Di questi soggetti rimane la necessità anche nella cura di tutta la realtà riconoscibile invece come paese e probabilmente per questa, l’architetto del paesaggio, con il geografo, l’antropologo, e gli specialisti dei diversi campi disciplinari possono esprimere importanti contributi nel processo di artialisation, certamente in situ, ma in modo potenzialmente non meno rilevante anche in visu, attraverso i quali è giusto che le comunità aspirino ad accrescere il loro patrimonio di paesaggi. Sulla concezione dei paesaggi che Roger propone si potrebbero introdurre altri argomenti di discussione, ma non è in ogni caso quello della recensione, per quanto su di una rivista scientifica di specifica afferenza disciplinare, il luogo idoneo ad una loro completa disamina, né pare utile farne uno sterile elenco. Si vuole richiamare però l’attenzione su come dalla lettura del libro si tragga


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un’idea di paesaggio come eccellenza culturale, assai vicina, nella essenza esclusiva, alla motivazione della categoria italiana dei beni paesaggistici. In entrambi i casi si tratta di realtà distinte dal paese, che ne costituisce il contesto di esistenza, almeno fino a che si intendano i paesaggi come realtà diverse dai cosiddetti beni mobili, che pur esprimendo anche straordinari valori culturali, non hanno per definizione un contesto spaziale dal quale non sono sradicabili pena il loro annientamento. Le due concezioni sono poi in netto contrasto, laddove Roger rifiuta esplicitamente la tutela paesaggistica intesa come aprioristica limitazione delle modificazioni possibili attraverso forme astratte di isolamento sotto teoriche campane di vetro, forme di museificazione. “Ecco quanto dobbiamo fare, ognuno secondo il proprio ruolo e i propri mezzi: inventare l’avvenire, alimentare lo sguardo di domani e, soprattutto non rattrappirsi sul passato. Per la pratica del paesaggio avviene come per tutte le altre creazioni artistiche: non ci si può immobilizzare nella letargia dei musei”11. È confortante per chi si occupa di progettazione paesaggistica leggere una così autorevole opinione espressa in un campo disciplinare diverso, con una così pronunciata convinzione. Ma pare che questa, nel proporre una evoluzione artistica, pertanto attiva, dei paesaggi, diversamente da una loro tutela passiva, non rimuova in alcun modo l’esclusività che ad essi si legge connaturata rispetto al paese, fino a che altre parti di esso non evolvano al stato di paesaggi attraverso nuove espressioni di artialisation. Ed è in questo che la posizione che Roger esprime nel suo “breve trattato”, pur muovendo da un punto di partenza diverso da quella della tutela dei beni paesaggistici in Italia, pare, come quella, presentare oggi

elementi di attrito, se non di contrasto, con la Convenzione Europea del Paesaggio12. In essa infatti i paesaggi esistono e sono importanti per le popolazioni in ogni parte dei territori, in ogni condizione in cui si trovino, di degrado o di buona salute, e qualunque valore essi esprimano per la società, di straordinario interesse globale o di ordinario interesse locale. La Convenzione non reca alcuna verità assoluta, bensì un disegno di condivisione politica e culturale di alcuni principi di civiltà, non diversamente da quanto accade per la nostra Costituzione, della quale peraltro non mancano interpretazioni discutibili del principio fondamentale che riguarda il paesaggio. Non è inoltre compito della speculazione scientifica, bensì delle applicazioni tecniche, la corretta e coerente adesione ai precetti del diritto internazionale, nazionale e regionale. In campo scientifico è però interessante disporre dell’esplicitazione delle posizioni relativamente ai principali punti di riferimento disciplinari e istituzionali che intercettano l’argomento trattato dall’autore. Ma tale aspetto esula per motivi cronologici dal contenuto di questo scritto: il testo di Roger del quale si tratta è infatti stato pubblicato tre anni prima della firma della Convenzione Europea del Paesaggio. Nei quattro capitoli che seguono il primo, Roger articola una documentata motivazione storica della teoria dell’artialisation e del dualismo paesepaesaggio. L’autore parte dal giardino, primigenio “modello paradisiaco”, espressione del “bisogno di recintare”, poiché “prima di inventare paesaggi per mezzo della pittura e della poesia l’uomo ha creato giardini”13. Il percorso, tematico, più che storicamente lineare, approda già nel secondo capitolo alla land art statunitense e, a proposito di essa e del desiderio di “fare del pianeta un

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paesaggio”14, richiama vivacemente ancora l’attenzione del lettore proponendogli come plausibile la questione il quesito “se, invece di landscaper, non sarebbe meglio coniare landart (in una sola parola), sottolineando così l’origine e la dimensione artistica di tutti i paesaggi (o paisarte), in quanto paesi artializzati, in situ e in visu. Volontà di dipingere la natura, di colorarla, bisogno di crivellarla di segni, di espandere all’infinito i dettami artistici affinché la sua essenza sia estesa come i limiti del mondo, e perché no, anche al di là, per fare dell’universo un possibile paesaggio…”15. La declinazione storica della tesi dell’artialisation riprende nel terzo capitolo con i proto-paesaggi; partendo dall’opera di Augustin Berque, la discussione tocca le espressioni culturali della Bibbia, della Grecia e di Roma antiche, del Medioevo, delle espressioni artistiche della Cina dall’antichità fino al XIV secolo. Roger prosegue poi con una articolata e documentata disamina della cultura occidentale, dalla nascita dei concetti di paesaggio e campagna, fino alle invenzioni dei nuovi paesaggi della montagna, del mare e del deserto. Nel Novecento “non c’è entità geografica che non sia assurta o assurga oggi alla dignità di paesaggio, a cominciare dalla foresta, a lungo ostile nell’immaginario occidentale, ma che gli igienisti dell’Ottocento (…) e gli ecologisti del Novecento hanno idealizzato (…). Ma anche (…) la palude, considerata una volta malsana, al punto da essere sistematicamente bonificata, viene ora riabilitata per ragioni non solo ecologiche, ma anche estetiche. E perfino i terreni incolti stanno via via acquisendo valore di paesaggio agli occhi di alcuni…”16. È a seguito di tale articolata escursione storica che l’autore colloca il breve ma intrigante capitolo

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intitolato “Viaggio e paesaggio” di cui si riportano nel prossimo paragrafo i passaggi cardinali. Il trattato affronta poi la questione controversa del rapporto tra paesaggio e ambiente in coerenza con la tesi proposta, “esclusivamente con una funzione didattica, priva di qualsiasi intenzione polemica”17 per partire “da questa confusione per meglio chiarirla”18, arrivando a definire nell’ottavo capitolo il “Contributo alla critica del supposto «contratto naturale»”. Un quesito curioso quanto evidentemente pertinente nella trattazione può divertire il lettore nell’ultimo capitolo prima della conclusione del trattato: “Un paesaggio può essere erotico?”19. L’autore torna sull’ipotesi iniziale e generale, ricordandola in sintesi: “non esiste una bellezza naturale, o, più precisamente, la natura diventa bella ai nostri occhi solo attraverso l’arte. (…) La trasformazione di un paese (asessuato) in paesaggio (erotizzato) si realizza soprattutto in visu attraverso la mediazione della pittura, della fotografia e della letteratura”20. Roger conclude regalando al lettore una breve storia privata della genesi della teoria della artialisation e utilizzandola da scrittore esperto come strumento utile a consolidare la posizione proposta. La sicurezza acquisita è raccontata come frutto degli anni nei quali attraverso le difficoltà affrontate l’autore ha evoluto la teoria. Ma tale sicurezza è al tempo stesso detta mai incline alla condiscendenza. “Una teoria, come ci ha insegnato Popper, deve essere sempre confutabile. Essa è solo uno strumento perfettibile che deve, senza sosta, essere rimesso in discussione, di cui si devono via via sostituire i pezzi difettosi per forgiarne altri di più efficaci, con procedimenti che a volte sanno di bricolage e di bracconaggio (anche se, in ultima analisi, la mia regola aurea resta il razionalismo più rigoroso). Proprio per questo sarò

Dal paese al paesaggio con Alain Roger

sempre al riparo dalla tentazione totalitaria, con la convinzione che, qualunque sia la mia preda nel sottobosco del paesaggio, resterò sempre un Raboliot…”21, un bracconiere. Viaggio e paesaggio Fin qui si è inteso dare sommariamente conto del senso e della articolazione di quello che abbiamo chiamato in apertura il percorso culturale, dal paese al paesaggio. Ma il capitolo che Roger ha intitolato al rapporto tra “viaggio e paesaggio” presenta in modo tagliente quanto asciutto un punto di vista particolare, quello del viaggio “vissuto come esilio, estraniamento, abbandono”22, che produce “la perdita di contatti vitali con la realtà di cui parlano gli psichiatri”23, uno spaesamento, opposto dell’artialisation24. Tre rapporti autistici con il paesaggio sono visti derivare da tale approccio al viaggio. “La prima forma di autismo è quella della privazione. Ci aspettavamo un paesaggio e troviamo solo un paese, cioè il fastidio, o l’inquietudine, se non addirittura l’ostilità. Estraniati? Sarebbe meglio dire «impaesati», costretti in un paese, questo sporco paese senza paesaggio. Non siamo estraniati ma «depaesaggiati». Ricordiamo la stanchezza di Montesquieu durante la traversata del Tirolo e quell’«orrido paese» (Chamonix) detestato dall’infelice Le Pays nella sua lettera del 16 maggio 1669. Da ciò deriva l’importanza del turismo, l’arte del viaggiare, in quanto l’itinerario è organizzato, artialisé a forza di modelli pittorici, letterari e così via. (…) La guida turistica è prima di tutto un viatico artistico, un manuale di artialisation”25.

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“Esiste una seconda forma di autismo, più complesso e più fastidioso. Lo sguardo non è vuoto, ma scorretto, l’artialisation non è assente, ma inadeguata. Mi sono spostato, ma, ironia del viaggio, tutti i miei modelli si sono … spostati, sfalsati, un malinteso o meglio un malvisto continuo. Eccomi come un ebete che scopre con stupore che i suoi soldi sono fuori corso o che i suoi traveller cheques non si possono cambiare. No, non posso avere uno scambio con questo paese”26. Guardando al turismo contemporaneo, l’autore osserva come esso punti “all’esotico e al dépaysement. In realtà, molto spesso, ciò che si vende al cliente è solo merce scadente e adulterata, un paesaggio di paccottiglia made in Europe. È certo che laggiù si troverà «la terra ^ ^ promessa» (dall’agenzia), il pret-à-voir e il pret-àvivre, paesaggi garantiti, lagune e palme da cocco (o il loro equivalente), per maggior sicurezza lo si costruisce e lo si isola (il club) in un ghetto turistico (…). A volte bisogna essere molto coraggiosi per rifiutare questo neocolonialismo turistico e tornare al «paese», con ciò che può avere di più povero ai nostri occhi: in qualche modo imbarbarirsi, disintossicarsi gli occhi, rischiando la cecità, per tentare di vedere o, almeno, di intravedere un paesaggio, pur sapendo che avremo sempre bisogno di qualche modello, esotico o indigeno, per fare di quel paese un paesaggio”27. “Esiste infine una terza forma di autismo, non più per privazione o spostamento, ma per eccesso, pletora, intemperanza estetica. Perché partire, se rischio di trovare nelle Fiandre solo «ironiche brune»? Perché non restare a casa dove l’arte mi elargisce, quando voglio e senza sforzo, i piaceri più sottili, se non i più forti? Perché esiliarmi quando posso viaggiare a domicilio e senza fastidi (…) godere di qualsiasi paesaggio? Conosco un


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esteta che non va più a Rouen: la cattedrale è talmente più bella nelle visioni di Monet!”28. Roger conclude con la leggerezza dichiarata nella premessa, senza nulla perdere fino in fondo dell’efficacia istruttiva della scrittura, “con una graziosa riflessione di Oscar Wilde, un esperto di viaggi domestici: «I giapponesi, come ho detto, sono semplici espressioni di stile, una squisita fantasia artistica. E così, se volete avere impressioni giapponesi, non dovrete farvi viaggiatori, non andrete a Tokyo. Resterete invece a casa e vi immergerete nello studio di alcuni artisti giapponesi; poi, quando avrete assimilato lo spirito del loro stile e ben assimilato il loro tipo di visione immaginifica, andrete qualche pomeriggio a sedervi al Parco o a Piccadilly; e se là non riuscirete a cogliere impressioni giapponesi, non ne vedrete da nessuna altra parte»”29.

Riferimenti bibliografici Roger A., Breve trattato sul paesaggio, Palermo 2009 (Paris 1997), pp. 141.

Testo acquisito dalla redazione nel mese di luglio 2009. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Il riferimento non è tanto al senso comune attribuito al termine, quanto volto a evidenziare l’irriducibilità di ogni paesaggio alla sua realtà fisica, biologica ed ecologica. Cfr. Roger A., op. cit., p. 13. 4 Roger A., op. cit., p. 13. 5 Ivi, p. 15. 6 Wilde O., Le Déclin du mensogne, in Opere, Milano 2001 (Paris 1977, 2 voll., I, pp. 307-308), citato in Roger A., op. cit., p. 17. 7 Roger A., op. cit., p. 17. 8 Ivi, p. 19. 9 Ivi, p. 12. 10 Ivi, p. 23-24. 11 Ivi, 108. 12 Consiglio d’Europa, Convenzione Europea del Paesaggio, Firenze 2000. 13 Roger A., op. cit., p. 29. 14 Ivi, p. 37. 15 Ivi, p. 40. 16 Ivi, p. 80-81. 17 Ivi, p. 95. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 123-136. 20 Ivi, p. 123. 21 Ivi, p. 141. 22 Ivi, p. 89. 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 89-90. 26 Ivi, p. 90. 27 Ivi, p. 92. 28 Ibidem. 29 Wilde O., Le Déclin du mensogne, op. cit., pp. 310-311, citato in Roger A., op. cit., p. 94.

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Roger A., Breve trattato sul paesaggio, Palermo 2009 (Paris 1997), p. 12. 2 Ivi, p. 11.

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