Ri-Vista 08/2007

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 8 – luglio/ dicembre 2007 a cura di Anna Lambertini sezione: Editoriale pagg. 1 - 4

EDITORIALE Anna Lambertini*

Un filo tematico scorre sotto traccia per collegare insieme vari contributi della miscellanea di questo ottavo numero della Ri-Vista: ben sei dei tredici testi che lo compongono rinviano, direttamente o indirettamente, ad iniziative promosse nel corso del biennio 2006/2007 nel quadro delle attività formative della Scuola di Dottorato in Progettazione della città, del territorio e del paesaggio e/o del Master in Paesaggistica dell’Università degli Studi di Firenze. Questa notazione iniziale ci induce a proporre al lettore una particolare chiave di accesso ai contenuti del numero, connessa al tema della formazione di una specifica figura professionale, il paesaggista, e quindi ad una riflessione sulla necessità di diffusione, a tutti e tre i diversi livelli accademici introdotti dal Processo di Bologna, di adeguati programmi didattici interdisciplinari, mirati alla costruzione di tecnici ed esperti qualificati ad operare con competenza nell’ambito del piano e del progetto di paesaggio. Una chiave interpretativa che ci porta ad aprire per un momento una finestra su una ambivalente realtà tutta italiana, in cui se da una parte domanda di paesaggio di qualità e di cultura del progetto di paesaggio paiono rappresentare due istanze culturali e socio-politiche ampiamente riconosciute1, dall’altra è facile notare come la figura del paesaggista stenti ancora ad ottenere autonomia professionale e come la specificità del suo percorso formativo ritardi ad essere compresa. Se è certo che con la ratifica della Convenzione Europea del Paesaggio, avvenuta come è noto con la promulgazione della Legge 14 del 9 gennaio 2006, il nostro Paese si è impegnato formalmente, anche di fronte agli altri Stati aderenti e quindi anche rispetto allo spazio europeo dell’istruzione superiore, a promuovere: - “a. la formazione di specialisti nel settore della conoscenza e dell’intervento sui paesaggi; - b. dei programmi interdisciplinari di formazione sulla politica, la salvaguardia, la gestione e la pianificazione del paesaggio, destinati ai professionisti dei settori pubblico e privato ed alle associazioni interessate; - c. degli insegnamenti scolastici ed universitari che si riferiscano, nell’ambito delle rispettive discipline, ai valori relativi al paesaggio ed alle questioni riguardanti la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione”;

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“Intendiamo promuovere nuova qualità della progettazione, della formazione, dell'organizzazione pubblica. Stiamo incentivando, pur con pochi mezzi, concorsi di architettura e riqualificazioni del paesaggio stressato” ha scritto, ad esempio, il Ministro Francesco Rutelli in una lettera aperta al direttore de La Repubblica del 15 novembre scorso e titolata “La battaglia per il bello nel paese dei geometri”, scatenando, sulle pagine di vari quotidiani nazionali, una vera e propria battaglia di penne sul tema.

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è altrettanto vero che, ad esempio, il processo di riorganizzazione e riconfigurazione dei percorsi formativi di primo livello connesso alla recente riforma universitaria prevista dalla Legge 270/2005, pone seriamente il problema del mancato riconoscimento da parte del legislatore del settore scientifico disciplinare ICAR/15 (quello relativo all’Architettura del Paesaggio) tra le materie caratterizzanti i corsi triennali afferenti alla classe 17 (corrispondente all’attuale classe 4, comprensiva dei Corsi di Laurea esistenti in Architettura del Paesaggio nati negli ultimi anni). Una contraddizione all’italiana, potremmo dire, che in qualche modo rende ancora più significativo il valore delle diverse esperienze didattiche avviate anni fa’ in forma pionieristica in vari Atenei del nostro paese, tra cui quello fiorentino, dove si è cercato di colmare il vuoto accademico attraverso la creazione di percorsi interdisciplinari integrati post-laurea (scuole di specializzazione, master di secondo livello, dottorati). In ogni caso, se rispetto al riconoscimento della specificità del paesaggista quale figura professionale autonoma, formata rispetto a precisi obiettivi culturali e tecnico-scientifici, l’Italia per il momento resta indietro, l’Europa va avanti. Il contributo proposto per la sezione Saggi da Ellen Fetzer illustra i vantaggi che, nell’ambito della formazione continua del paesaggista, si possono ottenere attraverso l’uso della rete telematica. Membro del comitato direttivo di Le:Notre, progetto tematico di livello europeo lanciato dall’ECLAS (Consiglio Europeo delle Scuole di Architettura del Paesaggio) che si propone la promozione di scambi di informazioni ed esperienze sui programmi educativi sull’architettura del paesaggio, la Fetzer ci invita ad entrare nella dimensione delle Community of Practice, reti di utenti che condividono lo stesso dominio di interesse. “All’interno di Le:Notre si possono trovare studenti, assistenti universitari, professori e conferenzieri, ciascuno con la propria individuale specializzazione. I membri possono avere anche differenti ruoli e relazioni nella comunità. La somma di tali relazioni, reciproca fiducia e consapevolezza, è chiamata ‘capitale sociale’. L’idea principale di Le:Notre è sviluppare e accumulare capitale sociale a livello europeo, al di là dei confini nazionali e istituzionali. Gli sviluppi correnti nella comunità sono finalizzati a includere anche professionisti di architettura del paesaggio ed esperti che lavorano per le pubbliche istituzioni”. Le opportunità aperte dal Progetto Le:Notre sono state anche illustrate da Ellen Fetzer nel corso del seminario “Pianificare e progettare paesaggi di margine” promosso dal Dottorato in Progettazione paesistica e tenutosi a Firenze nel novembre 2006. In quella stessa occasione Cliff Hague, ricercatore scozzese freelance interessato alla pianificazione urbana e regionale, presentò una comunicazione centrata sulle cinture verdi come strumenti per la gestione delle aree di margine urbano, che poi ha costituito la base per la stesura del suo saggio ospitato in questo numero. Richiamando le raccomandazioni dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (2006) relative alla necessità di contenere, su tutto il territorio europeo, la dispersione insediativa, Hague ci propone un breve excursus critico su politiche e pratiche adottate in Olanda, Scozia e nei paesi scandinavi in aree di margine e frangia urbana per fare fronte a questo problema. Le conclusioni del ragionamento sono chiare: “la valutazione e progettazione paesaggistica, selettiva e effettiva protezione a lungo termine della qualità dei paesaggi, è importante. Comunque sopra tutto la gestione necessita di essere costruita all’interno di strategie”. Detto, fatto. Il paesaggio come “principale fattore di programmazione strategica” è alla base delle scelte di piano adottate dallo studio Ferrara Associati nel Piano Urbanistico Comunale di Ascea, centro campano collocato all’interno del Parco Nazionale del Cilento, meta consolidata del turismo archeologico e balneare, “esempio eccellente di paesaggio bioculturale in crescente difficoltà per le pressioni e le tensioni esercitate a suo carico da un turismo sempre più massificato e da sviluppi insediativi sovradimensionati rispetto alle esigenze locali”. Il contributo di Ferrara e Campioni, ultimo della sezione Saggi, espone contenuti ed approccio culturale e metodologico alla pianificazione ordinaria di uno strumento in corso di redazione, che “identifica nel paesaggio - come sistema in continua evoluzione - il bene primario per soddisfare” le aspettative “di una società desiderosa di vivere ed operare non più in semplici ‘spazi’ da consumare ma bensì in ‘luoghi’

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d’eccellenza, e allo stesso tempo consapevole dei limiti che la natura e l’economia pongono al consumo di risorse non riproducibili, con al primo posto il suolo.” Tale approccio illuminato alla pianificazione comunale (illustrato da un indiscusso protagonista della paesaggistica, come disciplina da insegnare ed apprendere e come professione da esercitare, quale Guido Ferrara è) in cui il paesaggio, interpretato come risorsa e realtà sistemica complessa, è considerato il tema conduttore delle scelte di trasformazione e non il problema da aggirare, pare contribuire con un messaggio positivo al discorso sul rapporto tra ragioni del paesaggio e ragioni della programmazione economica, oggetto del colloquio con Paolo Leon raccolto da Alessandra Cazzola e ospitato nella sezione Dialoghi. Perché se, come giustamente osserva il professore Leon, “la mancata considerazione del paesaggio nei piani urbanistici è il frutto di una professione ancora imperfetta, ma anche il risultato dell’incertezza del decisore politico, al quale nuove forme di vincolo impediscono l’uso del territorio protetto”, il PUC di Ascea testimonia che, assumendo per il governo del territorio e delle sue trasformazioni metodologie ed indirizzi culturali, scientifici ed operativi che non solo portano a subordinare il paradigma dello sviluppo ‘alla sostenibilità ambientale e sociale delle scelte avanzate’, ma anche a difendere il fondamentale valore della comprensione e condivisione sociale di tali scelte, altri scenari sono possibili. A temi chiave della cultura del progetto e del disegno di paesaggio ci guida il secondo contributo della sezione Dialoghi. Il paesaggista olandese Lodewijk Baljon (a Firenze nell’estate 2006 per un seminario organizzato dal Master in Paesaggistica), nel corso di una conversazione improvvisata a sedere su un prato a Boboli, ripercorrendo tappe e tracciati del suo ricco percorso formativo e professionale, ci induce a riflettere sul valore di concetti come tempo, luogo e contesto. Ancora un seminario, questa volta legato ad un’esercitazione progettuale organizzata per gli studenti del secondo anno del Master in Paesaggistica del corso 2006/2007, ha rappresentato per Ilaria Agostini occasione di ricerca ai fini didattici e di ricostruzione del bel viaggio, storico e geografico, lungo il corso del fiume Aniene nel territorio di Tivoli, inserito in apertura della sezione Itinerari. Dalle scene della natura pittoresca e sublime della valle dell’Aniene alla dimensione classica delle ville venete e delle architetture palladiane: il racconto di Giulia Tettamanzi sulla civiltà della villa e sul percorso espositivo della mostra vicentina ad essa dedicata nel 2005, cominciato nel numero 4 della Ri-Vista, si conclude qui con una seconda parte in cui l’autrice ci invita a percorrere le tappe del viaggio da lei realmente intrapreso alla scoperta di luoghi ed opere. L’itinerario proposto da Franca Bessi è di altra natura: sfogliando cataloghi e pubblicazioni d’epoca l’autrice ricostruisce un prezioso frammento di storia dell’orticultura e del collezionismo botanico italiani, raccontandoci di una famiglia di giardinieri attivi con successo come vivaisti e ibridatori in Toscana tra fine Ottocento e primi del Novecento, i Mercatelli. Un laboratorio didattico di progettazione condotto nell’ambito del corso Diploma 9, presso la Architectural Association di Londra, fornisce invece ad Elena Barthel argomenti e materiali per organizzare un percorso tematico sul concetto di gestione sostenibile delle risorse (culturali, economiche, naturali), applicato ad un luogo speciale come Hooke Park. Ancora su gestione ed uso sostenibile delle risorse nei parchi, ma riferito ad una realtà istituzionale e culturale molto differente e ad un’altra scala geografica ed operativa, insiste Antonello Naseddu segnalandoci, nella sezione Eventi e Segnalazioni, l’esperienza in corso nel Parco del Ticino. Il parco ha aderito al progetto Wise Plans, primo esperimento a livello europeo lanciato con l’obiettivo di creare “comunità energeticamente sostenibili” attraverso il risparmio delle risorse e l’implementazione di fonti rinnovabili. Fanno parte dell’ultima sezione ancora due contributi legati allo svolgimento di attività formative, questa volta dovute ad iniziative promosse dalla Scuola di Dottorato in Progettazione della città, del territorio e del paesaggio dell’ateneo fiorentino.

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Francesco Alberti fornisce argomentazioni ben documentate sul caso della tramvia fiorentina, a cui nel maggio del 2007 è stato dedicato un seminario universitario di confronto tra tecnici, docenti ed amministratori. Tentando di allinearsi con altre città europee sul fronte della modernizzazione del trasporto pubblico, anche la municipalità fiorentina ha giocato la sua carta mettendo a punto un progetto di tramvia moderna che però, confrontato con analoghe operazioni condotte negli ultimi anni in Spagna, Francia o Austria, assai poco moderno, purtroppo, appare. Claudia Maria Bucelli, infine, ci dà conto degli orientamenti attuali dell’architettura dei parchi e dei giardini in Francia, così come sono stati illustrati da Hervé Brunon, storico dell’arte e ricercatore francese del CNRS, nel corso di un ulteriore seminario tematico fiorentino. Con una riflessione sul progetto contemporaneo di giardino e sul suo configurarsi come opera aperta, tradizionale ambito di rappresentazione e lettura del rapporto tra uomo e natura, si conclude dunque questo numero della nostra Ri-Vista. Attraverso l’editoriale, come consuetudine, ne abbiamo scorso insieme i contenuti, muovendoci da un contributo all’altro attraverso le differenti sezioni. Ma nel ricostruire il percorso di lettura, un saggio, il primo ospitato, è stato volutamente tralasciato per essere più significativamente richiamato in chiusura. Perché con la ripubblicazione di Cento anni di paesaggio italiano, redatto da Augusto A. Boggiano in occasione del Convegno “Il paesaggio italiano degli ultimi cento anni” tenutosi presso la Villa di Cafaggiolo nel febbraio 2004, la redazione ha voluto conferire a questo ottavo numero della Ri-Vista un significato speciale, di luogo di memoria affettiva e di perpetuazione della stima attraverso il ricordo. Ad Augusto A. Boggiano, mancato la scorsa estate e convocato “con la fantasia” al nostro tavolo degli autori, è dedicato questo numero. Di lui lo scritto composto da Mariella Zoppi in forma “ più amichevole che solenne”e che costituisce, ci piace sottolinearlo, la vera apertura di questo lavoro editoriale, ci restituisce con affetto il ritratto migliore che possiamo conservare.

*Architetto specializzata in Architettura dei giardini e progettazione del paesaggio, dottore di ricerca in Progettazione paesistica.

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di dicembre 2007. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 - numero 8 luglio/dicembre 2007 - a cura di Anna Lambertini Per Augusto pagg. 5 - 6

Per Augusto Mariella Zoppi *

Augusto Boggiano fa parte di quella generazione di professori che hanno compiuto tutta la loro vita accademica nella stessa sede in cui si sono formati: Firenze, in questo caso. Un’identità che ha fatto sì che per molti, questa, non sia soltanto la facoltà, ma la scuola: un termine usato in modo quasi familiare, come consuetudine di lavoro, ma anche come affermazione del luogo dove si insegna e si impara. Un concetto, spesso, solo apparentemente scontato. Augusto veniva dalla Versilia (come dalla Versilia era venuto Domenico Cardini, un altro professore di questa facoltà che mi piace associare ad Augusto) e traeva da quella terra, dove è tornato questa estate a concludere i suoi giorni, una sua particolare originalità. Un modo di essere al tempo stesso profondo e apparentemente lieve, basato su un’acuta capacità intuitiva, ma anche ironico e scanzonato (sapeva ridere di se stesso: cosa rara), al limite di quella surrealtà toscana che non appartiene solo alla filmografia e ai cosiddetti comici toscani, ma che è un modo di essere, di affrontare una quotidianità non sempre appagante e generosa. Augusto era innanzitutto un progettista creativo e curioso. Aveva cominciato prestissimo a fare l’architetto, fin da studente: ricordo l’esperienza giovanile fortemente innovativa del gruppo “allievi architetti” di cui era uno degli animatori. Augusto era un urbanista, combattivo e tenace, dettiano1 fino al midollo, attivo nelle Associazioni come Italia Nostra e l’INU, mi sia permesso di dire, di una volta quando era un cenacolo di belle menti e di pensiero libero, critico e propositivamente fecondo nei confronti delle istituzioni. La sua militanza politica diretta si era consumata da tempo, ma va ricordata la sua esperienza come consigliere comunale per il PSIUP a Pietrasanta dove fu fra i principali protagonisti di una delle grandi battaglie urbanistiche (fra le poche vinte), contro la lottizzazione della pineta della villa La Versiliana a Marina di Pietrasanta. Poi, pur conservando intatta la sua passione per la cosa pubblica e la sua gestione, e mantenuto un solido impegno politico, sociale ed etico, non aveva ritenuto di militare attivamente in alcuna formazione o partito. Augusto Boggiano, seguendo la sua naturale inclinazione volta alla curiosità del sapere, ci ha lasciato scritti su molti temi: sulla sua Versilia, sulla Lucchesia (ricordo la sua partecipazione al Piano Intercomunale di Lucca negli ‘70-80 e la redazione di molti PRGC fra i quali quello di Altopascio), su Firenze e sulla Toscana.

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L’aggettivo, sta per “allievo e amico” di Edoardo Detti, professore di Urbanistica alla Facoltà di Architettura di Firenze, Presidente nazionale dell’INU, autore, fra l’altro, del PRGC di Firenze del 1962.

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Il suo senso estetico, inteso come ricerca del bello e dell’armonia, lo ha portato sempre ad avere una particolare sensibilità ed attenzione ai temi del paesaggio, che negli ultimi anni è stato il campo di maggiore interesse dei suoi studi. Ne sono testimonianza i suoi scritti: Paesaggio Toscano del 2005, Passeggiare Firenze del 2006 (recupero delle tracce di una viabilità minore agricolo-collinare in via di sparizione) e la stesura dei 12 punti per la lettura del paesaggio toscano, pubblicati postumi sul recente testo di Emanuela Morelli2. Non è questo il momento per elencare tutti i suoi lavori: la Facoltà di Architettura di Firenze si è impegnata a fare raccolta dei suoi scritti e dei suoi lavori entro l’anno. E lo farà, ne siamo certi. Questo è non solo un ricordo, doveroso verso l’impegno di una vita, di un’esperienza professionale, ma anche nei confronti di un campo disciplinare rispetto al quale Augusto Boggiano ha contribuito con i suoi studi e con il suo insegnamento nella Scuola e nel Dottorato in Progettazione Paesistica della Facoltà di Architettura di Firenze. Questo scritto vuole essere più amichevole che solenne: Augusto non amava le commemorazioni. Mi è tornata alla mente molte volte una frase che amava ripetere, quando qualcuno lo feriva, e che si rifà alle parole di una nota canzone di De Gregori: “se fossi stato un po’ più giovane l’avrei distrutto con la fantasia” Perché fra le armi di Augusto c’era proprio la fantasia, che lo rendeva forte e fragile allo stesso tempo. Così è stato fino in fondo: con quei suoi occhi chiari mobilissimi, con il suo humour intatto fino all’ultimo giorno di lucidità, con le sue battute che sapevano cogliere il lato paradossale della vita. La sua figura dinoccolata, sempre curatissima, con un’innata eleganza sottolineata in estate, dai suoi estivi di lino chiaro. Credo che vorrebbe essere ricordato così: elegante, intelligente, disponibile, simpaticamente snob, assolutamente inconfondibile magari con un panama in capo. E’ un modo per farlo vivere ancora, almeno … con la fantasia.

* Università degli Studi di Firenze

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di settembre 2007. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Cfr. BOGGIANO, AUGUSTO A., Le componenti strutturali del paesaggio toscano, in MORELLI, EMANUELA ., Strade e paesaggi delle Toscana, Alinea ed, Firenze, 2007, pagg. 176-181.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 – numero 8 – luglio-dicembre 2007 a cura di Anna Lambertini sezione: Saggi pagg. 7 - 17

CENTO ANNI DI PAESAGGIO ITALIANO 1 Augusto A. Boggiano *

Summary We reintroduce the essay wrote by the prof. Augusto A. Boggiano for the International Congress “Il Paesaggio italiano degli ultimi cento anni”, promoted by Regione Toscana and Touring Club Italiano and happened at the Medici Cafaggiolo Villa during the 13/14 February 2004. The author proposes an exploration on subjects and problems related to the landscape transformations processes, with particular attention on the contents and the cultural values of the Italians regulations and on the currents tools on territorially planning and government in Tuscany. Key-words Italian landscape; transformation; modernization; landscape planning.

Abstract Viene riproposto il contributo redatto dal professor Augusto A. Boggiano in occasione del Convegno “Il Paesaggio italiano degli ultimi cento anni” promosso dalla Regione Toscana e dal Touring Club Italiano presso la Villa di Cafaggiolo il 13 e 14 febbraio del 2004. Il saggio sviluppa una riflessione su temi e problemi connessi ai processi di trasformazione di territori e paesaggi, ponendo particolare accento sui contenuti e le valenze culturali degli strumenti normativi proposti dalla legislazione italiana e sugli indirizzi e gli obiettivi della pianificazione vigente in Toscana. Parole chiave Paesaggio italiano; trasformazione; modernizzazione, pianificazione paesaggistica.

* Università degli Studi di Firenze. Il professor Augusto Boggiano è mancato nell’agosto del 2007.

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La redazione della Ri-Vista ringrazia l’arch. Massimo Gregorini, dirigente della Regione Toscana, per aver autorizzato la ripubblicazione del saggio del prof. Augusto Boggiano, già apparso nel volume “Il Paesaggio italiano degli ultimi cento anni”, edito da Regione Toscana e Touring Club Italiano nel 2005. I più sinceri ringraziamenti vanno anche all’arch. Paola Maresca, per le indicazioni fornite, all’arch. Milena Caradonna, che ha recuperato il file originale del testo ed a Francesca Boggiano, che ha reso possibile la pubblicazione di due disegni tratti dai taccuini di viaggio del padre.

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Figura 1: Schizzo tratto dai taccuini di viaggio di Augusto Boggiano, eseguito nel giugno 2006.

Fare il punto della situazione, riuscire a guardare criticamente il passato per comprendere quale può essere il futuro in un momento di particolare e significativa evoluzione delle grandi problematiche europee, nazionali e regionali in tema di governo delle trasformazioni territoriali: la nuova Politica Agraria Comunitaria., il nuovo Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici, la nuova Legge Regionale sul Governo del Territorio, il nuovo Piano di Interesse Territoriale della Regione Toscana. E farlo insieme al Touring Club Italiano ed al Centro Internazionale del Paesaggio Mediterraneo che, da diversi versanti, guardano alla nostra regione come ad un tedoforo del bel paesaggio italiano. Certo sono lontani i tempi in cui paesaggio era un termine quasi sinonimo di panorama, quando le prime Guide Rosse del Touring inanellavano le emergenze storiche e culturali del nostro patrimonio e le eccezionalità naturali in un “rosario” da percorrere “su via carrozzabile” e sottolineavano i segmenti da cui si godeva “uno splendido panorama”; tempi in cui un turismo abbastanza elitario non massificato, non rappresentava ancora la voce fondamentale dell’economia di molti territori; tempi in cui spesso le popolazioni locali scoprivano le loro ricchezze attraverso gli occhi dei viaggiatori: ero ancora ragazzo quando con mio padre e mio fratello, diretti ad Orvieto, ci fermammo incantati ad ammirare Pitigliano ed un contadino, dondolando sul suo mulo, ci disse che se ci piaceva quel tipo di paese ne avremmo trovato uno molto migliore, andando oltre le colline, che si chiamava Orvieto. Allora chi viveva sulla terra ne percepiva il più delle volte soltanto gli aspetti duri, faticosi, spesso drammatici: i soffocanti rapporti di mezzadria, il ricatto dei contratti a pigione, la vita dura dei salani, le annate magre, le epidemie del bestiame…..e la terra, dura, piena di sassi da rimuovere e impilare per farne muri a secco, ciglioni e terrazze. Quel lavoro duro, quotidiano e paziente ha prodotto i nostri paesaggi, per lungo tempo abbandonati da chi andava alla ricerca del benessere urbano, divorati dalla espansione della città, travolti dalla modernizzazione della produzione agricola. Nei primi anni Sessanta un quotidiano londinese titolava “visitate l’Italia prima che gli italiani la distruggano”. Nonostante tutto, l’Italia non è distrutta, o perlomeno non ancora, anche perché molta parte di noi ha capito che la città da sola non è in grado “di render poi quel che promette pria”. Città e campagna sono i due poli di una realtà che deve trovare armonica conciliazione per creare il luogo della nostra vita. E la qualità della vita non è tanto dipendente dalle nostre possibilità di consumo, come ci ricorda Agostino Palazzo, quanto piuttosto dalla qualità dei luoghi nei quali viviamo, dalla bellezza del paesaggio, urbano o rurale che sia, nel quale siamo immersi. Nella costruzione del paesaggio che ci contiene, troppi egoismi, individuali o di gruppo, dovrebbero conciliarsi per ottenere un risultato corale di difficile realizzazione se non viene 8


perseguito da una cosciente volontà della comunità. E indubbiamente ciò che possiamo constatare oggi, guardando indietro ad un secolo di paesaggi trascorsi e forse anche in parte perduti, è che l’estetica dei luoghi e la loro identità culturale e formale è entrata capillarmente nelle comunità locali indubbiamente aiutata da una non irrilevante ricaduta economica sui bilanci familiari.

Figura 2: Edita Broglio, La matassa, 1954.

Il tributo di risorse che la Comunità Italiana ha pagato allo sviluppo economico e sociale negli ultimi venti anni è indubbiamente elevato e se questa da un lato può vantare un indiscusso benessere economico diffuso, dall'altro deve prendere atto di uno stato del territorio disastrato ed in continuo pericolo di esondazioni e di frane, di una vera e propria guerra sulle strade con continui decessi, della progressiva scomparsa delle testimonianze storiche e del patrimonio ambientale, di un abbassamento significativo della qualità complessiva degli insediamenti umani. Anche nella coscienza dei cittadini si è fatta strada la cognizione che il bilancio costi-benifici dello sviluppo urbanistico non può più riguardare soltanto i costi finanziari di investimento ed i benefici di resa economica degli stessi ma deve saper valutare soprattutto i costi di consumo delle risorse territoriali e i benefici delle ricadute sociali, culturali, ambientali interessanti la comunità. Saremmo ciechi se non riuscissimo a distinguere nella grande mutazione culturale e politica di questo ultimo decennio anche un mutato atteggiamento delle popolazioni nei confronti del proprio territorio e del paesaggio che lo caratterizza. C'è un sentire sempre più condiviso e sempre più esteso di appartenenza ai luoghi ed un desiderio sempre più chiaro e diffuso di costruzione di condizioni ambientali che materializzino questa appartenenza. Più che una smania di nuovi spazi o di trasformazioni profonde e traumatiche, che anzi vengono sempre più frequentemente avversate dagli abitanti e dai frequentatori e fruitori a vario titolo dei nostri incomparabili paesaggi urbani ed extraurbani, c'è grande e manifesta la richiesta di qualità specifica e di esaltata peculiarità dei luoghi vissuti: il territorio urbano ed extraurbano è sempre più diffusamente visto come il retaggio della propria identità culturale comunitaria. Ormai non sono più soltanto pochi isolati esteti a guardare con interesse ed attenzione alla composizione del paesaggio in luoghi densi di significati attuali proprio perché carichi delle presenze che ci denunciano le antiche radici, il fitto intreccio di vite che ancora portiamo dentro di noi, spesso però in evidente e pesante contrasto con quanto di improprio ed irriverente é andato a sommarsi nei tempi più recenti. Sempre più numerose sono le persone che lavorano e si organizzano per riconoscere e far riconoscere questi caratteri distintivi e peculiari di ciascun luogo, riportarli alla luce di una fruibilità generalizzata che vuol dire 9


riconoscere i diritti del paesaggio ad esistere in quanto espressione della collettività, in quanto diritto della Comunità. La crescita urbana in questo ultimo decennio sembra non avere più quei connotati intensivi, aggressivi e travolgenti degli ultimi tre decenni trascorsi; ciò consente di guardare ai nostri territori in termini sostanzialmente diversi dal recente passato e di assumere atteggiamenti virtuosi in coerenza con la mutata coscienza collettiva di rispetto e valorizzazione dell'ambiente e delle sue risorse, correggendo finalmente i metodi tradizionali e consolidati di pianificazione che hanno prevalentemente e semplicemente codificato e istituzionalizzato le regole del mercato fondiario quale motore delle trasformazioni del territorio sacrificando ad esso le sue risorse significative. Di fronte al distorto ed aggressivo uso delle risorse che è stato fatto fino ad oggi, alla dissipazione di patrimoni culturali e paesaggistici, alla obliterazione delle più elementari regole dell'arte del costruire, si impone la necessità di ripensare il nostro modo di agire finalizzandolo al raggiungimento di tre obbiettivi fondamentali: sicurezza, bellezza, comodità. Tre concetti questi presenti da millenni nella nostra cultura del risiedere sul territorio e oggi sottaciuti e misconosciuti perché rappresentando concretamente quello che nel pensiero occidentale è l'arte del costruire e la sapienza dell'abitare i luoghi spesso entrano in contrasto con una troppo diffusa prassi dell’insediamento segnato dallo sfruttamento speculativo del suolo. Ricondurre l'attenzione su questi valori della classicità Vitruviana ed Albertiana non è vezzo snobistico né nostalgico recupero di valori culturali passati ma opportuno richiamo a ciò che deve guidare e dare senso alla nostra attuale opera di trasformazione del territorio finalizzata al benessere delle popolazioni che vivono i luoghi. Perseguire e garantire l'obbiettivo sicurezza vuol dire operare sul territorio con scelte e con interventi capaci di prevenire ed evitare i disastri sociali ed economici delle alluvioni, dei terremoti, ma anche arginare il conflitto quotidiano che si svolge sulle strade con un tributo di vite umane simile ad una vera e propria guerra, nonché porre rimedio alla incalzante estensione delle malattie da inquinamento atmosferico ed acustico: vivere in sicurezza sicuri di vivere. Farsi carico dell'obbiettivo bellezza non é astratto intendimento anche se una banale opinione corrente vorrebbe cinicamente farci credere che "é bello quel che piace". In realtà il sentimento della bellezza dei luoghi è qualcosa che accomuna gli individui che appartengono ad un mondo culturale unitario quale quello che ancora fortunatamente ci contraddistingue nonostante le grandi migrazioni ed i grandi sconvolgimenti sociali degli ultimi decenni. C'é diffusa convergenza di intendimenti quando si ricerca l'amenità dei luoghi e si rifiuta lo squallore di luoghi degradati, quando si apprezza la piacevolezza di un percorso e si evita l'anonimato di una strada periferica, quando si cerca di ritrovare la leggibilità del proprio passato in una redola di campagna e si maledice il proprio presente con le scarpe infangate nella sbrecciata zanella di un viadotto, quando ci si attarda ad immaginare il proprio futuro nella calma tiepida di un limpido tramonto che da nuovi colori al nostro paesaggio ovvero si è costretti a otturarsi il naso per i miasmi di un fetido collettore a cielo aperto. La bellezza non é sentimento opinabile, è sentimento comune e comunicabile e pertanto può essere obbiettivo che unifica il percorso di una comunità che intende continuare ad apprezzare e godere della armonia dei propri territori. L'obbiettivo comodità sembra essere oggi appannaggio solo della sfera individuale all'interno del personale guscio residenziale che di frequente entra in contrasto con la sfera pubblica esterna alle mura domestiche: lo stare bene nel proprio ambiente, il sentirsi radicati nel luogo, il fruire di servizi e di comodità é un lusso di pochi fortunati e comunque un lusso che ci si può permettere solo all'interno della propria delimitata residenza, al di fuori di essa si accetta che poco o niente contribuisca allo stare bene, al risiedere piacevolmente che vuol dire avere disponibilità di quegli elementi di sicurezza e di bellezza già precedentemente richiamati ma anche avere la possibilità di gestire il proprio tempo di lavoro e di svago, ovvero vivere. Porci questi obbiettivi sembra ormai irrinunciabile per recuperare un rapporto con i nostri luoghi non conflittuale, non estraniante ma portatore di radicamento e di identità.

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“Il paesaggio deve diventare un tema politico di interesse generale, poiché contribuisce in modo molto rilevante al benessere dei cittadini europei che non possono più accettare di subire i loro paesaggi quale risultato di evoluzioni tecniche ed economiche decise senza di loro. Il paesaggio è una questione che interessa tutti i cittadini e deve venir trattato in modo democratico, soprattutto a livello locale e regionale”. Così si esprime la Convenzione Europea sul Paesaggio ed ancora: ” se si rafforzerà il rapporto dei cittadini con i luoghi in cui vivono, essi saranno in grado di consolidare sia le loro identità, che le diversità locali e regionali, al fine di realizzarsi dal punto di vista personale, sociale e culturale”. La Convenzione Europea sul Paesaggio ha aperto il nuovo millennio ribaltando il concetto di paesaggio: non più uno dei tanti, più o meno discutibili, valori culturali e formali da salvaguardare come testimonianza civile ma il valore unico e riassuntivo del rapporto tra la comunità ed i suoi luoghi, testimonianza dinamica e mutevole di questo rapporto, ma condizione primaria per garantire identità e radicamento delle popolazioni insediate. In altre parole il paesaggio è letteralmente “opera d’arte” collettiva in cui una data comunità si riconosce e che rispecchia quella comunità. Anche se ancora non ratificata da tutti i paesi della Comunità Europea, e cosa ancor più grave non dall’Italia dove ha visto la luce, la Convenzione europea sul Paesaggio è divenuta un punto di riferimento fondamentale per tutti i problemi di governo delle trasformazioni territoriali sia per gli impegni che richiede ai paesi membri, sia per le iniziative che promuove. Su queste ultime Roberto Gambino ci testimonia della articolata attività per dar corpo all’Osservatorio Europeo sul Paesaggio che anche se con comprensibili difficoltà sembra ormai in fase di costituzione. Mentre più lento e pericolosamente distratto da queste tematiche sembra essere tutto il versante delle politiche agrarie comunitarie: come ci ricorda Bruno Benvenuti il paesaggio rurale non è certo parte irrilevante nell’impianto paesaggistico dei nostri territori e molto dei risultati percepibili è strettamente dipendente dalle politiche agricole che vengono promosse, incentivate, finanziate. L’esperienza delle Cooperative agricole ambientali attivate in Olanda fin dal 2001 sembra andare in una direzione antagonista ai processi di modernizzazione agricola devastante i paesaggi storicamente consolidati per contrapporvi un recupero di tecniche agrarie “sostenibili” e fortemente condivise ed attuate dalle giovani generazioni. Su questo versante vale la pena sottolineare il lavoro di ricerca, riferito da Mauro Agnoletti, che si sta svolgendo nell’Università fiorentina e nella Regione Toscana sia per approfondire la conoscenza delle dinamiche evolutive fondiarie agricole e la loro incidenza sulla struttura paesaggistica, sia sulle dimensioni e le diversificazioni colturali che hanno un peso decisivo sul mosaico complessivo dei nostri paesaggi agrari. Deludente nei confronti della Convenzione Europea risulta invece la formulazione del Nuovo Codice dei Beni Culturali e paesaggistici, quando, nella definizione dei beni culturali e paesaggistici, si richiamano direttamente e chiaramente tutti quelli già elencati nel testo unico (che poi sono quelli della 1089, della 1497, della 431 aggiungendo gli immobili e le aree comunque sottoposti a tutela dai piani paesaggistici) e si lascia invariata la proposizione “dei complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale e delle bellezze panoramiche considerate come quadri e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di queste bellezze” nella antica formulazione delle precedenti leggi, quasi che la ormai decennale elaborazione di concetti e di approfondimenti culturali e scientifici sulla tematica del paesaggio non abbia potuto consentire una definizione più stringente ed appropriata del bene paesaggistico. La stessa definizione di Paesaggio adottata dal Codice, nell’evitare accuratamente l’uso della definizione fornita dalla Convenzione Europea del Paesaggio (che poteva anche essere discutibile ma comunque era il risultato di una grande opera di mediazione internazionale ed aveva un suo peso istituzionale) ne ripropone invece una nuova ma non sostanzialmente più elaborata, eludendo sia la concezione del paesaggio come immagine complessiva del territorio (in modo contraddittorio con quanto poi viene affermato in relazione ai piani paesaggistici concernenti l’intero territorio regionale), sia quella del dinamismo della stessa immagine.

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Figura 3: schizzo tratto dai taccuini di viaggio di Augusto Boggiano.

La Convenzione propone di far compiere una notevole svolta al modo di concepire il patrimonio storico e culturale dei nostri paesi: non si tratta più di proteggere e tutelare singoli beni nella loro eccezionalità di immagine e di valore storico ma si tratta di operare perché essi possano essere percepibili e compresi nell’insieme delle loro relazioni all’interno del quadro complessivo del lavoro umano che li ha prodotti e che con essi ha costruito i luoghi dell’identità delle popolazioni residenti. In questa ottica il patrimonio culturale prodotto dalle generazioni che ci hanno preceduto non è una semplice sommatoria di singoli elementi più o meno eccellenti ma è un sistema complesso di elementi e relazioni che può e deve essere sviluppato senza però distruggere né quegli elementi singoli né quelle connessioni materiali ed immateriali che li legano insieme in un organismo in continua evoluzione. E questo patrimonio è una questione che interessa tutti i cittadini che devono essere coinvolti nella evoluzione dei luoghi in cui vivono e non è soltanto un problema di bellezze panoramiche considerate come quadri. In sostanza la Convenzione chiede a tutti gli Stati europei ed a tutte le loro Regioni di passare da una concezione del patrimonio paesaggistico come somma di singoli beni non relazionati e congelati da soggettivi e discutibili vincoli ad una concezione di patrimonio paesaggistico globale, espressione condivisa e percepibile del rapporto natura- lavoro umano, da salvaguardare ed incrementare al fine di rafforzare l’identità locale delle popolazioni ed il loro radicamento e, partendo dalla constatazione che l’organismo è molto di più della somma delle sue parti, ovvero da una visione olistica della realtà del territorio e delle sue possibili trasformazioni, il paesaggio di un territorio diventa il soggetto unico e onnicomprensivo della mutabile immagine di quanto l’azione dell’uomo ha prodotto e sta producendo nel quotidiano confronto con gli elementi naturali ed i beni storici, culturali e paesaggistici assumono il carattere di un sistema complesso la cui garanzia di sopravvivenza dipende dal mantenimento cosciente e condiviso (e, in molti casi, dal rafforzamento) delle relazioni che li interconnettono. Il recupero della dimensione globale del patrimonio paesaggistico che il Codice propone ai soli fini della definizione di diversi livelli di valore paesaggistico riconosciuti per poter operativamente diversificare le modalità di intervento e di trasformazione e conseguentemente stabilire vincoli e limitazioni, non è per niente convincente nel momento in cui è sempre più diffusa la considerazione del paesaggio, dei nostri paesaggi, come risultante dinamica delle relazioni che nel tempo si sono esercitate e si esercitano tra le 12


risorse umane socio-economiche e le risorse fisiche dei nostri territori e quindi il problema emergente non è più tanto quello di trovare i modi per esercitare un potere di veto, peraltro dimostratosi fallimentare, quanto quello di individuare i contenuti di valore per trasmettere un insegnamento ed una coscienza collettiva che consenta di operare virtuosamente nelle trasformazioni che la realtà di vita ci impone. Ancor meno convincente risulta la formulazione del Codice se si considera che nel processo autorizzativo come nell’ambito della vigilanza e del controllo il ruolo delle Soprintendenze sembra sfumare notevolmente verso un contributo di partecipazione attiva a monte, laddove si attuino accordi Ministero-regioni per la attività della commissione per il paesaggio, mentre a valle delle procedure l’autorizzazione è rilasciata dal Comune anche in difformità dal parere della Soprintendenza. GianFranco Di Pietro fa notare che questa “rappresenta un’innovazione discutibile e del tutto inaspettata; forse dovuta alla opportunità di mediare tra Comuni (che ora devono conformarsi al Piano paesaggistico) da una parte e Regione e Provincia dall’altra. Innovazione non giustificata, ad esempio in Toscana, dall’ormai lunga esperienza delle Commissioni Edilizie Integrate dei Comuni, con le troppo spesso poco oculate nomine degli esperti e con l’approccio ricorrente, più burocratico che fondato su una lettura accurata dei valori paesistici e delle valutazioni di merito”. Possono essere condivise le preoccupazioni che Di Pietro esprime alla luce di una lunga esperienza personale di lotta agli spregi al patrimonio paesaggistico toscano ed è fuori dubbio che con questa formulazione il potere centrale ed i suoi organi periferici vogliono essere ampiamente scaricati di responsabilità per riversarla sugli enti territoriali periferici ed in via succedanea (e direi con una buona dose di ipocrisia) sulle “associazioni ambientaliste portatrici di interessi diffusi”.

Figura 4: Gianni Berengo Gardin, Toscana, 1965.

E’ pur vero che il coordinamento e la cooperazione tra gli enti pubblici ministeriali (compreso il Ministero dell’Ambiente) e quelli territoriali sono richiesti diffusamente dal Codice per l’esercizio sia delle funzioni di tutela che delle funzioni e delle attività di valorizzazione, anche per la definizione di indirizzi e criteri riguardanti le attività di tutela, pianificazione, recupero, riqualificazione e valorizzazione del paesaggio e di gestione dei relativi interventi e i due Ministeri (B.A.C. e Ambiente) sono sollecitati a raccordarsi con le regioni per l’elaborazione d’intesa dei piani paesaggistici, ma su questo versante il Codice 13


opera una effettivo cambiamento di rotta e, come sostiene Clementi, “non essendo pienamente convinti della possibilità di far cooperare effettivamente istituzioni centrali e locali, si è preferito distinguere almeno tra beni culturali e beni paesaggistici, affidandoli rispettivamente alle cure dello Stato e delle Regioni. Confidando poi che un auspicabile processo di concertazione interistituzionale possa portare a coerenza le politiche complessive del patrimonio, nelle sue articolazioni centrali e periferiche.” Si confida in una leale collaborazione senza peraltro configurare gli strumenti e le risorse che possano attuare questa convergenza di interessi tra il centro e la periferia. Anche l’auspicabile definizione unificata di metodologie di conoscenza del patrimonio immobiliare e paesaggistico (richiamata dall’art.156) rimane sospesa in un limbo senza tempo e senza artefici. E’ questo un vuoto di iniziativa nel quale la Regione, le Province ed i Comuni dovrebbero potersi impegnare a fondo per passare ad un maturo superamento del vincolismo che tuttora pervade le problematiche della tutela e valorizzazione ed è da augurarci che le nuove formulazioni della legge regionale sul governo del territorio con l’accentuazione del ruolo decisivo dello Statuto del territorio possano ricondurre questa parte delle disposizioni ad un significato di mero snellimento delle procedure anziché incrementare i ricorsi al TAR da parte delle associazioni ambientaliste e di qualsiasi altro soggetto pubblico o privato che ne abbia interesse. Il nodo centrale quindi rimane la pianificazione paesaggistica assegnata dal Codice in toto alle regioni che devono approvare piani paesaggistici ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l’intero territorio regionale. La formulazione del Codice ripropone la annosa questione delle pianificazioni separate: due piani (paesaggistico e urbanistico) o un unico piano urbanistico- territoriale con valenza di piano paesaggistico; anche se lascia aperta la strada ad entrambi gli strumenti di gestione del territorio, sembra però propendere verso una doppia pianificazione dal momento che chiede ai piani paesaggistici la previsione di misure di coordinamento con gli strumenti di pianificazione territoriale e di settore, nonché con gli strumenti nazionali e regionali di sviluppo economico. La negatività di una doppia strumentazione pianificatoria sullo stesso contesto territoriale è già stata messa in evidenza in molte occasioni culturali e politiche, non fosse altro che per la difficoltà, spesso insormontabile, di far comunicare correttamente i responsabili dei diversi settori a tutti i livelli amministrativi, non soltanto di far comunicare gli strumenti pianificatori. Sembra invece più percorribile la strada che sta seguendo la Regione Toscana individuando nello Statuto del Territorio la elaborazione più consona alla gestione delle trasformazioni paesaggistiche. Lo statuto del territorio, nell’assumere le invarianti strutturali come elementi cardine dell’identità dei luoghi, può individuare le regole di insediamento storicizzate e definire le nuove regole di insediamento compatibili con i connotati strutturali dei luoghi, coerenti con la loro formazione storica ed adeguate allo sviluppo sostenibile degli stessi. Se poi tutti gli strumenti di governo del territorio ed i relativi processi di trasformazione si conformano allo statuto del territorio, questo può conferire allo strumento di pianificazione territoriale la valenza di piano paesaggistico ai sensi del Codice. Va da sé che ogni strumento della pianificazione territoriale (regionale, provinciale, comunale) dovrà definire lo statuto del territorio ai diversi livelli di specificazione e determinare gli obiettivi, gli indirizzi e le azioni progettuali stabilendo criteri per verificare la compatibilità, la coerenza, la adeguatezza dei conseguenti atti. E’ questo un processo circolare e di piena sussidiarietà della definizione del piano paesaggistico che passando attraverso l’elaborazione di Statuti del Territorio a diverse scale e con diversi livelli di cogenza può arrivare a definire un vero, reale quadro complessivo regionale del patrimonio paesaggistico e culturale condiviso e finalmente depurato della soggettività degli attuali vincoli. Del resto non vedo come si possa suddividere il territorio regionale in ambiti omogenei ai quali assegnare corrispondenti obbiettivi di qualità paesaggistica credibili ed operativi se non si attua un processo di coinvolgimento di tutte le istanze locali che in quegli obbiettivi si possono impegnare in quanto finalizzati a mantenere e rinforzare le loro identità culturali.

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Ma se, come dicevo in precedenza, non si tratta più di trovare i modi per esercitare un potere paternalistico, ma di individuare i contenuti di valore per trasmettere conoscenza e coscienza collettiva del nostro patrimonio, la risposta emersa dal convegno può essere sicuramente considerata positiva. Sul fronte della scuola l’analisi di Giulio G. Rizzo mette in luce un orizzonte di interessi, accademici e non, ampio ed articolato, (forse anche troppo sembra sottolineare il relatore) che indubbiamente sconta le improvvisazioni delle “mode” ma che mette in luce una indubbia dilatazione degli interessi culturali e educativi su tutto il versante delle analisi del patrimonio paesaggistico e su quello della preparazione alla progettazione paesaggistica. Sul fronte della professionalità sia le esperienze progettuali di un maestro della progettazione paesaggistica quale è Guido Ferrara, sia quelle presentate dai più giovani allievi del Dottorato di Ricerca in Progettazione paesistica della Facoltà di Architettura presentano una maturità metodologica di grande rilievo che va al di là del giudizio che si voglia dare sui prodotti specifici presentati. Sul fronte delle amministrazioni pubbliche territoriali toscane Carlo Alberto Garzonio documenta un lavoro, in corso di elaborazione, tendente a georeferenziare su cartografia tecnica i siti di rilevanza geologica al fine di incrementare con documentazione certa la conoscenza del nostro territorio regionale e del suo patrimonio culturale già intrapresa dall’Assessorato alla Cultura regionale toscano con la georeferenziazione di tutto il patrimonio vincolato ai sensi delle ex leggi 1089 e 1497, mentre Gian Franco Gorelli presenta un quadro di grande interesse per quanto riguarda l’attività dei Comuni alle prese con l’elaborazione dei loro Piani Strutturali: leggere, interpretare e descrivere i paesaggi dei territori interessati diventa materia fondativa dell’elaborazione urbanistica per poter trasmettere al più ampio pubblico possibile i valori fondamentali dei luoghi. Ritengo di fondamentale importanza questo tipo di esplorazione e di traduzione grafica perché se vogliamo che le logiche immobiliaristiche che hanno caratterizzato la prassi urbanistica del secolo scorso possano essere, non dico sconfitte, ma perlomeno attenuate vedo un passaggio obbligato attraverso la diffusione della conoscenza del territorio e dei suoi valori fondamentali puntigliosamente descritti e leggibili anche dai non addetti ai lavori, da tutti coloro che abitano i luoghi. Alla luce di quanto fin qui detto mi sembra ovvio che l’ambito Comunale del Piano Strutturale sia di prioritaria e decisiva importanza per superare vecchi e sempre eludibili vincoli, nonché le burocratiche strutture preposte a farli rispettare. A fondamento del Piano Strutturale la elaborazione dello Statuto del Territorio dovrebbe poter rappresentare la base costituzionale del Piano stesso e pertanto avere come fondamentali caratterizzazioni: - la codifica delle regole di insediamento coerenti con il patrimonio culturale e paesaggistico; - essere esteso a tutto il territorio comunale; - avere valenza di Piano Paesaggistico; - essere condiviso dalla comunità comunale. Lo Statuto del Territorio, nell’assumere le invarianti strutturali come elementi cardine dell’identità dei luoghi, dovrebbe individuare le regole di insediamento storicizzate e definire le nuove regole di insediamento compatibili con i connotati strutturali dei luoghi, coerenti con la loro formazione storica ed adeguate allo sviluppo sostenibile degli stessi. Per individuazione delle regole di insediamento storicizzate intendo la lettura, la descrizione, l’interpretazione e la condivisione delle conformazioni del patrimonio culturale e paesaggistico esistente in un contesto territoriale nelle sue componenti fondamentali: -la morfologia del terreno; -la diversità colturale; -la discontinuità formale; -la configurazione dei limiti; -la diversificazione delle sistemazioni agrarie (terrazzamenti, ciglionamenti, arginature, ecc.); -la disomogeneità dimensionale; 15


-la tipologia di insediamento stanziale; -la tipologia edilizia dei volumi emergenti; -la rete infrastrutturale storica; -le configurazioni arboree; -le configurazioni idrologiche; -la tessitura minuta (orti, giardini, parchi). In relazione a queste componenti che configurano il quadro paesaggistico e culturale complessivo dovrebbero essere statutariamente definite le regole di insediamento futuro con esse compatibili, coerenti ed adeguate. Tali regole dovrebbero essere definite per l’intero territorio comunale e trovare una corretta applicazione proprio nella giusta istituzione di interrelazioni fisiche e sociali con la generalità delle realtà territoriali ancorché differenziate da modalità d’uso non omogeneo. In questa ottica se si vuole decadono anche le distinzioni tra aree extra urbane ed aree urbane e le delimitazioni richieste dalla L. 64 tra aree a prevalente destinazione agricola ed aree ad esclusiva destinazione agricola: il continuum culturale e paesaggistico sopporta raramente linee di demarcazione. E’ invece indubbia esperienza vissuta nell’analisi dei Piani Strutturali la constatazione di difficoltà incontrate nella delimitazione territoriale di realtà fortemente compenetrate. Molto frequentemente ho potuto verificare elaborazioni di P.S. che in definitiva venivano a configurarsi come un ritorno ai vecchi e faticosamente superati Programmi di Fabbricazione: alcune UTOE dell’urbano (con regolamentazioni edilizie più o meno condivisibili ma di carattere prettamente edificatorio) venivano enucleate in contrapposizione all’universo agricolo (più o meno strutturato e diversificato). Sono più che convinto che una tale elaborazione sia controproducente e contraddittoria con gli stessi assunti concettuali del Piano Strutturale così come configurati nella nostra legge regionale e nelle stesse nuove disposizioni del Codice: la globalità del territorio e delle sue relazioni fisiche, sociali, economiche, culturali deve essere assunta e governata ai fini di assicurare un condiviso e coerente sviluppo sostenibile, ovvero se si vuol crescere senza distruggere la propria identità. La trama dei filamenti che mettevano (e spesso ancora mettono) in relazione gli insediamenti edificati più o meno concentrati con gli insediamenti più o meno diffusi della campagna toscana e con il suo articolato e diversificato tessuto agrario e’ componente non secondaria del patrimonio paesaggistico che sempre più si configura come risorsa fondamentale della nostra regione. Lo Statuto del Territorio può assumere così valenza di Piano Paesaggistico in quanto si struttura come un reale strumento di pianificazione e non come spesso si configura negli attuali Piani Strutturali come pedissequa sommatoria di invarianti strutturali e/o pura elencazione di vincoli precostituiti. La individuazione nell’ambito dello Statuto del Territorio delle componenti strutturali dell’identità dei luoghi nella loro formazione storica e nella loro evoluzione secondo regole cogenti e condivise consente di superare la semplice apposizione di vincoli per pervenire alla determinazione di quelle che possono essere classificate come permanenze inderogabili in quanto sia nella loro forma fisica che nella loro struttura funzionale costituiscono capisaldi della riconoscibilità culturale del luogo ma anche alla individuazione di quelle che possono definirsi persistenze di tutta quella parte di patrimonio che pur persistendo fisicamente nel tempo ha mutato e può ancora mutare nel suo ruolo e nella sua funzione. Laddove lo Statuto del Territorio venga elaborato coerentemente con una approfondita conoscenza della struttura profonda del patrimonio territoriale dando conto e rendendo chiaramente percepibili tutti gli elementi costitutivi e fondanti del paesaggio locale, esso può diventare carta costituzionale condivisa della comunità che in essa si riconosce e che in essa ritrova un suo proprio codice di comportamento nella operatività pratica delle trasformazioni che lo sviluppo sociale ed economico giornalmente richiede. A mio vedere l’esperienza di questo ultimo decennio, e la così ampia partecipazione al convegno, ha messo in evidenza una crescita di interesse, di coinvolgimento e di attenzione ai temi del nostro patrimonio culturale tale da far pensare che non sia impossibile pensare ad una tutela e valorizzazione non più basata tanto su categorici quanto evadibili vincoli né tanto meno su articolate e dettagliate norme sempre raggirabili, quanto piuttosto su di un 16


coinvolgimento cosciente e diffuso della comunità partecipe dell’evoluzione del proprio patrimonio. I grandi, unici ed universalmente riconosciuti paesaggi della nostra regione sono oggi esposti a trasformazioni difficilmente riconducibili a categorie unitarie dettagliatamente assoggettabili a norme che possano garantire la tutela dell’immagine complessiva del nostro territorio: la micro trasformazione edilizia che erode tessuti di grande valore rappresentativo si associa spesso alla macro trasformazione agraria che stravolge quantità rilevanti di territorio. Di fronte a tale variegata e differenziata pressione credo che sia votata a scarsi risultati concreti anche la più accurata e dettagliata normativa verticistica. Sono convinto invece che nella nostra regione possano essere trovate tra tutte le amministrazioni (Comuni, Province, Regione) quelle sinergie necessarie per pervenire ad un Piano Paesaggistico regionale pienamente condiviso a tutti i livelli. Ogni livello può avere suoi ruoli specifici ed in particolare credo che il più significativo lavoro debba poter essere svolto dai Comuni ai quali, nella elaborazione dei loro Piani Strutturali, compete la più accurata lettura, descrizione, interpretazione ed infine condivisione del loro patrimonio culturale e paesaggistico, come ormai molti comuni stanno facendo, pervenendo ad una puntuale e dettagliata configurazione organica del patrimonio e superando l’aleatorietà e le lacunosità della vincolistica tradizionale.

RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1, 3 : Disegni di Augusto Boggiano. Per gentile concessione di Francesca Boggiano. Figura 2: Dipinto di Edita Broglio (1954). Riproduzione tratta da Il Paesaggio italiano degli ultimi cento anni, Regione Toscana/Touring Club Italiano, Firenze 2005, pag. 23. Figura 4: fotografia di Gianni Berengo Gardin (1965), tratta da Il Paesaggio italiano. Idee, contributi, immagini, Touring Club Editore, Milano 2000, pag. 31.

© Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 – numero 8 – luglio-dicembre 2007 sezione: Saggi pagg. 18 - 24

LANDSCAPE EDUCATION: N EW OPPORTUNITIES FOR TEACHING AND RESEARCH IN E UROPE. POTENTIALS OF THE LE:NOTRE ERASMUS NETWORK FOR LANDSCAPE ARCHITECTURE EDUCATION IN E UROPE Ellen Fetzer*

L’INSEGNAMENTO

DELL’ARCHITETTURA DEL PAESAGGIO: NUOVE OPPORTUNITÀ PER LA DIDATTICA E LA RICERCA IN E UROPA. LE POTENZIALITÀ DELLA RETE LE:NOTRE ERASMUS Traduzione di Antonella Valentini** Summary In 2002, Eclas (the European Council of Landscape Architecture Schools) started the first Thematic Network Project in Landscape Architecture. Many databases on specialist literature, academic journals, European environmental policies, web links, landscape designs and so on, have been established. The LE:NOTRE thematic network meets the characteristics of a Community of Practice, a network of practitioners who share the same domain of interest. Learning in a CoP means a not traditional way of education, based on the contribution of all users and a lifelong learning. To develop this concept, some pilot courses have been organized in form of collaborative seminars whose participants, coming from different European universities, meet in a virtual room hosted by Le:Notre. A new concept of learning through communication and interaction in collaborative virtual environments is bore. Key-words Landscape Education, Le:Notre Project, Thematic Network for Landscape Architecture. Abstract Nel 2002 l’Eclas (Consiglio Europeo delle Scuole di Architettura del Paesaggio) ha dato l’avvio al primo progetto di Rete Tematica di Architettura del Paesaggio attraverso il quale sono state costruite una serie di banche dati in tema di paesaggio. La rete tematica di Le:Notre assume le caratteristiche di una “Community of Practice”, rete di utenti che condividono lo stesso dominio di interesse. Imparare all’interno di una CoP presuppone un modo di apprendimento diverso da quello tradizionale, basato sul contributo di tutti gli utenti e in modo continuo. Per sviluppare questo tipo di educazione sono stati organizzati corsi pilota nella forma di seminari interattivi i cui partecipanti, provenienti da differenti università europee, si incontrano nella piattaforma virtuale di Le:Notre. Un nuovo concetto di apprendimento attraverso la comunicazione e l’interazione in ambienti virtuali si consolida. Parole chiave Insegnamento di architettura del paesaggio, Progetto Le:Notre, Rete Tematica per l’Architettura del Paesaggio.

* Coordinatrice del Master internazionale per l’architettura del paesaggio (IMLA) all’Università di Nürtingen-Geislingen (Germania) e membro del comitato direttivo di Le:Notre. ** Architetto specializzata in Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio e Dottore di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze. 18


LANDSCAPE ARCHITECTURE: A STRANGE AND DIVERSE DISCIPLINE Landscape architecture is definitely the trouble child of academic classification: it is not a fine art, it is not a technology, it is not a natural science and it is not a humanistic discipline. Is it not curious that the discipline has developed so widely without having a precise disciplinary footing? But one can also put it positively. Landscape architecture is an integrative discipline bridging old-fashioned gaps between the humanities and technology. However, being integrative by nature also means taking the difficult way. For a landscape architect it is hard work to be heard and understood. This heterogeneity becomes very obvious on the European level. Landscape education can be found at art academies and architectural departments, at universities of technology, agronomy and forestry, as well as at universities of professional education. Some courses were established already in the first decades of the 20th century, such as in Norway, Germany and Portugal, whilst others have only recently been developed. Consequently, educational programmes are varying a lot in terms of contents, length, pedagogies and learning objectives despite the profound synchronising effects of the Bologna Process1. However, diversity is also a potential, if effective communication and interaction are established and practiced. Looking at the professional side the contrasts seem even sharper. Although landscape architecture is now widely being recognised as a profession, the number of independent landscape architecture offices is still very unbalanced in Europe. Nevertheless, there is an equal need for this expertise given the fact that almost eighty percent of Europe's population lives in urban and peri-urban areas. This results not only in an unbalanced awareness of landscape architecture in society but also in a strong inequality concerning graduates' chances to enter the profession adequately. There is not a one-size-fits-all solution at hand to improve the situation. However, some important steps have been taken in recent years. The Council of Europe enforced the European Landscape Convention2. One of its most important achievements is an agreed, common definition of landscape: “Landscape means an area, as perceived by people, whose character is the result of the action and interaction of natural and/or human factors”. Furthermore, the definition of the scope of the convention is decisive: “This Convention applies to the entire territory of the Parties and covers natural, rural, urban and peri-urban areas (...) It concerns landscapes that might be considered outstanding as well as everyday or degraded landscapes”3. This inclusion of urban and peri-urban areas into this definition was urgently needed and it gives a forward-looking character to this document. The second principal achievement of the convention is that landscape is identified as an issue for society as a whole, which should bring landscape from the conservationalists’ ivory tower back on the political agendas. At least it is hoped that this will occur: the Council of Europe has no executive power for controlling the implementation of the convention. The final responsibility remains with the national authorities.

STARTING A THEMATIC NETWORK FOR LANDSCAPE ARCHITECTURE The European Landscape Convention gives an excellent background for the activities of Eclas, the European Council of Landscape Architecture Schools4. Only recently established 1

The Bologna Process is based on the so-called Bologna Declaration. It is an intergovernmental European reform process aimed at establishing the European Higher Education Area (EHEA) by 2010. For more information you may visit the official website 2007 – 2009: http://www.ond.vlaanderen.be/hogeronderwijs/bologna/ 2 See the Council of Europe’s website for more information: http://www.coe.int/t/e/Cultural_Co-operation/Environment/Landscape/ 3 www.coe.int/t/e/cultural_co%2Doperation/environment/landscape/presentation/9_Text/index.asp#TopOfPage 4 http://www.eclas.org, for more information on the concept and activities of Eclas.

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as a legal institution, Eclas aims to foster exchange and collaboration in European landscape architecture education. In 2002, Eclas started the first Thematic Network Project in Landscape Architecture with significant financial support of the European Union's Erasmus programme. The network project has taken “an important initial step in documenting the current state of the art, seeking common ground and building bridges between the various parts of the discipline and the varied traditions which have developed in very different European contexts over the past decades. A detailed survey of institutions, degree programmes, their component course units and the teachers and researchers involved was carried out using a specially designed web site5. This has been developed to provide an interactive range of communication tools aimed at supporting the development of a coherent and open European academic community. A sophisticated glossary database has been set up, which now contains a wide range of terms and definitions in over thirty languages. Other databases established so far cover specialist literature, academic journals, relevant aspects of European environmental policy, web links and landscape design case studies, and provide common resources for all members, which it is planned to develop further. The close and growing involvement of the Network in the Tuning Project6 has also provided a structured basis for the discussion of the definition of generic and subject specific competences for the discipline. The number of participating institutions in the Le:Notre Project has increased successively, from seventy three higher education institutions in the first to one hundred and one in the current proposal”7.

COMMUNITIES OF PRACTICE AND LIFELONG LEARNING The Le:Notre thematic network meets the characteristics of a Community of Practice. Communities of Practice, or CoPs in short, are networks of practitioners who share the same domain of interest. The members of a CoP vary in their level of expertise and type of specialisms. In Le:Notre one may find students, academic assistants, lecturers and professors, each with his or her individual specialisation. Members may also have different roles and relationships in the community. The sum of relationships, mutual trust and awareness is called social capital8. The principal idea of Le:Notre is to develop and accumulate social capital beyond national and institutional boundaries on a European level. Current developments in the community aim to include also landscape architecture professionals and experts working for public institutions9. In doing so, the network has the potential of bridging existing knowledge gaps between education, professional practice and the public sector. At the same time, it is thanks to the tremendous developments in information and communication technology that communities of practice are getting more interactive, efficient and thus more important as a social, educational and subject-specific resource. Another important aspect inherent in the network is the idea of lifelong learning. Everybody concerned with landscape architecture should be able to join the network and profit from its resources at any stage of his or her professional life. This is hoped to coincide with a new future role of universities: instead of their current concentration on the first academic education they are expected to develop stepwise into lifelong learning partners. The 5

The project website is accessible under http://www.le-notre.org. New members are registered via the contact persons of member universities and partner institutions. 6 The tuning project aims at harmonizing educational structures and contents of studies in Europe. For more information: http://www.tuning.unideusto.org/tuningeu/ 7 Quoting from www.le-notre.org 8 FISCHER GERHARD, ROHDE MARKUS, VOLKER WULF, Community-based learning: The core competency of residential, research-based universities, “International Journal of Computer-Supported Collaborative Learning”, 2, 2007, pagg. 9-40. 9 The European Urban Landscape Partnership has become a sub-project of Eclas/Le:Notre. For more information please visit http://www.urban-landscape.net/

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European Union has repeatedly promoted this important shift because it is regarded as absolutely necessary for keeping and enriching people's professional competences and thus secure their employability.

Figures 1 e 2. Le:Notre web site database. The Glossary, which now contains a wide range of terms and definitions in over thirty languages and Literature references.

USER-GENERATED CONTENT AND THE NATURE OF COMMUNITY KNOWLEDGE So what does learning in a Community of Practice mean? This is of course very far away from instructed course units with a teacher in the front and a group of students in the back, listening to the “wise man or woman on the stage� 10. The philosophy of Le:Notre is that any domain knowledge is of relevance, irrespective of the country or the person it originates from. However, a minimum level of quality control is required. The basic instrument for quality assurance is the premise that registered people have to be actively involved in landscape architecture education or professional practice. This is proved by their employment, engagement or enrolment in the respective institutions. Therefore, the basic task of Le:Notre is not to develop contents but to structure them in a meaningful and user-friendly way. This is mainly achieved by means of interactive databases. These have been developed for course units, literature, images, design projects, links, journals and more. The contents vary but the principle is always the same: any member can add records to the database originating from his or her specialism and these entries can be searched and used afterwards by everyone. The more individuals add content, the more they will profit from the community resource. A very good example is the images database. The motivation for its development resulted from the perceived difficulty in finding relevant images for landscape architecture lectures. This is particularly true for representations of recently developed projects, plants, materials and details. The idea of this database is to share relevant images and to annotate them with metadata so that they can be searched by location, theme etc. and used for academic purposed. The principle is similar to popular public photo communities on the internet. But apart from the formal benefits of a shared resource this database also makes people meet through images. People get in touch by means of the shared image, even if they do not communicate directly. This effect illustrates the Le:Notre principle of community-based learning which gives each 10

Please consider the Olcos roadmap for more information about open educational practices: GUNTRAM GESER (editor), Open Educational Practices and Resources; OLCOS Roadmap 2012, 2007. The report is downloadable under http://www.olcos.org

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individual an expert role. Individual expertise gains more value as soon as more interactions and requests take place and people are continuously being identified by others through this specified knowledge. This is where social capital starts to develop and accumulate. But it only works when people are willing to share and communicate. BUT DO WE REALLY UNDERSTAND EACH OTHER ? Le:Notre is now in its second project cycle running until October 2009. The databases contain about 22.265 11 entries in different subject domains. However, a more effective mapping of the concepts in the domain is considered as one of the most important future tasks. If one tries to forecast the development of the internet taking into account how it has developed in the last ten years it seems to be clear that too less data will not be the problem. The opposite will be, or is already the case. Therefore, the interest will focus much more on how to access this information. For landscape architecture, the question is: how to find relevant information for domainspecific topics easily and comprehensively? Even if they are existing in a different language? Even within a domain specific community there are a lot of semantic gaps. These misconceptions are not only existing between the various national terminologies for landscape architecture but also within the profession itself. From this perspective it seems that the classical method of ontology development could become a part of the solution. The word ontology comes from the Greek ontos (being) plus logos (word). In classical philosophy it described an aspect of metaphysics concerned with the nature and relation of being. The related strategy is mainly to provide category systems representing a certain vision of the world. This aspect of modelling reality was adopted by computer sciences in order to classify and interrelate large amount of data for knowledge management purposes12. Ontologies support the exchange of domain specific information significantly. Building a shared ontology for the domain of landscape architecture bears the potential of bridging conceptual gaps within the profession, in particular between the languages. Even if there will never be a concept definition agreed by everybody the process of drafting it could enhance a fruitful reflection and clarification process across national and institutional boundaries. This will further help to define the points where landscape architecture meets its neighbouring disciplines. It might be argued that this is too much a top-down process resulting in inflexible structures without ambiguity. But computer scientists are much less rigid with concept definitions than domain experts, such as landscape architecture academics in this case, tend to be. In computer science ontologies are regarded as living structures: “Communities and practices will change norms, conceptualizations and terminologies in complex and sociologically subtle ways. We should not be surprised or attempt to resist these reformulations”13. But in addition to the conceptual benefits the actual potential of the ontology lies in its translation into a machine-interpretable language, such as OWL (Web Ontology Language). If search engines or other computer agents apply these underlying concepts during the search they actually look through the eyes of the expert at the available contents on the internet – of course a little bit faster than any living expert could do it! Consequently, the chances to identify relevant information will be significantly higher than they are today. This concept is understood as the semantic web, a web consisting of an interpretable information infrastructure, which is now emerging stepwise. 11

Status on the 2nd of October 2007. KARIN K. BREITMAN, MARCO ANTONIO CASANOVA , WALTER TRUSZKOWSKI, Semantic Web Concepts, Technologies and Applications, Nasa Monographs in Systems and Software Engineering, Springer, 2007. For deeper insights into ontologies and the semantic web. 13 NIGEL SHADBOLT, WENDY HALL, TIM BERNERS-LEE, The Semantic Web Revisited, IEEE publications, May/June 2006. 12

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Figures 3 e 4. Searching in Le:Notre web site images and projects.

WHAT NEEDS TO BE DONE ? It remains to be hoped that the European landscape architecture academic community is open enough for a new concept of learning through communication and interaction in collaborative virtual environments. One attempt might be to bring the Le:Notre environment closer to the actual educational activities. Therefore, pilot courses are being organised since last spring in the form of collaborative seminars. The participants of these teaching events come from different European universities and locations, therefore they depend on a virtual information platform which will be integrated in the Le:Notre website. The seminar activities feed directly into the databases in the form of design project reports, images, links and literature reference, which can thus be reused later on. In order to bridge the communication gap effectively the group meets synchronously in a virtual meeting room which is also hosted by the Le:Notre project. 14 The system allows for synchronous presentations with very intuitive communication and interaction of the participants. The seminars will be evaluated and documented on the website. It is expected that more consortia of European landscape architecture schools will follow this example building on the expertise gained in the pilot projects. The educational benefits are manifold: students gain important media, communication and intercultural competences and they also learn to consider landscape architecture from different national perspectives. In the course described here students are asked to elaborate a joint essay on specific landscape architecture topics in international small groups. But this is only one of many educational scenarios. What should be reminded is that community learning in virtual collaborative environments has the potential for changing learning cultures and didactical concepts. Learning can take place across institutional and national boundaries. Artefacts such as project results, images and collaborative essays can stay in the community and remain accessible as a potential resource for future learning activities. Again: social capital is accumulated. These activities will take place in completely new contexts even beyond classical university education.

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This highly interactive virtual meeting room has been developted by the German Fraunhofer Institut. More information can be found under http://www.vitero.de

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REFERENCES BREITMAN KARIN K., CASANOVA MARCO ANTONIO , WALTER TRUSZKOWSKI, Semantic Web Concepts, Technologies and Applications, Nasa Monographs in Systems and Software Engineering, Springer, 2007. FISCHER GERHARD, ROHDE MARKUS , VOLKER WULF , Community-based learning: The core competency of residential, research-based universities, “International Journal of ComputerSupported Collaborative Learning”, 2, 2007, pagg. 9-40. GUNTRAM GESER (editor), Open Educational Practices and Resources; OLCOS Roadmap 2012, 2007, http://www.olcos.org SHADBOLT NIGEL, HALL WENDY, BERNERS-LEE TIM, The Semantic Web Revisited, IEEE publications, May/June 2006. Web sites http://www.ond.vlaanderen.be/hogeronderwijs/bologna/ http://www.coe.int/t/e/Cultural_Co-operation/Environment/Landscape/ http://www.coe.int/t/e/cultural_co%2Doperation/environment/landscape/presentation/9_Text /index.asp#TopOfPage http://www.eclas.org http://www.le-notre.org http://www.urban-landscape.net/ http://www.vitero.de

IMAGES REFERENCES Figure 1-4: http://www.le-notre.org

Text acquired by editorial staff in November 2007. © Author Copyright. Use is possible if source is quoted.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 – numero 8 – luglio-dicembre 2007 a cura di Anna Lambertini sezione: Saggi pagg. 25 - 31

LANDSCAPE EDUCATION: N EW OPPORTUNITIES FOR TEACHING AND RESEARCH IN E UROPE. POTENTIALS OF THE LE:NOTRE ERASMUS NETWORK FOR LANDSCAPE ARCHITECTURE EDUCATION IN E UROPE L’INSEGNAMENTO

DELL’ARCHITETTURA DEL PAESAGGIO: NUOVE OPPORTUNITÀ PER LA DIDATTICA E LA RICERCA IN E UROPA. LE POTENZIALITÀ DELLA RETE LE:NOTRE ERASMUS Ellen Fetzer* Traduzione di Antonella Valentini**

Summary In 2002, Eclas (the European Council of Landscape Architecture Schools) started the first Thematic Network Project in Landscape Architecture. Many databases on specialist literature, academic journals, European environmental policies, web links, landscape designs and so on, have been established. The LE:NOTRE thematic network meets the characteristics of a Community of Practice, a network of practitioners who share the same domain of interest. Learning in a CoP means a not traditional way of education, based on the contribution of all users and a lifelong learning. To develop this concept, some pilot courses have been organized in form of collaborative seminars whose participants meet in a virtual room hosted by Le:Notre. A new concept of learning through communication and interaction in collaborative virtual environments is bore. Key-words Landscape Education, Le:Notre Project, Thematic Network for Landscape Architecture.

Abstract Nel 2002 l’Eclas (Consiglio Europeo delle Scuole di Architettura del Paesaggio) ha dato l’avvio al primo progetto di Rete Tematica di Architettura del Paesaggio attraverso il quale sono state costruite una serie di banche dati in tema di paesaggio. La rete tematica di Le:Notre assume le caratteristiche di una “Community of Practice”, rete di utenti che condividono lo stesso dominio di interesse. Imparare all’interno di una CoP presuppone un modo di apprendimento diverso da quello tradizionale, basato sul contributo di tutti gli utenti e in modo continuo. Per sviluppare questo tipo di educazione sono stati organizzati corsi pilota nella forma di seminari interattivi i cui partecipanti, provenienti da differenti università europee, si incontrano nella piattaforma virtuale di Le:Notre. Un nuovo concetto di apprendimento attraverso la comunicazione e l’interazione in ambienti virtuali si consolida. Parole chiave Insegnamento di architettura del paesaggio, Progetto Le:Notre, Rete Tematica per l’Architettura del Paesaggio.

* Coordinatrice del Master internazionale per l’architettura del paesaggio (IMLA) all’Università di Nürtingen-Geislingen (Germania) e membro del comitato direttivo di Le:Notre. ** Architetto specializzata in Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio e Dottore di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze. 25


L’ARCHITETTURA DEL PAESAGGIO : UNA DISCIPLINA STRANA E DIVERSA L’architettura del paesaggio è innegabilmente il “ragazzo difficile” per le classificazioni accademiche: non è belle arti, né tecnologia, non è scienza naturale, né umanistica. Non è curioso dunque che la disciplina si sia sviluppata così ampiamente senza avere una impronta disciplinare precisa? Questo, però, si può anche interpretare positivamente. L’architettura del paesaggio è una disciplina integrativa che colma il divario, inteso alla vecchia maniera, tra gli studi umanistici e quelli tecnologici. Essendo però complementare anche alla Natura, ciò vuol dire intraprendere una via difficile. Per un architetto del paesaggio è un lavoro duro da comprendere e capire. Questa eterogeneità diviene molto evidente a livello europeo. L’insegnamento del paesaggio può trovarsi in dipartimenti diversi, accademie di belle arti o architettura, università di tecnologia o scienze agronomiche e forestali, come pure in università di educazione professionale. Alcuni corsi sono stati fondati già nella prima decade del Ventesimo secolo, come in Norvegia, Germania e Portogallo, mentre in altri paesi questi insegnamenti si sono sviluppati più recentemente. Di conseguenza i programmi educativi sono vari, differendo per un ampio spettro di contenuti, dimensioni, approcci pedagogici e obiettivi didattici, nonostante gli effetti di profonda sincronia derivanti dal Processo Bologna1. Comunque, la diversità è anche una potenzialità, se vengono stabilite e praticate effettive comunicazioni e interazioni. Guardando al lato professionale il contrasto sembra essere ancora più acuto. Sebbene oggi l’architettura del paesaggio sia ampiamente riconosciuta come professione, il numero di uffici che si occupano di tale materia è ancora molto sbilanciato all’interno dell’Europa. Nonostante ciò, c’è un uguale bisogno per questi esperti dato dal fatto che quasi l’ottanta percento della popolazione europea vive in aree urbane e periurbane. Questo si traduce non solo in una non proporzionata consapevolezza dell’architettura del paesaggio nella società, ma anche in una forte ineguaglianza che coinvolge le possibilità dei laureati di entrare in modo adeguato nella professione. Non esiste una unica soluzione valida in modo universale per migliorare la situazione, però alcuni importanti passi sono stati compiuti negli ultimi anni. Il Consiglio d’Europa ha sostenuto la Convenzione Europea del Paesaggio 2. Uno dei suoi più importanti successi è la definizione condivisa e comune del termine paesaggio “Paesaggio designa una parte del territorio così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere risulta dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Inoltre, la definizione dello scopo della Convenzione è risoluta: “La Convenzione si applica a tutto il territorio delle Parti e si riferisce agli spazi naturali, rurali, urbani e peri-urbani (…). Essa riguarda sia i paesaggi che possono essere considerati come eccezionali sia i paesaggi della vita quotidiana che i paesaggi degradati quelli degradati” 3. L’aver incluso le aree urbane e periurbane dentro questa definizione è stata ritenuta una urgenza necessaria che attribuisce a questo documento un carattere d’avanguardia. Il secondo importante risultato della Convenzione è che il paesaggio è identificato come un bisogno della società nel suo complesso, che dovrebbe portarlo dalla convenzionale torre d’avorio a cui era tradizionalmente relegato alle agende politiche; od almeno si spera che ciò accadrà. Il Consiglio d’Europa non ha infatti potere esecutivo per controllare l’implementazione della Convenzione e la responsabilità finale rimane alle autorità nazionali.

1 Il Processo Bologna si fonda su quella che è chiamata Dichiarazione di Bologna. E’ un processo di riforma intergovernamentale indirizzato a stabilire una Area di Educazione Superiore Europea (EHEA) per il 2010. Per maggiori informazioni si veda il sito ufficiale 2007-2009, http://www.ond.vlaanderen.be/hogeronderwijs/bologna/ 2 Si veda, per approfondimenti, il sito web del Consiglio d’Europa: http://www.coe.int/t/e/Cultural_Cooperation/Environment/Landscape/ 3 www.coe.int/t/e/cultural_co%2Doperation/environment/landscape/presentation/9_Text/index.asp#TopOfPage

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L’AVVIO DI UNA RETE TEMATICA PER L’ARCHITETTURA DEL PAESAGGIO La Convenzione Europea del Paesaggio costituisce un eccellente sfondo per l’attività dell’Eclas, il Consiglio Europeo delle Scuole di Architettura del Paesaggio 4. Solo recentemente definita come istituzione legale, l’Eclas mira a promuovere gli scambi e le collaborazioni nell’insegnamento della disciplina dell’Architettura del Paesaggio in Europa. Nel 2002 l’Eclas ha iniziato il primo progetto di Rete Tematica di Architettura del Paesaggio con un significativo supporto finanziario del programma Erasmus dell’Unione europea. Il progetto di rete ha compiuto “un importante passo iniziale nel documentare lo stato corrente dell’arte, gettando le basi comuni e costruendo collegamenti tra le varie parti della disciplina e le differenti tradizioni che si sono sviluppate nei diversi luoghi d’Europa negli ultimi decenni. Una dettagliata ricostruzione delle istituzioni, dei programmi di laurea, dei relativi corsi, degli insegnanti e dei ricercatori coinvolti, è stata portata avanti utilizzando un sito web appositamente progettato 5. Questo è stato sviluppato per provvedere ad una serie interattiva di strumenti di comunicazione indirizzati a supportare la crescita di una comunità accademica europea coerente ed aperta. E’ stato approntato un database sofisticato contenente un glossario che include una vasta serie di termini e definizioni in oltre trenta lingue. Sono state costruite altre banche dati che coprono, fino ad ora, la letteratura specialistica, i giornali accademici, gli aspetti rilevanti delle politiche ambientali europee, i collegamenti ai vari siti web e i casi studio di progetti di architettura del paesaggio e che forniscono risorse comuni per tutti i membri, cosa da sviluppare ulteriormente. Il coinvolgimento stretto e crescente della rete tematica nel Tuning Project6 ha inoltre garantito una base strutturata per la discussione della definizione di competenze gerarchiche e specifiche per tutte le discipline. Il numero delle istituzioni partecipanti al Progetto Le:Notre è cresciuto, da settantatre istituzioni di educazione superiore iniziali fino a centouno nella proposta corrente”7.

COMMUNITIES OF PRATICE E L’INSEGNAMENTO PERMANENTE La rete tematica di Le:Notre assume le caratteristiche di una “Community of Practice”. Le Comunità di pratiche, abbreviato CoPs, sono reti di utenti che condividono lo stesso dominio di interesse. I membri di una CoP variano nei loro livelli di competenza e tipo di specializzazione. All’interno di Le:Notre si possono trovare studenti, assistenti universitari, professori e conferenzieri, ciascuno con la propria individuale specializzazione. I membri possono avere anche differenti ruoli e relazioni nella comunità. La somma di tali relazioni, reciproca fiducia e consapevolezza, è chiamata “capitale sociale” 8. L’idea principale di Le:Notre è sviluppare e accumulare capitale sociale a livello europeo, al di là dei confini nazionali e istituzionali. Gli sviluppi correnti nella comunità sono finalizzati a includere anche professionisti di architettura del paesaggio e esperti che lavorano per le pubbliche istituzioni9. Nel fare ciò, la rete ha le potenzialità adatte per colmare la attuale lacuna conoscitiva tra l’insegnamento, la pratica professionale e il settore pubblico. Allo stesso tempo è grazie allo straordinario sviluppo nelle tecnologie di informazione e

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Per maggiori notizie sul concetto e sulle attività dell’Eclas si veda: http://www.eclas.org Questo sito è accessibile attraverso http://www.le-notre.org. I nuovi membri sono registrati attraverso le persone che fanno da tramite per le Università aderenti e le Istituzioni partners. 6 Il Tuning Project è finalizzato a armonizzare le strutture educative e i contenuti degli studi in Europa. Per maggiori dettagli si veda: http://www.tuning.unideusto.org/tuningeu/ 7 Tratto dal sito web di Le:Notre: http://www.le-notre.org 8 FISCHER GERHARD, ROHDE MARKUS, VOLKER WULF, Community-based learning: The core competency of residential, research-based universities, “International Journal of Computer-Supported Collaborative Learning”, 2, 2007, pagg. 9-40. 9 L’European Urban Landscape Partnership è diventato un sotto-progetto di Eclas/Le:Notre. Per ulteriori informazioni si veda: http://www.urban-landscape.net/ 5

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comunicazione che le “Communities of Practice” stanno diventando più interattive ed efficienti e, di conseguenza, più importanti come risorse sociali, educative e mirate. Un altro aspetto importante relativo alla rete tematica è l’idea di un apprendimento che dura tutta la vita. Chiunque interessato all’architettura del paesaggio dovrebbe essere in grado di accedere alla rete e trarre profitto dalle sue risorse ad ogni livello della propria vita professionale. Si spera che questo possa coincidere con un nuovo futuro ruolo delle Università: invece della loro attuale concentrazione al primo livello di educazione accademica, ci si aspetta che si sviluppi, a guisa di scala, attraverso un apprendimento permanente. L’Unione Europea ha ripetutamente promosso questo importante cambiamento perché ritenuto assolutamente necessario per arricchire le competenze professionali delle persone, assicurando loro la possibilità di occupazione.

Figure 1 e 2. I database presenti nel sito web di Le:Notre. Il glossario, che include una vasta serie di termini e definizioni e una pagina dei riferimenti bibliografici.

CONTENUTO DERIVANTE DAGLI UTENTI E NATURA DELLA CONOSCENZA DELLA COMUNITÀ Cosa significa imparare in una “Community of Practice”? Ciò in verità è molto distante dalle modalità di corsi strutturati con un insegnante in fronte e un gruppo di studenti dietro che ascoltano l’uomo/la donna saggia alla cattedra10. La filosofia di Le:Notre è che ogni campo di conoscenza è rilevante, indipendentemente dal paese e dalla persona da cui è generato. Comunque, un livello minimo di controllo di qualità è richiesto. Lo strumento di base per assicurare la qualità è la premessa che le persone registrate devono essere attivamente coinvolte nell’educazione o nella pratica professionale dell’architettura del paesaggio. Ciò è dato dal loro impiego, coinvolgimento o ruolo nelle rispettive istituzioni. Pertanto, il compito basilare di Le:Notre non è sviluppare contenuti, ma strutturarli nel modo più semplice e significativo. Questo è ottenuto principalmente attraverso le banche dati interattive, sviluppate ovviamente per unità di corso, letteratura, immagini, progetti, links, riviste e quant’altro. I contenuti variano ma il principio è sempre lo stesso: ogni membro può aggiungere una stringa alla banca dati originata dalla propria specializzazione e queste aggiunte possono essere successivamente ricercate in rete e usate da chiunque. Più sono le persone che aggiungono nuovi contenuti, più queste stesse beneficeranno della risorsa della comunità. Un buon esempio sono le immagini del database. La motivazione per il suo sviluppo risulta dalle difficoltà percepite nel trovare immagini rilevanti per le lezioni 10

Si consideri la mappa Olcos per maggiori informazioni sulle pratiche educative aperte: GUNTRAM GESER (editor), Open Educational Practices and Resources; OLCOS Roadmap 2012, 2007, http://www.olcos.org.

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di architettura del paesaggio. Questo è particolar vero per la rappresentazione dei progetti recenti, piante, materiali e dettagli. L’idea di questo database è di condividere immagini rilevanti e di annotarle attraverso metadata così che possano essere ricercate per localizzazione, tema, eccetera e possano essere usate per obiettivi accademici. Il principio è simile a quello che spinge la creazione di comunità che condividono fotografie in internet. Ma a parte i benefici formali di una risorsa comune, questa banca dati fa incontrare le persone tramite le immagini. Le persone si incontrano attraverso l’immagine condivisa, sebbene non comunichino direttamente. Questo effetto illustra i principi dell’insegnamento di Le:Notre basati sulla comunità che da a ciascuno un ruolo esperto. Gli esperti individuali acquisiscono più valore se le interazioni aumentano e le richieste prendono luogo e le persone sono continuamente identificate dagli altri attraverso queste specifiche conoscenze. Qui è dove inizia a svilupparsi e accumularsi il capitale sociale, ma questo non lavora solo quando le persone desiderano comunicare e condividere.

COSA POSSIAMO REALMENTE CAPIRE A VICENDA? Le:Notre è ora al suo secondo progetto che si articola fino all’ottobre 2009. Le banche dati contengono circa ventiduemiladuecentosessantacinque voci11 in differenti argomenti. Comunque una più efficace mappa dei concetti presenti nel dominio è considerata uno dei compiti più importanti da affrontare in futuro. Se si prova a immaginare lo sviluppo di internet tenendo conto di come è stato incrementato negli ultimi dieci anni, è chiaro che la mancanza di dati non sarà il problema. Semmai sarà, o lo è già, l’opposto. Pertanto l’interesse sarà focalizzato più come accedere a queste informazioni. Per l’architettura del paesaggio la questione è: come trovare informazioni rilevanti per argomenti specifici in modo facile e comprensibile? Anche se essi esistono in lingue differenti? Anche all’interno di un dominio specifico vi sono molte lacune semantiche. Queste incomprensioni non solo esistono fra le diverse terminologie nazionali per l’architettura del paesaggio, ma anche nella stessa professione. Da questo punto di vista sembra che il classico metodo dell’evoluzione dell’ontologia possa essere parte della soluzione. La parola ontologia deriva dal greco Ontos (essere) più Logos (parola). Nella filosofia classica essa descriveva un aspetto della metafisica concernente la natura e la relazione dell’essere. La strategia relativa è principalmente provvedere sistemi di categorie che rappresentano una certa visione del mondo. Questo aspetto di modellare la realtà è stato adottato dalle scienze informatiche al fine di classificare e mettere in relazione un ampio ammontare di dati allo scopo di gestire la conoscenza 12. L’ontologia supporta in modo significativo lo scambio di specifiche informazioni di domini. La costruzione di una ontologia condivisa per la sfera dell’architettura del paesaggio ha il potenziale di colmare le lacune concettuali all’interno della professione, in particolare tra le diverse lingue. Anche se non ci sarà mai la definizione di un concetto condiviso da tutti nel processo di formulazione, si può raggiungere una fruttifera riflessione e chiarificazione attorno ai confini nazionali e istituzionali. Questo può ulteriormente aiutare a definire i punti dove l’architettura del paesaggio incontra le discipline affini. Può essere obiettato che questo è un processo troppo “dall’alto verso il basso”, che produce una struttura inflessibile senza ambiguità. Ma gli scienziati informatici sono molto meno rigidi con le definizioni concettuali di quanto tendono ad esserlo gli esperti di specifici domini come, in questo caso, gli universitari di architettura del paesaggio. Nelle scienze informatiche le ontologie sono guardate come strutture viventi: “Comunità e utenti cambieranno norme, concettualizzazioni

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Alla data del 2 Ottobre 2007. Si veda per approfondimenti su ontologia e semantic web: BREITMAN KARIN K., CASANOVA MARCO ANTONIO , WALTER TRUSZKOWSKI, Semantic Web Concepts, Technologies and Applications, Nasa Monographs in Systems and Software Engineering, Springer, 2007.

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e terminologie in modi complessi e sociologicamente sottili. Non dovremmo essere sorpresi o cercare di resistere queste riformulazioni” 13. In aggiunta ai benefici concettuali il potenziale attuale dell’ontologia giace nella sua trasposizione entro un linguaggio interpretabile da una macchina come OWL (Web Ontology Language). Se ricercatori meccanici o altri agenti di computer applicassero questi concetti sottolineati durante la ricerca, essi potrebbero effettivamente guardare attraverso gli occhi degli esperti i contenuti disponibili in internet - ovviamente un po’ più velocemente che ogni esperto può fare! Di conseguenza, la possibilità di identificare informazioni rilevanti potrà essere significativamente più alta di quanto sia attualmente. Questo concetto è riconosciuto come semantic web, una rete che consiste in una infrastruttura di informazioni interpretabile, che ora sta emergendo.

Figure 3 e 4. Sito web di Le:Notre. La ricerca per immagini e progetti.

COSA RESTA DA FARE? Rimane da sperare che la comunità accademica europea di architettura del paesaggio sia abbastanza aperta per un nuovo concetto di apprendimento attraverso la comunicazione e l’interazione in ambienti virtuali collaboranti. Un tentativo potrebbe essere quello di portare l’ambiente di Le:Notre più vicino alle attuali attività di educazione. Infatti, corsi pilota sono stati organizzati fin dalla scorsa primavera nella forma di seminari interattivi. I partecipanti a queste sessioni di insegnamento provengono da differenti università europee e località, pertanto essi dipendono dalla piattaforma virtuale che è stata integrata nel sito web di Le:Notre. Le attività seminariali alimentano direttamente i database nella forma di relazioni di progetti, immagini, links e riferimenti bibliografici che in questo modo possono essere riusati successivamente. Al fine di colmare i vuoti di comunicazione il gruppo si riunisce effettivamente in una classe virtuale che è ospitata nel progetto Le:Notre14. Il sistema consente una partecipazione simultanea con una comunicazione molto intuitiva e una interazione dei partecipanti. I seminari sono valutati e documentai sul sito web. E’ auspicabile che più consorzi di scuole europee di architettura del paesaggio seguiranno questo esempio, basandosi sull’esperienza ottenuta dai progetti pilota. I benefici educativi sono evidenti: gli studenti ottengono importanti mezzi, competenze comunicative e 13

SHADBOLT NIGEL, HALL WENDY , BERNERS-LEE TIM, The Semantic Web Revisited, IEEE publications, May/June 2006. 14 Questa classe virtuale altamente interattiva è stata sviluppata dal German Fraunhofer Institut. Maggiori informazioni possono essere trovare su: http://www.vitero.de

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interculturali ed inoltre imparano a capire l’architettura del paesaggio dalle diverse prospettive nazionali. Nei corsi qui descritti agli studenti è richiesto di elaborare un saggio congiunto su argomenti di architettura del paesaggio in piccoli gruppi composti da persone di diverse nazionalità. Ma questo è solo uno dei molti scenari educativi. La comunità che impara in ambienti virtualmente attivi ha potenzialmente la capacità di cambiare la cultura dell’insegnamento e i concetti didattici. Imparare può aver luogo attraverso istituzioni e confini nazionali. Manufatti come i risultati progettuali, immagini e saggi collaborativi possono stare nella comunità e rimanere accessibili come risorse potenziali per la futura attività di apprendimento. Ancora: il capitale sociale è accumulato. Queste attività prenderanno luogo in contesti completamente nuovi, persino al di là della classica educazione universitaria.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BREITMAN KARIN K., CASANOVA MARCO ANTONIO , WALTER TRUSZKOWSKI, Semantic Web Concepts, Technologies and Applications, Nasa Monographs in Systems and Software Engineering, Springer, 2007. FISCHER GERHARD, ROHDE MARKUS , VOLKER WULF , Community-based learning: The core competency of residential, research-based universities, “International Journal of ComputerSupported Collaborative Learning”, 2, 2007, pagg. 9-40. GUNTRAM GESER (editor), Open Educational Practices and Resources; OLCOS Roadmap 2012, 2007, http://www.olcos.org SHADBOLT NIGEL, HALL WENDY, BERNERS-LEE TIM, The Semantic Web Revisited, IEEE publications, May/June 2006. Siti internet http://www.ond.vlaanderen.be/hogeronderwijs/bologna/ http://www.coe.int/t/e/Cultural_Co-operation/Environment/Landscape/ http://www.coe.int/t/e/cultural_co%2Doperation/environment/landscape/presentation/9_Text /index.asp#TopOfPage http://www.eclas.org http://www.le-notre.org http://www.urban-landscape.net/ http://www.vitero.de

RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Tutte le figure sono tratte da http://www.le-notre.org

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di novembre 2007. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 – numero 8 – luglio-dicembre 2007 a cura di Anna Lambertini sezione: Saggi pagg. 32 - 47

GREEN BELTS AS A MEANS OF MANAGING THE LANDSCAPE AT THE EDGE OF THE CITY LE CINTURE VERDI COME STRUMENTI PER LA GESTIONE DEL PAESAGGIO AI MARGINI DELLE CITTÀ Cliff Hague* Traduzione di Antonella Valentini** Summary This paper will review the theory and practice of green belts as instruments of urban containment in a European context. It will point to the emphasis given to the compact city in the European Spatial Development Perspective. It will then review and compare some of the practices in different parts of Europe. Particular emphasis will be given to a comparison of policy and implementation in Scotland and the Netherlands. The analysis will show that green belts are used to pursue a number of policy aims: they are not exclusively a tool to manage landscape resources. Furthermore they have social and economic impacts as well as landscape impacts. There are also important questions about the relation between policy and implementation. Finally recommendations are made for a more active design and management approach to planning land at the edge of the city as part of strategic spatial planning practice. Key-words Green Belts, Urban Fringes, Landscape Management. Abstract L’intervento esamina la teoria e la pratica delle cinture verdi come strumento di contenimento urbano all’interno del contesto europeo. Si evidenzia l’importanza attribuita alle città compatte nell’ European Spatial Development Perspective e pertanto si riflette mettendo a confronto alcune pratiche in differenti parti di Europa. Una particolare enfasi è posta alla comparazione delle politiche e dell’implementazione in Scozia e in Olanda. L’analisi mostra che le cinture verdi sono finalizzate a perseguire numerosi obiettivi di politiche di piano: esse non sono esclusivamente uno strumento per gestire le risorse del paesaggio; infatti hanno impatti economici e sociali allo stessa stregua degli impatti paesaggistici. Ci sono inoltre importanti questioni circa la relazione tra le politiche e l’implementazione. Raccomandazioni conclusive sono volte ad un più attivo disegno e approccio gestionale alla pianificazione del territorio ai confini della città come parte integrante della pratica di pianificazione spaziale strategica. Parole chiave Cinture verdi, margini urbani, gestione del paesaggio.

* Professore di Pianificazione e Sviluppo Spaziale all’Università Heriot-Watt di Edinburgo fino al luglio 2006, attualmente è ricercatore freelance, impegnato nel campo della pianificazione e sviluppo urbano e regionale. ** Architetto specializzata in Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio e Dottore di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze. 32


How to manage the landscape at the edge of the city is an important question across Europe. The European Environment Agency (2006) has highlighted the problems posed by urban sprawl; it says that urban expansion is occurring in “a scattered way across Europe’s countryside”, and that this is a major common challenge facing urban Europe1. This paper will discuss: - What are the characteristics of the urban fringe? - Urban fringe and place identity; - The compact city as a European approach to development at the urban fringe; - Green Belts as a planning instrument to manage the urban fringe; - The Scottish experience of Green Belt policies; - Other European practices for planning and managing the fringe; - Lessons for managing urban fringe landscapes; - Some ideas for a European research agenda on planning and landscape at the urban fringe.

WHAT ARE THE CHARACTERISTICS OF THE URBAN FRINGE? The urban fringe is often seen in negative terms by European urbanists. In Italy, for example, the quality of the urban cores and the hill villages is celebrated, but the way that the land at the fringe has developed is seen as a problem. Phrases like “urban countryside” or “a quilt of urbanized spots and pocket country areas” are used to describe the area immediately beyond the town2.

Figure 1. The urban fringe as a “pressured landscape”: new development on the south-east edge of Edinburgh, June 2007. 1

European Environment Agency, Urban Sprawl in Europe: The ignored challenge, EAA Report No 10/2006, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg 2006, pag. 5. 2 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, with ANDREW ROBINSON and ROSIE BUSHNELL, Review of Green Belt Policy in Scotland, Scottish Executive Social Research, Edinburgh (UK) 2004, pag. 90.

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Figure 2. “Service-scape”: the urban fringe as a corridor for electricity: Uppsala, Sweden.

However, while the European Environment Agency3 sees southern Europe as one of the areas particularly at risk from urban sprawl, disparaging commentaries about the fringe are by no means monopolized by Italians. As Gallent, Andersson and Bianconi note, “the fringe is frequently portrayed as an ugly, scruffy or anonymous landscape”4. They further argue that the fringe is perceived as lacking order and so is thought to have little aesthetic appeal. Such an unloved area is easily ignored by researchers and practitioners. However, it can be argued that the fringe is an extremely important area. Gallent, Andersson and Bianconi call the fringes “pressured landscapes”5. The fringe of a city is very dynamic in economic terms and its effective development is critical to the vitality of the cities on which Europe’s economy depends. The challenge at the fringe is not to stop urban growth but to plan, design and manage it in ways that contribute to sustainable development. In England the fringe has been defined as “that zone of transition which begins with the edge of the fully built-up urban area and becomes progressively more rural whilst still remaining a clear mix of urban and rural land uses and influences before giving way to the wider countryside”6. However, this concept of a continuum between urban and rural is of doubtful value, because it imposes a model of order and urban-rural difference on a situation that is in 3

European Environment Agency, Urban Sprawl in Europe: The ignored challenge, EAA Report No 10/2006, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg 2006, pag. 5. 4 NICK GALLENT, JOHAN ANDERSSON , MARCO BIANCONI, Planning on the Edge: The Context for Planning at the Rural-Urban Fringe, Routledge, London and New York 2006, pag. 72. 5 NICK GALLENT, JOHAN ANDERSSON , MARCO BIANCONI, Planning on the edge: England’s rural-urban fringe and the spatial-planning agenda, in “Environment and Planning B: Planning and Design”, 33, 2006, pag. 461. 6 Countryside Agency, The state and potential of agriculture in the urban fringe, Unpublished project brief, Cheltenham 2002. Quoted in NICK GALLENT, JOHAN ANDERSSON, MARCO BIANCONI , Planning on the Edge: The Context for Planning at the Rural-Urban Fringe, Routledge, London and New York 2006, pag. 5.

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fact characterized by disorder and the urbanization of the countryside. It echoes the planning policies that sought to keep urban and rural distinct – policies which have been overtaken by new forms of development and increasing mobility. The fringe is the place where many important but often unpopular land uses are to be found. Waste disposal, sewage plants, electricity stations, park and ride are examples. It is an area that is crossed by transport routes. It is the area nearest the existing centres of jobs and entertainment where land is likely to be available for new development. Unless there are supplies of land that can be reused within the city it is arguably the place where new development should be steered if the aim is to contain travel distances. Yet it is mainly perceived to be the area where the city threatens to take over the countryside. There is, of course, some truth behind the negative image of the fringe. Cheap land and hyper-mobility have made the fringe a key focus for a range of employment and leisure uses, not least retailing. Retailing is not only a vital service but an important industry. In the UK, for example, retailing provides jobs for one in ten of the working population; retail sales account for 24% of Gross Domestic Product by expenditure; and retail outlets account for 50% of institutionally held property investments (British Retail Consortium 2000). This very competitive industry knows that it maximizes its productivity when it can build large factory-like sheds on the urban fringe, with good access to the motorway network. Discussion of development policy for the urban fringe also needs to recognize the changing nature of agriculture. As production methods have become ever more intensive, so agriculture has become an increasing threat to cultural landscapes and to natural heritage. Restructuring of farming is seeing the emergence of a “post-production countryside”. These changes raise important questions about what kind of landscapes we are seeking to conserve and manage on the urban fringe. Rural-type uses such as equestrian centres can operate out of buildings that look much the same as a modern factory or warehouse. The quality of the landscape on the urban fringe will vary from place to place. There can be no prima facie grounds for saying that it should be defended against development. Indeed the fringe is almost inevitably a landscape characterized by fragmentation, not least because it serves as a conduit to the main urban area.

Figure 3. “Business-scape”: A designed business-park on the western fringe of Edinburgh.

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The Centre for Urban and Regional Ecology7 has disaggregated the fringe into an “urban edge”, “inner fringe” and “outer fringe”. However this typology, with its implicit presumption of a continuum, is not helpful. It understates the nature of the fringe as a landscape in its own right. It also provides a descriptive categorization, rather than one aimed at design and policy interventions. In this respect, we should perhaps be asking what would a “sustainable fringe” look like? As a start to addressing that question we need to recognize the components of fringe landscapes and their underlying rationale for being there. Table in Figure 4 is a first attempt at that. Landscape component

Main uses

Reasons for being there

Implications sustainability

Institution-scape – large bulky buildings, extensive car parks, but a landscape setting

Universities, hospitals

Need large amount of land, preferably in a pleasant environment – as cheap as possible

Increases car dependency unless integrated with public transport. Distances the institution from those it serves

Shopping-scape – mainly large bulky buildings with extensive car parks and prominent advertisements

Superstores, shopping centres, garden centres, farm shops.

Cheap land that is accessible to a large amount of income

Increases car use; replaces areas of open landscape by predominantly hard surfaces

Entertainment-scape – similar to shoppingscape.

Cinemas, sports stadia, hotels, equestrian centres, golf courses.

Similar to Shoppingscape with which it often shares sites.

Again displacement to the edge of facilities once in town means more car use and hard surfaces. Golf courses in arid regions make demands on water

Business-scape – freestanding buildings in parkland setting with service roads.

Business parks, science parks, warehousing.

Accessibility to fast roads, and chance for modern, functionally efficient buildings in well designed landscape.

Increases car travel but chance to achieve energyefficient building design.

Service-scape – fragments the natural landscape by cutting through it.

Roads, airports, railways, overhead power lines, sewage works, waste disposal sites.

Connections into from the city.

Some of these uses pull other activity to the edge of the city. Some of the uses are necessary but unacceptable in the main built-up area.

Run-down-scape – often degraded and underused land.

Farms or areas of contaminated land, or areas subject to flytipping.

Residual uses on sites for which speculators have options, or where improvement of land is not commercially viable.

and

for

Wasted resources.

Figure 4. The fringe: components landscapes and issues of sustainability.

7

Centre for Urban and Rural Ecology, Sustainable Development in the Countryside around Towns, Countryside Agency, Cheltenham 2002, pag. 18.

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URBAN FRINGE AND PLACE IDENTITY Urban fringe areas are often seen as lacking identity. Much development is a product of mass consumerism or institutional uses. There is thus a sameness that gives a feeling that you could be “anywhere”. One word often used in relation to suburbs is “anonymous”. Another description given to these fringe areas is that they are “non-places”. “Transitional landscapes” is another phrase expressing their functional nature. See Gallent, Andersson and Bianconi8 for discussion of how the fringe is typically represented. New development on the fringe can often be seen as changing the character of a town, especially if the amount, scale and character of the development is out of sympathy with the vernacular of the older areas. For example, the small Scottish town of Ellon is now home to nine thousand people or more. This represents a five-fold increase since the 1960s, with most of the growth in a period from the mid-1980s to mid-1990s. Modern housing from the standard catalogues of big building companies is now the dominant feature of the town. While planning policy has prevented a straggle of development, and has ensured that there is still a strong urban edge, it has not been able to conserve the traditional identity of Ellon as an old village. One important fringe landscape concern is with the landscape setting of a settlement. A settlement is more likely to be distinctly recognizable if it has a clear visual edge. This notion has underpinned green belt policy as we shall see later. However, we need to recognize that places no longer have just one identity 9.

A MULTI-FUNCTIONAL AREA UNDER PRESSURE In summary the fringe is an area that poses major questions to planners and landscape designers. It is rarely celebrated, often disparaged and primarily conceived of as a transition from two other types of landscape – the urban and the rural. However, this conventional interpretation under-estimates the importance of the fringe as a multi-functional area facing pressure for change, and an area where new development is added to the city. It is important for sustainability, as Figure 4 indicates. So how has planning policy treated this complex zone, and contributed to its management? The issues are relevant across Europe, so how have European policy-makers responded?

THE IDEAL OF THE COMPACT CITY “All available evidence demonstrates conclusively that urban sprawl has accompanied the growth of urban areas across Europe over the last fifty years” 10. In 1990 the European Commission published the Green Paper on the Urban Environment11. This stressed the importance of the city in Europe’s history, culture and economy. It “established a narrative about the nature of European urbanization that echoed through European Union documents since then, and which essentially counterposes the classical compact European city with urban sprawl”12. The same narrative is evident in the 2006 report from the European 8 NICK GALLENT, JOHAN ANDERSSON, MARCO BIANCONI, Planning on the Edge: The Context for Planning at the Rural-Urban Fringe, Routledge, London and New York 2006, pagg. 76-81. 9 CLIFF HAGUE, PAUL JENKINS (ed.), Place Identity, Participation and Planning, Routledge, London and New York 2005. 10 European Environment Agency, Urban Sprawl in Europe: The ignored challenge, EAA Report No 10/2006, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg 2006, pag. 9. 11 Commission of the European Communities, Green Paper on the Urban Environment, EUR 12902 EN, Commission of the European Communities, Brussels 1990. 12 CLIFF HAGUE, “Urban containment: European experience of planning for the compact city”, in GERRIT-J KNAAP , HUIBERT HACCOU , KELLY J. CLIFTON , JOHN W. FRECE, (ed.) Incentives, Regulations and Plans: The roles of states and nation states in smart growth planning, Cheltenham (UK) and Northampton (USA) 2007, pag. 19.

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Environmental Agency. Similarly, Apel et.al. argued that: “The dispersed expansion of developed land (particularly in the outer reaches of urban areas) and the ever more pronounced segregation of different land uses not only leads to threats for open space, to increased social costs for urbanization and transport, to growing energy consumption, air pollutants and noise, but generally endangers European urban culture and the associated capabilities and achievements of social and cultural integration, of tolerance and responsibility for the common good”13. The endorsement of urban containment was reiterated in the European Spatial Development Perspective (Commission of the European Communities, 1999). Specifically this stated that: “Member states and regional authorities should pursue the concept of the “compact city” (the city of short distances) in order to have better control over further expansion of the cities. This includes, for example, the minimization of expansion within the framework of a careful locational and settlement policy, as in the suburbs and many coastal regions”14. Like so much of the development of spatial planning within Europe, these ideas had been strongly influenced by the Dutch. Compact city became official policy in Netherlands in 1988. The aims were to protect valuable open space in the existing cities' surrounds and locate new development to minimize transport needs, that is as urban infill or, where greenfield urbanization was necessary, immediately adjacent to existing settlement areas. However, we should note that many aspects of public policy in the Netherlands have been changing in recent years, and there have been some shifts towards a more market-responsive position15. It is also interesting to note that the strategy paper 16 agreed by urban ministers of member states meeting in Leipzig in 2007, while making a routine reference to urban sprawl, does not dwell upon it. Instead the paper concentrates on urban deprivation, transport, security and competitiveness. Thus there has been recognition at the level of the EU that what happens on the urban fringe matters, but that there may be the start of a divergence between the current EU “jobs and growth” agenda and the traditional concern for compact cities. Of course, the EU itself has no legal competence in the field of spatial planning. Thus application of the ESDP and compact city policies was left to member states and regional and local authorities. Research by Bramley et.al. 17 found that approaches to regulating development at the edge of the city varied considerably between different countries. One key approach within the UK has been the use of Green Belts.

HISTORY OF GREEN BELTS The idea underpinning the use of Green Belts is that urban spread should be halted by a green belt once a city had reached a certain size, and a new settlement should be started some proximate but safe distance away18. 13

DIETER APEL, M. LEHMBROCK , TIM PHAROAH , J. THIEMANN -LINDEN , Kompakt, mobil, urban: Stadtentwicklungskonzepte zur Verkehrsvermeidung im internationalen Vergleich, Deutsches Institut für Urbanistik (difu), Berlin 1997, pag. 455. Translated by and quoted in JAN SCHEURER, Urban Ecology: Innovations in Housing Policy and the Future of Cities: Towards sustainability in neighbourhood communities, PhD Thesis at Murdoch University, Perth (Australia) 2001, pag. 171, downloadable from www.murdoch.edu.au 14 Commission of the European Communities, European Spatial Development Perspective: Towards Balanced and Sustainable development of the Territory of the EU, Office for the Official Publications for the European Communities, Luxembourg 1999, pag. 22. 15 NEEDHAM, FALUDI, 1999; KUHN, 2003; VAN DER VALK, 2002; BERTOLINI, LE CLERQ, 2003. 16 THOMAS FRANKE, WOLF-CHRISTIAN STRAUSS, BETTINA REIMANN, KLAUS J. BECKMANN, Integrated Urban Development – A Prerequisite for Urban Sustainability in Europe, Federal Ministry of Transport, Building and Urban Affairs, Berlin 2007, downloadable from http://www.bmvbs.de 17 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, with ANDREW ROBINSON and ROSIE BUSHNELL, Review of Green Belt Policy in Scotland, Scottish Executive Social Research, Edinburgh (UK) 2004. 18 CLIFF HAGUE, “Urban containment: European experience of planning for the compact city”, in GERRIT-J KNAAP , HUIBERT HACCOU , KELLY J. CLIFTON , JOHN W. FRECE, (ed.) Incentives, Regulations and Plans: The roles

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This notion was particularly developed in England in response to the nineteenth century industrial city, though its application was by no means restricted to the UK. Indeed as Hague noted, the catalyst for the diffusion of the idea of Green Belts probably came through the work of Ebenezer Howard who had seen for himself the rapid spread of settlements across late 19th century America. In Britain in the 1940s there was a strong reaction against the unregulated suburban development that had devoured so much agricultural land around cities in the 1930s. For example the city of Edinburgh had doubled in land area between 1919 and 1939. This led to central government support for a policy of urban containment and planned dispersal of population. From 1955 onwards in England and a couple of years later in Scotland, Green Belts became an officially advocated tool to achieve these aims.

THE SCOTTISH EXPERIENCE OF GREEN BELT POLICY A number of critical questions can be posed in relation to Green Belts. Amongst them are the following: - What are the aims behind a Green Belt policy? - How important is landscape quality in designating a Green Belt? - How important is ecology in designating a Green Belt? - Are Green Belts permanent? - What uses are acceptable in Green Belts? - How does having a Green Belt affect land management? This paper now draws on research on a review of Green Belt policy in Scotland19 to explore these questions. The aims of Green Belts in Scotland were set out by central government in 1960 and repeated in 1985 20. They are: - To maintain the identity of towns by establishing a clear definition of their physical boundaries and preventing coalescence. - To provide countryside for recreation or institutional purposes of various kinds. - To maintain the landscape setting of towns. However, through the 1990s another two related aims became attached to Green Belts through local practice and supportive Scottish Office actions. They were to reduce the need to travel and also to promote regeneration by steering development to inner city and brownfield sites. Furthermore, in the early years of the present century plans also began to equate Green Belts with sustainable development21. There is a general view that these aims have been successfully achieved. For example, the councils responsible for the Green Belt around Aberdeen argue that it has prevented “unnecessary sprawl”22. However, it should be noted that the city’s built up area expanded by 16% between 1975 and 199823. Indeed, all of these aims and their underlying assumptions can be challenged.

of states and nation states in smart growth planning, Cheltenham (UK) and Northampton, MA (USA) 2007, pag. 17. 19 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, con ANDREW ROBINSON e ROSIE BUSHNELL, Review of Green Belt Policy in Scotland, Scottish Executive Social Research, Edinburgh (UK) 2004. 20 Scottish Office, Scottish Circular 24/1985: Development in the Countryside and Green Belts, Scottish Office Development Department, Edinburgh 1985. 21 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, with ANDREW ROBINSON and ROSIE BUSHNELL, Review of Green Belt Policy in Scotland, Scottish Executive Social Research, Edinburgh (UK) 2004, pag. 21. 22 Aberdeen City Council and Aberdeenshire Council, North East Scotland Together: Finalized Aberdeen and Aberdeenshire Structure Plan 2001-2016, Aberdeen City Council and Aberdeenshire Council, Aberdeen 2001, pag. 50.

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Hague showed24 that housebuilders did not recognize coalescence of settlements as a factor likely to depress the market demand for their properties in those settlements. Furthermore, in the case of Aberdeen, the effect of Green Belt policy was to force development to leapfrog the Green Belt: instead of being an incremental addition to the city itself new development took place around the edges of some of the smaller towns some distance away. Thus Portlethen, a small town some ten kilometers to the south of Aberdeen experienced an 18% increase in its housing stock between 1991 and 1998. There is clear evidence that the impact of such substantial amounts of new housing changes the identity of these smaller towns25. In the light of the review by Bramley et.al. (2004) and subsequent consultation, the Scottish Executive (2006) has issued a new policy statement on Green Belts. This largely re-asserts the value of Green Belts, but puts more emphasis on their management. It also says that “Green belt policy is not a designation to protect natural heritage” 26. While there is reference to the landscape setting of towns amongst the aims, the landscape quality is not actually a concern in designating an area as Green Belt. Green belts are essentially a two-dimensional geometrical concept. They do not necessarily protect the best landscapes. Green Belts are seen by planners and many of the public as a means of defending open land against development pressures. However, this can be done through other mechanisms – it does not depend on having a designated Green Belt, and the evidence shows that in the UK at least, Green Belts are not immune from development. However, there is a case for arguing that landscape appraisals should be undertaken as part of the process of designating Green Belts so that the case for protection can be strengthened where appropriate. Similar points can be made about the ecological and environmental qualities of Green Belts. Belts are not designated as ecological units, and key ecological sites can be protected in the UK by other designations. It was thought in the past that keeping land in agricultural use was valuable in itself and a means to conserve nature. However, the evidence of the destructive impact of intensive farming on habitats, together with agricultural surpluses in Europe has undermined the case for unquestioning retention of farm land. While the public often believes that a Green Belt implies a permanent veto on development, the reality in the UK is rather different. Not only is the UK’s system of planning control discretionary (in contrast to the less flexible zoning systems elsewhere in Europe), but Green Belt boundaries get reviewed, and there are releases of land for development from time to time. The research in Scotland looked at several plans. It concluded that: “The general tenor of these plans is to treat the Green Belt as a durable, permanent feature – phrases like ‘long term’ occur frequently. However, this is slightly attenuated by the extent to which boundaries have been revised, substantial new housing developments permitted, and particular important non-housing uses allowed to develop within some Green Belt areas”27. The evidence is that releases of Green Belt land for development most often are of sites that are close to the edge of the settlement. For example, in Edinburgh in the early 1990s a decision was taken that housing pressures were so severe that a release of land from the Green Belt adjacent to a large social housing area was essential. This one area of land removed from the Green Belt was large enough to accommodate around four thousand houses. In all over one thousand and six hundred hectares of Edinburgh’s Green Belt have

23 Aberdeen City Council, Aberdeen City Local Plan Consultative Draft, Aberdeen City Council, Aberdeen 1998, pag. 3. 24 CLIFF HAGUE, “Identity, Sustainability and Settlement Patterns”, in CLIFF HAGUE, PAUL JENKINS (ed.), Place Identity, Participation and Planning, Routledge, London and New York 2005, pagg. 159-182. 25 CLIFF HAGUE, “Identity, Sustainability and Settlement Patterns”, in CLIFF HAGUE, PAUL JENKINS (ed.), Place Identity, Participation and Planning, Routledge, London and New York 2005, pag. 168. 26 Scottish Executive, Scottish Planning Policy 21: Green Belts, Scottish Executive, Edinburgh 2006, paragraph 9, downloadable from http://www.scotland.gov.uk/Publications/2006 27 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, with ANDREW ROBINSON and ROSIE BUSHNELL, Review of Green Belt Policy in Scotland, Scottish Executive Social Research, Edinburgh (UK) 2004, pag. 34.

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been developed for other uses since it was originally set out in a plan in 1949 (Edinburgh’s current Green Belt amounts to some seventeen thousand hectares)28. Developers are well aware of all this, and consequently do not treat the Green Belt as an area where they will never get a permission. Instead they take out options to buy sites if planning permission can be obtained. The differential in market value between land in agricultural use and land in urban use is huge, and so there is every incentive to land owners to ensure that their land becomes so degraded that the case for allowing it to be developed is strengthened. Of course the nature of Green Belts varies. Not only is the landscape different from one Green Belt to the next, but so are the wider economic circumstances. Green belts are most likely to be effective when there is development pressure in a strong market and planners can restrict land supply and are in a strong position to steer developers to preferred locations. In situations where jobs and growth are in short supply the planners are in a much weaker position, and the local politicians are likely to favour development rather than Green Belt preservation. The case of North Lanarkshire illustrates some of these pressures. North Lanarkshire lies to the north-east of Glasgow. It is an area of small towns, with substantial areas between them designated as part of the Glasgow and Clyde Valley Green Belt. North Lanarkshire is an old industrial area, with much derelict and contaminated land and relatively high unemployment. The research by Bramley et.al. observed that “the North Lanarkshire case study interviews would seem to indicate that in certain circumstances Green Belt policy may be secondary to other more pressing economic development priorities” 29. The data for North Lanarkshire in Tables of Figures 5 and 6 confirms this picture. New Land Use

Nos.

% Approved

Area (Hec.)

% Area approved

Residential Telecoms

69 22

58 86

172 1

25 94

Business / Storage Minerals / Waste Other, incl. Leisure TOTAL

16 5 39 151

94 60 81 71

58 27 137 395

100 51 88 60

Figure 5. Planning Applications in the Green Belt in North Lanarkshire 2001-03.

Previous Use

Number

% Approved

Area (Hectare) % Area approved

Greenfield Brownfield TOTAL

128 23 151

71 70 71

283 112 395

72 28 60

Figure 6. Planning Applications in North Lanarkshire 2001-03 by previous type of land.

So what uses are appropriate in a Green Belt? The answer is not easy to find. The Scottish research found that while government set out policies and aims for Green Belts, it did not clearly explain what was acceptable or unacceptable. In particular there are ambiguities about “institutional uses”, which in the cases of universities or hospitals can be major developments generating volumes of traffic not dissimilar to those for retail developments 28 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, with ANDREW ROBINSON and ROSIE BUSHNELL., Review of Green Belt Policy in Scotland, Scottish Executive Social Research, Edinburgh (UK) 2004, pag. 39. 29 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, with ANDREW ROBINSON and ROSIE BUSHNELL, Review of Green Belt Policy in Scotland, Scottish Executive Social Research, Edinburgh (UK) 2004, pag. 66.

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for example. The research found that there was provision for local authorities to identify “exceptions” to the general presumption against major development in the Green Belt, and noted that critics saw this as a means for local authorities “to make opportunistic decisions to capture particular developments, particularly economic developments”30. It should be clear by now that Green Belts are not quite what they seem to be. So how does having a Green Belt affect land management? Again there are variations between places to place but the fundamental point is that Green Belts are not really a tool for managing land. While Green Belt designation does not impede programmes of environmental improvement, for example, it also does not automatically trigger them. Similarly issues such as public access to land, a key and contentious issue on the urban fringe, are not directly addressed by a Green Belt designation. Basically there needs to be positive land management actions to make the Green Belt work as intended, certainly in respect of recreational access from the urban area and for environmental enhancement. For example one common problem in Green Belts, as elsewhere on the urban fringe is unauthorized tipping of domestic or small business waste – see Figure 7. Effective management is needed to prevent such abuses, and to clear the waste when they do occur.

Figure 7. Unauthorized tipping of waste in the Edinburgh Green Belt.

Opportunities for landscape enhancement identified in the research in Scotland included 31: - Better tuning of agri-environmental schemes to the circumstances of peri-urban land; - Urban forestry; - Environmental and design enhancement of parts of Green Belts as gateways to settlements; - Re-use of brownfield sites within a Green Belt. 30 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, with ANDREW ROBINSON and ROSIE BUSHNELL, Review of Green Belt Policy in Scotland, Scottish Executive Social Research, Edinburgh (UK) 2004, pag. 104. 31 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, with ANDREW ROBINSON and ROSIE BUSHNELL, Review of Green Belt Policy in Scotland, Scottish Executive Social Research, Edinburgh (UK) 2004, pag. 41.

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Following the research some changes have been made by the Scottish Executive (2006). In particular the new policy recognizes the importance of management plans, agreed between local authorities, land owners and other interests, to maximize the benefits from Green Belt land.

OTHER EUROPEAN PRACTICES FOR PLANNING AND MANAGING THE FRINGE In the research project for the Scottish Executive some study was undertaken of practice in other countries. One interesting approach was that for Helsinki.

Helsinki: Positive Management of the Urban Fringe Helsinki's new 2002 Master Plan (strategic development plan) aims to preserve the natural boundary with its neighbours. In practice, this is followed to the letter. Since 80% of the land is in public ownership, the City of Helsinki has a monopoly over the planning process. This determines what the type of land use will be, how much floorspace will be used, where it will be located, when it will be built, and who will build it, subject to competitive tendering. The good practice in Helsinki is so good, the only arguments tend to be haggling over the quality of the environment. Occasionally, there are isolated 'green' areas that come under threat of urban development, but such is the outcry from the public, that the development proposals usually get withdrawn. The results are that on a walk along any of the peripheral areas around Helsinki you will see a spider's web of tracks and forest for recreational pursuits during summer, and machine-made skiing tracks in winter. So, a visit to the periphery would show a well-used park recreational system in summer and winter. The high level of public ownership of land is both critical to the outcomes in Helsinki and also unusual now across Europe. However, experience from elsewhere in Scandinavia may be more transferable.

Figure 8: Stockholm: Green wedges bring high quality open spaces into the heart of the city.

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Strategic Planning and Sustainable Urban Form: Stockholm The comprehensive plan approved in 1952 planned to accommodate growth through new suburbs focused along metro stations, with high density close to the station. This simultaneously created a green structure with parks and open areas dividing the suburbs. The result is that people can enjoy a high quality of life in the suburbs but still reach city centre jobs and facilities. Current planning policy retains this core structure, and accommodates modern day ‘big box’ type structures (retail sheds, car show rooms etc.) in the transport corridors, capitalizing on sites near junctions. However the green wedges bring the natural environment into the heart of the city. There is a strong emphasis on brownfield development and mixed uses, but development is also going to the surrounding municipalities beyond the city boundary. During the 1990s an average of 32,000 people moved into the Stockholm region annually. The changes have not been without problems, with growing concerns about the segregation of the poor in some older neighborhoods, but again this is relative to a long tradition of egalitarianism. Stockholm’s corridor planning has allowed Sweden’s most important economic region to grow without sacrificing the environmental quality that makes it such an attraction to its highly skilled workforce. We can also still learn from the Dutch. Landscape-led planned expansion at Groningen A team of consultants was appointed to produce proposals for the development of the town, the countryside and the aquatic system for a zone running some ten fifteen kilometers from the west side of the town of Groningen. The area included four small towns and a few villages and was mainly an area of dairy farming. The consultants defined the priorities for the development as to “protect and strengthen ecological, landscape and recreational qualities” of the area. Their report emphasized the cultural landscapes of this area. There was also a thorough analysis of the character of the settlements, as well as the soils, hydrology, landscape and ecology. The design they produced sought to “embrace the emptiness”. The aims included a clear transition between town and countryside; a network of recreational routes extending to the centre of the town; a spatial image of the landscape that would still be defined by farming; maintenance of the open nature of the countryside and enhancement of the cultural landscapes32. Finally, having been critical of much of what happens in Scottish Green Belts, we should recognize one very positive feature. That is the active involvement of voluntary organizations in their management.

The Edinburgh Green Belt Trust The Edinburgh Green Belt Trust works in partnership with local communities, landowners and other organizations to create a sustainable, well-managed and accessible landscape in and around Edinburgh, East Lothian and Midlothian. It develops local environmental projects to and encourages individual and community involvement in environmental protection and enhancement. The Trust changed its name in 2006 to the Edinburgh and Lothians Green Space Trust – reflecting a recognition that the Green belt is important, but not the whole story!33

32

CLIFF HAGUE, CLIFF HAGUE, “Identity, Sustainability and Settlement Patterns”, in CLIFF HAGUE, PAUL JENKINS (ed.), Place Identity, Participation and Planning, Routledge, London and New York 2005, pagg. 178-179. 33 Source: http://www.ewgbt.org.uk

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LESSONS FOR MANAGING URBAN FRINGE LANDSCAPES The pressure for development on the urban fringe is evident across much of Europe. It reflects the advantages that a peripheral location close to transport networks can offer. In particular there is a sharp growth of leisure and retailing sectors both of which prioritize time distance by car and extensive parking. However, the compact city as a “city of short trips” presumes that proximity defines movement patterns and therefore short distance trips that can be made on foot or by public transport will tempt people out of using their cars to travel to more distant facilities. However, the ideal of polycentric urban development advocated in the ESDP implies that people will have multiple options to reach jobs, shops, or recreational facilities. In making decisions, proximity will only be one factor amongst many and will not necessarily equate with accessibility. Hague has argued that this is already the case in the Randstadt34. Similarly, Mommaas has argued that leisure trips are now a key aspect of movement in the Netherlands, and that this is increasingly likely to mean a journey to the edge of the city, not the city centre35. Although these trends portray a US-style future of sprawl and car dependency, that is not an inevitable outcome. Planners and urbanists need to recognize the fact that these trends are strong and arguably cannot be entirely resisted. The issue is how to manage change, not how to prevent change. This paper has argued that Green Belts, certainly as practised in Scotland, are not a solution, unless the concept is radically reinterpreted. The challenge is to find ways, through strategic spatial planning, design and management to make the fringe a sustainable landscape. There is much that can be learned from the example of Stockholm, which has a high quality landscape setting and extensive open space within the city but has managed to conserve that while also accommodating strong economic growth and a relatively egalitarian social model. Long term stability in strategic spatial planning has played a key role, together with the positive use of development corridors. Landscape evaluation and design, selective and effective long-term protection of quality landscapes are important. However, above all, if we are to manage the urban fringe effectively then management needs to be built into strategies. A weakness of the architectural design tradition that is evident in Green Belts is that it emphasizes a drawn form on paper and neglects the importance of skills of negotiation, communication, monitoring and evaluation etc.36.

SOME IDEAS FOR A EUROPEAN RESEARCH AGENDA ABOUT PLANNING AND LANDSCAPE AT THE URBAN FRINGE

Finally, how might some of these ideas and arguments be tested and developed? There is certainly scope for valuable collaborative research across Europe on the issue of how to manage the urban fringe. I would suggest three opening questions that might be the focus of such international and comparative research. These are: - Institutional analysis – what organizations with what skills and outlooks manage change on the urban fringe? 34

CLIFF HAGUE, “Urban containment: European experience of planning for the compact city”, in GERRIT-J KNAAP , HUIBERT HACCOU , KELLY J. CLIFTON , JOHN W. FRECE, (editors) Incentives, Regulations and Plans: The roles of states and nation states in smart growth planning, Cheltenham (UK) and Northampton, MA (USA) 2007. 35 H. MOMMAAS, “Recreation is now a leading factor of the physical planning of the Netherlands”, in T. BAART, T. METZ, T. RUIMSCHOTEL (editors), Atlas of Change: Re-arranging the Netherlands, NAi Publishers and Ideas on Paper, Rotterdam (Netherlands) 2000. 36 For more discussion of the skills planners need, in an international context, see HAGUE CLIFF, WAKELY PAT, CRESPIN JULIE, JASKO CHRIS, Making Planning Work: A guide to approaches and skills, ITDG Publishing, Rugby 2006.

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- Identity analysis – how does development and management on the fringe influence the identity of places? - Instruments – what protection and enhancement tools are used to manage the fringe?

REFERENCES Aberdeen City Council, Aberdeen City Local Plan Consultative Draft, Aberdeen City Council, Aberdeen 1998. Aberdeen City Council and Aberdeenshire Council, North East Scotland Together: Finalized Aberdeen and Aberdeenshire Structure Plan 2001-2016, Aberdeen City Council and Aberdeenshire Council, Aberdeen 2001. APEL DIETER, LEHMBROCK M., PHAROAH TIM, T HIEMANN-LINDEN J., Kompakt, mobil, urban: Stadtentwicklungskonzepte zur Verkehrsvermeidung im internationalen Vergleich, Deutsches Institut für Urbanistik (difu), Berlin 1997. BERTOLINI L., LE CLERQ, F., Urban development without more mobility by car? Lessons from Amsterdam, a multi-modal region, in “Environment and Planning A”, 35, 2003, pagg. 575-589. BRAMLEY GLEN, HAGUE CLIFF, KIRK KARRYN, PRIOR ALAN, RAEMAEKERS JEREMY, SMITH HARRY, with ROBINSON ANDREW and BUSHNELL ROSIE, Review of Green Belt Policy in Scotland, Edinburgh, UK: Scottish Executive Social Research 2004. British Retail Consortium, Quarterly Economic Monitor, 10, August 2000. Centre for Urban and Rural Ecology, Sustainable Development in the Countryside around Towns, Countryside Agency, Cheltenham 2002. Commission of the European Communities, Green Paper on the Urban Environment, EUR 12902 EN, Commission of the European Communities, Brussels 1990. Commission of the European Communities, European Spatial Development Perspective: Towards Balanced and Sustainable development of the Territory of the EU, Office for the Official Publications for the European Communities, Luxembourg 1999. Countryside Agency, The state and potential of agriculture in the urban fringe, Unpublished project brief, Cheltenham 2002. European Environment Agency, Urban Sprawl in Europe: The ignored challenge, EAA Report No 10/2006, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg 2006. GALLENT NICK, ANDERSSON JOHAN, BIANCONI MARCO, Planning on the Edge: The Context for Planning at the Rural-Urban Fringe, Routledge, London and New York 2006. GALLENT NICK, ANDERSSON JOHAN, BIANCONI, MARCO, Planning on the edge: England’s rural-urban fringe and the spatial-planning agenda, in “Environment and Planning B: Planning and Design”, 33, 2006, pagg. 457-476. FRANKE THOMAS, STRAUSS WOLF -CHRISTIAN, REIMANN BETTINA, BECKMANN KLAUS J., Integrated Urban Development – A Prerequisite for Urban Sustainability in Europe, Federal Ministry of Transport, Building and Urban Affairs, Berlin 2007, downloadable from http://www.bmvbs.de HAGUE CLIFF, “Identity, Sustainability and Settlement Patterns”, in CLIFF HAGUE, PAUL JENKINS (editors), Place Identity, Participation and Planning, Routledge, London and New York 2005, pagg.159-182. HAGUE CLIFF, “Urban containment: European experience of planning for the compact city”, in GERRIT -J KNAAP, HUIBERT HACCOU, KELLY J. CLIFTON, JOHN W. FRECE, (editors), Incentives, Regulations and Plans: The roles of states and nation states in smart growth planning, Cheltenham (UK) and Northampton, MA (USA) 2007, pagg. 17-35. HAGUE CLIFF, JENKINS PAUL (editors), Place Identity, Participation and Planning, Routledge, London and New York 2005. HAGUE CLIFF, WAKELY PAT, CRESPIN JULIE, JASKO CHRIS, Making Planning Work: A guide to approaches and skills, ITDG Publishing, Rugby 2006. 46


KUHN M., Greenbelt and Green Heart: separating and integrating landscapes in European city regions, in “Landscape and Urban Planning”, 64, 2003, pagg. 19-27. MOMMAAS H., ‘Recreation is now a leading factor of the physical planning of the Netherlands’ in T. BAART, T. METZ, T. RUIMSCHOTEL (editors), Atlas of Change: Rearranging the Netherlands, NAi Publishers and Ideas on Paper, Rotterdam (Netherlands) 2000. NEEDHAM BARRIE, FALUDI ANDREAS, Dutch Growth Management in a changing market, in “Planning Research and Practice”, 14 (4), 1999, pagg. 481-489. SCHEURER JAN, Urban Ecology: Innovations in Housing Policy and the Future of Cities: Towards sustainability in neighbourhood communities, PhD Thesis at Murdoch University, Perth (Australia) 2001, downloadable from http://www.murdoch.edu.au Scottish Executive, Scottish Planning Policy 21: Green Belts, Scottish Executive, Edinburgh 2006, downloadable from http://www.scotland.gov.uk/Publications/2006 Scottish Office, Scottish Circular 24/1985: Development in the Countryside and Green Belts, Scottish Office Development Department, Edinburgh 1985. VAN DER VALK, A., The Dutch Planning experience, in “Landscape and Urban Planning”, 58, 2002, pagg. 201-210.

IMAGES REFERENCES Figures 1, 2, 3, 7, 8: Photography of Cliff Hague. Figure 4: Author’s scheme. Figures 5, 6: GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, with ANDREW ROBINSON and ROSIE BUSHNELL, Review of Green Belt Policy in Scotland, Edinburgh, UK: Scottish Executive Social Research 2004, pag. 142, pag. 141.

Text acquired by editorial staff in November 2007. © Author Copyright. Use is possible if source is quoted.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 – numero 8 – luglio-dicembre 2007 a cura di Anna Lambertini sezione: Saggi pagg. 48 - 63

GREEN BELTS AS A MEANS OF MANAGING THE LANDSCAPE AT THE EDGE OF THE CITY LE CINTURE VERDI COME STRUMENTI PER LA GESTIONE DEL PAESAGGIO AI MARGINI DELLE CITTÀ Cliff Hague* Traduzione di Antonella Valentini** Summary This paper will review the theory and practice of green belts as instruments of urban containment in a European context. It will point to the emphasis given to the compact city in the European Spatial Development Perspective. It will then review and compare some of the practices in different parts of Europe. Particular emphasis will be given to a comparison of policy and implementation in Scotland and the Netherlands. The analysis will show that green belts are used to pursue a number of policy aims: they are not exclusively a tool to manage landscape resources. Furthermore they have social and economic impacts as well as landscape impacts. There are also important questions about the relation between policy and implementation. Finally recommendations are made for a more active design and management approach to planning land at the edge of the city as part of strategic spatial planning practice. Key-words Green Belts, Urban Fringes, Landscape Management. Abstract L’intervento esamina la teoria e la pratica delle cinture verdi come strumento di contenimento urbano all’interno del contesto europeo. Si evidenzia l’importanza attribuita alle città compatte nell’ European Spatial Development Perspective e pertanto si riflette mettendo a confronto alcune pratiche in differenti parti di Europa. Una particolare enfasi è posta alla comparazione delle politiche e dell’implementazione in Scozia e in Olanda. L’analisi mostra che le cinture verdi sono finalizzate a perseguire numerosi obiettivi di politiche di piano: esse non sono esclusivamente uno strumento per gestire le risorse del paesaggio; infatti hanno impatti economici e sociali allo stessa stregua degli impatti paesaggistici. Ci sono inoltre importanti questioni circa la relazione tra le politiche e l’implementazione. Raccomandazioni conclusive sono volte ad un più attivo disegno e approccio gestionale alla pianificazione del territorio ai confini della città come parte integrante della pratica di pianificazione spaziale strategica. Parole chiave Cinture verdi, margini urbani, gestione del paesaggio.

* Professore di Pianificazione e Sviluppo Spaziale all’Università Heriot-Watt di Edinburgo fino al luglio 2006, attualmente è ricercatore freelance, impegnato nel campo della pianificazione e sviluppo urbano e regionale. ** Architetto specializzata in Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio e Dottore di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze. 48


Come gestire il paesaggio ai margini delle città è una questione importante che coinvolge l’intera Europa. L’Agenzia Europea per l’Ambiente (2006) ha evidenziato il problema posto dalla dispersione urbana, osservando che tale espansione sta avendo luogo in modo sparso attraverso tutta l’Europa” e che questa è la maggiore sfida comune che l’Europa urbana deve fronteggiare1. Questo saggio affronta i seguenti temi: - quali sono le caratteristiche delle aree urbane di margine; - aree di margine e identità dei luoghi; - la città compatta quale approccio europeo per lo sviluppo delle aree di margine urbano; - le cinture verdi come strumento di pianificazione per gestire le aree di margine; - le politiche europee per la pianificazione e gestione delle frange urbane; - lezioni per la gestione dei paesaggi di margine; - alcune idee per una agenda europea di ricerca sulla pianificazione e progettazione del paesaggio ai margini urbani.

QUALI SONO LE CARATTERISTICHE DELLE AREE DI FRANGIA URBANA ? Le aree di margine sono spesso viste in termini negativi dagli urbanisti europei. In Italia, per esempio, è celebrata la qualità di nuclei urbani e di piccoli insediamenti di collina, ma il modo in cui il territorio ai margini viene sviluppato è sentito come un problema. Frasi come “campagna urbana” oppure “trapunta a chiazze urbanizzate e aree tascabili agricole” sono usate per descrivere i territori immediatamente al di là della città 2.

Figura 1. Le aree di margine urbano come “paesaggio sotto pressione”: nuovi sviluppi dell’area di frangia sud-est di Edimburgo, giugno 2007. 1

European Environment Agency, Urban Sprawl in Europe: The ignored challenge, EAA Report No 10/2006, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg 2006, pag. 5. 2 GLEN BRAMLEY , CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, con ANDREW ROBINSON e ROSIE BUSHNELL, Review of Green Belt Policy in Scotland, Scottish Executive Social Research, Edinburgh (UK) 2004, pag. 90.

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Figura 2. “Paesaggio di servizio”: le aree di margine come corridoi per le linee elettriche: Uppsala, Svezia.

Mentre l’Agenzia Europea per l’Ambiente 3 vede l’Europa del Sud come un’area a particolare rischio di dispersione urbana, denigranti osservazioni sulle aree di margine sono senza dubbio monopolizzate dagli italiani. Come notano Gallent, Andersson e Bianconi, “le aree di frangia sono generalmente descritte come un paesaggio brutto, trasandato e anonimo”4. Ancora, essi scrivono, le aree di margine sono percepite come carenti di ordine e pertanto si pensa che abbiano ben scarsa attrattività. Questi territori, così poco amati, sono facilmente ignorati da ricercatori e professionisti. Ad ogni modo, si può capire che le aree di frangia sono estremamente importanti. Gallent, Andersson e Bianconi le definiscono “paesaggi sotto pressione”5. I margini urbani sono molto dinamici in termini economici e il loro effettivo sviluppo è critico per la vitalità delle città da cui l’economia europea dipende. La sfida ai margini delle città non è quella di fermare la crescita urbana, ma di pianificare, disegnare e gestire tali territori in maniera da contribuire ad uno sviluppo sostenibile. In Inghilterra le aree di margine sono state definite “quelle zone di transizione che iniziano ai margini delle aree densamente urbanizzate e diventano progressivamente più rurali rimanendo chiari però sia un uso del suolo che una influenza mista, urbana e rurale, prima di lasciare il passo alla campagna più intatta” 6. Questo concetto di continuità tra il tessuto urbano e quello rurale è però di dubbio valore, poiché esso impone un modello di ordine e una differenza urbano-rurale in una situazione che nei fatti è caratterizzata dal disordine e dalla urbanizzazione della campagna. Ciò si specchia nelle politiche di pianificazione che hanno cercato di tenere distinti urbano e rurale – politiche che sono state sorpassate da nuove forme di sviluppo e di mobilità crescente. 3

European Environment Agency, op. cit., 2006, pag. 5. NICK GALLENT, JOHAN ANDERSSON, MARCO BIANCONI, Planning on the Edge: The Context for Planning at the Rural-Urban Fringe, Routledge, London and New York 2006, pag. 72. 5 NICK GALLENT, JOHAN ANDERSSON , MARCO BIANCONI, Planning on the edge: England’s rural-urban fringe and the spatial-planning agenda, in “Environment and Planning B: Planning and Design”, 33, 2006, pag. 461. 6 Countryside Agency, The state and potential of agriculture in the urban fringe, Unpublished project brief, Cheltenham 2002. Citato in NICK GALLENT , JOHAN ANDERSSON, MARCO BIANCONI, op. cit., London and New York 2006, pag. 5. 4

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Le aree di margine sono il luogo dove si trovano importanti, ma spesso impopolari, usi del suolo, come discariche, impianti di fognature, stazioni per l’elettricità, parcheggi scambiatori. Sono aree attraversate da linee infrastrutturali e prossime a centri esistenti di impiego e divertimento, dove è possibile che il terreno sia utilizzato per nuovi sviluppi insediativi. A meno che non vi sia disponibilità di spazi che possano essere riutilizzati all’interno della città, infatti, questi sono luoghi dove è plausibile che si collochino nuovi insediamenti, se l’obiettivo è quello di contenere la mobilità. Infine, queste sono fondamentalmente percepite come aree dove la città minaccia di soverchiare la campagna. Vi è, ovviamente, qualche verità dietro l’immagine negativa delle aree di margine. Terreni a basso costo e iper-mobilità hanno fatto delle aree di frangia gli elementi chiave per una serie di usi per l’impiego e per il divertimento, non meno che per il commercio. La vendita al dettaglio non è solo un servizio vitale, ma anche una importante industria. Nel Regno Unito, ad esempio, il commercio fornisce lavoro a una su dieci delle persone in età lavorativa; le vendite a dettaglio rendono conto per il ventiquattro percento della spesa del Prodotto Domestico Lordo e gli outlets contano per il cinquanta percento degli investimenti di proprietà istituzionalmente sostenuti (British Retail Consortium 2000). Questa industria estremamente competitiva sa bene che la massima produttività è ottenuta quando può costruire grandi complessi simili a capannoni nelle aree di margine che presentano una buona accessibilità alla rete autostradale. La discussione sulle politiche di sviluppo per le aree di margine urbano necessita anche di riconosce il cambiamento intrinseco dell’agricoltura. Al momento che i metodi di produzione sono diventati più intensivi, l’agricoltura è diventata una minaccia crescente per i paesaggi culturali e per l’eredità naturale. La ristrutturazione di fattorie è vista come una emergenza della “post-produzione agricola”. Questi cambiamenti sollevano importanti questioni su quale tipo di paesaggio stiamo cercando di conservare e gestire ai margini delle città. Usi di tipo rurale come centri di equitazione possono funzionare fuori da edifici che sembrano simili a industrie moderne o magazzini.

Figura 3. “Business-scape” - “Paesaggio degli affari”. Un Business-park alla periferia ovest di Edimburgo.

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La qualità del paesaggio ai margini urbani varierà da luogo a luogo. Non c’è motivo per dire che si debba difendere dagli insediamenti. Invece le aree di frangia sono inevitabilmente un paesaggio caratterizzato dalla frammentazione, non solo perché essi funzionano come una “conduttura” verso l’area urbana principale. Il Centro per l’Ecologia Urbana e Regionale ha disaggregato le aree di margine in “margine urbano”, “frangia interna”, “frangia esterna”7. Questa articolazione tipologica con la sua implicita supposizione di una continuità, non è di aiuto. Essa sottolinea la natura delle aree di margine come un paesaggio con il proprio diritto e fornisce anche una classificazione descrittiva piuttosto che finalizzata alle azioni progettuali e politiche. In questo senso dovremmo chiederci come appare una “frangia sostenibile”? Per iniziare a rispondere alla domanda abbiamo necessità di riconoscere le componenti dei paesaggi di margine e la loro implicita ragione per essere tali. La tabella riportata in figura 4 è un primo tentativo in questa direzione. Componenti di paesaggio

Principali usi

Ragioni di essere

Implicazioni sostenibilità

per

la

Paesaggio delle istituzioni, edifici voluminosi, enormi parcheggi ma con sistemazioni paesaggistiche

Università, ospedali

Necessita una grande quantità di terreno, preferibilmente in un ambiente piacevole il più possibile economico

Accresce la dipendenza dalle auto a meno che non vi sia integrazione con i trasporti pubblici; allontana le istituzioni da coloro a cui serve

Paesaggi dello shopping, grossi edific i voluminosi con enormi parcheggi e strutture pubblicitarie

Grandi magazzini, centri commerciali, centri per il giardinaggio, fattorie per la vendita di prodotti

Terreni a basso costo capaci di grande rendita

Aumento dell’uso delle auto; sostituzione di aree aperte con superfici impermeabilizzate

Paesaggi dell’intrattenimento, simili a quelli dello shopping

Cinema, stadi, alberghi, centri ippici, campi da golf

Simili ai paesaggi dello shopping con i quali spesso condividono i luoghi

Maggior uso dell’auto e superfici impermeabili; ripercussioni sulla risorsa acqua dovute ai campi da golf in aree aride

Paesaggi degli affari, edific i isolati con parcheggi e dotazioni stradali

Business parks, science parks, magazzini

Accessibilità alla viabilità veloce e possibilità per edific i funzionalmente efficienti in un paesaggio ben disegnato

Accresce la mobilità ma consente di ottenere edific i ad alta efficienza energetica

Paesaggi dei servizi, frammenti ritagliati all’interno del paesaggio naturale

Strade, aeroporti, ferrovie, linee elettriche aeree, fognature, discariche

Connessioni verso e dalla città

Alcuni usi attraggono altre attività ai confini della città; altri usi sono necessari ma non accettabili nelle aree densamente costruite

Paesaggi depressi, spesso terreni degradati e inutilizzati

Fattorie o aree contaminate o zone soggette a discariche

Usi residuali dei luoghi su cui mirano gli speculatori o dove il miglioramento del terreni non è commercialmente interessante

Risorse sprecate

Figura 4. La frangia urbana: componenti del paesaggio e esiti della sostenibilità.

7

Centre for Urban and Rural Ecology, Sustainable Development in the Countryside around Towns, Countryside Agency, Cheltenham 2002, pag. 18.

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AREE DI MARGINE E IDENTITÀ DEI LUOGHI

Le aree di margine sono spesso viste mancanti di identità. Il pesante sviluppo è il prodotto di un consumo di massa o di un uso istituzionale. C’è così una uniformità che fa sentire questi spazi come un “luogo qualunque” ed infatti una parola spesso usata per definire le periferie è “anonime”. Un’altra descrizione a queste aree è che sono “non-luoghi”. “Paesaggi di transizione” è un’altra frase che esprime la loro natura funzionale. Si veda Gallent, Andersson e Bianconi8 per una disanima di come le aree di margine sono tipicamente rappresentate. Nuovi sviluppi delle aree di frangia possono essere spesso visti come un cambiamento del carattere della città, specialmente se la dimensione, la scala e il carattere dell’insediamento è lontano dallo stile locale delle aree più vecchie. Per esempio, la piccola città scozzese di Ellon è ora la sede di oltre novemila persone. Questo rappresenta un accrescimento di cinque volte il nucleo originario a partire dagli anni Sessanta, con la maggior parte della crescita nel periodo tra la metà del 1980 e la metà del 1990. Case moderne prese dai cataloghi standard delle grandi compagnie di costruzione sono ora dominanti in città. Mentre le politiche di pianificazione hanno impedito una dispersione degli insediamenti e assicurato che ancora oggi esista un limite urbano forte, non si è stati in grado di conservare la tradizionale identità di antico villaggio di Ellon. Un importante paesaggio di frangia ha a che fare con la sistemazione paesaggistica degli insediamenti. Un insediamento è più distintamente riconoscibile se vi è una chiaro margine visuale. Questa considerazione ha vincolato le politiche di cintura verde, come vedremo più avanti. Comunque dobbiamo riconoscere che i luoghi non hanno più una sola identità 9.

UN’ AREA MULTI-FUNZIONALE SOTTO PRESSIONE In definitiva quelle di margine sono aree che pongono le maggiori questioni ai pianificatori e ai progettisti di paesaggio. Sono raramente celebrate, spesso denigrate e principalmente concepite come aree di transizione tra due diversi tipi di paesaggio – urano e rurale. Comunque questa interpretazione convenzionale sottostima l’importanza delle frange come aree multi-funzionali che stimolano il cambiamento, aree dove nuovi sviluppi si aggiungono alla città. Questo è importante per la sostenibilità, come si è visto nella tabella della Figura 4. Pertanto, come le politiche di pianificazione hanno trattato questi paesaggi così complessi e contribuito alla loro gestione? Le domande sono rilevanti in tutta Europa; così, come le politiche europee hanno risposto?

LA CITTÀ COMPATTA IDEALE “L’evidenza dimostra che la dispersione urbana ha accompagnato la crescita della aree urbane attraverso l’Europa negli ultimi cinquanta anni”10. Nel 1990 la Commissione Europea ha pubblicato il Green Paper sull’Ambiente Urbano11. Qui si sottolinea l’importanza della città nella storia, nella cultura e nell’economia d’Europa. Esso “stabilisce un filo narrativo sulla natura dell’urbanizzazione in Europa che da allora fa eco in tutti i documenti

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NICK GALLENT, JOHAN ANDERSSON , MARCO BIANCONI, op. cit., London and New York 2006, pagg. 76-81. CLIFF HAGUE, PAUL JENKINS (editors), Place Identity, Participation and Planning, Routledge, London and New York 2005. 10 European Environment Agency, op. cit., Luxembourg 2006, pag. 9. 11 Commission of the European Communities, Green Paper on the Urban Environment, EUR 12902 EN, Commission of the European Communities, Brussels 1990. 9

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dell’Unione Europea e che essenzialmente contrappone la classica città compatta alla dispersione urbana”12. La stessa storia è evidente nel report del 2006 dell’Agenzia Ambientale Europea. Similmente Apel et al. hanno scritto: “L’espansione diffusa delle aree urbanizzate (in particolare nelle zone più esterne alle aree urbane) e la persino più pronunciata segregazione di differenti usi del suolo, non solo mettono a rischio gli spazi aperti, ma producono alti costi sociali per urbanizzazione e trasporti, crescita del consumo di energia, inquinamento dell’aria e acustico e generalmente minacciano la cultura europea e la relativa capacità e conquista di una integrazione sociale e culturale, di tolleranza e responsabilità per i beni comuni”13. L’approvazione del contenimento urbano è stata reiterata nello Schema Spaziale dello Sviluppo Europeo, nel quale si scrive specificamente: “Gli Stati membri e le autorità regionali dovrebbero perseguire il concetto della ‘città compatta’ (città a corta distanza) al fine di un miglior controllo sulle future espansioni urbane. Questo include, ad esempio, la minimizzazione dell’espansione all’interno di un quadro di attente localizzazioni e politiche insediative, come nelle periferie e nella regioni costiere”14. Così come lo sviluppo della pianificazione spaziale in Europa, anche queste idee sono state fortemente influenzate dagli Olandesi. La città compatta è diventata una politica ufficiale nei Paesi Bassi nel 1988. L’obiettivo era quello di proteggere spazi aperti di valore nei dintorni delle città esistenti e di localizzare nuovi sviluppi al fine di minimizzare l’esigenza di trasporti, cioè all’interno delle aree insediate o, dove era necessaria l’urbanizzazione di aree libere, nell’immediata adiacenza. Comunque, dobbiamo notare che molti aspetti delle politiche pubbliche in Olanda sono cambiati negli anni recenti e vi è una maggiore propensione verso una posizione sensibile al mercato 15. E’ altresì interessante notare che la Carta Strategica 16, concordata dai ministri urbani degli Stati membri che si sono incontrati a Lipsia nel 2007, sebbene faccia riferimento frequente alla dispersione urbana, non vi ci si sofferma. Invece il documento si concentra sulla perdita urbana, sui trasporti, la sicurezza e la competitività. Così vi è il riconoscimento a livello della EU che ciò che accade ai margini urbani è importante, ma si percepisce l’inizio di una divergenza tra l’attuale agenda europea “lavoro e crescita” e il tradizionale concetto di città compatta. Naturalmente la stessa Unione Europea non ha nessuna competenza legale nel campo della pianificazione spaziale. Così l’applicazione del ESDP e delle politiche sulla città compatta sono lasciate agli Stati membri e alle autorità regionali e locali. Una ricerca di Bramley at al. 17 ha osservato che gli approcci per il controllo dello sviluppo ai margini della città variano considerevolmente da paese a paese. Un possibile sistema all’interno del Regno Unito è stato l’uso delle cinture verdi.

12

CLIFF HAGUE, Urban containment: European experience of planning for the compact city, in GERRIT-J KNAAP , HUIBERT HACCOU, KELLY J. CLIFTON, JOHN W. FRECE, (editors) Incentives, Regulations and Plans: The roles of states and nation states in smart growth planning, Cheltenham (UK) and Northampton, MA (USA) 2007, pag. 19. 13 DIETER APEL, M. LEHMBROCK , TIM PHAROAH , J. THIEMANN -LINDEN , Kompakt, mobil, urban: Stadtentwicklungskonzepte zur Verkehrsvermeidung im internationalen Vergleich, Deutsches Institut für Urbanistik (difu), Berlin 1997, pag. 455. Citato in JAN SCHEURER, Urban Ecology: Innovations in Housing Policy and the Future of Cities: Towards sustainability in neighbourhood communities, PhD Thesis at Murdoch University, Perth (Australia) 2001, pag. 171, downloadable from www.murdoch.edu.au 14 Commission of the European Communities, European Spatial Development Perspective: Towards Balanced and Sustainable development of the Territory of the EU, Office for the Official Publications for the European Communities, Luxembourg 1999, pag. 22. 15 Cfr. NEEDHAM, FALUDI, 1999; KUHN, 2003; VAN DER VALK, 2002; BERTOLINI, LE CLERQ, 2003. 16 THOMAS FRANKE, WOLF-CHRISTIAN STRAUSS, BETTINA REIMANN, KLAUS J. BECKMANN, Integrated Urban Development – A Prerequisite for Urban Sustainability in Europe, Federal Ministry of Transport, Building and Urban Affairs, Berlin 2007, downloadable from http://www.bmvbs.de 17 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, op. cit. 2004.

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STORIA DELLE CINTURE VERDI L’idea che sta alla base dell’uso della cintura verde è che la dispersione urbana possa essere fermata una volta che la città ha raggiunto una certa dimensione e un nuovo insediamento può essere inaugurato in prossimità, ma a una distanza di sicurezza 18. Questa nozione è stata particolarmente sviluppata in Inghilterra in risposta alla città industriale del XIX secolo, sebbene la sua applicazione non sia stata limitata a solo questo paese. Invece, come Hague ha osservato 19, l’elemento catalizzatore per la diffusione dell’idea di cintura verde probabilmente si è imposto attraverso l’opera di Ebenezer Howard che aveva visto per se stesso la rapida diffusione di insediamenti alla fine del XIX secolo in America. In Gran Bretagna negli anni Quaranta ci fu una forte reazione contro lo sviluppo urbano non controllato che aveva inghiottito così tanto terreno agricolo attorno alle città negli anni Trenta. Per esempio, la città di Edimburgo si era raddoppiata in estensione tra il 1919 e il 1939. Questo aveva portato il governo centrale a supportare una politica di contenimento urbano e di dispersione controllata della popolazione. Dal 1955 in poi in Inghilterra e un paio di anni più tardi in Scozia, le cinture verdi divennero uno strumento ufficialmente invocato al fine di raggiungere questi obiettivi.

L’ESPERIENZA SCOZZESE DELLE POLITICHE SULLE CINTURE VERDI Una serie di questioni critiche possono essere poste in relazione alle cinture verdi, tra cui: - Quali sono gli obiettivi che stanno dietro le politiche delle cinture verdi? - Quanto è importante la qualità del paesaggio nella designazione di una cintura verde? - Quanto è importante l’ecologia in tale designazione? - Le cinture verdi sono permanenti? - Quali usi sono accettabili all’interno delle cinture verdi? - Come una cintura verde può condizionare la gestione del territorio? Per esplorare siffatte domande, questo scritto attinge ora dalla ricerca sulle politiche delle cinture verdi in Scozia di Bramley 20. Gli obiettivi delle cinture verdi scozzesi furono stabiliti dal governo centrale nel 1960 e ribaditi nel 198521. Essi sono: - Mantenere l’identità delle città stabilendo una chiara definizione dei loro confini fisici e prevenendone la saldatura. - Attrezzare la campagna ai fini ricreativi e istituzionali di vario genere. - Mantenere l’assetto paesaggistico delle città. Negli anni Novanta altri due obiettivi relazionati furono aggiunti alle cinture verdi attraverso la pratica locale e le azioni di supporto dello Scottish Office. Questi erano ridurre le necessità di spostamenti e contemporaneamente promuovere la rigenerazione attraverso lo sviluppo guidato della città centrale e dei siti dismessi. Oltre ciò, nei primi anni del secolo corrente, alcuni piani cominciarono anche a considerare le cinture verdi in relazione allo sviluppo sostenibile22. C’è una generale condivisione che questi obiettivi sono stati felicemente raggiunti. Per esempio, il consiglio responsabile della cintura verde attorno ad Aberdeen ha affermato che è stata prevenuta “una dispersione non necessaria”23. Comunque deve essere notato che l’area 18

Cfr. CLIFF HAGUE, op. cit. 2007, pag. 17. Ibidem. 20 GLEN BRAMLEY , CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, op. cit. 2004. 21 Scottish Office, Scottish Circular 24/1985: Development in the Countryside and Green Belts, Scottish Office Development Department, Edinburgh 1985. 22 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, op. cit. 2004, pag. 21. 23 Aberdeen City Council and Aberdeenshire Council, North East Scotland Together: Finalized Aberdeen and Aberdeenshire Structure Plan 2001-2016, Aberdeen City Council and Aberdeenshire Council, Aberdeen 2001, pag. 50. 19

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costruita si è estesa per il sedici percento tra il 1975 e il 199824. In verità, tutti questi obiettivi e le loro assunzioni sottolineate possono essere cambiate. Hague ha mostrato25 che i costruttori non hanno riconosciuto la coalescenza degli insediamenti come un fattore possibile di riduzione della domanda di mercato per le loro proprietà in questi insediamenti. Per di più, nel caso di Aberdeen, gli effetti della politica della cintura verde sono stati quelli di forzare lo sviluppo scavalcando proprio la cintura verde: invece di esservi una crescita incrementale della stessa città, i nuovi insediamenti hanno preso luogo attrono ai margini di qualche piccola città nelle immediate vicinanze. Così Portlethen, una piccola città a circa dieci chilometri a sud di Aberdeen ha avuto un incremento del diciotto percento nel proprio patrimonio edilizio tra il 1991 e il 1998. E’ evidente che l’impatto di tale aumento sostanziale di nuove case cambi l’identità delle città più piccole26. Alla luce della revisione del lavoro già citato di Bramley et al. e della consultazione seguente, lo Scottish Executive ha pubblicato un nuovo rapporto sulle cinture verdi. Questo riafferma in larga misura il valore delle cinture verdi, ma attribuisce una maggiore enfasi alla loro gestione, sottolineando, nel paragrafo 9, anche che “la politica di cintura verde non è finalizzata alla protezione del patrimonio naturale”27. Mentre l’assetto paesaggistico delle città risulta tra gli obiettivi, la qualità del paesaggio non è attualmente d’interesse per la designazione di un’area come cintura verde. Questa è essenzialmente un concetto geometrico bidimensionale e non necessariamente protegge il paesaggio migliore. Le cinture verdi sono viste dai pianificatori e da gran parte della popolazione come un mezzo per difendere il territorio aperto contro le pressioni dell’urbanizzazione. In ogni caso, ciò può essere fatto attraverso altri meccanismi – non dipende nell’aver designato una cintura verde e l’evidenza dimostra che, almeno nel Regno Unito, le cinture verdi non sono immuni dai nuovi sviluppi urbani. Comunque è il caso di sostenere che le valutazioni paesaggistiche dovrebbero essere prese in considerazione nei processi di designazione delle cinture verdi, così come la protezione dovrebbe essere rafforzata dove ritenuta opportuna. Simili considerazioni possono essere fatte per le qualità ecologiche e ambientali delle cinture verdi. Le cinture verdi non sono designate come unità ecologiche e siti ecologicamente importanti possono essere protetti nel Regno Unito attraverso altre modalità. In passato si è pensato che il mantenimento dell’uso agricolo fosse di per sé degno di nota e che fosse uno strumento per conservare la natura. L’evidenza dell’impatto distruttivo dell’agricoltura intensiva sugli abitanti, accanto alle eccedenze agricole in Europa, hanno scardinato il caso per la assoluto mantenimento di terreno agricolo. Mentre spesso la popolazione crede che una cintura verde implichi un veto permanente sui nuovi sviluppi insediativi, la realtà nel regno Unito è piuttosto differente. Non solo è un sistema discrezionale di controllo pianificatorio (in contrasto con il meno flessibile sistema dello zoning ovunque in Europa), ma i confini della cintura verde sono rivisti e di tanto in tanto nuove aree sono rilasciate per nuovi insediamenti. La ricerca scozzese ha esaminato vari piani, concludendo che: “il comportamento generale di questi piani è stato quello di trattare la cintura verde come duratura e permanente – frasi come ‘lungo termine’ ricorrono con frequenza. Comunque ciò è leggermente attenuato dalla misura in cui i confini sono stati rivisti, nuovi insediamenti sostanzialmente residenziali sono stati permessi e, soprattutto, importanti usi non residenziali all’interno di alcune aree di cintura sono stati consentiti” 28. 24

Aberdeen City Council, Aberdeen City Local Plan Consultative Draft, Aberdeen City Council, Aberdeen 1998, pag. 3. 25 CLIFF HAGUE, “Identity, Sustainability and Settlement Patterns”, in CLIFF HAGUE, PAUL JENKINS (editors), Place Identity, Participation and Planning, Routledge, London and New York 2005, pagg. 159-182. 26 CLIFF HAGUE, op. cit., 2005, pag. 168. 27 Scottish Executive, Scottish Planning Policy 21: Green Belts, Scottish Executive, Edinburgh 2006, downloadable from http://www.scotland.gov.uk/Publications/2006 28 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, op. cit. 2004, pag. 34.

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La realtà è che concessioni di terreno di cintura per nuovi sviluppi sono molto spesso localizzate ai margini degli attuali insediamenti. Per esempio, ad Edimburgo agli inizi degli anni Novanta le pressioni abitative erano talmente forti che un rilascio di terreno dalla cintura verde adiacente a una grande area di tipo sociale-residenziale fu considerato essenziale. Questa area rimossa dalla cintura verde era abbastanza ampia per accogliere circa quattromila abitazioni. Fin dalle sue origini, definite in un piano del 1949, in tutti i milleseicento ettari della cintura verde di Edimburgo sono stati sviluppati altri usi (attualmente la cintura verde ammonta a diciassettemila ettari) 29. I costruttori sanno bene tutto questo e conseguentemente non trattano la cintura verde come un’area in cui non si otterranno mai permessi. Anzi, essi scelgono di comprare terreni se possono essere ottenute licenze di costruzione. La differenza di valore di mercato tra un terreno agricolo e un terreno urbano è enorme; si così incentivano i proprietari terrieri a fare in modo che le proprie aree diventino tanto degradate da rafforzare la possibilità del loro sviluppo. Naturalmente la natura della cintura verde varia. Non solo il paesaggio è differente da una cintura verde all’altra, ma anche le circostanze economiche più generali. Le cinture verdi hanno una maggiore probabilità di essere efficaci quando la pressione allo sviluppo agisce in un mercato forte e i pianificatori possono limitare la fornitura di aree essendo in una posizione di forza per costringere gli imprenditori a preferire determinate localizzazioni. In situazioni dove lavoro e crescita sono deboli, i pianificatori si trovano in una condizione di debolezza e i politici locali sono propensi a favorire lo sviluppo piuttosto che la conservazione della cintura verde. Il caso di North Lanarkshire illustra alcune di queste pressioni. North Lanarkshire è situato a nord-est di Glasgow ed è un’area di piccole città, con una considerevole parte di territorio tra queste designata come porzione della Glasgow and Clyde Valley Green Belt. È una vecchia area industriale, con molti terreni abbandonati e contaminati e con un livello di disoccupazione piuttosto alto. La già citata ricerca di Bramley et al. nota che “le interviste sul caso di studio di North Lanarkshire sembrano indicare che in certe circostanze la politica delle cinture verdi può essere secondaria ad altre priorità di sviluppo più pressanti economicamente”30. I dati su North Lanarkshire mostrati nelle tabelle delle Figure 5 e 6 confermano questo quadro. New Land Use

Nos.

% Approved

Area (Hec.)

% Area approved

Residential Telecoms

69 22

58 86

172 1

25 94

Business / Storage Minerals / Waste Other, incl. Leisure TOTAL

16 5 39 151

94 60 81 71

58 27 137 395

100 51 88 60

Figura 5. Elementi della pianificazione nella Green Belt in North Lanarkshire (2001-03).

Previous Use

Number

% Approved

Area (Hectare) % Area approved

Greenfield Brownfield TOTAL

128 23 151

71 70 71

283 112 395

72 28 60

Figura 6. Elementi della pianificazione in North Lanarkshire (2001-03) per tipo di territorio.

29

GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, op. cit. 2004, pag. 39. 30 GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, op. cit. 2004, pag. 66.

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Dunque, quali usi sono appropriati all’interno della cintura verde? La risposta non è facile. La ricerca scozzese è arrivata alla conclusione che mentre il governo definisce politiche e obiettivi per le cinture verdi, non spiega con chiarezza che cosa è accettabile e cosa invece non lo è. In particolare, vi sono molte ambiguità circa gli “usi istituzionali” che in caso di università o ospedali possono essere i maggiori insediamenti che generano un volume di traffico non diverso da quello, per esempio, dei centri commerciali. La ricerca ha inoltre evidenziato che le autorità locali avevano la possibilità di identificare “eccezioni” alla generale supposizione contro i maggiori insediamenti all’interno della cintura verde e ha osservato che alcuni critici hanno visto in ciò un mezzo per le autorità “a prendere decisioni opportunistiche per attirare particolari sviluppi, soprattutto quelli economici”31. Dovrebbe essere chiaro ora che le cinture verdi non sono quelle che sembrano essere. Pertanto, come la presenza della cintura verde può influenzare la gestione del paesaggio? Di nuovo vi sono molte differenze tra luogo e luogo ma il punto fondamentale è che le cinture verdi non sono realmente uno strumento per la gestione del paesaggio, mentre la designazione di cintura non impedisce programmi di miglioramento ambientale, per esempio, non è automatico che li favorisca. Similmente, esigenze come l’accesso pubblico, elemento chiave e controverso dei territori di margine urbano, non sono direttamente indirizzati dalla designazione della cintura verde. Fondamentalmente c’è necessità di azioni positive di gestione dei terreni per far funzionare la cintura verde così come questa è intesa, certamente riguardo all’accesso dalle aree urbane per gli usi ricreativi e il potenziamento delle qualità ambientali. Per esempio, un problema comune nelle cinture verdi, come in ogni altro luogo dei margini urbani, è la presenza di discariche non autorizzate di rifiuti domestici o aziendali. Una effettiva gestione è richiesta per prevenire questi abusi e per pulire l’immondizia quando occorre.

Figura 7. Discarica non autorizzata nella cintura verde di Edimburgo.

31

GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, op. cit. 2004, pag. 104.

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Le opportunità per il miglioramento del paesaggio identificate dalla ricerca scozzese includono32: - Migliore sintonia degli schemi agro-ambientali alle situazioni dei territori periurbani. - Forestazione urbana. - Miglioramento ambientale e paesaggistico di parti della cintura verde come “porte di accesso” agli insediamenti. - Riuso dei terreni abbandonati all’interno delle cinture verdi. In seguito alla ricerca sopra citata alcuni cambiamenti sono stati fatti dallo Scottish Executive (2006). In particolare la nuova politica riconosce l’importanza dei piani di gestione, condivisi tra le autorità locali, proprietari terrieri e altri soggetti interessati, per massimizzare i benefici delle aree di cintura.

ALTRE PRATICHE EUROPEE DI PIANIFICAZIONE E GESTIONE DELLE AREE DI MARGINE Nel progetto di ricerca compiuto per lo Scottish Executive sono state analizzate alcune pratiche straniere. Un interessante approccio di gestione delle aree di margine è quello di Helsinki. Il nuovo Master Plan (piano di sviluppo strategico) di Helsinki del 2002 è finalizzato a preservare i limiti naturali con gli insediamenti vicini; nella pratica questo obiettivo è seguito alla lettera. Con l’ottanta percento della terra di proprietà pubblica, la Città di Helsinki ha il monopolio sul processo di pianificazione. Questo determina quale tipo di uso del suolo è scelto, quanto spazio è usato, dove questo è localizzato, quando è costruito e chi lo attua in funzione della offerta più competitiva. La “buona pratica” di Helsinki è pertanto efficace, l’unico argomento tende ad essere il mercanteggiamento sulla qualità dell’ambiente. Occasionalmente vi sono delle aree verdi che sono sottoposte allo sviluppo urbano, ma la protesta della popolazione è tale che generalmente sono queste proposte sono ritirate. Ne risulta che, passeggiando in qualsiasi area periferica attorno a Helsinki, si può vedere una rete di percorsi nel bosco per lo svago estivo e percorsi da scii invernali. Una visita alla periferia della città mostra un sistema ricreativo ben usato sia in estate che in inverno. L’alto livello della proprietà pubblica dei terreni è sia critico per l’esito di Helsinki sia anche inusuale in Europa. Comunque, l’esperienza da qualche altro luogo della Scandinava può essere più trasferibile. Un esempio l’esperienza di Stoccolma: la pianificazione strategica e la forma urbana sostenibile. A Stoccolma, il piano generale approvato nel 1952 ipotizzò di gestire la crescita urbana attraverso nuovi sobborghi focalizzati attorno alle stazioni del metrò, vicino alle quali la densità era alta. Questo creò contemporaneamente una struttura verde di parchi e aree aperte che interrompeva le periferie. Il risultato odierno è che la popolazione gode nei sobborghi di una qualità della vita alta, ma ancora raggiunge facilmente la città, le sue attrezzature e i centri lavorativi. Le politiche di pianificazione correnti mantengono questo cuore verde e accolgono i “grandi contenitori” di oggi come magazzini di vendita, saloni espositivi delle autovetture, eccetera, nei corridoi infrastrutturali, traendo vantaggio dai luoghi vicino i nodi stradali. Comunque, i cunei verdi portano l’ambiente naturale nel cuore della città. E’ attribuita una grande enfasi sullo sviluppo dei siti abbandonati e sugli usi misti, ma lo sviluppo sta andando nei comuni vicini, dietro i confini della città. Durante gli anni Novanta una media di trentaduemila persone si muoveva entro la regione di Stoccolma annualmente. I cambiamenti non sono stati privi di problemi, con crescenti riferimenti alla segregazione dei poveri in qualche vecchio quartiere, ma d’altra parte questo è legato a una lunga tradizione di uguaglianza. La pianificazione dei corridoi verdi di Stoccolma ha permesso alla regione più importante economicamente della Svezia di crescere senza sacrificare la qualità ambientale che la rende una attrazione per la sua altamente qualificata forza-lavoro. 32

GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, op. cit. 2004, pag. 41.

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Figura 8. Stoccolma: corridoi verdi portano spazi aperti di elevata qualità fin dentro il cuore della città.

Si può imparare però anche dagli Olandesi, ad esempio dalla espansione pianificata paesaggisticamente di Groningen. Un gruppo di consulenti è stato chiamato a produrre proposte per lo sviluppo della città, della campagna e del sistema acquatico per un’area che si sviluppa per circa dieci-quindici chilometri dal lato occidentale della città di Groningen. L’area, che include quattro piccole città e pochi villaggi, è principalmente una zona di fattorie per la produzione di latte e latticini. I consulenti definirono le priorità per lo sviluppo quali “proteggere e rafforzare le qualità ecologiche, paesaggistiche e ricreative” e nel loro rapporto enfatizzarono i paesaggi culturali di questa zona. Fu condotta anche una analisi completa dei caratteri insediativi, come pure geologici, idrologici, paesaggistici ed ecologici. Il progetto prodotto immaginava di “abbracciare i vuoti”. Gli obiettivi includevano una chiara transizione tra la città e la campagna; una rete di percorsi ricreativi estesa dal centro della città; una immagine spaziale del paesaggio che fosse ancora definita dalle aziende agricole; il mantenimento della natura aperta della campagna e potenziamento dei paesaggi culturali33. Alla fine, pur essendo critici su quanto accade alle cinture verdi scozzesi, si deve riconoscere una caratteristica positiva e cioè il coinvolgimento attivo delle organizzazioni dei volontari nella gestione. Un esempio, l’Edinburgh Green Belt Trust. L’Edinburgh Green Belt Trust lavora in associazione alle comunità locali, proprietari terrieri e altre organizzazioni per creare un paesaggio sostenibile, ben gestito e accessibile all’interno e intorno ad Edimburgo, East Lothian e Midlothian. Il Trust sviluppa progetti ambientali locali e incoraggia il coinvolgimento individuale ed della comunità nella 33

CLIFF HAGUE, op. cit., 2005, pagg. 178-179.

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protezione e valorizzazione ambientale. Nel 2006 il Trust ha cambiato il proprio nome in Edinburgh and Lothians Green Space Trust, manifestando così il riconoscimento che la cintura verde è sì importante, ma non l’unica! 34

LEZIONI SULLA GESTIONE DEI PAESAGGI DI FRANGIA URBANA La pressione per lo sviluppo ai margini urbani è evidente in quasi tutta l’Europa. Essa riflette un vantaggio che una localizzazione periferica vicino alla rete dei trasporti può offrire. In particolare, si ha una crescita elevata dei settori relativi al divertimento e al commercio, per entrambi dei quali è prioritaria la distanza in termini di tempo in macchina e l’ampio parcheggio. Comunque la città compatta come “città delle corte distanze” presume che la prossimità definisca i modelli di spostamento e pertanto i brevi viaggi che possono essere fatti a piedi o con i trasporti pubblici indurranno le persone a non usare le loro auto per raggiungere le attrezzature a maggiore distanza. Lo sviluppo urbano policentrico ideale sostenuto nel ESDP implica che la popolazione abbia opzioni multiple per raggiungere i luoghi di lavoro, i negozi e le attrezzature ricreative. Nel prendere le decisioni la prossimità sarà solo uno dei fattori contro molti e non sarà necessariamente equiparato alla accessibilità. Hague ha sostenuto che questo è già il caso del Randstadt35. Allo stesso modo Mommaas ha indicato che i viaggi di piacere sono ora un aspetto chiave del movimento in Olanda, e che questo è probabile voler dire un viaggio ai confini della città, non verso il centro città36. Sebbene queste tendenze riflettono un futuro stile americaneggiante, della dispersione insediativa e della dipendenza dalle auto, questo non è un esito inevitabile. Pianificatori e urbanisti devono riconoscere la realtà che queste tendenze sono forti e, ragionevolmente, non possono essere completamente contrastate. Il problema è come gestire il cambiamento, non come prevenirlo. Questo scritto ha sostenuto che le cinture verdi, certamente così come sono praticate in Scozia, non sono una soluzione a meno che il concetto sia radicalmente reinterpretato. La vera sfida è trovare modi attraverso la pianificazione spaziale strategica, il progetto e la gestione per fare della frangia un paesaggio sostenibile. C’è molto che può essere imparato dall’esempio di Stoccolma, che ha un paesaggio di alta qualità e un vasto sistema di spazi aperti dentro la città, ma che è riuscita a conservare ciò e contemporaneamente favorire la crescita economica e un relativamente ugualitario modello sociale. La stabilità a lungo termine nella pianificazione strategica ha giocato un ruolo chiave, accanto all’uso positivo dei corridoi di sviluppo. La valutazione e progettazione paesaggistica, selettiva e effettiva protezione a lungo termine della qualità dei paesaggi, è importante. Comunque sopra tutto la gestione necessita di essere costruita all’interno di strategie. Una debolezza del tradizionale disegno architettonico che è evidente nelle cinture verdi è che questo enfatizza una forma disegnata sulla carta e dimentica l’importanza delle abilità alla negoziazione, comunicazione, monitoraggio, valutazione, eccetera37.

34

Cfr. http://www.ewgbt.org.uk Cfr. CLIFF HAGUE, op. cit. 2007. 36 H. MOMMAAS, “Recreation is now a leading factor of the physical planning of the Netherlands”, in T. BAART, T. METZ, T. RUIMSCHOTEL (editors), Atlas of Change: Re-arranging the Netherlands, NAi Publishers and Ideas on Paper, Rotterdam (Netherlands) 2000. 37 Per maggiori approfondimenti sulle abilità necessarie ai pianificatori in un contesto internazionale, si veda HAGUE CLIFF, WAKELY PAT, CRESPIN JULIE, JASKO CHRIS, Making Planning Work: A guide to approaches and skills, ITDG Publishing, Rugby 2006. 35

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ALCUNE IDEE PER UNA AGENDA EUROPEA DI RICERCA SULLA PIANIFICAZIONE E PROGETTAZIONE PAESAGGISTICA AI MARGINI URBANI

Alla fine come possono essere testate e sviluppate alcune di queste idee ed argomenti? C’è certamente l’opportunità per una preziosa ricerca di collaborazione europea sul compito della come gestione dei margini urbani. Suggerirei tre questioni aperte che possono essere focalizzate attorno a questa ricerca internazionale e comparativa, e cioè: - Analisi istituzionali. Quali organizzazioni, con quale abilità e prospettive, riescono a gestire i cambiamenti ai margini urbani? - Analisi sulle identità. Come lo sviluppo e la gestione dei margini può influenzare l’identità dei luoghi? - Strumenti. Quali strumenti di protezione e valorizzazione sono usati per gestire i margini?

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Aberdeen City Council, Aberdeen City Local Plan Consultative Draft, Aberdeen City Council, Aberdeen 1998. Aberdeen City Council and Aberdeenshire Council, North East Scotland Together: Finalized Aberdeen and Aberdeenshire Structure Plan 2001-2016, Aberdeen City Council and Aberdeenshire Council, Aberdeen 2001. APEL DIETER, LEHMBROCK M., PHAROAH TIM, T HIEMANN-LINDEN J., Kompakt, mobil, urban: Stadtentwicklungskonzepte zur Verkehrsvermeidung im internationalen Vergleich, Deutsches Institut für Urbanistik (difu), Berlin 1997. BERTOLINI L., LE CLERQ, F., Urban development without more mobility by car? Lessons from Amsterdam, a multi-modal region, in “Environment and Planning A”, 35, 2003, pagg. 575-589. BRAMLEY GLEN, HAGUE CLIFF, KIRK KARRYN, PRIOR ALAN, RAEMAEKERS JEREMY, SMITH HARRY, with ROBINSON ANDREW and BUSHNELL ROSIE, Review of Green Belt Policy in Scotland, Edinburgh, UK: Scottish Executive Social Research 2004. British Retail Consortium, Quarterly Economic Monitor, 10, August 2000. Centre for Urban and Rural Ecology, Sustainable Development in the Countryside around Towns, Countryside Agency, Cheltenham 2002. Commission of the European Communities, Green Paper on the Urban Environment, EUR 12902 EN, Commission of the European Communities, Brussels 1990. Commission of the European Communities, European Spatial Development Perspective: Towards Balanced and Sustainable development of the Territory of the EU, Office for the Official Publications for the European Communities, Luxembourg 1999. Countryside Agency, The state and potential of agriculture in the urban fringe, Unpublished project brief, Cheltenham 2002. European Environment Agency, Urban Sprawl in Europe: The ignored challenge, EAA Report No 10/2006, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg 2006. GALLENT NICK, ANDERSSON JOHAN, BIANCONI MARCO, Planning on the Edge: The Context for Planning at the Rural-Urban Fringe, Routledge, London and New York 2006. GALLENT NICK, ANDERSSON JOHAN, BIANCONI, MARCO, Planning on the edge: England’s rural-urban fringe and the spatial-planning agenda, in “Environment and Planning B: Planning and Design”, 33, 2006, pagg. 457-476. FRANKE THOMAS, STRAUSS WOLF -CHRISTIAN, REIMANN BETTINA, BECKMANN KLAUS J., Integrated Urban Development – A Prerequisite for Urban Sustainability in Europe, Federal Ministry of Transport, Building and Urban Affairs, Berlin 2007, downloadable from http://www.bmvbs.de.

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RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1, 2, 3, 7, 8: Fotografie di Cliff Hague. Figura 4: Elaborazione dell’autore. Figure 5, 6: GLEN BRAMLEY, CLIFF HAGUE, KARRYN KIRK, ALAN PRIOR, JEREMY RAEMAEKERS, HARRY SMITH, with ANDREW ROBINSON and ROSIE BUSHNELL, Review of Green Belt Policy in Scotland, Edinburgh, UK: Scottish Executive Social Research 2004, pag.142, pag. 141.

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di novembre 2007. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 – numero 8 – luglio-dicembre 2007 a cura di Anna Lambertini sezione: Saggi pagg. 64 - 85

PROGETTARE

IL PAESAGGIO AL FUTURO : NUOVI SCENARI PER LA PIANIFICAZIONE URBANISTICA COMUNALE AD ASCEA Guido Ferrara* e Giuliana Campioni **

Summary Ascea, a small Municipality in the south of Italy, is a remarkable example of biocultural landscape recently affected by pressure and fragmentation phenomena, owing to increasing tourism and expanding built up areas. Notwithstanding, new urban master plan has undertaken landscape as key element of a strategic development approach, conceived in accordance with Italian town and country planning new methods and legislation. Some master plan targets have been pushed to design solutions, while analysis, evaluation and interpretation processes have provided with a development model capable to recover and increase landscape resources and values and to make local community responsible on landscape management. Key-words Ascea, PUC, biocultural landscape, systems landscape, local community.

Abstract Ascea costituisce un esempio eccellente di paesaggio bioculturale in crescente difficoltà per le pressioni e le tensioni esercitate a suo carico da un turismo sempre più massificato e da sviluppi insediativi sovradimensionati rispetto alle esigenze locali. Tenuto conto dei nuovi scenari legislativi ed attuativi della pianificazione territoriale e urbanistica, la redazione del PUC è stata colta come occasione per verificare l’efficacia di un approccio dove il paesaggio costituisca il principale fattore di programmazione strategica. Questa scelta ha direzionato le analisi, le valutazioni e le opzioni di piano in termini progettuali e ne ha reso espliciti i fondamenti strutturali. Ovvero, ha avuto esito in una modellistica di sviluppo locale che ha l’ ambizione di recuperare ed accrescere gli elementi di valore propri di questo territorio e suscitare nelle comunità insediate nuove sensibilità e nuovi interessi. Parole chiave Ascea, PUC, paesaggio bioculturale, sistemi di paesaggio, comunità locali.

* Università degli Studi di Firenze ** Presidente della Federazione Associazioni Professionali Ambiente e Paesaggio (FEDAP)

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PROGETTARE IL PAESAGGIO AL FUTURO: NUOVI SCENARI PER LA PIANIFICAZIONE 1 URBANISTICA COMUNALE AD ASCEA Quanto segue è tratto dagli elaborati di un piano urbanistico comunale (PUC) in corso di redazione nella Regione Campania e specificatamente per un Comune del Parco Nazionale del Cilento, Ascea, come noto meta consolidata sia del turismo archeologico che di quello balneare. Si intende sottolineare qui l’importanza e la centralità di questo strumento di programmazione strategica per il progresso dell’economia e della cultura locale, partendo dalla considerazione delle risorse paesaggistiche. Giova a tale proposito ricordare come nella stessa Legge urbanistica della Regione Campania la funzione e comunque le finalità principali del PUC sono quelle di perseguire lo “sviluppo sostenibile”, ciò che nel nostro caso consiste nell’impegno a creare le condizioni per un rapporto equilibrato tra bisogni sociali, attività economica e ambiente. Si tratta di una strategia particolarmente appropriata per il territorio di Ascea dove la pressione dell’urbanizzazione recente sta causando la rottura delle relazioni tra territorio edificato e territorio aperto senza che vengano adeguatamente valutati gli effetti che tale rottura può produrre sull’assetto ecologico, sulla configurazione paesistica e, in particolare e sopratutto, sulla struttura produttiva dei luoghi. Infatti, come dimostra l’analisi SWOT qui acclusa, una delle maggiori opportunità di Ascea consiste nella promozione di una tipologia rinnovata di turismo, rispettoso dell’ambiente e al tempo stesso vantaggioso per l’economia in quanto operante su un arco di tempo ben più lungo dei soli mesi estivi e in forma articolata e diffusa sull’intero territorio comunale. Allo stesso tempo, uno dei principali rischi che la situazione attuale prospetta consiste nella banalizzazione delle straordinarie diversità dei quadri paesistici di Ascea, dove si alternano spiagge e falesie, boschi di castagno, centri storici, ambienti fluviali, praterie, oliveti, reperti archeologici. In sintesi, a fronte di una società desiderosa di vivere ed operare non più in semplici “spazi” da consumare ma bensì in “luoghi” d’eccellenza, e allo stesso tempo consapevole dei limiti che la natura e l’economia pongono al consumo di risorse non riproducibili, con al primo posto il suolo, le proposte del PUC di Ascea si fondano quindi su un approccio che identifica nel paesaggio - come sistema in continua evoluzione - il bene primario per soddisfare tali aspettative. Queste condizioni di partenza hanno direzionato i risultati delle analisi e le conseguenti proposte preliminari ad un piano con forti caratteri di progettualità, che vuole costituire un punto di riferimento non solo per le destinazioni d’uso del suolo, ma anche come per le attività economiche e culturali che si verranno a promuovere ad Ascea nei prossimi decenni. Con riferimento a questi obiettivi è evidente che la pianificazione territoriale e urbanistica assume un connotato diverso rispetto a quello tradizionale in cui le metodologie di analisi, le tecniche di rappresentazione, i criteri di dimensionamento utilizzati (capacità insediativa globale, standard, eccetera) e le modalità gestionali proposte sono elementi parametrati alle linee di indirizzo e ai processi di sviluppo esistenti, dove il paesaggio è esposto necessariamente a forme di consumo e pertanto suscettibile di politiche di esclusione e marginalizzazione, ancorché per le parti giudicate di eccellenza, come fossero fondali da “rispettare”, esenti da trasformazioni e da politiche di gestione e ottimizzazione. In altri termini, la tradizionale “zonizzazione “ del territorio comunale in ambiti con differente indice di edificazione si trasforma in una vera e propria “modellistica” di sviluppo locale che ha l’ambizione di aggiungere valore al territorio e suscitare nella comunità insediata nuove sensibilità e nuovi interessi.

1 Al presente saggio hanno collaborato: per la redazione informatica l’ing. Ilaria D’Urso (Dottoranda di ricerca in Progettazione Paesistica all’Università di Firenze); per le immagini la Dott.ssa Daniela Tonegatti (diplomanda in Landscape Architecture all’Università di Greenwich); per l’editing il dott. Michele Ercolini (architetto, Dottore di ricerca in progettazione paesistica).

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aumento costante della popolazione e dei nuclei familiari nel secolo e nel decennio crescita culturale della popolazione tradizione locale dell’ospitalità

PUNTI DI DEBOLEZZA calo delle nascite

RISCHI

abbandono delle frazioni storiche scarsa messa in valore del capitale umano

circa 50.000 presenze turistiche nei mesi estivi

importanza totalizzante delle attività economiche connesse alla balneazione stabilità dei flussi turistici scarsa considerazione della risorsa patrimonio insediativo e culturale come componente del processo di sviluppo locale produzione di beni agro progressiva tendenza alimentari di qualità dell’agricoltura verso l’auto consumo mantenimento del carattere contaminazione del di ruralità paesaggio agrario con impianti di tipo misto (serre, residenza impropria) vasta e inusuale offerta di inadeguatezza del marketing risorse ambientali ed altre strozzature al decollo di un turismo qualificato e di lunga durata

TERRITORIO

TURISMO

AGRICOLTUR A

ECONOMIA

POPOLAZIONE

PUNTI DI FORZA

turismo concentrato in soli due mesi estivi e di origine urbana “povera” ricettività insufficiente e tradizionale; offerta inadeguata a competere con realtà analoghe italiane ed estere alta qualità complessiva del mescolanza di usi impropri territorio e edilizia sparsa vuota durante molta parte dell’anno ampio arco di costa concentrazione degli sabbiosa alternato a falesia, sviluppi insediativi sulla linea di costa in continuità territoriale con la costiera marina di alto prestigio cornice di un paesaggio di alto interesse bioculturale, riserva di biodiversità ricchezza di corsi d’acqua, da intendersi come habitat e canali di flusso primari di materia (sabbia) ed energia

OPPORTUNITÀ

invecchiamento della popolazione

creazione motivi di radicamento e nuova occupazione

decadenza del patrimonio edilizio tradizionale perdita di saperi e maestranze artigiane e contadine concorrenza di siti analoghi

promozione di iniziative per il decollo turistico dell’entroterra accoglienza diretta dei visitatori

proliferazione edilizia a tipologia non compatibile con la qualità del territorio

creazione di pool di imprenditori e associazioni locali nel campo del recupero edilizio e della gestione dei servizi verticalizzazione delle filiera produzione agricola – ospitalità turistica agricoltura multifunzionale

spopolamento e marginalizzazione del territorio agricolo abbandono delle pratiche di coltivazione in attesa di possibili attività di edificazione assenza di iniziative diversificate in campo turistico con progressiva esposizione alla concorrenza aumento della residenza fine settimana a scapito di quella fissa banalizzazione e frammentazione del paesaggio crescente fragilità del sistema ambientale e paesistico

polarizzazione degli interessi esclusivamente sulle attività connesse alla balneazione con accentuazione della fragilità del sistema economico appartenenza alla direttrice insufficiente considerazione calo dei visitatori di qualità su cui insistono complessi delle risorse storico-culturali archeologici di richiamo internazionale (Paestum) inserimento nel sistema dei emarginazione di Elea-Velia progressiva riduzione siti di interesse storico dai grandi circuiti del dell’offerta della costa salernitana in turismo internazionale relazione a quella del Parco Nazionale del Cilento articolazione territoriale del insufficienza dei servizi, sbilanciamento e scarsa sistema insediativo della rete viaria e dei sistemi articolazione tipologica degli di trasporto e trasferimento insediamenti entro un processo di espansione urbana diffusa

promozione di forme di turismo integrato culturale e ambientale

pubblicizzazione dell’offerta di turismo rurale-marinonaturalistico attraverso apposite campagne di marketing di livello nazionale e internazionale formazione dei giovani nel settore dell’ecoturismo con nuove opportunità di lavoro promozione di iniziative per il prolungamento delle presenze turistiche durante tutto l’arco dell’anno tutela del paesaggio e delle permanenze investimenti per l’ottimizzazione della ricettività e dell’immagine urbana

adozione di soluzioni creative per un parco archeologico innovativo realizzazione di una rete locale di mete e di itinerari coordinata con Paestun e integrata a quella del Parco Nazionale del Cilento rilettura delle modalità di sviluppo del sistema insediativo

Tabella 1. PUC di Ascea: analisi swot (Strengths, Weaknesses, Opportunities and Threats).

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Per questi motivi il PUC viene a costituire un’occasione di grande riflessione per il futuro di Ascea, per i suoi livelli di crescita, per il suo modello di sviluppo, per il riordino dell’attività edificatoria pregressa, per la ricerca di un’immagine di città vivibile e, soprattutto, per le connotazioni in grado di esaltarne l’identità e la riconoscibilità. Oggi il piano urbanistico non può che essere un prodotto/servizio complesso, caratterizzato da regole proprie, procedure certe, flussi economici predeterminati o valutati con attenzione, esiti attesi ed impegnativi per i soggetti destinati alla sua attuazione, ciò che comporta un approccio metodologico mirato a costruire uno strumento di governo del territorio realmente operativo, flessibile, concreto, partendo dal sistema degli obiettivi che ci si propone di raggiungere e dai relativi criteri che presiedono ala loro attuazione. Le note che seguono espongono appunto i criteri adottati a guida dei processi di lettura, caratterizzazione, interpretazione e valutazione delle risorse territoriali effettuati durante il periodo di elaborazione della fase analitico-diagnostica del Piano ed alla definizione di modelli di scelte strategiche avanzate nella sintesi propositiva, al fine di sottoporle al giudizio e all’apporto costruttivo della cittadinanza, non come adempimento formale, ma come fase strutturale della strumentazione di Piano.

Figura 1. Ascea, tra passato, presente, futuro.

I CRITERI ADOTTATI PER FARE DEL PAESAGGIO IL PROTAGONISTA DEL PIANO E LA CHIAVE DELLO SVILUPPO

Primo criterio Il PUC non costituisce uno strumento capace di risolvere in un colpo solo contrasti e conflitti che hanno radici profonde nel corpo sociale e nella prassi amministrativa e la cui soluzione può essere avviata, ma non certo conclusa, da un semplice elaborato tecnico, per quanto complesso esso sia. Fermo restando che è suo specifico compito-dovere indicare le modalità e i tempi che occorrono per riportare l’equilibrio dove ora esistono situazioni di stress

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ambientale e di disagio sociale, va riconosciuto che la sua efficacia è legata tanto alla gradualità temporale nell’applicazione dei disposti, quanto e soprattutto al consenso che sarà stato in grado di creare all’interno del corpo sociale attraverso un’azione di coinvolgimento attuata in tutte le fasi di elaborazione. La trasformazione implicita in un tipo di Piano che subordina lo sviluppo alla sostenibilità ambientale e sociale delle scelte avanzate, ha bisogno di essere prima compresa, e poi condivisa e sorretta da coloro che si presentano come i diretti interlocutori dell’innovazione essendo quest’ultima riferibile ad un processo entro cui sono più significative le volontà dei gruppi piuttosto che i contenuti formali dei documenti, sia pure dotati di tutte le approvazioni di rito. Secondo criterio Quanto detto discende anche dalla convinzione che il vero pericolo che Ascea corre oggi è proprio il fallimento del principale strumento su cui vengono impostate le azioni programmatiche a lunga scadenza. La qualità del PUC consiste infatti nel proporre una strategia articolata e graduale di scelte, entro cui il tempo rappresenta un elemento fondamentale per la maturazione di situazioni di governo dell’ambiente e del territorio più avanzate delle attuali e per la trasformazione consapevole dei comportamenti rispetto alla gestione delle risorse ancora largamente disponibili. In conclusione si ribadisce l’opportunità/necessità che questo Piano venga considerato come punto di partenza, ovvero come la prima e significativa fase di un processo aperto e perfettibile, che segna la direzione e la strada da imboccare ma che, per definizione, non possiede la formula per convertire aspre contese tra forze contrapposte in soluzioni accettabili per tutti. Questo non significa che le scelte indicate sotto il profilo tecnico come le più opportune per l’ambiente nella sua globalità non debbano essere supportate con il necessario rigore: significa che il rigore va applicato tanto agli aspetti ambientali e storico-culturali quanto a quelli socio-economici, gli uni come gli altri costituenti il sistema dei vincoli e dei doveri entro cui si esplica il nuovo tipo di pianificazione proposto in questa sede. Terzo criterio Da quanto sino ad ora asserito emerge con forza come per “sviluppo dell’area” si intenda un processo che prepara e prolunga nel tempo alcuni necessari cambiamenti dei rapporti sociali ed economici, degli atteggiamenti e dei modi di vita dei cittadini. Sulla base delle indagini redatte possiamo infatti affermare con sicurezza come non esistano per il territorio di Ascea rimedi miracolo, quali ad esempio l’apertura di superstrade a scorrimento veloce, la creazione di insediamenti industriali o turistici di qualche peso, eccetera, capaci di riportarlo, sic et simpliciter, al centro degli interessi collettivi, ma sia invece possibile promuovere un processo di sviluppo locale durevole fondato sui seguenti punti chiave: - difesa del territorio sotto il profilo idrogeologico e ambientale; - conservazione della natura e dei beni culturali a mezzo di iniziative a carattere innovativo in quanto produttive dal punto di vista socio-cultuale ed economico; - sviluppo, con il ricorso agli incentivi praticabili, di un’agricoltura multifunzionale che attui la difesa e la valorizzazione dell’agrobiodiversità; - recupero dei centri storici e del patrimonio edilizio tradizionale diffuso, da predisporre ed attrezzare per l’offerta di ospitalità ad un turismo non consumistico; - miglioramento della qualità della vita e dei rapporti sociali avviando il processo di trasformazione degli attuali “paesaggi urbani mutanti”, carenti di identità e privi di confini, in “paesaggi urbani di eccellenza”.

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Figura 2. Mappa del PUC.

Quarto criterio Il criterio conclusivo consiste nel porre al centro degli interessi del Piano il paesaggio di Ascea, patrimonio complesso in quanto prodotto dal lavoro millenario dell’uomo su un ambiente difficile, e allo stesso tempo, fragile per i conflitti che si sono verificati negli ultimi decenni tra una società ancora radicata nella tradizione e un’idea di sviluppo legata al consumo (e talvolta allo spreco) di beni in massima parte irriproducibili e ispirata a modelli omologhi ripetuti in tutto il mondo. Al contrario, la filosofia del Piano promana dalla convinzione che, guardando al futuro, conservare e valorizzare il paesaggio consente non solo di cogliere l’essenza della principale risorsa di Ascea fino ad oggi non sufficientemente messa a frutto. Una risorsa che le analisi ci confermano essere stata usata sino ad oggi più come “giacimento” apparentemente inesauribile da cui estrarre pezzi da “consumare” in vario modo, piuttosto che come “ricchezza collettiva”, da gestire con lungimiranza non per mero moralismo ma per goderne i frutti con continuità nel tempo. Ciò considerato, il Piano intende presentarsi come uno strumento utile a tutelare il paesaggio, a conservarne gli elementi di qualità e di testimonianza, a metterne in risalto il sostanziale valore d’uso, a promuoverne il recupero e l’ottimizzazione attraverso il restauro, il recupero e la ristrutturazione di ciò che appare degradato o comunque compromesso. In definitiva, il Piano può essere letto quale matrice di un’azione di ampio respiro, necessariamente collettiva e, altrettanto obbligatoriamente, di lunga durata, in cui conservazione e trasformazione si saldano modernamente in un unico progetto. 69


ELEMENTI PER LA COSTRUZIONE DEL QUADRO CONOSCITIVO La “mappa del Piano” mette in evidenza come l’insieme delle proposte sia da mettere in relazione ai dispositivi logici e materiali delle nuove tecnologie dell’informatica applicate al territorio, pur considerate solo come un primo momento di un’azione di verifica da operare, in termini collaborativi, da parte degli enti di governo del territorio e dei cittadini tutti. Lettura. Le entità cartografiche fondamentali L’articolazione orografica del territorio di Ascea, che si rispecchia in un complesso mosaico di ambienti naturali ulteriormente diversificati dall’opera dell’uomo, ha reso necessario dotarsi di una mappa di lettura capace di metterne in luce i connotati fisionomici e, allo stesso tempo, di costituire uno scenario di riferimento per le diverse applicazioni previste dalla metodologia di elaborazione del PUC. Il processo analitico ha quindi avuto inizio con la redazione di un elaborato specialistico, utile a perimetrare le principali unità ecosistemiche, ovvero “le entità cartografiche fondamentali” che descrivono, con accettabile livello di approssimazione e di sintesi, le associazioni vegetali e gli usi del suolo caratteristici del territorio in oggetto, e rendono conto della loro distribuzione sui piani e sugli orizzonti tipici dei luoghi. I tematismi individuati a macchia sono precisamente 23, oltre agli elementi a rete, come le strade e i fiumi. Si tratta di un numero particolarmente elevato che, pur nella schematicità delle informazioni fornite, costituisce un primo significativo test su un territorio cui la natura e le attività esercitate dalle comunità locali hanno conferito una particolare complessità strutturale e percettiva che verrà considerata nel corso delle successive fasi. La Tavola 1 del PUC, di cui alla legenda acclusa, predispone quindi le condizioni di base per quegli approfondimenti che, dalla interpretazione e dalla valutazione del sistema paesistico, faranno derivare le proposte preliminari e le politiche di intervento. Essa perimetra e descrive, infatti, i diversi areali che identificano le varie entità cartografiche, mettendo in risalto, volta a volta, la predominanza di vegetazione colturale, nella forma dei seminativi, dell’arboricoltura da frutto e dell’oliveto, ovvero di vegetazione naturale e seminaturale nella forma dei boschi di conifere e latifoglie, della vegetazione arbustiva, della vegetazione ripariale e delle praterie. Caratterizzazione. Le componenti del paesaggio Il processo analitico-diagnostico ha identificato, entro specifiche macro-categorie previamente determinate, le componenti essenziali del paesaggio di Ascea, oggettivamente valide in quanto rappresentative della realtà locale nei suoi aspetti significativi di specificità e diversità. La forma del supporto geologico, le tracce dei grandi processi morfogenetici, gli elementi della copertura vegetale - sia di quella non colturale che di quella connessa alle pratiche agronomiche – così come le testimonianze delle attività umane, sono stati quindi assunti come “segni”, resi funzionali ad una conoscenza del paesaggio sintetica, ma, in linea generale, esemplificativa di potenzialità localmente del tutto inespresse. Un apposito elaborato, la Tavola 2 del PUC acclusa, seleziona con dettaglio espressivo: 1.- quelle componenti che, per il loro permanente e riconosciuto carattere di immodificabilità o per la diretta espressività delle condizioni orografiche, climatiche e morfologiche, possono essere definite come “invarianti strutturali” del paesaggio; 2.- quelle componenti che, in funzione del rango dei tessuti urbani storicizzati e di quanto desunto dallo stato di fatto e di attuazione del PRG vigente, mostrano disponibilità nei confronti delle attività antropiche da incentivare con specifiche politiche di sviluppo.

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Figura 3. La Tavola 1 del PUC predispone le condizioni di base per quegli approfondimenti che, dalla interpretazione e dalla valutazione del sistema paesistico, faranno derivare le proposte preliminari e le politiche di intervento.

In conclusione, il paesaggio è stato fatto oggetto di una forma di bilancio ambientale mirato ad evidenziare le proposizioni di conservazione e tutela irrinunciabili delle sue componenti strutturali e - insieme a queste - delle “azioni fortemente lungimiranti” indicate dalla Convenzione Europea nei settori del recupero del degrado e dell’innovazione paesistica. Se infatti, nell’era della globalizzazione, il vero rischio è la trasformazione incontrollata, bisogna anche tener presente che il tentativo di evitare comunque i cambiamenti può mettere il paesaggio fuori ruolo rispetto alla società di domani; al contrario si tratta di indirizzarlo alla sostenibilità, ove divenga operante una nuova sintesi tra natura, agricoltura, insediamento stabile e turismo. Interpretazione e valutazione. I sistemi del paesaggio I “sistemi di paesaggio” sono ambiti territoriali più o meno ampi che interagiscono tra loro pur presentando caratteristiche diverse quanto a fattori morfologici, a copertura vegetale e identità culturale.

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Figura 4. La Tavola 2 del PUC, seleziona sia quelle componenti che possono essere definite come “invarianti strutturali” del paesaggio, sia quelle che mostrano disponibilità nei confronti delle attività antropiche da incentivare con specifiche politiche di sviluppo.

Essi sono stati oggetto della fase conclusiva del processo conoscitivo, entro cui si sono conseguiti risultati già di natura progettuale, e ciò che più conta, in condizioni di relativa certezza dal momento che si è operato in diretta continuità con i processi di lettura e caratterizzazione precedentemente svolti e con i risultati da essi emersi. In altri termini, sulla base di condizioni di stato oggettivamente rilevate, si è avuta conferma che il territorio di Ascea viva una duplice realtà: mentre sussistono sistemi di paesaggio con permanenza di valori pressoché intatti, i mutamenti intervenuti negli ultimi decenni nelle componenti economico-sociali, e più ancora la deregulation dei processi edificatori, stanno trasformando esempi eccellenti di paesaggi bioculturali in ecosistemi perturbati, soggetti a pressioni destinate ad accentuare la fragilità strutturale che già oggi li contraddistingue. In sintesi, è stato possibile individuare nella Tavola 3 le fondamentali categorie di sistemi di paesaggio a cui sono state fatte corrispondere altrettante strategie di intervento. Alla prima categoria appartengono i sistemi definiti “testimoniali” in quanto paesaggi naturali o culturali che, pur formatisi in condizioni diverse da quelle odierne, possiedono rilevanti caratteristiche di valore intrinseco, stabilità e integrità. 72


Figura 5. La Tavola 3 del PUC individua le fondamentali categorie di sistemi di paesaggio a cui sono state fatte corrispondere altrettante strategie di intervento.

Tali caratteristiche li rendono suscettibili di una strategia di protezione finalizzata al mantenimento degli aspetti identitari loro propri, da tesaurizzare come patrimonio per il futuro. Alla seconda categoria appartengono i sistemi definiti “in tensione” in quanto paesaggi ad integrità e stabilità variabile, nei quali l’introduzione o l’espansione delle funzioni antropiche, con specifico riguardo all’incremento della crescita urbana, può sovvertire le caratteristiche ecologiche e percettive. Per questi sistemi di paesaggio la strategia suggerita consiste quindi nella individuazione di interventi volti ad evitare o contenere gli squilibri in atto o potenziali, per gestire il processo di trasformazione in termini di compatibilità ambientale ed ottimizzazione economica. Alla terza categoria, infine, appartengono i sistemi “sostitutivi”, così definiti in quanto, essendosi profondamente modificate le condizioni e le funzioni che li hanno determinati e plasmati, si trovano in condizione di equilibrio instabile. In questo caso la strategia suggerita consiste nel promuovere interventi capaci di ricostituire una nuova condizione di equilibrio, sostituendo le antiche funzioni con altre adeguate alla situazione in corso. 73


Figura 6. La Tavola 4a del PUC individua ambiti afferenti prevalentemente il territorio urbanizzato interessate da processi insediativi, riconosciute come specifiche “aree tematiche” in base alla storicità, o meno, del tessuto edificato, ai suoi aspetti tipologici e morfologici, alla caratterizzazione dell’ambiente urbano.

SINTESI PROGRAMMATICA. LE AREE TEMATICHE DI NATURA STRATEGICA Le aree tematiche di natura strategica costituiscono il luogo del progetto unitario del territorio in quanto forniscono un’interpretazione delle cartografie analitiche e valutative del paesaggio e la mettono in rapporto con le destinazioni d’uso del suolo proprie della pianificazione territoriale urbanistica. Il procedimento risulta utile alla definizione di strategie e regole suscettibili di dare la giusta evidenza ambientale alle future scelte localizzative e economico-operative e a rendere congruenti le regole e le norme di governo del territorio con i caratteri strutturali del paesaggio. 74


Tali regole e norme, pur riferendosi in termini generali ad un contesto unitario quale il territorio comunale di Ascea, sono state articolate differentemente e restituite graficamente in due distinti elaborati. Il campo di applicazione viene pertanto ad interessare: - ambiti afferenti prevalentemente il territorio urbanizzato, ovvero realtà spaziali comunque interessate da processi insediativi, riconosciute come specifiche “aree tematiche” in base alla storicità, o meno, del tessuto edificato, ai suoi aspetti tipologici e morfologici, alla caratterizzazione dell’ambiente urbano (Tavola 4a); - ambiti afferenti prevalentemente il territorio aperto, riconosciuti come “aree tematiche” sulla base della qualità e della specificità degli spazi naturali, seminaturali, nonché del carattere, o meno, di ruralità, del tipo di pratiche agronomiche cui sono soggetti (Tavola 4b). Le note che seguono, espressive degli aspetti strutturali e percettivi delle aree tematiche loro ascritte, intercettano i criteri su cui sono state tracciate linee di intervento volta a volta rispondenti alle situazioni in atto, ma comunque univocamente mirate ad uno sviluppo durevole e gestito direttamente dalla popolazione residente.

Figura 7. La Tavola 4b del PUC individua ambiti afferenti prevalentemente il territorio aperto, riconosciuti come “aree tematiche” sulla base della qualità e della specificità degli spazi naturali, seminaturali, nonché del carattere, o meno, di ruralità, del tipo di pratiche agronomiche cui sono soggetti.

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Si tratta, in altri termini, di “indirizzi normativi” concepiti per suscitare, nella fase di avvio del PUC, una responsabile riflessione sulle politiche da promuovere nei vari ambiti del territorio comunale, in modo da preparare la stesura, nella seconda fase del piano, di destinazioni d’uso e di norme tecniche di attuazione cogenti e dotate di efficacia. Detti indirizzi, da considerare in ogni caso come indicazione di massima, assumono un valore largamente indicativo nelle aree tematiche contrassegnate da apposito simbolo grafico ricadenti nella zona oggetto di Piano Particolareggiato di riqualificazione ai sensi della Legge Regionale n. 5/2005 della Regione Campania. Infatti, in questo specifico caso, il PUC è per legge limitato a definire assi strategici di intervento compatibili e integrati allo scenario globale, rinviando necessariamente allo strumento attuativo ogni definizione di merito.

Figura 8. Viaggio alla origini della filosofia: modalità attuative, gli obiettivi.

UN PIANO D’AZIONE PER IL PASSAGGIO DAL PIANO AL PROGETTO Nel caso di Ascea la transizione dal piano al progetto si presenta come un percorso obbligato per tradurre norme e regole in quelle iniziative d’eccellenza che più risultano adatte, alla luce delle conoscenze acquisite e delle verifiche operate a creare vantaggi competitivi e promuovere nuove forme di urbanità. Tenuto conto di questa premessa il PUC individua fin d’ora quattro iniziative d’eccellenza di seguito specificate come suscettibili di ottenere gli scopi prefissati. Viaggio alle origini della filosofia Gli obiettivi. Aprire una nuova stagione di creatività per Elea–Velia, rilanciarla come teatro della storia alle origini del pensiero filosofico, per attualizzare e adeguare alle esigenze della contemporaneità l’offerta straordinaria di risorse disponibili e rilanciarla nel circuito del turismo archeologico internazionale.

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Le modalità attuative. - Redazione del Piano Particolareggiato ai sensi della L.R. 5/2005 e recupero generalizzato del contesto territoriale di riferimento anche con azioni lungimiranti fondate sull’innovazione. - Campagna pubblicitaria per il rilancio del Parco archeologico a livello nazionale ed internazionale, creazione di pacchetti diversificati di offerta di visita e soggiorno, attivazione di un efficiente sistema di trasferimento giornaliero dei frequentatori delle località turistiche della Campania con l’uso mezzi non inquinanti. - Messa a punto di un Piano della comunicazione atto a consentire il massimo apprezzamento del sistema unitario reperti archeologici, monumenti, musei e paesaggio all’origine dell’unicità dell’immagine del Parco. - Organizzazione di una rete di itinerari lungo cui dislocare attrattori di natura diversa e “strumenti di percezione” attrezzati per amplificare nel visitatore le impressioni raccolte dall’esterno. - Modernizzazione dell’offerta del Parco con il ricorso a tecnologie mediatiche di tipo interattivo capaci di stimolare l’interesse e l’immaginazione del visitatore. - Organizzazione di eventi e di attività altamente specializzate facendo ricorso per il finanziamento alla sponsorizzazione delle iniziative.

Figura 9. PUC: proposte per gli ambiti fluviali.

Il parco nel parco Gli obiettivi. Per promuovere l’escursionismo, rendere produttive le risorse disponibili sull’intero territorio comunale, creare un asse di collegamento diretto tra la costa e l’interno del Parco del Cilento, istituzione a Parco locale del Fiumarella per finalità integrate quali la conservazione della natura, la promozione del turismo escursionistico e di occupazione giovanile, la rottura dell’isolamento dei centri della montagna, il collegamento della realtà costiera con le aree interne del Parco Nazionale del Cilento. Le modalità attuative. - Rinaturazione del corso del Fiumarella, creazione di macchie e corridoi di vegetazione naturaliforme, progressiva riconversione dei rimboschimenti a conifere in boschi di latifoglie con funzione ricreativa. - Valorizzazione degli aspetti di biodiversità naturale e animale tipici dell’ambiente agro-fluviale rendendoli percepibili direttamente dall’ambiente. - Adeguamento del Parco ad elemento ordinatore del nuovo sistema integrato di spazi aperti previsto dal PUC sul territorio urbano e rurale. Collegamento del Parco ai borghi montani e al loro entroterra mediante una rete di percorsi fondati sul recupero della sentieristica tradizionale e diretti a mete significative. - Creazione di cooperative di giovani formati e impegnati nella nuova professionalità di guida ambientale- escursionistica. - Prolungamento del Parco all’intera asta fluviale coinvolgendo i Comuni limitrofi per conferire all’iniziativa un carattere intercomunale.

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Figura 10. PUC: proposte per gli ambiti fluviali: sezione tipo.

Figura 11. Il Parco nel Parco: modalitĂ attuative, gli obiettivi.

Centri e paesi L’obiettivo. Per rompere l’isolamento dei centri montani, recuperare il patrimonio edilizio, mobilitare la popolazione in iniziative imprenditoriali, rivitalizzare i centri storici, recuperare il patrimonio edilizio, conferire agli abitanti un ruolo attivo e diretto in una nuova forma di turismo che ricerca stili di vita avanzati.

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Figura 12. Ascea, tra passato, presente, futuro.

Le modalità attuative. - Sperimentazione della formula del “paese-albergo” in situazioni favorevoli sia dal punto di vista edilizio che della disponibilità degli abitanti all’accoglienza. - Realizzazione di strutture ricettive diffuse in modo da far vivere gli ospiti a diretto contatto con la comunità locale protagonista di un nuovo tipo di ricettività. - Sensibilizzazione dei residenti a fornire servizi non monetizzabili destinati a persone che vogliono sentirsi anche per pochi giorni abitanti dei luoghi. - Produzione e commercializzazione di prodotti ecologici e di prodotti di filiera, a denominazione o tipici locali, come elemento di qualità del soggiorno. - Introduzione degli ospiti nella realtà dei paesi montani con l’organizzazione di attività diversificate fondate sulla cultura materiale. Qualità dell’abitare, qualità della vita L’obiettivo. Per riqualificare l’immagine urbana, adeguare i servizi, migliorare i rapporti sociali, ottimizzare le prestazioni al turismo, interrompere il consumo di suolo a fini edificatori, recuperare il fabbisogno abitativo all’interno delle aree già urbanizzate attraverso il riuso edilizio e urbanistico, costruire un’immagine di “città” riconoscibile e vivibile dove siano favoriti i rapporti sociali e create le condizioni per un uso produttivo del tempo libero. Le modalità attuative. - Progressiva trasformazione del tessuto urbano recente in una successione ordinata di luoghi e di manufatti riconoscibili e rispondenti ai bisogni di una società in crescita, riducendo al massimo i fenomeni di frammentazione ed anonimato che attualmente lo caratterizzano. - Creazione di un rapporto produttivo tra società e istituzioni in modo da soddisfare adeguatamente i bisogni abitativi ed evitare i guasti prodotti dall’azione congiunta dello spontaneismo e da una strumentazione urbanistica fondata su aspetti puramente tecnico-quantitativi non raccordati alla specificità del corpo sociale. - Tendenza generalizzata ad una “città sostenibile” dove venga fatto ricorso alle energie rinnovabili, aumenti l’uso di mezzi pubblici non inquinanti, siano evitate le situazioni di emarginazione e valorizzati gli spazi aperti come ambiente di vita. - Miglioramento della qualità e della caratterizzazione delle strutture ricettive e dotazione di sistemi di gestione e certificazione ambientale in modo da attualizzare e rendere efficiente l’offerta turistica di Ascea. 79


Figura 13. Centri e paesi: modalità attuative, gli obiettivi.

Figura 14. Qualità dell’abitare, qualità della vita: modalità attuative, gli obiettivi.

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Figura 15. PUC di Ascea. Centralità del paesaggio nel processo di sviluppo locale: le quattro iniziative d’eccellenza.

IL TURISMO AMBIENTALE COME MOTORE DI UNA NUOVA ECONOMIA Entro il quadro operativo proprio del PUC tracciato nel corso dei capitoli precedenti, il fenomeno turistico merita un’attenzione particolare. Attualmente gli interessi sono infatti concentrati esclusivamente sulla costa e notoriamente il massimo dell’attività ricettiva gravita attorno a Marina di Ascea, vero e unico polo del turismo estivo. Allo stesso tempo, all’offerta di mare e spiaggia non corrisponde una corrispettiva offerta di servizi e di ricettività capace di garantirne la fruizione in termini ottimali. Il resto del territorio e in particolare il comprensorio montano e gli ambienti agro fluviali non sono valorizzati nel potenziale che possiedono per l’escursionismo e il godimento di natura, paesaggio, gastronomia, cultura. Il PUC intende giocare un ruolo importante per la moderazione di questi fattori di squilibrio, proponendo, non in alternativa, ma ad integrazione del patrimonio disponibile sulla costa, i pascoli d’alta quota, i paesaggi di fondovalle solcati da fiumi e torrenti, gli insediamenti e i nuclei abitati storici. La decadenza di queste risorse è tanto deprecabile quanto più grande è la loro capacità di giocare un ruolo essenziale ad un nuovo modello di assetto territoriale. Si tratta infatti di attrarre una forma di turismo che potrà diluirsi su ambiti territoriali assai più vasti e diversificati degli attuali, per periodi ben più lunghi, e con un’offerta specializzata e mirata, in grado soddisfare una più vasta gamma di richieste.

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Figura 16. Vengono qui evidenziate le componenti essenziali e le opportunità di questa nuova offerta, graficizzate in uno schema che mette in luce la veridicità di tali asserzioni sotto il profilo localizzativo (elaborazione grafica a cura di Michele Ercolini).

Così facendo si elimineranno gli attuali inconvenienti, si otterrà la messa in valore di risorse sino ad ora rimaste in sottordine e, insieme, si potrà raggiungere il maggior respiro dell’azione conservazionale senza che questo comporti sacrifici per nessuno, anzi coniugando di nuovo la simbiosi opportuna e utile fra uomo e natura, partendo dai bisogni e dalle aspettative di tutta la società. Vengono qui evidenziate le componenti essenziali e le opportunità di questa nuova offerta, graficizzate in uno schema che mette in luce la veridicità di tali asserzioni sotto il profilo localizzativo. Componenti del paesaggio con alta valenza ambientale - Corsi d’acqua ed aree golenali - Praterie continue - Boschi di latifoglie, rimboschimenti - Beni naturali localizzati - Punti di vista panoramici

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Figura 17. la centralità del paesaggio nel processo di sviluppo locale: le quattro iniziative d’eccellenza.

Opportunità offerte nel campo del turismo ambientale ed escursionistico - Interventi di rinaturazione - Collegamenti con le aziende agricole - Spazi attrezzati per attività ricreazionali e sportive - Collezioni di specie vegetali, musei all’aperto - Zone di sosta attrezzate (giochi didattici, segnaletica, eccetera) - Percorsi ciclo-pedonali e percorsi di equitazione - Servizi logistici e di ristoro. Componenti del paesaggio con alta valenza antropica e aree archeologiche - Beni archeologici concentrati e diffusi (necropoli, eccetera) - Insediamento storico e tradizionale - Beni culturali isolati - Paesaggio agro-fluviale - Maneggi. Opportunità offerte e potenzialità nel campo del turismo culturale - Sistema museale, formativo e informativo - Servizi logistici e di ristoro - Mete di interesse storico e antropologico. Sistema di percorrenza - Percorsi ciclo-pedonali e pipo turistici in ambiente agro-fluviale - Percorsi escursionistici - Percorsi di collegamento tra centri abitati - Sistema bus navetta ecologici. In conclusione, considerato che la condizione necessaria per valorizzare il territorio di Ascea in termini culturali ed economici è quella di salvaguardarlo da forme d’uso distruttive, il PUC propone una strategia di settore e l’individuazione di interlocutori privilegiati per la sua realizzazione.

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LA STRATEGIA Costruzione del sistema di offerta - Realizzazione di un sistema ricettivo adatto ad ospitare i vari tipi di utenza; - Strutturazione dell’offerta di beni e servizi diversificata per ambiti territoriali e concepita come una rete interconnessa a livello territoriale; - Qualificazione del sistema di ospitalità, informazione e accompagnamento con la professionalizzazione e l’avvio all’attività di operatori locali. Stimolo della domanda - Creazione di strumenti di promozione quali guide, cataloghi, depliant a larga diffusione; - Apertura di un sito Internet apposito per il turismo nel territorio di Ascea; - Promozione del prodotto in tutte le fiere specializzate dedicate al turismo e al tempo libero; - Studio di forme di incentivazione del turismo sociale per le basse stagioni; - Avvio di campagne pubblicitarie nelle grandi aree metropolitane del Mezzogiorno; - Sensibilizzazione delle Associazioni culturali e ambientali. Animazione economica - Coinvolgimento della popolazione e partenariato a livello locale; - Monitoraggio delle azioni intraprese; - Collegamento sinergico con la pianificazione urbanistica e territoriale in atto. Collaborazione tra gli operatori - Formazione di un “consorzio” quale dispositivo che sviluppi le imprese turistiche utilizzando i seguenti assi: o creare una rete di operatori nel settore; o garantire la formazione dei possibili nuovi operatori e in particolare dei giovani (corsi di formazione in marketing, eccetera); o avviare attività promozionali mediante la realizzazione in comune di siti Web, guide e cartine, opuscoli che forniscono indirizzi e date degli eventi di maggior rilievo, logotipi, marchi, manifestazioni di grande richiamo e una partecipazione congiunta a fiere campionarie e saloni; o proporre il territorio come “meta turistica “ in modo da garantire un buon margine di redditività in tutto l’arco dell’anno; o concepire il Consorzio come una struttura aperta cui possono partecipare operatori privati (albergatori, ristoratori, proprietari di campeggi, commercianti, agenti culturali, fornitori di servizi turistici, eccetera) e partner pubblico (essenzialmente Comuni). Si sottolinea come le possibilità di promozione del turismo ambientale presenti entro i confini del territorio comunale si dilatino allorché l’ottica venga ampliata a livello comprensoriale, tenuto conto che Ascea costituisce quota parte del Parco Nazionale del Cilento Vallo di Diano. In conclusione, il patrimonio locale di risorse nei campi dell’archeologia, della natura, della storia, del paesaggio, dei panorami, delle spiagge, della gastronomia, della ricettività, sono in grado di creare vantaggi competitivi ove siano avviati processi organizzativi gestiti direttamente dalle imprese locali e dagli abitanti.

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COMPONENTI

VANTAGGI COMPETITIVI

ASSI STRATEGICI, MISURE, AZIONI

Componenti fisiografiche e percettive: Accessibilità ai cacumini, ai punti di vista sono i luoghi sommitali e costieri di panoramici e alle sorgenti. alta rilevanza visuale ed ecologica. Reale protezione della qualità delle acque marine e della linea di costa. Messa in valore degli ambiti agrifluviali per promuovere il turismo ambientale.

Conservazione della natura Rapporto con le aree protette nazionali Escursionismo naturalistico estivo

Componenti vegetazionali sono i luoghi di insediamento di cenosi a carattere naturale e seminaturale

Attività produttive connesse alla presenza del bosco Compensazione carichi ambientali dell’edificato

Conservazione del patrimonio di biodiversità, Attività agroforestali Disponibilità di superfici per attività ricreazionale

Componenti agronomiche sono i luoghi di costruzione del paesaggio antropizzato

Presenza di colture identitarie del contesto territoriale e paesistico Patrimonio di agrobiodiversità Edilizia tradizionale e recente

Incentivazione prodotti tipici Estensione e qualificazione sistema ricettività diffusa Miglioramento e finalizzazione rete sentieristica

Componenti insediative e a rete sono i luoghi storici dell’abitare e le espansioni recenti e il sistema delle infrastrutture di collegamento

Alta valenza culturale, ricettiva e commerciale dei centri storici maggiori Disponibilità a forme di ricettività alternativa dei borghi rurali Alto richiamo degli insediamenti costieri per il turismo balneare

Innalzamento dell’immagine e della qualità urbana anche con il ricorso a specifici strumenti quali il Piano degli spazi aperti Dotazione di servizi efficienti Certificazione delle strutture ricettive Sistemi di trasporto ecoefficienti Collegamenti costieri su ferro di tipo innovativo.

Tabella 2. Prospetto di sintesi del modello di scelte proposto.

RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Tutte le immagini sono tratte dagli elaborati originali realizzati dallo Studio Ferrara Associati di Firenze.

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di dicembre 2007. © Copyright degli autori. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 – numero 8 – luglio-dicembre 2007 a cura di Anna Lambertini sezione: Dialoghi pagg. 86 - 93

PAESAGGIO ED ECONOMIA. PRIME RIFLESSIONI SULL’“AUTO-SOSTENTAMENTO” COLLOQUIO CON PAOLO LEON

DEL

PAESAGGIO:

Alessandra Cazzola *

Summary The landscape is intended like a structural and cross element of the territory, but it is protect like a single object and it doesn’t consider in any economic programming. There are “landscape’s situations” that have a “market value” inside and from this “value” they take a kind of economic rent and an upkeep; but there is also another “landscape’s situation” for which are very difficult to apply the same economical conditions. In this dialogue with Paolo Leon we want reflect - primarily - about the relationship between economy and landscape and how we “translate” an economic reasoning upon landscape’s elements that aren’t economic elements. Key-words Landscape; market value; economic programming.

Abstract Nonostante il paesaggio sia ormai inteso come un elemento strutturante e trasversale nel territorio, continua ad essere tutelato come un oggetto isolato, non comparendo in forma esplicita all’interno di nessuna programmazione economica. Ci sono “situazioni di paesaggi” che hanno trovato nei loro stessi elementi componenti il “valore” dal quale trarre una sorta di rendita e quindi un sostentamento, ma come vi siano altri tipi di paesaggio per i quali la relazione non è poi così lineare e non è poi così facile applicare le stesse modalità di misura dei beni economici. Ciò su cui si vuole riflettere in questo dialogo con Paolo Leon è - in primo luogo - il rapporto tra economia e paesaggio e come si può “traslare” modalità di misura meramente economiche ad elementi paesistici che hanno un valore che meramente economico non è Parole chiave Paesaggio; valore di mercato; programmazione economica.

* Dottore di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze; Specialista in Pianificazione Urbanistica, Università di Roma “La Sapienza”.

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PAOLO LEON, professore ordinario di Economia pubblica all’università Roma Tre, Consigliere Economico del Cles, nel 1999 è stato membro del Comitato Scientifico della Conferenza Nazionale per il Paesaggio. Molte sono le sue pubblicazioni scientifiche e le esperienze professionali come consulente riguardanti soprattutto i temi relativi alla Pianificazione territoriale e di settore e a Studi di Fattibilità. Ha lavorato - tra le altre cose - al Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Firenze (1995), al Parco Artistico Naturale della Val d’Orcia (1995), al Piano Regionale di Sviluppo della Regione Umbria (2000), allo Studio di fattibilità sulle destinazioni della Reggia di Venaria Reale di Torino (2001) e allo Studio di fattibilità del progetto di collegamento ferroviario Torino-Lione per il Ministero dei Trasporti (2002).

Nel campo paesistico-ambientale - come ad esempio sottolinea il prof. Roberto Gambino1 sono di difficile applicazione metodi di valutazione prettamente economici: l’analisi costi/benefici o, in subordine, le analisi costi/efficacia o costi/risultati. Si può ragionevolmente dubitare che la quantificazione monetaria si presti ad essere la giusta unità di misura nel calcolo del valore da attribuire ai beni ambientali e paesistici in quanto esistono, indipendentemente dal fatto che possano o no essere “utilizzati” dall’uomo. Il “bene paesaggio”, infatti, è un bene in qualche misura intangibile, anche se la teoria economica ha cercato - e cerca tuttora - di quantificarlo con il ricorso a quelli che possiamo interpretare come artifici più o meno sofisticati. In altre parole, come si possono “traslare” modalità di misura meramente economiche ad elementi paesistici che hanno un valore che meramente economico non è? È possibile tradurre in termini di mercato ciò che sia contraddistinto come un valore non consumabile? Se il bene-paesaggio è, come detto, un bene intangibile, vi si possono applicare - e se sì, come? - criteri di valutazione economica (ad esempio le analisi citate poc’anzi)? Come spesso succede, le discipline non si parlano. Qualificare la valutazione economica come “monetaria” offende una larga bibliografia, che non ha intenzione di riprodurre lo schema del mercato nell’applicare l’analisi al paesaggio o ad altri beni, rapporti, circostanze analoghi (per gli economisti, l’intangibilità non esclude che esista un bene: nel sistema capitalistico, anche i sentimenti hanno un prezzo). Il fatto che formalmente si usino euro o dollari, per dare un valore al paesaggio, è solo una convenzione faut de mieux, ma anche una necessità quando si devono paragonare tra loro beni di mercato e beni non di mercato, ambedue finanziati con il ricorso al bilancio pubblico. Mi spiego. Nel caso del paesaggio siamo di fronte ad un classico bene di merito, come definito da Musgrave: se il bene fosse lasciato alle preferenze individuali e al mercato, presto verrebbe alterato e spesso degradato, e ciò perché i singoli hanno una capacità telescopica insufficiente; in altri termini, ciascuno agisce egoisticamente, senza pensare agli altri e alle generazioni future, e deve essere indirizzato da norme e sanzioni. Il paesaggio è anche un bene pubblico, perché se lo godo io, non ne impedisco il godimento ad altri. In questa situazione, abbastanza frequente per i beni ambientali e culturali, l’aggiunta di un appassionato del paesaggio non ne fa aumentare il costo di gestione, e il costo marginale del paesaggio è eguale a zero – come si sa, se il costo marginale è eguale a zero, in concorrenza il prezzo deve essere eguale a zero, e nessun produttore privato vi si dedicherebbe. Nel territorio, tuttavia, poiché il suolo è limitato, è possibile per il proprietario escludere il paesaggio dal godimento altrui, privatizzandolo, e questo fa nascere una rendita, e come conseguenza, un prezzo. Anche per questa ragione l’intervento pubblico è necessario. Non è detto, poi, che un paesaggio sia “bello”- nel qual caso il paesaggio nasce proprio dalle 1

ROBERTO GAMBINO, Conservare Innovare: paesaggio, ambiente, territorio, UTET, Torino 1997, pp. 63-68, “Pesare l’imponderabile”.

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preferenze individuali, perché la bellezza è negli occhi di chi guarda; il paesaggio potrebbe essere solo scientificamente (storicamente, botanicamente, geologicamente) interessante: ragion di più per sottrarlo all’uso privato. In queste circostanze e volendo sottoporre ad analisi economica un progetto di paesaggio vincoli, proibizioni, recinzioni, punti di osservazione, ecc.- le tecniche di misurazione sono varie. In primo luogo, se il progetto ha un interesse per alcune categorie di consumatori - che sono anche i potenziali depredatori della risorsa (pensiamo alle costruzioni civili orientate a godere del paesaggio) - è bene capire quale ne sarebbe comunque il valore di mercato (con metodi di indagine diretta, con metodi di rivelazione delle preferenze, eccetera). Anche se il bene è di merito, è utile conoscerne il valore potenziale di mercato, perché il progetto potrà costruire le difese rispetto all’uso privato del bene con maggiore coerenza. Un secondo metodo è quello di verificare il costo opportunità del progetto - ovvero la sua prossima alternativa negletta, vista nel suo costo (quanto costa progettare un paesaggio simile altrove?). Un terzo metodo è quello di verificare quanto aumenta la rendita privata all’intorno del paesaggio preservato. Un quarto metodo verifica quanto aumenta il reddito (la produzione) delle imprese che servono i visitatori del paesaggio. Un quinto metodo valuta quanto si degraderebbe il paesaggio in assenza di un progetto, e in questo caso, il valore che verrebbe realizzato dal privato nel degrado, è una proxy del costo che la collettività ha sopportato. Ammetto che il paesaggio non è un parco, e ha una configurazione giuridica e fisica meno precisa: ma nulla impedisce all’analista di considerare il paesaggio come un parco o come un’opera d’arte, anche se nei fatti non lo sarà. Ammetto anche che l’uso di questi metodi può dar luogo a grandi arbitrarietà in chi analizza, ma il problema va posto in relazione alla finanza pubblica: se occorre giudicare se è meglio spendere per il paesaggio che per la sanità, occorrerà utilizzare metodi omogenei - e con l’analisi costi benefici economico collettiva ciò è possibile, anche se in modi imperfetti. Non si può, invece, opporre il fatto che il paesaggio non ha sempre bisogno di un progetto fisico (costruzioni, recinti, ecc.), ma include solo prescrizioni e vincoli (edilizi, urbanistici, sull’uso del suolo, ecc.) e perciò non è valutabile: in programmazione, è noto che un vincolo è il duale di un prezzo e, con qualche artificio, è possibile tradurre il primo nel secondo.

Recentemente - soprattutto a seguito delle elaborazioni della Conferenza Nazionale per il paesaggio (1999) e della Convenzione Europea (2000) - sono stati fatti notevoli passi avanti nel considerare il paesaggio come un elemento strutturante e trasversale nel territorio. Inoltre, soprattutto a seguito delle esigenze indotte dalle nuove leggi urbanistiche regionali in materia ambientale, è evidente l’esigenza di integrare i contenuti paesistico-ambientali nella pianificazione territoriale e urbanistica, di valutare tutti i piani (generali e di settore) in termini di sostenibilità ambientale, di fare riferimento ad un metodo di co-pianificazione tra i diversi livelli in quanto proprio i contenuti ambientali e paesaggistici non sono confinabili nell’ambito dei meri confini amministrativi. Perché, nonostante ciò, il paesaggio e l’ambiente continuano - nelle procedure amministrative ai vari livelli, negli studi così come nelle pratiche applicative - ad essere tutelati come oggetti isolati, non comparendo strutturalmente in forma esplicita all’interno di nessuna programmazione economica (settoriale, integrata, eccetera)? La mancata considerazione del paesaggio nei piani urbanistici è il frutto di una professione ancora imperfetta, ma anche il risultato dell’incertezza del decisore politico, al quale nuove forme di vincolo impediscono l’uso del territorio protetto. Occorre comprendere come siano in gioco due obiettivi, ambedue rilevanti: da un lato, la necessità dello sviluppo economico, che richiede un supporto spaziale; dall’altro la necessità di preservare l’ambiente, e con

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questo il paesaggio, per non compromettere il futuro. D’altra parte, i piani urbanistici hanno qualche difficoltà, in questo campo, perché non sono in grado di misurare gli effetti economici e sociali delle scelte urbanistiche - e ciò si pone per tutte le scelte, non solo per quelle ambientali. Il pianificatore “pigro”, ad esempio, compone il piano a valle del mosaico di vincoli esistenti, e non si rende conto che, al di là della forma giuridica, tutto il territorio è per definizione vincolato, dato che occorre lasciare alle future generazioni lo stato del pianeta il più possibile invariato. Allo stesso tempo, poiché il paesaggio è quasi sempre, e forse sempre, opera dell’uomo, in virtù delle trasformazioni che la storia ha operato sul territorio, hanno una ragione forte coloro che giustificano le manomissioni nei piani, sostenendo che le opere di piano saranno considerate, nel futuro, parti necessarie di un paesaggio (c’è un quadro di Turner con un ponte di ferro sospeso nella nebbia…). Di fronte a queste difficoltà, che solleciterebbero nuove riflessioni, pratiche operative efficaci, criteri di scelta, fa pensare il sostanziale arresto della pianificazione paesistica in Italia, nel senso dell’insufficiente integrazione tra piano urbanistico e piano paesistico, della scarsissima attività sostitutiva del Ministero dei Beni Culturali, dell’assenza di un catalogo paesistico nonostante la Conferenza Nazionale del 1999. Infine, voglio ricordare come nei condoni, il giudizio paesistico non appare - una traccia del disinteresse politico generale a questa materia.

Figura 1. Joseph Mallord William Turner, Rain, steam and speed, 1844

La realtà paesistica di oggi è composita e densa di significati: in essa è possibile rintracciare diverse “situazioni” che sono per lo più il risultato di sinergie tra paesaggio, società locale e componenti economiche. Le diversità di fronte alle quali e rispetto alle quali ci si trova ad operare mostrano come sia difficile rintracciare risposte comuni e univoche, ma come sia necessario individuare politiche e risorse più articolate che permettano il passaggio da più tradizionali strategie di salvaguardia, ad una gestione sostenibile, fino ad arrivare a prospettive di riqualificazione pianificata.

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Ci sono state esperienze di traduzione concreta da parte degli enti pubblici italiani, che siano risultate più significative in tal senso? Non ho esperienze specifiche, nel senso di progetti paesistici in quanto tali. Conosco forme di piano - progetto sulla penisola sorrentina, progetti che uniscono parchi e beni culturali come in Val d’Orcia, progetti di valorizzazione paesistica inclusi nel piano paesistico dell’Emilia-Romagna, ma non ho esperienza di una commessa specifica per definire, salvaguardare e valorizzare un paesaggio. Temo che, fino ad oggi, non vi sia stata sensibilità dei decisori, mentre manca ancora un consenso politico intorno ad operazioni di salvaguardia e valorizzazione. C’è sempre il timore che la valorizzazione uccida la salvaguardia, e che la salvaguardia uccida l’economia.

Figure 2, 3 e 4. Immagini della Val d’Orcia

Da varie esperienze di ricerca recenti risulta evidente come vi siano delle “situazioni di paesaggi” 2 che hanno trovato nei loro stessi elementi componenti il “valore” dal quale trarre una sorta di rendita e quindi un sostentamento. Contemporaneamente, però, vi sono altri tipi di paesaggio per i quali la relazione non è così lineare e non è facile applicare le stesse modalità di misura dei beni economici. Si possono, infatti, riscontrare “situazioni di paesaggio” che riescono, solo in alcuni casi, a rintracciare in loro stesse le risorse attraverso le quali “auto-sostenersi” economicamente, mentre nella maggior parte dei casi questo ancora non avviene e, addirittura, non potrà mai avvenire. Cosa fare quando viene a mancare nel paesaggio la capacità di auto-sostenersi, quando esso non è più una risorsa produttiva ma diventa esclusivamente un brano da conservare a memoria del passato oppure, nella peggiore delle ipotesi, un luogo da occupare? Il problema è comune a tutti i beni meritori che, in genere, non troveranno mai una risposta di mercato sufficiente a chiudere una gestione in pareggio. Ogni situazione è diversa, ma è importante che i beni paesistici non si autofinanzino, perché ciò sarebbe il segnale di un bene che si avvia al degrado o alla banalizzazione o, alla fine di un processo perfettamente lineare, alla privatizzazione. In verità, i progetti paesistici, come i parchi e i beni culturali, sono finanziati dai bilanci pubblici - anche se una partecipazione privata non è mai da escludere, tra i biglietti (dove è possibile), il mecenatismo, la sponsorizzazione, le imposte di scopo sulle rendite delle attività economiche che sfruttano la risorsa paesaggio. Così, i paesaggi che non hanno un ritorno finanziario, sono a carico della fiscalità generale - come per la giustizia, la difesa, ecc.

2

Cfr. quanto afferma LUCINA CARAVAGGI nel volume curato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Conferenza Nazionale per il Paesaggio - Lavori preparatori, Gangemi, Roma 2001, pp.85-92.

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Una prima “situazione tipo” riconosciuta è quella dei paesaggi preservati, che diventano una scenografia di ciò che si potrebbe identificare come un grande parco tematico. In Alto Adige, ad esempio, la politica di salvaguardia, di conservazione e mantenimento degli aspetti significativi e caratteristici del paesaggio ha avuto un successo straordinario, dovuto probabilmente alla forte coesione della società che l’ha prodotto, a un insieme di politiche tese al mantenimento di questa coesione, alla presenza di ingenti finanziamenti pubblici orientati a sostenere l’azione di salvaguardia. Anche in Toscana si è percorso un cammino analogo. In questi ambiti territoriali, in maniera lenta, soprattutto per la popolazione più giovane cambia il senso dell’azione di salvaguardia e si procede verso una sempre più consapevole difesa di una straordinaria risorsa, di un paesaggio che assume valore anche perché diventa parte essenziale di un’articolata offerta turistica. La concezione del paesaggio come risorsa non rischia però di appiattirsi troppo sulla mera dimensione turistica, tra l’altro ben poco attrezzata per la salvaguardia e la tutela? Quali altre forme e quali dimensioni di incentivi si potrebbero studiare per favorire processi virtuosi di valorizzazione economica del bene-paesaggio? Il paesaggio - insieme alle risorse turistiche - costituisce la base di alcune attività economiche reali; e come sempre è presente il pericolo del degrado. Tuttavia, ogni iniziativa sul paesaggio ha valore se la domanda è bassa e qualificata, così da non aumentare eccessivamente la densità della popolazione: le autorità pubbliche hanno tutti i mezzi per evitare la congestione e il degrado, ma non sempre hanno la cultura adeguata o attribuiscono priorità al preservare la loro stessa ricchezza. Penso sia necessario, in questi casi, un potere surrogatorio che reprima l’egoismo mercantile dei decisori. Poiché è vero anche il contrario, e cioè che il paesaggio non è considerato risorsa, e viene distrutto, la surroga mi sembra sempre necessaria.

Figura 5. Le fasce paesaggistiche dell’Alto Adige

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Vi è poi una seconda “situazione tipo”: quella dei brani di paesaggio che sono da salvaguardare perché intesi come una sorta di documento di storia naturale o antropica, da trasmettere alle generazioni future in forma non dissimile da un quadro, una scultura, un complesso monumentale. Questa si presenta come un’operazione particolarmente onerosa sotto molti punti di vista. In primo luogo perché mantenere “stabili” alcune porzioni dei paesaggi più popolati ed antropizzati richiede una faticosa e costosa azione di cura e manutenzione del tutto ingiustificata dal punto di vista dei risultati economici e spesso conflittuale con le stesse attese economiche e le aspettative sociali e culturali più diffuse. In secondo luogo appare evidente come solo “pochi territori possono essere sottratti dalla dinamica in divenire della continua modificazione del paesaggio, a meno di una improbabile ed impensabile imbalsamazione del territorio”3. Ci sono state iniziative capaci di inserire in forma esplicita le risorse del paesaggio in una più complessiva programmazione economica del territorio? L’unica esperienza che ho fatto è stato il piano paesistico dell’Emilia Romagna, già citato. Per il resto, ho già risposto.

È poi necessario considerare una terza ed ultima “situazione tipo”, nella quale paesaggio e territorio sembrano quasi dissolversi l’uno nell’altro, dove tutelare il paesaggio vuol dire reinventare il territorio, re-interpretarlo criticamente, promovendo i nuovi ordini sociali, culturali, economici ed insediativi che in esso si instaurano. Raramente sono visibili approcci che tengano conto di come possa essere rilevante e pertinente per molti territori (soprattutto per quelli più densamente urbanizzati e congestionati) la costruzione di una nuova e più integrata immagine paesistica, nella quale le tracce del passato possono, ad esempio, agire come limite, come termine di confronto per l’azione trasformativa che - comunque - dovrà ri-plasmare il territorio, modificarlo e tenere conto del complesso intreccio di componenti che dà la struttura di un nuovo ordinamento socio-territoriale. Entro questo tipo di paesaggi si possono inserire quelle aree agricole nelle quali le attività connesse all’agricoltura perdono stabilità e redditività sia per effetto dell’attesa delle trasformazioni future, sia perché l’attività agricola tende a diventare anti-economica. È possibile procedere ad una ri-conversione di queste aree produttive attraverso l’attribuzione di nuove funzioni, nuovi ruoli sociali ed economici, al fine di recuperare importanti e significativi brani di paesaggio agrario “dimesso? Penso di sì, ma non esiste ancora una vera professione in merito, né una deontologia. Sia nella progettazione di paesaggi esistenti, sia nella riconversione di paesaggi esistenti, immaginazione, fantasia ed economia operano insieme: ma in questo campo, “placet experiri”.

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A. LANZANI, Sette strategie per il paesaggio, in Alberto CLEMENTI (a cura di), «Interpretazioni di paesaggio», Meltemi, Roma 2002, p.266.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CITATI NEL TESTO CARAVAGGI LUCINA,

nel volume curato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Conferenza Nazionale per il Paesaggio - Lavori preparatori, Gangemi, Roma 2001, pp.8592. GAMBINO ROBERTO, Conservare Innovare: paesaggio, ambiente, territorio , UTET, Torino 1997. LANZANI ARTURO, Sette strategie per il paesaggio, in ALBERTO CLEMENTI (a cura di), “Interpretazioni di paesaggio”, Meltemi, Roma 2002.

RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1: sito web www.britishmuseum.org/default.aspx Figure 2, 3 e 4: sito web www.parchinaturali.toscana.it Figura 5: Provincia autonoma di Bolzano - Alto Adige, Linee guida natura e paesaggio in Alto Adige, pubblicazione a cura dell’ente, 2003, p. 65

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di ottobre 2007. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 – numero 8 – luglio-dicembre 2007 a cura di Anna Lambertini sezione: Dialoghi pagg. 94 - 104

UNA CONVERSAZIONE SULL’ERBA CON LODEWÏJK BALJON 1 di Anna Lambertini *, con Claudia Maria Bucelli** e Simona Caleo***

Summary Afterwards a seminar promoted by the Master in Landscape Architecture (University of Florence) during the 2006 educational program, we met in Florence the dutch landscape architect Lodewijk Baljon. He accepted, together with his wife Ineke, to spend a little time with us at the Boboli Garden to talk about his work and his project’s philosophy. Key-words Lodewijk Baljon, landscape architecture, landscape design, project’s philosophy.

Abstract Dopo un seminario promosso nell’ambito dell’attività formativa del Master in Paesaggistica del 2006 abbiamo incontrato a Firenze il paesaggista olandese Lodewijk Baljon, che, accompagnato dalla moglie Ineke, ha accettato il nostro invito ad incontrarci presso il Giardino di Boboli, per parlarci del suo lavoro e della sua filosofia di progetto. Parole chiave Lodewijk Baljon, architettura del paesaggio, progettazione, filosofia di progetto.

* Architetto specializzata in Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio, Dottore di ricerca in Progettazione paesistica, docente a contratto presso le Università di Perugia e Firenze ** Architetto specializzata in Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio, Dottoranda di ricerca in Progettazione paesistica *** Giornalista e fotoreporter free lance

1 La struttura dell’intervista, la formulazione delle domande e la cura della versione finale del contributo sono di Anna Lambertini, la trascrizione e la traduzione inglese/italiano/inglese dei testi raccolti nel corso dell’intervista sono di Claudia Maria Bucelli, i ritratti fotografici sono di Simona Caleo.

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Figure 1,2, 3: giugno 2006. Una conversazione con il paesaggista olandese Lodewijk Baljon, seduti sull'erba del prato antistante le scuderie del Giardino di Boboli.

In occasione di un seminario promosso nell’ambito dell’attività formativa del Master in Paesaggistica del 2006 2, abbiamo incontrato a Firenze il paesaggista olandese Lodewijk Baljon, che, accompagnato dalla moglie Ineke, ha accettato il nostro invito a trascorrere qualche ora in visita al Giardino di Boboli per parlarci del suo lavoro e della sua filosofia di progetto. D: Quando si parla di progetto di paesaggio è impossibile non sottolineare il fondamentale valore della dimensione temporale, ingrediente base per la comprensione del lavoro del paesaggista. Il tempo è anche una risorsa preziosa da utilizzare per costruirsi una buona formazione tecnica e culturale, che nel suo caso è passata attraverso una significativa fase di ricerca e di speculazione teorica legata al conseguimento di un PHD. Può raccontarci come è cominciato il suo percorso formativo come paesaggista? R: Il percorso per diventare Landscape Architect mi è sembrato molto più interessante e stimolante di quello che mi avrebbe condotto a fare l'architetto: la scelta è stata influenzata da alcune condizioni al contorno che mi hanno orientato verso la professione poi intrapresa. Molto semplicemente, la situazione in Olanda è che, finita la scuola dell'obbligo, la scelta che si prospetta a chi vuole continuare gli studi impone ad una persona di soli diciassettediciotto anni di decidere per tutta la sua vita futura. Che poi si riesca a giungere al termine degli studi o no, questa decisione comporterà una serie di conseguenze che peseranno su tutto il futuro.....ed è ben difficile a quella età avere la lucidità e la lungimiranza per scegliere a ragion veduta. Io mi trovai a scegliere appunto per quella ragione banale cui ho accennato: nato in una città molto tranquilla e molto noiosa, senza svaghi, novità, stimoli, decisi di trasferirmi a Wageningen, per frequentare il corso di Landscape Architecture. In realtà anche Wageningen era una città morta, nella quale non succedeva niente, tuttavia per me rappresentava una novità totale, e, soprattutto, mi iniziava al design, alla possibilità di disegnare, attività a cui mi ero applicato a lungo e con passione da bambino, e che poi avevo abbandonato verso l'adolescenza. La consapevolezza di potere coniugare questa attività con l’attenzione alla natura mi intrigava. E' vero, il design è legato anche all'architettura, ma la prospettiva di un futuro professionale dedicato alla pura produzione edilizia non riusciva assolutamente ad appassionarmi. C’è da dire che nel 1975, anno in cui mi iscrissi all’università, il dibattito sull'architettura era decisamente povero: non c’erano mostre, convegni, possibilità di aggiornamento, vivacità di scambi e confronto culturale. Rinunciai dunque all'architettura ed unii la passione per il disegno e la progettazione a quella per la natura, trasferendomi a Wageningen. 2 Il seminario tenuto da Lodewijk Baljon, dal titolo “Wingspam. Dal garden design all’urban planning: architettura del paesaggio contemporanea in Olanda”, con una introduzione di Lorenzo Vallerini e Luigi Latini, è stato promosso e organizzato da Anna Lambertini (quale manager didattico del Master in Paesaggistica) e si è tenuto il 17 giugno 2006 presso l’Accademia delle Arti del Disegno a Firenze.

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Un'altra riflessione mi attirava verso la direzione poi intrapresa, e che mi ha condotto ora qui: la Landscape Architecture mi avvicinava ai concetti di crescita, tempo, ritmi di sviluppo della natura. Mi affascinava il fatto di potere cambiare lo stato delle cose grazie ad un progetto, che però non si sarebbe esaurito una volta chiuso il cantiere, al termine dei lavori di costruzione, ma che avrebbe continuato a maturare con la crescita della materia viva.

D: Ecco riaffacciarsi il tema della dinamica temporale… Possiamo dire che il paesaggista è un costruttore di immagini reali che cambiano nel tempo? R: Sì. Quando si costruisce qualcosa sulla base del disegno di un progetto si produce in effetti una immagine reale, che forse il progettista già padroneggia nella sua completezza e maturità prima del tempo che sarà necessario per crearla, ma l’opera, una volta realizzata, continuerà ad evolvere e modificarsi nel tempo negli anni seguenti, andando anche verso direzioni inaspettate. Appena diplomato ho cominciato a lavorare per il Bureau B&B, avevo una borsa di studio che mi permetteva di fare ricerca, con la possibilità di scrivere un libro sul design. Ero affascinato da tutte e due le cose, progettazione e ricerca. Non riuscivo a rinunciare a nessuno dei due ambiti, quello della speculazione teorica e quello della realizzazione e, anzi, riflettevo continuamente su come materializzare l'idea, come tradurre l'ispirazione, il concetto, in realtà, soffermandomi a pensare a tecniche di realizzazione, dettagli costruttivi, in un continuativo contatto diretto con la materia. Passavo ininterrottamente da un ambito all'altro e li consideravo sempre e solo l'uno strettamente connesso all'altro. I miei primi lavori riguardarono progetti di piccoli giardini e spazi aperti di modeste dimensioni, che, una volta messi a punto su carta, realizzai direttamente da solo, curando dunque entrambi gli aspetti, teorico-tecnico e pratico-operativo. Un'opportunità preziosa che mi ha molto arricchito, permettendomi di approfondire aspetti legati alle due diverse dimensioni, quella della ricerca e quella dell’applicazione professionale: dall'idea alla realizzazione, dalla teoria alla pratica e viceversa. Era tuttavia un'operazione che potevo compiere in ambiti ristretti, come quei piccoli giardini che seguivo dalla A alla Z, e che ad un certo punto costituirono, proprio per la loro limitata dimensione, anche il limite della mia riflessione e sperimentazione.

D: In apertura alla sua conferenza di questa mattina, Wingspam, ha spiegato la scelta del titolo con un gesto: allargando le braccia e mimando l'atto del volo, ha dato un’interpretazione del paesaggista come di colui che deve essere in grado di abbracciare lo spazio volando con l’immaginazione al di sopra e dentro i luoghi, per comprenderli. La sua filosofia progettuale sembra partire dal riconoscimento del valore dello spazio tattile, secondo un approccio che suggerisce che il luogo esiste sempre e comunque, quando siamo dentro uno spazio che possiamo percepire e misurare con i nostri sensi. Parole sante, considerata tutta la ancora imperante retorica sui nonluoghi! R: Il nonluogo è un'idea nata parallelamente al concetto di globalizzazione ed al tentativo di trovare una coesione e una relazione diretta fra paesaggio e contesto sociale e culturale, muovendosi a grande scala, una scala addirittura planetaria. E’ probabile che guardandole da una prospettiva così ampia alcune cose non appaiano più in coesione fra loro, anche se forse lo sono state un tempo. Tuttavia il tema della ricerca delle relazioni permane ed è per me fondamentale. Dire che il contesto non esiste, per me, è qualcosa di irreale, perlomeno alla scala a cui sono abituato a lavorare, che non è certo solo quella del giardino, perchè ho lavorato anche a scala territoriale urbana, occupandomi anche di progetti di centinaia di ettari di superficie, interi pezzi di città e di loro nuove espansioni. Forse a livello globale, nel senso più assoluto del termine, si può anche arrivare ad affermare che il luogo non esiste, ma per me esiste sempre e comunque. E' fondamentale riuscire a

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creare coesione tra frammenti di spazio, e per questo occorrono punti di riferimento, che si possono e devono trovare: questo significa necessariamente dare identità al luogo nel quale si opera. La possibilità di creare delle connessioni con il contesto esiste sempre: se lavoro in un ambito fortemente degradato, frammentato, apparentemente privo di riferimenti, posso sempre allargare i limiti della mia ricerca per intercettare nuove connessioni sempre più lontane, nello spazio, attraverso la comprensione di segni sempre più distanti nel paesaggio, oppure nel tempo, risalendo indietro lungo un percorso storico dentro la memoria dei luoghi, per recuperare dei punti di riferimento ai quali si ancorerà la mia connessione.

Figure 4,5,6: Progetto per un giardino tematico nell’ambito del Festival di Chaumont-sur-Loire 2003. Uno schizzo e immagini dell’opera realizzata ed in corso di allestimento.

D: Connessione è dunque per lei una parola chiave del progetto di paesaggio, una di quelle che in un contesto di didattica proporrebbe ai suoi studenti? R: Sì. Se le cose non sono connesse al sito io non so proprio come fare, come progettare, da dove partire. Prendiamo il giardino che ho realizzato per Chaumont-sur-Loire: è vero che nasceva come spazio effimero e totalmente decontestualizzato, tuttavia, pur essendo “sconnesso” esistevano le linee guide del tema di quell'anno che mi indirizzavano. Altrimenti sarebbe stato solo un esercizio compositivo fine a se stesso, una realizzazione magari bella e raffinata, ma un puro involucro senza spessore. Senza un tema non saprei come procedere,

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cosa fare. Ho al momento una proposta per la realizzazione di un giardino effimero per il festival di Cornerstone, in California: mi hanno chiesto di realizzare un’opera per così dire puramente compositiva, un gesto estetico totalmente vago.....ecco, in questo caso sono bloccato, non so letteralmente cosa fare! Mi richiamo a questo proposito all'intervento di Gianni Burattoni3, questa mattina alla conferenza, quando mi ha domandato qualcosa a proposito della possibilità di considerare anche la presenza dell’artista tra le varie figure e professionalità che possono collaborare al progetto di un giardino. Bene, in questo caso proprio l'intervento di un artista per così dire puro, che si muove esprimendo solo la propria arte, costituisce un elemento di arricchimento, che inserendosi nel flusso riflessivo del progettista e nel dibattito delle professionalità che lo affiancano, costringe e stimola a ripensare alcune soluzioni, a cercare talvolta strade diverse.

Figure 7,8,9. Nuovo parco centrale ad Amsterdam. Sopra, tavole di progetto: planimetria generale e dettaglio con interpretazione schematica del sistema dei flussi e delle principali connessioni tra parco e contesto. Sotto, suggestioni legate alo studio di una passerella pedonale e modello di progetto.

D: Ha altre parole chiave da trasmetterci?

3 Gianni Burattoni, artista e paesaggista residente a Parigi, ospite a Firenze come visiting professor invitato dal Master in Paesaggistica a tenere una relazione nell’ambito della giornata di studi organizzata il 15 giugno 2006 nel quadro della manifestazione “Il Giardino Immaginato” (promossa dall’Universita’ degli Studi di Firenze, Facolta’ di Architettura, Biblioteca di Scienze Tecnologiche, Dipartimento di Restauro e Conservazione dei Beni Architettonici, Dipartimento di Progettazione dell’architettura, Master in Paesaggistica) era presente tra il pubblico al seminario.

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R: Voglio sempre avere una ragione per fare qualcosa. E' la mia formazione di designer. In studio diciamo: “tracciamo solo righe dritte, fino a che non troviamo una ragione per cui si debba trasformare la riga dritta in una curva....e poi vogliamo sapere quale tipo di curva e perché”. Può anche essere un modo di procedere limitativo e talvolta frustrante, tuttavia è anche un modo mirato e rigorosamente finalizzato, che ci indirizza, in effetti forse talvolta troppo nettamente, alla radice dei problemi, al nocciolo della questione, al fare. E' un modo di procedere forse insito nella cultura degli olandesi che, nella vita di tutti i giorni, sono a contatto con un orizzonte ed un paesaggio lineare, circoscritto, netto, e che conseguentemente hanno assunto una filosofia di vita, o più semplicemente un modo di fare, che si rivela diretto, pulito, essenziale, come l'orizzonte e la terra in cui vivono. Tuttavia nel caso del progetto per l’Haarlemmermeer Polder mi sono trovato, nel definire le linee rette del segno di progetto che suddividevano le aree lungo il canale d'acqua, a relazionare con un altra linea d'acqua che, secondo le caratteristiche del terreno, procedeva ad anse e curve, e che si trovava ad intersecare ripetutamente le linee rette che io avevo definito nella mia composizione. Ecco, in questa occasione, volendo approdare al progetto ed al riferimento al Polder in termini logici e addirittura matematici, accanto alle linee rette, che da sempre siamo stati abituati come olandesi a frapporre tra noi e le acque per prosciugare i terreni, è capitato che proprio la linea curva che il corso d'acqua ci suggeriva ci sembrasse la soluzione migliore, più semplice, economica e logica per giungere allo stesso fine. E in studio ci siamo mossi in questa direzione, disegnando una linea curva. Il contesto, con cui vogliamo dialogare, aiuta la linearità del pensiero che ci è propria ad adattarsi, ad ammorbidirsi per giocare con le forme, ed arrivare ad esprimere la soluzione che pare migliore.

Figure 10,11,12: Masterplan, localizzazione dell’area d’intervento e immagini dello stato ante trasformazione dell’area interessata dalla creazione dell’intervento “Green through Red” per l’Haarlemmermeer Polder.

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Figure 13,14,15,16: tavole di analisi e di strategie progettuali di “Green through Red� per l’Haarlemmermeer Polder. Le strategie per la creazione del nuovo paesaggio del Polder definiscono vari assi tematici: movimenti di terra, confine, gestione delle acque, lotti residenziali. Quello della gestione sostenibile del sistema delle acque costituisce il tema centrale della riflessione progettuale, che prevede uno sviluppo graduale del polder basato sulla realizzazione di differenti livelli di controllo della risorsa idrica.

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D: Insomma, giocando con le parole, il suo messaggio potrebbe essere quello di lavorare mostrandosi….. “elasticamente determinati”!!! A proposito di giochi, nel suo approccio anche lo humour sembra essere molto importante. R: Affrontare argomenti e situazioni con humour costituisce un approccio intelligente, e anche riferirsi a clienti, poteri pubblici, personalità o enti con i quali condividiamo la realizzazione di un progetto con humour, leggerezza e simpatia può favorire il dialogo, migliorare la reciproca comprensione e la chiarezza della comunicazione. La possibilità di un parco di durare nel tempo si relaziona anche al suo potenziale in termini di flessibilità: non si può pensare di cambiare continuamente le piante nel progetto di un parco, per modificarlo in base a successive necessità, e occorre anche rispettare quel tipo di naturalità che hai deciso di introdurre attraverso la scelta delle specie adottate. Occorre piuttosto adottare dei punti fissi e, in mezzo, spazi adattabili: la capacità di uso di entrambi questi elementi fa parte della competenza del progettista nel processo di design. Devi essere fermo, ma non troppo rigido o far pesare troppo il tuo ruolo, che è quello di chi alla fine prende le decisioni. Spesso ci si trova a confronto con autorità locali che costituiscono poteri forti, senza l'assenso dei quali qualsiasi progetto non potrebbe essere in alcun modo messo in opera. Se non ci si relaziona con loro in modo diplomatico, sensibilmente aperto al dialogo, che poi è la strada migliore anche per far sì che il progetto sia ben integrato al sito e accettato dai residenti e dai loro rappresentanti, si rischia letteralmente di perdere ogni cosa. Può succedere anche che le richieste avanzate dalla committenza siano da subito chiaramente impraticabili. In questo caso non contrappongo mai un no netto e perentorio: piuttosto cerco di mostrarmi aperto alla proposta, tornando poi, magari dopo due settimane, con tutta una serie di motivazioni a sostegno dell'impossibilità di percorrere quanto suggerito, e di procedere invece con quanto già previsto dal progetto originario. Preferisco il dialogo, la diplomazia, cercando un giusto “spazio operativo”, il mio framework nel quale, a seconda dei casi e del progetto, cerco di inserirmi, ma soprattutto perseguo flessibilità e apertura a discussioni che possano introdurre anche cambiamenti in quegli spazi adattabili frammisti ai punti fissi che, invece, perseguo senza piegarmi e con forza. Accettando questi tempi più lunghi del percorso progettuale mi trovo a rispettare le persone, ma anche a rispettare gli alberi che crescono....Quando pianti un albero è nella prospettiva della sua futura vita di cento anni, non di due....l'atteggiamento è fondamentalmente lo stesso, e lo chiamerei flessibilità per le funzioni. Le persone e le amministrazioni devono poter accettare e fare proprio l'intervento, gli alberi devono avere il tempo e il modo di svilupparsi, e le diverse molteplici funzioni raccolte in quell'intervento devono potere essere tutte espletate: la gente deve potere attraversare un parco, ed essere spinta a farlo, ma deve anche potersi soffermare o sostare per tempi più o meno lunghi, avendo la voglia di farlo, oltre alla possibilità. E tutte queste diverse funzioni debbono poter coesistere insieme.

Figure 17,18,19 : Ritratti in sequenza di Lodewijk Baljon.

D: Parliamo un momento del suo studio. Come è organizzato? Chi sono i suoi collaboratori? R: Lavoro con circa dieci collaboratori, tutti molto giovani, dai ventiquattro ai trentuno anni circa, molti dei quali sono con me giù da quattro o cinque anni, dopo avere già avuto 101


esperienze lavorative precedenti altrettanto lunghe. Alcuni hanno fatto con me uno stage durante il loro percorso di studi, venendo magari all’inizio solo un giorno alla settimana, e poi sono rimasti; altri hanno collaborato con altri studi professionali dopo lo stage, ma sono voluti tornare da me.

Figura 20: paesaggisti al lavoro nello studio di Amsterdam di Lodewijk Baljon. Il team operativo è composto attualmente da dieci collaboratori.

Sono tutti giovani progettisti, ma non sono assolutamente miei cloni! Certo, è ovvio che devono sapere quello che voglio e che devono tener conto della mia supervisione e delle mie direttive, tuttavia sanno che si possono porre in termini propositivi. Non sono il capo. Ho un braccio destro, un project manager, che organizza tutto il lavoro settimana per settimana, e i miei collaboratori rispondono a lui, che poi si incontra con me. Del resto io sono spesso fuori, e non potrei seguirli personalmente, anche perchè lo stesso numero di progetti che curiamo (più di una sessantina in questo momento) e che sono suddivisi fra i nostri progettisti per competenze varie, me lo impedirebbe. E' il mio braccio destro che mi segue in tutti i meeting preliminari all'inizio di ogni lavoro, e che, dopo avere suddiviso i compiti, mi aggiorna sugli sviluppi, ben conoscendo, proprio per la sua presenza durante le fasi iniziali di contatto e concertazione con il committente, le richieste, gli orientamenti di progetto, i percorsi scelti. Tutti i miei collaboratori comunque, dopo un opportuno periodo di “addestramento” al metodo di lavoro e di acquisizione delle conoscenze specifiche necessarie, seguono direttamente, a lavori ben avviati, i cantieri direttamente in loco, secondo la linea comune del nostro studio. Quando si trovano a dover operare scelte delicate o hanno necessità di acquisire riferimenti specifici lasciano in sospeso una decisione e si consultano con me, o mi segnalano la necessità della mia personale presenza. Del resto i clienti sono preavvisati che dopo i primi incontri e l'avvio del cantiere saranno seguiti da un mio collaboratore, fermo restando che, se per un qualche motivo, ritenessero necessaria la mia presenza possono sempre fissare un appuntamento e incontrarsi con me. In genere però non accade: i collaboratori svolgono bene il loro compito.....accettando un po’ di rischio, e con molta fiducia, li ho spesso letteralmente “gettati in acqua”, inviandoli in cantiere e costringendoli, come dire, ad imparare presto a nuotare!

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D: Ancora un’ultima domanda. Guardando al panorama attuale, l’idea che ci si fa del nuovo paesaggismo olandese è di un settore professionale molto attivo, in cui appare prevalente la tendenza ad una ricerca formale di tipo iperrealista, avveniristica, ed un certa attitudine alla spettacolarità del segno progettuale. Il suo approccio, al contrario, rivela un’attenzione ai temi e ad alle forme della tradizione disciplinare, ed appare più ancorato ad una certa semplicità e pulizia formale. Come si rapporta, come architetto paesaggista, al contesto culturale del suo paese? R: Sono d'accordo con quanto afferma sulla cultura olandese del progetto contemporaneo di paesaggio. La tendenza attuale nel mio paese, soprattutto per quanto riguarda i grandi professionisti, sembra orientata verso una perenne competizione, si vuole emergere sempre di più a livello personale, spesso forzando la mano...fino a produrre risultati verso cui mi sento di essere un po' critico. In questo panorama del resto i talenti veramente eccezionali sono pochi, fra i quali, indiscutibile, quello di Adriaan Gueze, che conosco fin dai tempi dell'università. Ricordo ancora la sua frustrazione ed insoddisfazione, quando, appena laureato, lavorava per B&B come giovane progettista. Non riusciva ancora a trovare una sua dimensione, pensò addirittura seriamente di lasciare l'architettura del paesaggio, finché seguì il consiglio di Ineke (mia moglie) di aprire, semplicemente, uno studio suo.... l’ha fatto, e abbiamo visto con quali risultati! Tornando alla domanda, penso sia ben opportuno, come progettisti, scendere dal piedistallo. Preferisco essere un paesaggista che pensa che tutto quello che progetta o decide di fare può essere comunque, anche inaspettatamente, cambiato....non dimentico mai che può bastare un solo coniglio in un giardino a sconvolgere ogni cosa, scavando tane e buttando all’aria il prato, quindi ….cerco sempre di tenere a mente che possono in ogni momento arrivare dei conigli a cambiare tutto ciò che ho progettato!

Figure 21,22,23: Corte-giardino interna del Rijksmuseum di Twente. Planimetria di progetto e immagini dell’opera. Le differenze di quota esistenti tra il museo ed il piano della corte sono state utilizzate per creare la suggestione di un paesaggio increspato (folded landscape). Una sequenza di piani inclinati consente di ottenere zone soleggiate in ogni parte del cortile.

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LODEWIJK BALJON: UN BREVE PROFILO BIOGRAFICO Lodewijk Baljon (The Hague, 1956) si è diplomato con il massimo dei voti e lode all’Università di Wageningen e ha conseguito nel 1992, presso la stessa Università, un PhD (titolo della tesi di dottorato: Designing Parks, An examination of contemporary approaches to design in landscape architecture). La tesi di dottorato costituisce la base del volume dal titolo omonimo Designing Parks, pubblicato nel 1992. Dal 1986 ha aperto il proprio studio professionale di architettura del paesaggio ad Amsterdam (reference on line sul sito www.baljon.nl ), dove lavora con un team di dieci collaboratori su una ampia ed eterogenea gamma di applicazioni progettuali che va dalla scala del disegno del giardino alla progettazione urbana e d’area vasta, rispondendo alle richieste di committenti pubblici e privati. Il lavoro professionale è supportato da una intensa e continua attività di ricerca e di insegnamento. Ha ricevuto il più prestigioso riconoscimento olandese per l’urban design: l’Omgevingsarchitectuurprijs e nel 2004 ha ottenuto due premi dall’American Society of Landscape Architects, nella categoria dei riconoscimenti professionali: l’Analysis & Planning Award of Honor per il progetto “Green trought red” relativo alla progettazione dell’Haarlemmermeer Polder e il Design Award of Merit per il progetto della corte interna del Rijksmuseum di Twente. Ha pubblicato numerosi contributi e saggi critici in riviste internazionali, relativi ai temi dell’urban design e della progettazione paesaggistica. E’ stato Design Critic alla Harvard Graduate School of Design.

Figure 24,25,26: Copertina del volume pubblicato nel 1992, diapositiva di apertura della presentazione composta per il seminario realizzato a Firenze nel giugno 2006 e locandina invito dello stesso.

RIFERIMENTI ICONOGRAFICI

Figure 1, 2,3,17,18,19: fotografie di Simona Caleo, Firenze 2006. Figura 26: elaborazione di Anna Lambertini. Tutte le restanti figure presenti nel contributo hanno costituito parte integrante della presentazione illustrata da Lodewijk Baljon nel corso del seminario e da lui gentilmente lasciata a disposizione per la pubblicazione.

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di settembre 2006. © Copyright degli autori. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 – numero 8 – luglio-dicembre 2007 a cura di Anna Lambertini sezione: Itinerari pagg. 105 - 116

LE

ACQUE DI TIVOLI , OVVERO CONSIDERAZIONI GEOGRAFICO -STORICHE SULLA VALLE DELL’ANIENE Ilaria Agostini*

Summary The Aniene river runs through strongly distinct regions: the mountainous upper valley distinguishes itself into karstic calcareous landforms and arenaceous-marly landforms; the cascades of Tivoli underline the clear-cut morphological detachment: beyond the huge travertine tabular formation, the river enters into the Campagna Romana Plio-Pleistocene sediments. Landscapes are historically interpretated by means of eighteenth and nineteenth-century documents. Keywords Coltura promiscua, Historical Landscape, Rural Landscape, Tivoli, Travertine. Abstract L’Aniene attraversa regioni fortemente distinte: l’alta valle, dal carattere montano, contrappone il rilievo calcareo, segnato dal carsismo, al rilievo marnoso-arenaceo; a Tivoli le cascate sottolineano un forte stacco morfologico: a valle della città il fiume, dopo aver depositato un’estesa formazione tabulare travertinosa, si addentra nei depositi plio-pleistocenici della Campagna Romana. La lettura dei paesaggi è condotta in chiave storica attraverso documenti sette-ottocenteschi. Parole chiave Coltura promiscua, Paesaggio agrario, Paesaggio storico, Tivoli, Travertino.

* Dottore di ricerca in Storia e critica dell’Architettura. Docente a contratto di Fondamenti di Urbanistica e Geografia presso la Facoltà di Architettura, Università degli Studi di Firenze.

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L’ALTA VALLE: CALCARI E ARENARIE L’Aniene abbandona a Tivoli i rilievi appenninici. Le cascate, attrattiva irresistibile per viaggiatori e «paesisti», segnano il rapido passaggio dalla montagna all’agro romano; dopo il salto, il fiume cambia carattere e nome: con lenti meandri, il Teverone si unisce al Tevere poco a monte delle mura di Roma1. Nell’alta valle l’Aniene scorre in direzione appenninica (da scirocco a maestro) insistendo sulle lunghe faglie che caratterizzano lo stile tettonico del rilievo abruzzese-laziale. A monte di Subiaco – l’antica Sublaqueum dove Nerone costruì villa e laghi, i Simbruina stagna – la valle è profondamente incisa nelle potenti bancate calcaree mesozoiche dei monti Simbruini che, tra XVIII e XIX secolo, il filosofo svizzero Bonstetten ragionevolmente paragonava ai rilievi che fanno da cornice alla sponda settentrionale del lago Lemano – i «monti calcarei della Sabina, [...] formano una catena continua molto somigliante al Giura visto da Ginevra»2. In corrispondenza della chiusa naturale dove, tra le leccete e le alte scogliere calcaree, ha trovato sede la spiritualità benedettina, l’Aniene forma già alcune cascate: «Sotto il sacro Speco – scrive Jannuccelli nelle Memorie di Subiaco – fra le radici di due montagne offresi agli sguardi la quarta [cascata] che sebben non molto elevata è pur bella rassomigliando una vasta colonna d’acqua biancheggiante e spumosa»3; dopo le cascate, al di là di un ponte che «s’incurva sublime sopra un abisso, nel cui fondo il fiume si travolge»4, la valle si allarga e assume un carattere fortemente asimmetrico. La causa di tale asimmetria è da ricercarsi nella diversa natura geologica dei due versanti: a sinistra, ripido, il blocco calcareo; a destra, fortemente eroso e modellato, l’affioramento arenaceo-marnoso che separa la valle dell’Aniene dalla conca ciociara5. Poiché «corrispondono queste roccie ai macigni dei Toscani»6, è facile trovare forme, alla destra del fiume, che ricordano l’appennino arenaceo toscano dai contrafforti aguzzi con profilo a festone, ma dove, secondo un’attitudine insediativa già pienamente centro-appenninica, i paesi sono arroccati su «vaghe eminenze».

Figure 1, 2, 3. L’alta valle. A sinistra: l’alta valle dell’Aniene vista da Subiaco. Al centro: i monti Simbruini (monte Viglio, 2156 m), la chiusa di Subiaco (l’abbazia di Santa Scolastica è visibile a sinistra della valle) e, più vicini, i meno elevati rilievi arenacei con il paese di Canterano (802 m). A destra: la media valle ripresa da Rocca Canterano (856 m). Nel fondovalle Marano Equo e, sulle pendici oltre il fiume, Roviano (523 m).

Sull’opposto versante la natura calcarea dei rilievi dà luogo ad un mondo fisico antitetico, profondamente segnato da fenomeni di carsismo. Non più versanti uniformi dai crinali netti, ma fianchi con brusche variazioni di pendenza, imponenti scarpate quasi verticali e sommità 1 Il corso dell’Aniene è cartografato nei seguenti fogli IGM: Palombara Sabina, f. 144; Avezzano, f. 145; Roma, f. 150; Alatri, f. 151. 2 CHARLES-VICTOR DE BONSTETTEN, Voyage sur la scene des six dernieres livres de l’Énéide. Suivi de quelques observations sur le Latium moderne, Paschoud, Genève, anno XIII (1804), pag. 339. Bonstetten (1745-1832) è in Italia nei primi anni Settanta del ‘700. 3 GREGORIO JANNUCCELLI, Memorie di Subiaco e sua Badia, Genova, 1856, pag. 365. 4 GREGORIO JANNUCCELLI, op. cit., Genova, 1856, pag. 366. 5 Per la cartografia geologica, si rimanda ai fogli della Carta Geologica d’Italia nn. 144, 145, 150, 151, con le relative note, laddove esse siano state pubblicate. Sui caratteri geomorfologici della valle dell’Aniene si veda H. KALLNER, Studien zur Geomorphologie des Anienetales in westlichen Zentralappennin, Hirt, Breslav, 1935 (cfr. anche la recensione a tale testo: A.S. [Aldo Sestini], Uno studio geomorfologico sulla valle dell’Aniene, “Bollettino della R. Società Geografica Italiana”, n. 73, 1936, pagg. 423-424). 6 GREGORIO JANNUCCELLI, op. cit., Genova, 1856, pag. 375.

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spianate dallo spartiacque incerto, dove si delinea un paesaggio a collinette, cocuzzoli e dorsi allungati 7. Gli altopiani, la cui altitudine, a nord di Subiaco-Cervara, oscilla tra i 1300 e i 1400 m e ad Arcinazzo intorno agli 800 m, presentano le forme classiche del rilievo calcareo carsificato: bacini chiusi (localmente detti campi o piani), doline, valli secche che la letteratura geomorfologica definisce col termine francese combe, inghiottitoi, risorgenze. Nelle doline e nelle combes, dal deflusso totalmente sotterraneo, i versanti deserti e pietrosi delimitano il fondo umido, verdeggiante, colmo di terra rossa8, in origine intensamente coltivato a cereali, isola di umidità in un panorama dove i corsi d’acqua sono celati in un reticolo ipogeo che l’acqua stessa si è scavata nel calcare. Il deflusso sotterraneo trova poi sfogo alla periferia del massiccio calcareo: dalle risorgenze le acque sgorgano ad un migliaio di metri al di sotto dell’altopiano, laddove, con meccanica precisione, la lettura delle carte segnala un incremento dell’insediamento umano. In località Pantano (il toponimo è evocativo), ai piedi del castello di Roiate, siamo in presenza di un bacino chiuso di origine carsica prosciugato nei primissimi anni del Novecento; del lago che ne occupava il fondo esistono testimonianze letterarie: ancora l’abate Jannuccelli, descrivendo i castelli dell’abbazia di Subiaco, scrive di Roiate che «Circa un miglio dalle sue mura formasi tra’ suoi monti un bacino, in cui raccolgonsi gli scoli delle acque piovane, e ne sorge un laghetto pittoresco, che ricopre circa venti rubbia di terreno. Nella stagione invernale è bello veder le anitre, i capoverdi batter le ali carolando sull’acqua, e tuffarsi e riuscirne improvvisamente spiccando rapido volo [...]. Produce il piccolo stagno gran copia di buone mignatte, dalla cui vendita ritraggonsi belle somme di denaro dagli abitanti» 9. Le acque del bacino defluivano, prima della formazione del lago, attraverso un inghiottitoio, parzialmente otturatosi nel tempo, detto grotta dell’Arco. Interessanti, in ambito carsico, i fenomeni di cattura idrografica che determinano inversioni del senso di deflusso e variazioni nel reticolo; il fosso di Rojate, ad esempio, passando sopra alla grotta dell’Arco (su un pont-canal di formazione naturale) sarà prevedibilmente catturato con la formazione di un inghiottitoio che indurrà le acque superficiali a versarsi nel canale sotterraneo.

Figure 4, 5, 6. L’alta valle. A sinistra: il castello di Jenne (834 m) allungato su una potente bancata calcarea mesozoica. Al centro: la strada tra Cerreto (502 m) e Rocca Canterano (856 m) si snoda tra castagneti e poderi sui terreni arenacei (in primo piano) e boschi xerofili sugli affioramenti calcarei (nello sfondo). A destra: il bacino carsico di Roiate (415 m) prosciugato nei primi anni del Novecento.

È da sottolineare la compresenza nel tratto montano di un bacino idrografico superficiale e di un ricco bacino sotterraneo: l’abbondanza di acque dell’Aniene e la sua portata generosa anche in periodo estivo portano a credere che l’estensione del labirinto ipogeo abbia dimensioni ben più ampie di quelle del reticolo superficiale e che al fiume confluiscano acque che topograficamente apparterrebbero ai bacini contigui.

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Sul paesaggio dell’appennino calcareo laziale e i fenomeni di carsimo si veda ALDO SEGRE, I fenomeni carsici e la speleologia nel Lazio, CNR, Roma, 1948. Sul carsismo in generale si rimanda al classico EMMANUEL DE MARTONNE, Traité de geographie physique (1925), Armand Colin, Paris, 1958, pagg. 649-678; cfr. inoltre i capitoli dedicati alle forme carsiche in Italia. Atlante dei tipi geografici, IGM, Firenze, 2004. 8 Vocabolo italiano che si è imposto nel lessico internazionale dei geologi per intendere il terreno che risulta dal disfacimento della pietra calcarea. 9 GREGORIO JANNUCCELLI, op. cit., Genova, 1856, pag. 443.

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Figure 7, 8, 9. Il paesaggio agrario. A sinistra: la valle del Fiumicino e i versanti pietrosi dei monti Ruffi. Sullo sfondo, arroccato, si distingue il borgo di Saracinesco (908 m). Al centro: i coltivi terrazzati di Rocca di Mezzo (865 m) sono ricavati in una depressione naturale che si diparte dal paese in corrispondenza di una lunga faglia. A destra: siepi nella valle del Fiumicino.

LA VITE E IL MAGGIOCIONDOLO Alla dicotomia geologica corrispondono paesaggi agrari contrastanti, come registrano ancora le Memorie di Subiaco: «Le [rocce] calcarie più dure e compatte meglio resistendo alle intemperie atmosferiche, e perciò costituendo balze e roccie elevate sono continuamente denudate, perché furono spogliate delle originarie selve; la vegetazione vi si scorge scarsa e sterile. Le arenarie al contrario, e gli schisti formanti roccie più friabili, e facili alla fatiscenza si presentano più rotondate e depresse e meno declivi, perciò il terriccio vi è ritenuto, ed è capace ad alimentare una più ricca vegetazione»10. Così, mentre nel mondo calcareo, sterile e povero di acque superficiali, la vita rurale è originariamente divisa tra il monte e il piano – l’agro romano – dove i contadini si recano per i lavori stagionali, sui rilievi arenacei la sopravvivenza è invece assicurata da una maggiore fertilità dei terreni e dalla diffusa disponibilità d’acqua; sui monti di Gerano, Canterano, Rocca Canterano, Rocca Santo Stefano, sono inoltre abbondanti le selve di castagni, alternate, sui pendii a solatìo, a poderi con case isolate; i fondovalle sono coltivati a seminativo con una rilevante presenza di siepi – la valle del Fiumicino, affluente di sinistra dell’Aniene, ne conserva preziosi brani. Nei versanti arenaceo-marnosi il paesaggio agrario è caratterizzato, oltre che dall’insediamento sparso, dalla presenza della coltura promiscua che nella più interna valle del Salto assume caratteri di maggiore intensità. Come è noto la varietà delle coltivazioni in un medesimo appezzamento presenta, per i viaggiatori stranieri in Italia tra XVIII e XIX secolo, un alto grado di piacevolezza: un paesaggio artefatto (il seminativo a grano), ma al tempo stesso foresta (la componente arborea), è interpretato come una sapiente commistione di natura e cultura, rallegrata dai tralci di vite forieri di ebrezze bacchiche. I monti alle spalle di Tivoli presentano una variante colturale particolarmente sapida che ci viene testimoniata negli scritti di Bonstetten: «Non esiste niente di più bello di queste viti maritate, [...] come nella Sabina, ai maggiociondoli profumati, che in primavera, dispiegano i loro grappoli d’oro sulla vigna appena fiorita» 11. Sarebbe auspicabile un’indagine sulla consistenza attuale di tale costume agrario, riconoscendo nell’unione tra la vite e il «vago e dilettevole» 12 maggiociondolo una valenza estetica e culturale specifica di quest’area geografica. «Ne ho trovati vicino a Preneste – scrive con precisione Bonstetten –, e sotto Anticoli e Àgosta [nella media valle dell’Aniene], nelle montagne della Sabina, dove serve da tutore alla vite» 13. 10

GREGORIO JANNUCCELLI , op. cit., Genova, 1856, pagg. 377-378. Certamente la situazione preferibile è, come conclude l’autore, quella di pianura: «Meglio però il terreno spianato e basso, dove trovansi tutte le condizioni a nutrire un numero copioso di piante; quali son le vallate dei fiumi; dove son trascinati tutti i detriti dei monti circostanti, e dove un’atmosfera più umida mantiene più fresca la vita» (p. 378). 11 CHARLES-VICTOR DE BONSTETTEN , op. cit., Genève, 1804, pag. 279. Al maggiociondolo l’autore svizzero dedica un intero paragrafo, confondendo peraltro il Cytisus laburnum (maggiociondolo) con il cytisus (Medicago arborea) di Columella (De re rustica, Arb., 28). 12 GAETANO SAVI, Trattato degli alberi della Toscana (1811), LEF, Firenze, 1997, pag. 40. 13 CHARLES-VICTOR DE BONSTETTEN, op. cit., Genève, 1804, pag. 338.

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Avvicinandosi a Tivoli, dopo la voltata di Roviano, il fiume si apre il percorso tra versanti francamente calcarei dove la coltura dell’olivo, grazie alla mitezza del clima e alla natura dei suoli, assume dimensioni tali da sostituire quasi interamente l’originario manto boschivo xerofilo. Gli oliveti, chiusi da muri a secco e collegati da strette strade di montagna, accompagnate anch’esse da muri, sono disposti talvolta in ranghi serrati, talaltra secondo una imperscrutabile logica catastale che produce giardini petrosi isolati, dal profilo rettangolo, stagliantisi, per il colore argenteo degli olivi, sul secco manto delle pendici. Lungo le linee di compluvio, più umide e fertili, si indovinano lembi di terra un tempo destinati a seminativo.

Figure 10, 11, 12. Il paesaggio agrario. A sinistra e a destra: oliveti terrazzati sui versanti calcarei della media valle dell’Aniene presso San Polo de’ Cavalieri (651 m). Al centro: cerreta sullo stretto affioramento calcareo di Rocca Canterano.

TIVOLI: IL SALTO VERSO L’AGRO ROMANO Tivoli è posta sopra un ammasso travertinoso formatosi, per precipitato dei carbonati dissolti nelle acque del fiume, su una propaggine dell’Appennino umbro costituita da calcari giurassici bianchi e compatti. La struttura appenninica si immerge qui repentina nella coltre dei sedimenti recenti dell’agro romano: l’Aniene, distruggendo energicamente e al tempo stesso costruendo il proprio letto, supera con più salti il dislivello corrispondente al passaggio tra le due regioni. Così nel XVI secolo è descritta da un illustre viaggiatore Tivoli, con le sue cascate: «poiché la città sorge sul primo declivio, assai ripido – scrive Montaigne –, la sua posizione e la vista che vi si gode sono bellissime, dominando una pianura sconfinata da ogni lato e questa grande Roma. È volta in direzione del mare e si tiene le montagne alle spalle: la bagnano le acque del Teverone, che lì vicino, scendendo dai monti e andando a nascondersi in una spaccatura fra le rocce, spicca un meraviglioso salto»14. Le guide settecentesche descrivono una città dalle strade «irregolari, strette; mal costruita, mal lastricata» 15, dall’aspetto «abbastanza triste»16, ma da cui «tutte le viste sono belle, per la singolare mescolanza delle acque, degli alberi, delle costruzioni moderne e delle rovine»17. Tivoli attrae dunque per la combinazione di meraviglie dell’arte e della natura. Il luogo delle cascate è descritto come «un abisso di caverne, e di precipizj: così che scorrendo l’acque a suo talento; e qua e là insinuandosi pel masso natìo, ha fatte tali corrosioni sulle parti di esso più deboli, che presentemente con maraviglia de’ riguardanti, e con profitto dei Dipintori a grottesco, si osservano delle gran volte, e caverne, tra le quali il fiume ove cade, ove scorre, ove si scioglie in minuti spruzzi, in maniere così orridamente belle, che si è dato al sito il

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MICHEL DE MONTAIGNE, Giornale di viaggio in Italia, Rizzoli, Milano, 1956, pag. 188. La prima edizione del journal relativa al viaggio del 1580-81 appare nel 1774. 15 JOSEPH-JERÔME DE LALANDE, Voyage en Italie, Contenant l’Histoire & les Anecdotes les plus singulieres de l’Italie, & sa description; les Usages, le Gouvernement, le Commerce, la Littérature, les Arts, l’Histoire Naturelle, & les Antiquités; avec des jugemens sur les Ouvrages de Peinture, Sculpture & Architecture (1769), Genève, 1790, t. V, pag. 124. 16 GASPARD MONGE , Dall’Italia (1796-1798), a cura di Sandro Cardinali e Luigi Pepe, Sellerio, Palermo, 1993, pag. 124. 17 JOSEPH -JERÔME DE LALANDE, op. cit., Genève, 1790, t. V, pag. 123.

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nome di Grotta di Nettuno; né vi è curioso viaggiatore, che non iscenda a riguardarla»18. Per raggiungere le grotte i pittori si calano con le corde; l’ambiente è malsano – «l’abbondanza delle acque spande ovunque un’umidità fastidiosa»19 – e William Pars, compare di Thomas Jones, vi contrae una funesta polmonite nel 1782 20. La letteratura odeporica anteriore agli interventi napoleonici e alla successiva creazione di Villa Gregoriana, testimonia la dimensione avventurosa della visita a Tivoli e le guide illustrano angusti sentieri di costa con la stessa precisione di dettaglio che, in altro contesto, viene dedicata ai sentieri alpini.

Figura 13. Le cascate di Tivoli sono un soggetto molto diffuso nell’iconografia settecentesca: Hubert Robert le dipinge a memoria durante la prigionia nel carcere di Saint-Lazare (1794).

L’ambiente sonoro rappresenta un’attrattiva specifica dei luoghi, dove il fragore della cascata e del fluire turbinoso del fiume nelle grotte di Nettuno e della Sibilla si combina con quello delle macchine degli opifici, mosse dall’energia dell’Aniene: nella guida di Lalande, scienziato enciclopedico, si legge che «La caduta di questo torrente fa un rumore che rimbomba nei dintorni; riempie l’aria di un vapore che dà lo spettacolo dell’arcobaleno tutte

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STEFANO CABRAL, FAUSTO DEL RE’, Delle Ville e de’ più notabili Monumenti antichi della Città e del Territorio di Tivoli, Puccinelli, Roma, 1779, pagg. 84-85. Come è noto, nel 1835, sotto il papato di Gregorio XVI, il corso del fiume viene incanalato a monte della cascata, che tuttavia continua ad esistere ma con minor afflusso d’acqua, e percorre un tratto ipogeo nel doppio canale scavato nel monte Catillo. Nel nostro scritto tratteremo tuttavia dell’assetto delle cascate immediatamente precedente a tale opera ingegneresca. 19 ABBÉ RICHARD , Description historique et critique de l’Italie ou Nouveaux mémoires sur l’état actuel de son Gouvernement, des Sciences, des Arts, du Commerce de la Population & de l’Histoire naturelle, François Des Ventes-Saillant, Dijon-Paris, 1766, t. VI, pag. 399. 20 «Ho ricevuto la notizia inattesa della morte dell’amico Pars. [...] era stato a Tivoli con un gentiluomo inglese, e si era fermato a disegnare alla grotta di Nettuno, rimanendo tutto il tempo seduto con i piedi nell’acqua. Colto da brividi violenti, era stato avvolto in una coperta e portato immediatamente a Roma su un calesse. Era però morto il giorno dopo [...]. Quando fu sezionato il cadavere, dallo stomaco schizzò fuori una gran quantità d’acqua». Viaggio d’artista nell’Italia del Settecento. Il diario di Thomas Jones, a cura di Anna Ottani Cavina, Electa, Milano, 2003, pag. 193.

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le volte che si ha il sole dietro le spalle»21; anche nell’opera antagonista, di stampo ancien Régime, in voga negli stessi anni, è enfatizzata la sonorità della Grande Cascade: poiché essa «è costretta tra le rocce che la circondano, non ha più di trenta piedi di ampiezza, ma l’altezza della sua caduta perpendicolare di quaranta o cinquanta piedi, il suo volume d’acqua che è considerevole, e l’eco stessa delle rocce, raddoppiano in qualche modo il rumore che fa nel cadere [...]. Le cartiere, le ferriere e gli altri opifici dei dintorni i cui magli battono continuamente, fanno una sorta di accompagnamento maestoso al suono della cascata, che aggiunge singolarità a questo spettacolo»22.

Figura 14. La grotta di Nettuno dipinta da Closson negli anni Venti dell’Ottocento.

Chateaubriand, di fronte alle “domestiche” cascate di Tivoli, ricorda, per contrasto, quanto la vista delle più selvagge cateratte del Niagara lo avesse colpito da giovane: «quando si è giovani la natura muta parla assai», ma «in età avanzata [...] la sola natura diventa più fredda e meno parlante. Perché la natura ci interessi ancora, bisogna che vi si ricolleghino ricordi della società umana»23, e a Tivoli le cascate sono indubbiamente permeate di vita urbana e rurale, come ricorda Lalande: «Il Teverone sembra avanzare gravemente, lasciando sulla sua sinistra le case di Tivoli, e sulla sua destra una bella riva; un grande lavatoio pubblico, che è sopra a quattro cascatelle dalla parte di città, rende questo luogo più vivace [...]. La riva di cui si è appena detto è del tutto libera; le greggi che vi passano vengono a dissetarsi sopra la cascata, e danno ancora più fascino al paesaggio, per la varietà degli aspetti e dei movimenti che si succedono»24. Le acque del fiume, derivate a monte della cascata, sono impiegate per la decorazione dei giardini di palazzo d’Este, dove «scherzano con pompa meravigliosa in cento, e cento diverse forme a stupore, e piacevole inganno»25 dell’osservatore; la loro abbondanza è tale che, come si legge ancora in Lalande, «non esistono altri luoghi al mondo dove si abbia una così bella vista sotto di sé, con dei getti d’acqua immensi sopra [la propria testa]: eccetto Marly, dove i getti d’acqua dipendono dal rifornimento di un’enorme macchina, mentre a Tivoli la natura ha provvisto alla loro durata»26. 21

JOSEPH -JERÔME DE LALANDE, op. cit., Genève, 1790, t. V, pag. 130. ABBÉ RICHARD, op. cit., Dijon-Paris, 1766, t. VI, pag. 391. 23 FRANÇOIS-RENÉ DE CHATEAUBRIAND , Voyage en Italie, in ID., Oeuvres, III (Itinéraire de Paris à Jérusalem, Voyage en Italie, etc.), Lefèvre et Ledentu, Paris, 1838 (trad. it. Viaggio in Italia, Passigli, Firenze, 1990, pagg. 94-95). 24 JOSEPH -JERÔME DE LALANDE, op. cit., Genève, 1790, t. V, pagg. 130-131. 25 STEFANO CABRAL, FAUSTO DEL RE’, op. cit., Roma, 1779, pag. 3. 26 JOSEPH -JERÔME DE LALANDE, op. cit., Genève, 1790, t. V, pagg. 136-7. 22

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LE CASCATELLE AL SANTUARIO DI ERCOLE VINCITORE Dopo la grande cascata, l’Aniene si inoltra nella grotta detta delle Sirene e, con un secondo salto, raggiunge il vallone sottostante profondamente incavato nei depositi travertinosi, dall’aspetto ben poco “cittadinesco”, ma di cui è comunque apprezzata la naturalità: «queste acque riunite – si legge nella guida di Richard – formano un fiume piuttosto grosso, che corre in una valle stretta, occupata in parte da un piccolo bosco formato da diversi gelsomini, da vescicarie (colutea) di tutte le specie, rosmarini, fichi, melograni, alberi di Giuda che erano allora in fiore, alternati a grandi aloe che crescono sulle rocce, di giunchi a foglie larghe, robuste e taglienti che fanno un fiore grigio color del lino; si gioirebbe ancor più deliziosamente della vista di tutti questi begli arbusti se non fossero inframezzati da una quantità di spine robuste e pungenti, che rendono l’accesso molto difficile»27. Aggirato lo sperone su cui è la città, il fiume accoglie le acque delle Cascatelle della cosiddetta villa di Mecenate, deviate prima della cascata. La villa di Mecenate, oggi definitivamente interpretata come santuario di Ercole Vincitore, si trova in posizione suburbana sull’antico percorso della via Tiburtina, che l’attraversa in galleria (via tecta). La costruzione si affaccia sul vallone con poderosi contrafforti in cui si aprono arcate sovrapposte; al suo interno, fin dal XVI secolo, trovavano posto opifici mossi ad energia idraulica. L’acqua vi era condotta in canali sovrapposti e tra loro trasversali, lungo la via tecta nel livello inferiore, e all’interno dei portici al livello sovrastante: il santuario è trasformato per scopi utilitari in un labirinto di acque sotterranee riproducenti per mano umana i fenomeni carsici dell’alta valle. L’acqua dei canali fuoriusciva poi dalle potenti sostruzioni prospicienti il vallone, formando appunto le Cascatelle «più alte della grande cascata, ma più strette; somigliano a tre nastri d’argento, che, uniti alla verzura dei dintorni, alla bellezza delle rovine dei bagni di Mecenate che coronano la montagna, formano uno spettacolo maestoso e singolare»28.

Figura 15. Rilievo del santuario di Ercole vincitore di Charles-Alphonse Thierry: si noti la disposizione delle Cascatelle oggi non più esistenti.

La vecchia Tiburtina, dominata dai possenti resti del santuario erculeo, è fiancheggiata da «pergolati di Pizzutello o uva corna, e Pergolese, l’Oleagina rammentata da Plinio», coltivazioni di uva da tavola che «formano uno dei principali rami dell’industria agraria di Tivoli, e di lucroso commercio con Roma»29. La strada poi, in direzione di Roma, attraversa i dintorni «ubertosissimi» ammantati di olivi che, «a chi mirali dalla pianura romana, li fa 27

ABBÉ RICHARD, op. cit., Dijon-Paris, 1766, t. VI, pagg. 393-394. JOSEPH -JERÔME DE LALANDE, op. cit., Genève, 1790, t. V, pag. 133. 29 FRANCESCO BULGARINI, Notizie storiche, antiquarie, statistiche ed agronomiche intorno all’antichissima Città di Tivoli e suo territorio, Zampi, Roma, 1848 (rist. Forni, Bologna, 1998, pag. 218).

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apparire d’una vegetazione morata simile ad un bosco di elci»30. La ricchezza di coltivazioni nella fascia pedemontana che segna il limite dei deserti dell’agro romano, ha indotto al paragone tra Tivoli e le feraci plaghe della campagna partenopea: «Tivoli era Napoli piccinino», scrive Bulgarini citando il Duca d’Alba, generale dell’esercito spagnolo che occupò la città nel 1556.

TRAVERTINI E “CONFETTI DI TIVOLI” E come Napoli, anche Tivoli presenta fenomeni “infernali”: sorgenti sulfuree, vapori mefitici, perfino una Solfatara «per quanto essa sia ben differente dalla famosa Solfatara di Napoli, che è una specie di vulcano». I fenomeni, che la tradizione popolare ha collegato strettamente al mondo degli inferi, hanno luogo sui ripiani travertinosi depositati dall’Aniene lungo il suo primo tratto a valle delle cascate. Il fiume, scrive Bonstetten, «forma nella grande piana questi immensi depositi di Travertino [...]. Questi banchi di Travertino, la cui estensione mi è sconosciuta, attraversano nella vasta pianura, l’ampio dominio dei vulcani». Con il lapis tiburtinum furono costruiti i monumenti della classicità romana: cavato in questi luoghi, il travertino, come afferma Strabone, è trasportato dall’antica Tibur a Roma per la via d’acqua31.

Figura 16. Nella Carta Geologica d’Italia i ripiani travertinosi a valle di Tivoli sono rappresentati con segno rigato. Nel settore destro dell’immagine, la struttura appenninica; con le varie tonalità del giallo, i depositi pliopleistocenici (marini e vulcanici); in viola e rosso, tufi e peperini.

La «virtù pietrificante»32 delle acque, determinata dalla ricchezza di carbonati, causa originaria della formazione dei travertini e delle concrezioni in prossimità delle cascate, è ancora maggiore nelle acque delle sorgenti che si trovano sui ripiani stessi, tanto da dare luogo a quel particolare commercio di oggetti naturalistico-artigianali che vi venivano fabbricati: i “confetti di Tivoli”. I metodi di produzione sono descritti dall’abate Richard: «alla fine di giugno, i contadini annaffiano di quest’acqua [dei Bagni della Regina] i fiori e le erbe della campagna vicina, che si caricano di un tartaro spesso e bianco, che assomiglia a una glassa di zucchero, che si secca al sole, e che diventa molto solida; li portano a Roma, e li vendono; in questa stagione è d’uso inviarli in regalo agli amici; si chiamano per scherzo Confetti fini»33. 30

FRANCESCO BULGARINI, op. cit., Bologna, 1998, pag. 204. STRABONE, Geografia, V, 3, 7. L’estensione attuale delle cave, solo in parte visibili percorrendo le strade della pianura, appare in tutta la sua drammaticità dalle alture di Tivoli. 32 DONATIEN-ALPHONSE-FRANÇOIS DE SADE, Viaggio in Italia, a cura di Maurice Lever, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, pag. 189. 33 ABBÉ RICHARD, op. cit., Dijon-Paris, 1766, t. VI, pag. 384.

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I laghi della Regina, delle Colonnelle, delle Acque Albule (la toponomastica è a riguardo assai controversa) e gli altri numerosi laghi sulfurei di dimensioni minori, punteggiano l’estensione tabulare dei travertini. «L’acqua vi è biancastra, densa e dà un odore fetido», e «non è calda, per quanto in alcuni punti la si veda bollire con forza, e lanciare con rumore getti d’acqua alti più di un piede»34. Il ribollire della superficie, «originato – secondo Sade – dalla sorgente calda che l’alimenta» proverebbe, per alcuni, che il lago sia «l’apertura di un vasto abisso che si allarga e si estende assai lontano al di sotto, a destra e a sinistra»35: è qui riproposto il mito del lago d’Averno nei Campi Flegrei, tradizionalmente identificato con l’accesso agli inferi. Sul lago dei Bagni, la «solfatara liquida», è segnalata la presenza di numerose «isole galleggianti» che si dispongono sulla superficie seguendo il capricci dei venti: «La più grande delle isole galleggianti – scrive Misson – è d’un ovale perfetto [...]. Sono sempre tutte assieme, dal lato verso il quale soffia il vento; per poco che le si tocchi le si fa muovere come si vuole. Due persone della nostra compagnia si sono messe su una delle più piccole e l’hanno fatta allontanare dalla riva, solo spingendo la terra con la punta della spada»36.

Figure 17, 18, 19. Formazioni travertinose. A sinistra: la grotta di Nettuno. Al centro: concrezioni nella grotta della Sirena. A destra: cave di travertino nei pressi del casale del Barco. Sullo sfondo, oltre la cortina di vegetazione ripariale che sottolinea il corso dell’Aniene, i rilievi vulcanici dei colli laziali

L’AGRO ROMANO Lasciati sulla riva destra i ripiani di travertino, il Teverone scorre con comodi meandri nelle campagne deserte dell’agro romano. Le forme del rilievo sono ora il risultato dell’opera erosiva del mantello di depositi vulcanici disteso sui resti del mare che in epoca pliocenica aveva invaso la regione. Se la pianura costiera laziale, scrive Bonstetten interpretando la natura geologica dei luoghi, «è un’alluvione del Tevere, le colline vulcaniche che la orlano, erano dunque un tempo la riva del mare. Ma prima dei vulcani, queste stesse colline non esistevano, e la regione che esse occupano ora, trovandosi più bassa del livello del mare, ha dovuto esserne sommersa. Il Lazio formava dunque un golfo, che si stendeva senza dubbio fino alle montagne della Sabina; il Soratte e il monte Albano erano delle isole, come quella del Circeo lo era ancora ai tempi di Omero»37. La differenza delle forme e della natura dei luoghi – i monti appenninici, le colline vulcaniche – è sottolineata da paesaggi agrari antitetici: immaginando di percorrere a ritroso il corso del fiume «Si passa di netto dal deserto alla più accurata coltivazione», come ebbe a scrivere Sismondi38. L’agro romano, 34

ABBÉ RICHARD , op. cit., Dijon-Paris, 1766, t. VI, pag. 383. FRANÇOIS MAXIMILIEN MISSON, Nouveau Voyage d’Italie, avec un Mémoire contenant des avis utiles à ceux qui voudront faire le mesme voyage (1691), Mezeray, Den Hague, 1717 (trad. it. Viaggio in Italia, a cura di Gianni Eugenio Viola, L’Epos, Palermo, 2007, pag. 238). 36 FRANÇOIS MAXIMILIEN MISSON, op. cit., Palermo, 2007, pag. 239. 37 CHARLES-VICTOR DE BONSTETTEN, op. cit., Genève, 1804, pag. 353. 38 SISMONDI, Del modo di rinstaurare la popolazione e l’agricoltura nella campagna di Roma, in Biblioteca dell’economista. Trattati speciali. Agricoltura e quistioni economiche che la riguardano, Unione tipograficoeditrice, Torino, 1860, pag. 743.

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solcato dalle rovine degli acquedotti che portavano l’acqua dell’Aniene a Roma «come verso il centro del mondo»39, è indissolubilmente segnato dalla gestione delle terre a latifondo e dal flagello della malaria; «non esiste niente di più triste di questa campagna di Roma – si legge ancora in Bonstetten – arida, arsa, senza alberi, dove le basse alture non presentano agli occhi che dei vasti rigonfiamenti di un suolo nudo, malato e pestilenziale, come i morenti che lo abitano»40. Chateaubriand, dalla terrazza di Villa d’Este, descrive il panorama: i resti delle ville romane, il Soratte, Montefiascone sui rilievi vulsini, Roma, i colli Albani, e, concludendo la «circonferenza di questa immensa prospettiva», il monte Sant’Angelo ai piedi del quale è la villa Adriana. «Nel mezzo del quadro – conclude disarmato – si può seguire il corso del Teverone che scende verso il Tevere [...]. Anche la grande strada di Roma si snoda nella campagna; era l’antica Tiburtina, un tempo fiancheggiata da sepolcri e oggi da mucchi di fieno a guisa di piramide che sembrano voler riprodurre l’effetto delle tombe»41.

Figura 20. La desolazione della Campagna Romana in un dipinto dello scandinavo Rørbye. Sullo sfondo, oltre l’orizzonte delle colline tufacee dell’agro romano, si stagliano i rilievi appenninici (da sinistra, il Soratte, i monti Sabini e i Simbruini).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI MISSON FRANÇOIS MAXIMILIEN, Nouveau Voyage d’Italie, avec un Mémoire contenant des avis utiles à ceux qui voudront faire le mesme voyage (1691), Mezeray, Den Hague, 1717 (trad. it. Viaggio in Italia, a cura di Gianni Eugenio Viola, L’Epos, Palermo, 2007). RICHARD ABBE, Description historique et critique de l’Italie ou Nouveaux mémoires sur l’état actuel de son Gouvernement, des Sciences, des Arts, du Commerce de la Population & de l’Histoire naturelle, François Des Ventes-Saillant, Dijon-Paris, 1766. CABRAL STEFANO, DEL RE’ FAUSTO, Delle Ville e de’ più notabili Monumenti antichi della Città e del Territorio di Tivoli, Puccinelli, Roma, 1779. LALANDE JOSEPH-JEROME DE, Voyage en Italie, Contenant l’Histoire & les Anecdotes les plus singulieres de l’Italie, & sa description; les Usages, le Gouvernement, le Commerce, la 39

CHARLES-VICTOR DE BONSTETTEN, op. cit., Genève, 1804, pag. 41. CHARLES-VICTOR DE BONSTETTEN, op. cit., Genève, 1804, pag. 235. 41 FRANÇOIS-RENÉ DE CHATEAUBRIAND , op. cit., Firenze, 1990, pag. 98. 40

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Littérature, les Arts, l’Histoire Naturelle, & les Antiquités; avec des jugemens sur les Ouvrages de Peinture, Sculpture & Architecture, & les Plans de toutes les grandes villes d’Italie. Seconde Edition corrigée & augmentée, Chez la Veuve Desaint, Paris, 1786. BONSTETTEN CHARLES-VICTOR DE, Voyage sur la scene des six dernieres livres de l’Énéide. Suivi de quelques observations sur le Latium moderne, Paschoud, Genève, anno XIII (1804). CHATEAUBRIAND FRANÇOIS -RENE DE, Voyage en Italie, in ID., Oeuvres, III (Itinéraire de Paris à Jérusalem, Voyage en Italie, etc.), Lefèvre et Ledentu, Paris, 1838 (trad. it. Viaggio in Italia, Passigli, Firenze, 1990. BULGARINI FRANCESCO, Notizie storiche, antiquarie, statistiche ed agronomiche intorno all’antichissima Città di Tivoli e suo territorio, Zampi, Roma, 1848. JANNUCCELLI GREGORIO , Memorie di Subiaco e sua Badia, Genova, 1856. SISMONDI [JEAN CHARLES LÉONARD SIMONDE DE], Del modo di rinstaurare la popolazione e l’agricoltura nella campagna di Roma, in Biblioteca dell’economista.Trattati speciali. Agricoltura e quistioni economiche che la riguardano, Unione tipografico-editrice, Torino, 1860, pagg. 737-763. A.S. [ALDO SESTINI], Uno studio geomorfologico sulla valle dell’Aniene, “Bollettino della R. Società Geografica Italiana”, LXX, 1936, pagg. 423-424. MONTELUCCI GIULIANO , Investigazioni botaniche nel Lazio. III. Aspetti della vegetazione dei travertini nelle Acque Albule (Tivoli), “Nuovo Giornale Botanico Italiano”, LIV, 1947, pagg. 494-504. SEGRE ALDO, I fenomeni carsici e la speleologia nel Lazio, CNR, Roma, 1948. ALMAGIÀ ROBERTO, Lazio, UTET, Torino, 1966. SADE DONATIEN-ALPHONSE-FRANÇOIS DE, Viaggio in Italia, a cura di Maurice Lever, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.

RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1- 12, 17 - 19: fotografie di Ilaria Agostini/Daniele Vannetiello, 2007. Figura 13: HUBERT ROBERT, Artisti davanti alle cascate di Tivoli, olio su tela, 56 x 46,3 centimetri, 1794 (New York, collezione privata). Figura 14: GILLES -FRANÇOIS-JOSEPH CLOSSON, La grotta di Nettuno a Tivoli, olio su carta, 25,8 x 30,3 centimetri, s.d. [1825-29] (Liegi, Cabinet des Estampes et des Dessins, inv. 566 K 23). Figura 15: CHARLES-ALPHONSE THIERRY, Tivoli. Tempio di Ercole vincitore, facciata laterale, stato attuale a 0,01 p.m., inchiostro e acquerello su carta telata, 96,5 x 202 centimetri, 1863 (Paris, Bibliothèque de l’École des Beaux-Arts, Recueil des Envois de 4e année n°43, Env. 51). Figura 16: particolare tratto dal foglio n. 150 (Roma) della Carta Geologica d’Italia. Figura 20: MARTINUS RØRBYE, Viandante nei pressi dell’Acqua Acetosa, 1835 (Goteborg, Konstmuseum)

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di settembre 2007.

© Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 – numero 8 – luglio-dicembre 2007 - a cura di Anna Lambertini sezione: Itinerari pagg. 117 - 135

“ANDREA P ALLADIO E LA VILLA V ENETA. D A P ETRARCA A CARLO SCARPA”, UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DELLA CIVILTÀ DELLA VILLA. PARTE SECONDA Giulia Tettamanzi*

Summary The exposition “Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa” (Andrea Palladio and the villa veneta. From Petrarca to Carlo Scarpa) offers a trip through the history of the villa, in places of time, space and culture. This second part suggests an itinerary meeting the most important points of formal and ideological villa maturation during the Renaissance. From Petrarca to Alberti, the villa typology growths and develops in Tuscany, with the Medici family power, then in Rome, beginning popes, Medici family had a primary role in the villa culture, working with the most important artist and architects: Raffaello, the Sangallo family, Giulio Romano. Palladio is the concrete and conceptual centre of the exposition, and in his work, we’ll find the same ideological elements of the villa, grow up in latin culture and in the Renaissance. The villa is showed in its totality as architectonical, economic system, till the completely formation of a model, that successfully affirms in the history, and finally we’ll meet a contemporary architect, Carlo Scarpa. The last part of this text is a real trip trough the villas in the Veneto and its landscape. Key-words Leon Battista Alberti, Andrea Palladio, villa, Humanism, villas in Veneto

Abstract La mostra “Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa” propone un viaggio attraverso la storia della villa in luoghi del tempo, dello spazio e della cultura, attraverso i sette secoli della civiltà della villa. Questo secondo scritto, propone un itinerario che tocca e conosce i più significativi momenti di maturazione formale e ideologica della villa nell’epoca dell’Umanesimo e Rinascimento. Da Petrarca a Leon Battista Alberti si assiste allo sviluppo della tipologia della villa in toscana sotto l’egemonia dei Medici, che anche a Roma, come Papi ebbero un ruolo cardine, come mecenati dei più grandi artisti ed architetti: Raffello, i da Sangallo, Giulio Romano. Palladio è il centro fisico e concettuale dell’esposizione, e nella sua opera si ritroveranno, ripresi e articolati, gli elementi dell’ideologia della villa, sviluppati dalla cultura latina e del Rinascimento. La villa è qui presentata nella sua totalità di sistema sia architettonico che economico produttivo, fino all’affermazione di un modello che si affermerà anche nelle epoche successive, giungendo alla poetica di un architetto veneto contemporaneo, Carlo Scarpa. Lo scritto si conclude con un viaggio vero e proprio alla scoperta delle ville, precedentemente conosciute in mostra attraverso disegni e plastici. Parole chiave Leon Battista Alberti, Andrea Palladio, villa, Umanesimo,ville venete

* Dottoranda di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze.

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PREMESSA Se la sfida della mostra “Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa”1 è il viaggio, filo conduttore di questa esperienza, si prosegua allora in questa esplorazione alla scoperta del Palladio e della villa in tutte le sue sfaccettature culturali, sociali, architettoniche, paesaggistiche, economiche e produttive. Questa seconda parte dello scritto accompagna il viaggiatore nel vivo del percorso: dopo la meditata e lunga riflessione nella complessità della cultura latina2, attraverso la grande cultura del Rinascimento e l’esperienza Palladiana, si giungerà nei territori delle celeberrime ville venete3, dalla nascita della villa nel paesaggio di ieri, al paesaggio di oggi.

LA MOSTRA A PALAZZO BARBARAN DA PORTO: IL PAESAGGIO IERI A Palazzo Barbaran da Porto, l’itinerario prosegue all’interno della mostra, attraverso la dimensione del tempo, esplorando i sette secoli di civiltà della villa, descritti tramite le immagini perdute del paesaggio, della vita e del lavoro dei contadini, e con un nucleo centrale imperniato su Andrea Palladio 4. La cultura della villa nata nel mondo romano5, viene ripresa secoli dopo, come ideale letterario, con Francesco Petrarca; comincia a prendere forma architettonica nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, per dar vita poi a diverse sperimentazioni nella Roma di Bramante e Raffaello. Ma è Palladio a inventare la villa moderna, mettendo d’accordo esigenze funzionali, strutturali ed estetiche, per creare questi meravigliosi centri di attività e di residenza. Le ville palladiane saranno imitate e riproposte per secoli nel Veneto e nel mondo: dalle ville-reggia del Settecento, ai villini liberty, fino alle geniali riletture di Carlo Scarpa6. Da Petrarca ad Alberti, un percorso di riscoperta e di invenzione attraverso le ville medicee Le anonime opere nel lontano mondo romano lasciano spazio, lungo l’itinerario espositivo, a volti e nomi noti che accompagnano il visitatore attraverso la rinascita e la nascita della villa palladiana.

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La Mostra si è svolta a Vicenza, presso Palazzo Barbaran da Porto, dal 4 marzo al 3 luglio 2005; catalogo GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS (a cura di), Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio, Venezia 2005. Promotori dell’evento: Regione del Veneto, Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, Istituto Regionale Ville Venete, Ministro per i Beni e le Attività Culturali. Curatori della mostra: Guido Beltramini, direttore del CISA A. Palladio, e Howard Burns, presidente del consiglio scientifico del CISA A. Palladio. Allestimento della mostra a cura dello studio Cibic & Partners. 2 Prima parte dello scritto: GIULIA TETTAMANZI, “Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa”, un viaggio alla scoperta della civiltà della villa - I parte, in “Ri-vista. Ricerche per la progettazione del paesaggio”, n. 4 Luglio-Dicembre 2005, http://www.unifi.it/ri-vista/. 3 La seconda parte di questo scritto percorrerà le tappe espositive, proponendo un excursus della civiltà della villa dall’umanesimo alla contemporaneità. Un approfondimento specifico meriterà il tema delle ville palladiane, attraverso un vero e proprio viaggio a tappe che, dalla vicentina villa Almerico Capra approderà alla villa Badoer, nei pressi di Rovigo, con una tappa fuori percorso presso il complesso funerario della famiglia Brion, dell’architetto Carlo Scarpa, un approdo contemporaneo in questo itinerario nel tempo e nello spazio. 4 Le sale dedicate ad Andrea Palladio assumono una posizione centrale nella narrazione della storia della villa. 5 La genesi della villa nel mondo romano è il primo tassello di questa complessa vicenda, e pone l’accento, tramite la selezione delle opere esposte nella prima sala, sui caratteri di questa cultura che saranno studiati e imitati per secoli. Infatti, l’ideologia della villa che appartiene alla cultura attuale è figlia di una tradizione classica, che rilanciata dall’umanesimo, è presente a ancora oggi, anche se spesso stereotipizzata in binomi antitetici come rus-urbs, otium-negotium. Il tema è trattato in GIULIA TETTAMANZI, “Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa”, un viaggio alla scoperta della civiltà della villa - I parte, in “Ri-vista. Ricerche per la progettazione del paesaggio”, n. 4 Luglio-Dicembre 2005, http://www.unifi.it/ri-vista/. 6 Excursus dei contenuti dell’esposizione tratto dal sito www.cisapalladio.org, sezione archivio mostre. Le sezioni tematiche corrispondono a precisi stralci temporali, suddivisi nelle diverse sale.

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Il primo volto noto che si incontra è Francesco Petrarca7, ritratto in una pregevole testa in bronzo del 15478. È con lui che ha inizio il viaggio nel recupero della tradizione letteraria latina della vita di campagna e della villa, e da questo punto si può rintracciare e ricostruire la “transizione dalle semplici e pressoché disadorne residenze di campagna del Quattrocento veneto alle eleganti ville palladiane” 9. Petrarca è infatti l’intellettuale che meglio incarna il passaggio ideologico di un’epoca in cui è in gestazione un uomo nuovo, epoca di trapasso tra una visione teocentrica, tipica del medioevo, ad una visione antropocentrica, che sarà alla base dell’età umanistica e del Rinascimento. In continua ricerca di conciliazione10 tra il personale e fervente culto degli scrittori classici, al cui studio si è dedicato tutta la vita, e un’intensa spiritualità cristiana, per la cui formazione fu fondamentale l’incontro dell’opera di Sant’Agostino, Petrarca, per determinati aspetti, presenta un deciso spirito pre-umanista, che si rintraccia non solo nella ricerca, durante i suoi viaggi, di testi di classici latini, giacenti dimenticati nelle biblioteche dei monasteri, ma anche nel suo modo di vivere presso le sue residenze di campagna, viste come rifugio lontano dalla città e come ricerca dell’otium, in perfetta sintonia con la concezione latina, che, nella mente di Petrarca e degli umanisti veneti suoi successori, è un vero e proprio programma culturale, e che da semplice sogno letterario, in Palladio troverà una piena concretizzazione formale.

Figura 1. Petrarca domus Arquade. Incisione della casa di Petrarca ad Arquà nel libro di Giacomo Filippo Tomasini, intitolato Petrarcha redivivus, pubblicato a Padova nel 1635; il testo si può considerare una vera e propria guida della casa del poeta ad Arquà11.

Quindi, per quanto le case di Petrarca di campagna fossero di tipo tradizionale, sia a Valchiusa che ad Arquà, e non riconducibili alla villa, importante è capirne il significato e le visioni antiche della vita ideale di campagna a cui venivano associate, e che si ritrovano 7

Francesco Petrarca (Arezzo 1304, Arquà 1374), è forse lo scrittore che esercitò la più vasta e profonda influenza sulla cultura italiana per diversi secoli. Studioso, filologo, scrittore, lascia un ricco corpus di opere sia in latino che in volgare 8 L’opera in bronzo fu posta nel 1547 sulla tomba del Poeta da Paolo Valdezzoco, proprietario della casa di Arquà in quegli anni, e oggi lì conservata. 9 JAMES S. ACKERMAN , La villa. Forma e Ideologia (1990), Einaudi, Torino 1992, pag. 7. 10 Il tema della conciliazione tra cultura classica e spiritualità cristiana emerge specialmente nelle opere di carattere religioso e morale di Petrarca. In particolare il tema dell’otium è esaltato nel De vita solitaria, opera in cui si assiste ad una originale fusione tra pensiero classico e cristiano, proprio perchè la vita solitaria è fatta sia per dedicarsi alla lettura, alla scrittura e al riposo, ma è anche fonte di purificazione interiore mediante la meditazione e la preghiera. 11 L’incisione si trova nel testo: GIACOMO FILIPPO TOMASINI, Petrarcha redivivus, integram poetae celeberrimi vitam iconibus aere celatis exhibens. Accessit nobilissimae foeminaeLaurae brevis historia..., Treviso 1635, Biblioteca Comunale.

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espresse e promosse nell’opera letteraria petrarchesca, proprio perchè “la letteratura è la principale depositaria di miti ideologici [e] in ogni epoca l’ideologia della villa appare riccamente illustrata sia in prosa che in poesia. In verità, le opere letterarie non hanno semplicemente rispecchiato la cultura della villa, ma hanno promosso le concezioni della villa sviluppatesi a posteriori.”12. Petrarca accompagna dunque nel pieno dell’età Umanistica, lasciando come principali eredità, da un lato, una chiara coscienza del distacco dal mondo antico, che è una svolta fondamentale per il cambiamento di visione rispetto al medioevo, e che permette di cogliere i classici nella loro dimensione più autentica, promuovendone la riscoperta, dall’altro, nei suoi testi, una proposta di ideale di vita che sarà alla base della rinascita della villa. Accanto a Petrarca, figura di nodale rilievo per la formazione ed il consolidamento della tipologia della villa, fu Leon Battista Alberti, che apportò un fondamentale “contributo di razionalizzazione e chiarimento dell’eredità classica” 13. Uomo universale del Quattrocento14, erudito, letterato, matematico, atleta e profondo conoscitore di tutte le arti, impone la sua presenza all’interno della mostra, non solo attraverso il celeberrimo ed augusteo ritratto della medaglia di Matteo de’ Pasti 15, e con la presenza di una copia della prima edizione a stampa del suo più famoso trattato De re aedificatoria 16, ma più marcatamente, mediante la duratura fortuna che il suo stesso trattato avrà, a più di un secolo di distanza, nell’opera di Palladio 17 che, nel presentare i suo progetti di case di città e di villa, ripropone, nella struttura e nei concetti, il libro quinto e nono dell’Alberti. Così, nel libro secondo dei Quattro libri dell’architettura, Palladio trattando “del compartimento delle stanze e d’altri luoghi” usa la medesima scansione dell’Alberti, relazionando gli spazi della casa alle stagioni, ai venti, agli orientamenti cardinali 18, e, ancora, presentando la scelta del luogo per la villa si riscontrano altre analogie, tra ciò che scrisse l’intellettuale fiorentino, “Vorrei che le case delle possessioni de’nobili, non fussino poste ne la più grassa parte del la campagna; ma bene nella più degna [...]; scendasi quindi facilissimamente ne le possessioni; riceva i forestieri che vi capitano in luoghi convenientemente spaziosi [...]: abbia posti quasi sotto gli occhi delicatezze di giardini ed allettamenti di pescagioni e di cacciagioni”, e le parole dell’architetto vicentino, “...simili luoghi, ove, visitati da vertuosi amici e parenti loro, avendo case giardini, fontane e simili luoghi sollazzevoli potevano facilmente conseguir quella beata vita che qua giù si può ottenere. [...]primariamente adunque eleggerassi luogo quanto sia possibile commodo alle possessioni”. E a proposito del tema dell’otium e della vita di campagna, ampliamente ripreso nel prologo di Palladio, lo stesso Alberti ascrive tra le funzioni della villa “il diletto 12

JAMES S. ACKERMAN , op. cit., Torino 1992, pag. 6. MARIA BELTRAMINI, Leon Battista Alberti (1404-1472) De re aedificatoria, in GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS (a cura di), Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio, Venezia 2005, pag. 216. 14 Leon Battista Alberti, di padre fiorentino, nacque a Genova nel 1404, lavorò nelle principali corti italiane del rinascimento, da Firenze a Mantova, da Rimini a Ferrara e Roma, dove morì nel 1472. 15 Matteo de’ Pasti, Medaglia con Leon Battista Alberti, 1446-155 circa, Vicenza Musei Civici, Medagliere. 16 Il trattato albertiano De re aedificatoria fu pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1485, a tredici anni dalla sua prima stesura, presentata nel 1452 a papa Niccolò V. In mostra è presente una copia edita a Firenze nel 1550, appartenente alla raccolta Cappelletti, conservata a Vicenza presso la Biblioteca del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio. 17 ANDREA PALLADIO , I quattro libri dell’Architettura, Venezia 1570. 18 “...le stanze per la estate siano [...] rivolte a settentrione e quelle per lo inverno a meriggie [...]. ma quelle delle qualii vorremmo servirci la primavera e l’autunno saranno volte all’oriente”, ANDREA PALLADIO , I quattro libri dell’architettura (1570), Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992, pag. 99, (libro II). “...volgi tutte le stanze per la state che ricevino i venti grechi; quelle per l’inverno voltate a mezzogiorno; quele per la primavera e lo autunno voltate a levante”, LEON BATTISTA ALBERTI, Della architettura, libri dieci di Leon Battista Alberti; traduzione di Cosimo Bartoli; con note apologetiche di Stefano Ticozzi e trenta tavole in rame disegnate ed incise da Costantino Gianni, a spese degli Editori, Milano 1833, pag. 179, (libro V), (copia digitale del libro: http://books.google.it/books?id=J5YHAAAAQAAJ&printsec=frontcover#PPA179,M1; il testo originale è disponibile presso la biblioteca della Oxford University ed una copia è conservata anche a Vicenza presso la biblioteca del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio).

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dell’animo”19. Di questo tema, in particolare si occupò in un altra sua opera, I libri della Famiglia, dove, nel libro terzo, il dialogo tra il saggio patriarca Giannozzo Alberti e il giovane e Lionardo, ripropone il topos letterario dell’antitesi tra otium negotium, “ozii privati [...], pubbliche piazze” 20. Il secolo delle artes humanitatis accoglie così nuovamente edifici degni della definizione di villa, che, attraverso una gestazione in cui la villa antica rinasce in forme medioevali, giunge, nella seconda metà del quattrocento ad una progressiva e innovativa maturazione tipologica. Firenze attraverso quattro generazioni della famiglia Medici, svolse un ruolo chiave in questo processo evolutivo e di trasformazione della villa e del paesaggio. Dalla villa di Trebbio (1427-33 circa), di Cafaggiolo (1443-52 circa) e di Careggi (1440 circa), i cui elementi “di uno stile moderno”21 accostati alla tradizione architettonica propria dei castelli, furono attributi a Michelozzo, si giunge nel 1455 alla prima villa medicea, quella di Fiesole, completamente aperta verso l’esterno, che mostra palesemente un chiaro legame con il paesaggio, mettendo in pratica alcuni di quei principi proposti dall’Alberti nel suo coevo trattato, dall’assenza di elementi fortilizi, fortemente contestati dall’Alberti 22, all’importanza della posizione privilegiata, alla presenza di giardini e logge da cui si potesse godere del paesaggio. Nuova infatti, rispetto alle precedenti ville medicee, è l’importanza attribuita al panorama, che già l’Alberti sottolinea essere un requisito indispensabile, “... sien vedute, e vegghino la città, le terre, il mare ed una distesa di pianura, e le conosciute cime de le colline e de’ monti”23, e di conseguenza l’architettura della villa è costruita per alimentare questo rapporto tra residenza e contesto: “...io vorrei, che tutta la facciata e tutta la massa di tutto l’edificio (il che conferisce molto all’essere graziato) fosse da ogni banda luminosissima e molto aperta, ricevesse da largo cielo lumi grandissimi, grandissimi soli, e gran quantità d’aria saluberrima.”24. La villa di Fiesole, commissionata a Michelozzo da Cosimo de Medici per il figlio Giovanni, rappresenta dunque una svolta nella complessa storia della villa e nella concezione del paesaggio, anche dal punto di vista del progetto. Le rappresentazioni pittoriche di questa villa, da quella di Domenico Ghirlandaio in Santa Maria Novella 25, a quella nell’Annunciazione di Biagio d’Antonio, presentata in mostra, bene sottolineano infatti l’integrazione tra architettura e paesaggio: “la struttura a più ordini della villa si sviluppa penetrando nelle terrazze a giardino, cosicché l’edificio risulta «accoccolato» sul pendio collinare in quanto la loggia a est è compressa in uno stretto spazio tra il dirupo soprastante e il precipizio in basso. Il muro a sostegno del giardino si fonde con quelli del palazzo” 26, e a enfatizzare ancora maggiormente il profondo legame tra il sito e la villa è l’armonia che si instaura tra la preesistente rampa, che collega la villa direttamente alla chiesa e al convento di San Girolamo, e i nuovi elementi di giardini e terrazzi, che di fatto hanno creato un nuovo paesaggio. L’intenzionalità progettuale e funzionale di questa villa, slegata dall’uso agricolo, dedicata all’otium e in una posizione panoramica privilegiata, si riscontra anche in numerosi scritti, da Vasari a Poliziano, a Marsilio Ficino, che non mancano di sottolineare la presenza di stanze

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LEON BATTISTA ALBERTI, op. cit., Milano 1833, pag. 166, (libro V). LEON BATTISTA ALBERTI, I libri della famiglia (1432-34), Einuadi editore, Torino 1969, pag. 224, (libro III). 21 JAMES S. ACKERMAN , op. cit., Torino 1992, pag. 87. 22 LEON BATTISTA ALBERTI, Della architettura, libri dieci di Leon Battista Alberti; traduzione di Cosimo Bartoli; con note apologetiche di Stefano Ticozzi e trenta tavole in rame disegnate ed incise da Costantino Gianni, a spese degli Editori, Milano 1833, pag. 315, (libro IX). 23 LEON BATTISTA ALBERTI, op.cit., Milano 1833, pag. 171, (libro V). Il De re aedificatoria fu pubblicato solo nel 1485, ma era stato concluso circa nel 1453, gli stessi anni in cui Cosimo commissiona la villa di Fiosole. 24 LEON BATTISTA ALBERTI, op. cit., Milano 1833, pag. 308, (libro IX). 25 Domenico Ghirlandaio, Assunzione della Vergine, Firenze, Santa Maria Novella, cappella Tornabuoni (148690): la veduta della villa di Fiosole è presente nell’angolo in alto a destra della composizione. 26 AMANDA LILLIE, Biagio d’Antonio. Annunciazione, in GUIDO BELTRAMINI , HOWARD BURNS (a cura di), op. cit., Venezia 2005, pag. 221. 20

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“alcune per i libri, e alcune altre per la musica” 27, e “la possibilità di “totam tamen aestimare Florentiam”28.

Figura 2. La villa medicea di Fiesole in un particolare in alto a destra della composizione. Biagio d’Antonio, Annunciazione, Roma, Accademia di San Luca (fine XV – inizio XVI secolo).

La luminosa struttura semplice e geometrica della villa di Fiesole, dalle chiare superfici levigate che emergono tra il verde dell’ambiente che la circonda, pone le fondamenta per “una numerosa progenie di ville dalle forme cubizzanti, dai colori chiari e dalle superfici armoniosamente levigate; da villa «la Rotonda» di Andrea Palladio a villa Savoye di Le Corbusier”29. Sono questi dunque i presupposti su cui nasce la villa medicea di Poggio a Caiano che porrà il paradigma della villa fiorentina Rinascimentale, espressione della magnificenza e del potere del committente, Lorenzo de’ Medici. Villa Medici di Poggio a Caiano si presenta al visitatore come una finestra virtuale e virtuosa, in questo percorso espositivo introverso, posta a fronteggiare la tavola dell’Assunzione di Biagio d’Antonio, quasi a specchiarsi nel ritratto del suo precedente tipologico: la si osserva in una veduta a volo d’uccello che palesa tutta la sua armonica e simmetrica imponenza, al centro di un paesaggio ordinato ed addomesticato, rappresentato al dettaglio con boschi, coltivi e giardini all’italiana, dal pittore di corte fiammingo Giusto Utens. Gli elementi ci sono tutti, perfettamente rappresentati e comprensibili, pur nella forzatura prospettica voluta dalla rappresentazione, così come li aveva appunto proposti il teorico e architetto fiorentino nel suo trattato, che Lorenzo il Magnifico volle non appena fu pubblicato nel 1485. La villa è quindi al centro delle proprietà e le domina, essendo posta nella “parte più degna”30 della campagna, ha una facciata solenne perchè “se lo antiporto sarà con la sua fronte alquanto rilevato, e guisa di frontespicio ancora, sarà molto ornato”31, è aperta verso il paesaggio e mostra le più belle vedute. 27

GIORGIO VASARI, Le Vite dei più celebri pittori, scultori e architetti (1568), Fratelli Melita Editori, La Spezia 1991, vol. I, pag. 251. 28 Così scriveva Marsilio Ficino nel 1488 in risposta ad Angelo Poliziano, che in quegli anni era ospite di Lorenzo il Magnifico a Fiesole. JAMES S. ACKERMAN , op. cit., Torino 1992, pag. 100. 29 JAMES S. ACKERMAN , op. cit., Torino 1992, pag. 99. 30 LEON BATTISTA ALBERTI, op. cit., Milano 1833, pag. 171, (libro V). 31 LEON BATTISTA ALBERTI, op. cit., Milano 1833, pag. 315, (libro IX).

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Figura 3. Giusto Utens, Villa medicea di Poggio a Caiano, Firenze, Museo Storico Topografico “Firenze com’era” 1599-1602. Il lunettone appartiene alla serie dei diciassette che decoravano la sale della villa ad Artimino e che rappresentavano le proprietà del patrimonio fondiario granducale.

Giuliano da Sangallo 32, architetto di questa villa dotata di maestosa grandiosità, caratteristica che forse la contraddistingue ancora maggiormente dalle precedenti ville medicee, seppe in questo progetto interpretare “quello che aveva in animo [Lorenzo, che fece] fare un modello a Giuliano; il quale lo fece tanto diverso e vario dalla forma degl’altri, e tanto secondo il capriccio di Lorenzo, che egli cominciò subitamente a farlo mettere in opera come migliore di tutti” 33. E così, il complesso di Poggio a Caiano divenne un prototipo che ebbe poi una notevolissima fama e fortuna, proprio perchè Lorenzo il Magnifico riuscì a coniugare in questo progetto tutti i significati della villa, realizzando, prima della sua morte avvenuta nel 1492, il “più complesso dei disegni umanistici del Rinascimento, codificato in quegli anni dal De re aedificatoria di Leon Battista Alberti” 34. In armonia perfetta con il topos letterario virgiliano che rappresenta la vita bucolica, la villa al Poggio accoglie in un’unità armonica di luoghi, architetture, paesaggi e ideali, il mito del pius agricola, riconquistando la dimensione economica della produzione agricola assente a Fiesole, senza però escludere il significato della tenuta come luogo di svago e delizia, cultura e riposo, e aggiungendo, come mai non era accaduto nelle altre ville medicee, un nuovo significato di affermazione di potere: la villa di Poggio a Caiano era stata progettata per essere ammirata, e anche questa concezione non tradisce i dettami albertiani che ammoniscono esortando: “...per questo dico, come diceva Tucidide, muriamo suntuosissimamente acciò dimostriamo ai posteri la grandezza nostra.”35 Dalla suggestiva visione della villa al Poggio in tutta la sua complessità, lo sguardo del visitatore è condotto attraverso gli spazi della villa, rappresentati nei disegni di Giuliano da Sangallo. Particolarmente significativa è la pianta della villa di Poggio 36, uno dei pochissimi 32

Giuliano da Sangallo, (Firenze, 1445 - Firenze, 1516) architetto, ingegnere e scultore, di scuola brunelleschinana, fu prediletto da Lorenzo il Magnifico. 33 GIORGIO VASARI, op. cit., La Spezia 1991, vol. 1 pag. 206. 34 DANIELA LAMBERINI , La villa medicea e le cascine di Poggio a Caiano, in GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS (a cura di), op. cit., Venezia 2005, pag. 222. 35 LEON BATTISTA ALBERTI, op. cit., Milano 1833, pag. 304, (libro IX). 36 Giuliano da Sangallo, Pianta di Poggio a Caiano nel Taccuino Senese, penna e acquerello marrone su pergamena, Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati.

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disegni di un progetto effettivamente realizzato dall’architetto, al quale susseguono altre rappresentazioni progettuali, che mostrano come l’operato del Sangallo si consolidi sulla base dell’esperienza per Lorenzo il Magnifico 37, e come questa esperienza si ritrovi ridisegnata, riproposta, riletta da qui in poi. Dall’umanesimo al Rinascimento:la villa nella Roma del Cinquecento Seguendo le sorti di Giuliano da Sangallo dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, il visitatore lascia la capitale del Granducato di Toscana per approdare alla capitale pontificia. Il cardinale Giuliano della Rovere lo nominò infatti suo architetto personale e, una volta asceso al soglio pontifico come Giulio II, lo designò secondo architetto per assicurarsene i pareri, dal momento che l’ambizioso progetto di trasformazione del Vaticano in una moderna residenza era stato affidato a Bramante, il cui linguaggio classico rispondeva pienamente alle ambizioni imperiali del sommo committente. Il compito di materializzare il nuovo contesto culturale e temporale è degnamente affidato a Perin del Vaga che, in uno straordinario affresco, rappresenta il Cortile del Belvedere, teatro di una immaginaria naumachia, fornendone una rara memoria: così doveva apparire la nota fabbrica pontificia intorno agli anni trenta-quaranta del Cinquecento, come l’aveva concepita Bramante, attuando il programma affidatogli da Giulio II, ovvero di realizzare una classica villa imperiale 38. Alla morte del papa della Rovere, come Firenze con la famiglia Medici rivestì un ruolo primario nella rinascita della villa, così a Roma la villa antica ritrova compiutamente le forme desunte dall’architettura del passato, proprio con i Medici, che, con l’elezione al pontificato del primo Medici nel 151339, furono i primi e gli unici capaci di combinare le innovazioni quattrocentesche con le idee classicheggianti di Bramante, e commissionarono per la loro prima residenza suburbana romana il progetto che raggiunse il culmine della tipologia della villa postantica: villa Madama 40. Capostipite della nuova villa, l’edificio realizzato solo parzialmente e progettato da Raffaello per il cardinale Giulio, cugino del nuovo papa Leone X Medici, e futuro Clemente VII, incarna perfettamente la fresca ondata di interesse per l’antichità: gli elementi principali della pianta, la loggia sul giardino, sono frutto infatti degli studi e rilievi diretti, operati da Raffaello sulle antiche domus imperiali, sui complessi termali, su templi e rovine. In quasi settanta anni di evoluzione, la villa raggiunge forse qui il suo massimo splendore, continuando però a mantenere saldi i principi espressi da Alberti. Infatti, “ [Villa Madama, un] complesso circondato dal verde e in posizione sopraelevata – ancor oggi visibile da chiunque arrivi a Roma [...] – era comodamente raggiungibile da Castel Sant’Angelo e dal palazzo del Papa a San Pietro sia a cavallo che in barca [...]. La villa addossata alla collina doveva svilupparsi su tre livelli: un piano basamentale con il cortile di ingresso [...], un piano intermedio che costituiva il livello principale della residenza, con un cortile centrale attorno al quale erano disposti due appartamenti, uno estivo ed uno invernale, e il teatro all’aperto [...]. Ogni appartamento avrebbe dovuto avere [...] una grande loggia: quella invernale affacciata sul Tevere e sul paesaggio, mentre quella estiva aperta a nord verso un giardino pensile che conduceva ad una peschiera”41.

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Molte caratteristiche del progetto Mediceo ritornano nel progetto di un palazzo che Giuliano da Sangallo fece per il Re di Napoli, circa tre anni dopo Poggio a Caiano. In mostra è esposta la pianta a penna e acquerello, il cui originale è custodito presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. 38 The Belvedere as a classical villa è il titolo del saggio di Ackerman del 1951. 39 Giovanni de' Medici, secondo genito di Lorenzo il Magnifico, fu eletto papa come Leone X nel 1513 e rimase al potere pontificio fino alla sua morte nel 1521. 40 Trai disegni esposti in mostra: Villa Medici a Monte Mario, Roma, in un disegno di Antonio da Sangallo il Giovane, 1519-21: planimetria del piano principale della villa e studio dei giardini. Il disegno registra uno stato del progetto non realizzato che differisce in parte anche dal frammento costruito. Il disegno a penna è custodito presso il Gabinetto Disegni e stampe degli Uffizi, Firenze. 41 MADDALENA SCIMENI, Villa Medici-Madama a Monte Mario, in GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS (a cura di), op.cit., Venezia 2005, pag. 239.

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Sintesi e acme di un’evoluzione tipologica, Villa madama rappresenta dunque anche un punto di partenza di una ulteriore evoluzione, grandiosa, quanto varia, per una storia ancora una volta fatta nomi, progetti, committenti architetti. Giulio Romano42, successore, discepolo ed erede spirituale di Raffaello, continua quindi a lavorare sul tema della villa suburbana in numerose commesse, tra cui Palazzo Te a Mantova, qui presentato attraverso disegni di piante ed alzati provenienti dal Museum Kunst Plast di Düsseldorf: la carenza dei disegni architettonici di Giulio Romano (quasi del tutto dispersi, e di palazzo Te ne esiste solo un foglio autografo) amplifica il valore dei documenti grafici, che in questo caso non rappresentano un rilievo dell’edificio costruito da Giulio, ma verosimilmente ne riflettono i disegni originali di progetto.

Figura 4. Palazzo Te a Mantova, prospetto esterno Nord.

Villa suburbana costruita a Mantova da Giulio Romano tra il 1525 e il 1535 per i Gonzaga, marchesi e poi duchi di Mantova, Palazzo Te ripropone alcuni aspetti di villa Madama, come il vestibolo tripartito, l’ala posteriore che si affaccia sulle vaste piscine e il grande cortile, ricco di elementi architettonici articolati e innovativi, secondo la nuova “maniera” che si stava sviluppando. Sono questi i primi e chiari indizi della funzione che realmente assunse questa residenza suburbana. Priva di qualsivoglia funzione padronale, ai margini di una azienda agricola, Palazzo Te assume nella rete delle residenze gonzaghesche disseminate nei possedimenti ducali, il ruolo di palazzo di rappresentanza. Tappa fondamentale e degna, per la ricchezza degli apparati decorativi e l’elegante architettura, del percorso cerimoniale di ingresso alla città, è il primo sigillo che la famiglia governante pone sull’asse viario che accompagna da fuori a dentro la città, unendo in un reale filo conduttore tutti i palazzi del potere voluti dai Gonzaga, in un chiaro progetto ancora oggi leggibile che già nei documenti del XIV appariva come strada regalis. Luogo di accoglienza, dunque, degli ospiti più illustri, a partire dall’imperatore Carlo V, è un luogo riservato al divertimento e allo svago sia di carattere ufficiale, che privato, luogo di otium, legato, proprio per la valenza rappresentativa del palazzo, al negotium politico, ma non solo. Manifesto chiaro di questa funzione privata, legata al topos letterario della vita solitaria, dedicata allo svago, ai piaceri, al riposo e alle arti, si ritrova infatti nel fregio della Sala di Psiche: “FEDERICUS GONZAGA. II. MAR. V. S.R.E. / ET. REI. FLOR. CAPITANEUS GENERALIS / HONESTO. OCIO. POST LABORES AD REPARANDAM / VIRT. QUIETI. CONTRUI MANDAVIT”. Il viaggio dell’esposizione lascia ora i mondi, le culture e i tempi che hanno inventato, riscoperto, innovato e trasformato l’idea di villa, per passare, in un percorso di ascesa, dal piano terreno al piano nobile, che metaforicamente accompagna dalle fondamenta dell’ideologia della villa, al massimo sviluppo e successo di essa, che si ebbe con Palladio, e che, non solo concettualmente, ma anche fisicamente si “appoggia” e cresce sulle spalle dei Varrone, Vitruvio, Plinio, Petrarca, Alberti, Raffaello, noti o meno noti, che hanno generato

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Giulio Pippi detto Giulio Romano nacque Roma nel 1499 e morì a Mantova il 1 novembre 1546. Pittore e architetto, fu discepolo e successore di Raffaello in numerose fabbriche romane, lavorò presso la corte dei Gonzaga a Mantova dove fu autore di alcuni trai capolavori del Rinascimento.

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la cultura della villa, ne hanno inventato una forma, ne hanno promosso l’idea. E da qui inizia un ulteriore e nuovo racconto, che partito nell’antica Roma prosegue in Veneto. Palladio e il mondo della villa: il contesto, l’antico, il progetto e la vita Le proiezioni di immagini e di suoni dei paesaggi attuali del Vento delle ville avvolgono il visitatore nel suo percorso lungo lo scalone, e sono immediatamente messe a confronto con le immagini dei paesaggi del Veneto di ieri. Un mosaico complesso, composto di numerose e variegate tessere, si ricompone nella mente di chi osserva: mappe catastali, rappresentazioni cartografiche, prospettive di paesaggi, dipinti, stampe, disegni, ritratti, si sommano, giustappongono, stratificano per evocare quel paesaggio veneto che costituì il contesto culturale ed economico in cui si sviluppò la villa, e che la villa stessa trasformò, come elemento chiave nella gestione, nel controllo e progressiva organizzazione della campagna. Questo stesso paesaggio è quello che troviamo raffigurato nelle cartografie che descrivono le proprietà delle famiglie, e che restituiscono il modo di rappresentare il territorio nel rinascimento, o nel soave dipinto di Tiziano che, alle spalle del Madonna con bambino, ci apre una visione sul mondo.

Figura 5. Mappa con villa della famiglia Giustinian in Roncade, 1536. Figura 6. Tiziano Vecellio, Madonna con bambino, 1508-1510, Bergamo, Accademia Carrara.

Un mondo che già prima dell’opera di Palladio conosceva la villa, un mondo che nel rinascimento altro non era che la potente Repubblica Veneziana, con una tradizione che, senza soluzione di continuità, ha tramandato la villa dai tempi dell’impero Romano. Infatti lo schema che si ritrova nelle ville venete tardo-quattrocentesche è il medesimo delle modeste ville provinciali di epoca tardo antica. “La loggia centrale tripartita, fiancheggiata da due alti avancorpi”43 scompare poi momentaneamente come struttura compositiva, nel periodo in cui le invasione barbariche resero l’entroterra non sicuro, per riapparire poi rielaborato nel palazzo veneziano, che a sua volta lo ripropose come modello nell’entroterra. Esempio di questo processo di sedimentazione ed evoluzione tipologica e precedente delle ville, che poi verranno liberamente progettate da Palladio, è Villa Porto-Colleoni a Thiene, che costruita probabilmente negli anni quaranta del Quattrocento, è qui accuratamente rappresentata nel disegno ad inchiostro della prima metà del diciannovesimo secolo44 e, nella sua grande pentafora gotica, non può che richiamare i nobili palazzi sul Canal Grande a Venezia. 43 44

JAMES S. ACKERMAN , Palladio (1966), Piccola Biblioteca Einuadi, Torino 2000, pag. 22. Il disegno è conservata presso l’Archivio Porto-Colleoni-Thiene, Thiene.

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Figura 7. Prospetto di Villa Porto-Colleoni a Thiene.

Ma questo momento storico non riguarda solo la capitale della Serenissima, quanto piuttosto l’importanza sempre crescente che assume la terraferma, e con essa la coscienza dei proprietari terrieri, nuova clientela degli architetti del rinascimento, che tenteranno di soddisfare le nuove esigenze pratiche ed estetiche. E proprio Andrea Palladio sarà capace di appagare le aspettative dei suoi committenti con una formula progettuale pienamente idonea, che metteva in armonia la magnificenza e l’eleganza della antiche ville romane e la funzionalità agricola della villa veneta tradizionale45. Il percorso espositivo ha il suo fulcro fisico e concettuale nelle sale dedicate a Palladio. Ci si appresta a conoscere l’architetto vicentino iniziando dalla sua formazione, a cui si è introdotti dal fresco disegno di Maso Finiguerra che ritrae un giovane seduto intento a disegnare sul suo taccuino e accompagnato da una didascalia che dice “Vo essere uno buono disegnatore e diventare uno buono architettore”46. E certo Palladio era ben cosciente di questo motto, come si evince dai numerosi disegni esposti relativi al rilievo diretto di edifici antichi. Come un letterato si dedicava alla lettura ed allo studio delle opere classiche, così Palladio si dedicò allo studio, al rilevo e ridisegno delle antichità romane. Scrisse nel proemio de I quattro libri dell’Architettura “mi misi alla investigazione delle reliquie degli antichi edifici, le quali malgrado del tempo e della crudeltà de’ barbari ne sono rimase: e ritrovandole di molto maggiore osservazione degne ch’io non mi aveva prima pensato, cominciai a misurare minutissimamente con somma diligenza ciascuna parte loro.”47. Accanto a tali attenti disegni dei viaggi romani di Palladio troviamo numerosi plastici lignei e disegni delle ville progettate dall’architetto, e dunque cogliere elementi desunti dalle antichità, rielaborati e riproposti nella nuova villa veneta, risulta così immediato.

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JAMES S. ACKERMAN , La villa. Forma e Ideologia (1990), Einuadi, Torino 1992, pag 131. Disegno del 1455 circa, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. 47 ANDREA PALLADIO , I quattro libri dell’Architettura (1570), Pordenone 1992, pag. 7, (libro I). 46

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Figura 8. Andrea Palladio, rilievo del complesso del Tempio di Ercole Vincitore a Tivoli. Figura 9. Andrea Palladio, villa Saraceno, 1543.

Facile confrontare la composizione planimetrica rappresentata accuratamente in scala del complesso di Ercole Vincitore a Tivoli48, di cui in realtà Palladio equivocò la funzione, con il progetto di Villa Saraceno (1543), o rintracciare in numerose opere il dettaglio dell’arco laterale del Portico di Ottavia49. Molti i modelli che ben presentano i progetti palladiani, accanto ad altrettanti disegni autografi dell’architetto, che propongono un excursus delle sue numerose e varie soluzioni di villa, che ben presto il visitatore sarà chiamato a contemplare direttamente. Si prosegua quindi in questa sezione della mostra che evidenzia anche come la villa andasse molto oltre la casa padronale. Fanno parte del sistema villa altri numerosi edifici per la pratica delle attività agricole, barchesse, stalle, colombare, tettoie, alla cui composizione e disposizione Palladio dedicò molto spazio nella sua opera di studioso e di architetto, sia per evitare impedimenti reciproci tra gli usi delle diverse parti, sia per ricercare una armonica forma architettonica di ogni porzione. Ma non di soli edifici è fatta la villa, immersa in un vero e proprio mondo composito e complesso: dal cantiere, alla vita della villa, dai committenti agli operai e lavoratori, dagli animali ai campi, prodotti e costumi, tutto si intreccia, tra una storia di edifici e quella di una cultura, fatta di uomini e usanze. Numerosi sono le testimonianze della vita in villa, che riguardano non solo il punto di vista del progettista, ma anche quello dei committenti, dei signori, dei contadini: sono esposti dipinti, incisioni, mattoni, disegni, testi e particolarissimi ex-voto, che mettono in luce, sinteticamente, ma molto efficacemente, gioie e dolori, pericoli e vantaggi della vita di campagna. All’uscita da queste stanze della mostra risulterà davvero chiaro come Palladio inventò la villa moderna, in un originale percorso di rielaborazione personale di idee ed elementi, che scompose e ricompose in modo vario, proponendo un nuovo tipo di residenza di campagna, nettamente diverso da quello di città, proprio nel momento in cui le campagne diventavano più sicure e l’agricoltura era una promettente e attraente fonte economica. Questi aspetti coniugati all’accordo ponderato tra esigenze formali, funzionali ed estetiche furono il successo dei meravigliosi centri di attività e di residenza che creò l’architetto vicentino.

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Andrea Palladio, Rilievo del complesso del tempio di Ercole Vincitore a Tivoli, 1545-1547, London, RIBA Library Drawings Collection. 49 Andrea Palladio, Pianta e alzato prospettico del Portico di Ottavia, Vicenza, Musei Civici, Gabinatto dei Disegni e delle Stampe.

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Figura 10. Scena di vita in villa. Francesco Beccaruzzi (attr.), Nobil uomo davanti alla sua villa, 1535 circa, Scozia, Collection of Hopetoun House.

Oltre Palladio: fortuna della villa L’architettura delle ville di Palladio esercitò una profonda influenza sugli architetti nei secoli successivi, fortuna che ancora oggi è incessata, dal punto di vista dell’idea di villa. La parte conclusiva del percorso espositivo si sofferma in modo meno generoso e più anonimo sul periodo che va dal Settecento al Novecento. Il palladianesimo in Inghilterra, il consolidarsi della tipologia della villa, e infine il cambiamento radicale del diciannovesimo secolo, che Ackerman definisce “democratizzazione della villa”, e la successiva perdita del senso di origine degli elementi della villa nel secolo breve, sono presentati attraverso il tema del giardino, da quello all’italiana al tema del pittoresco, e attraverso visioni della villa e della sua evoluzione nell’arte e nella letteratura, dagli eccessi barocchi alle riproposizioni di modelli. Si giunge ad un ventesimo secolo in cui quasi mai il termine villa indica una residenza suburbana, e si perdono alcuni dei principi originali. Eccezione sia fatta per Carlo Scarpa, che rivisita invece i tradizionali temi della villa con sensibilità e rispetto, come si apprende più dalla storia dell’architettura e dallo studio del maestro veneziano, che dalle opere presentate in mostra, che espone simbolicamente non più di un paio di disegni, nonostante Scarpa avrebbe dovuto essere “l’altro” architetto protagonista dell’esposizione. Certo, con la stessa lucida consapevolezza e appartenenza al proprio tempo e contesto, Scarpa si accostò ai suoi modelli di architettura di villa, in particolare Frank Lloyd Wright, come Palladio si era avvicinato alle ville antiche, e come l’architetto vicentino “adattò le dimensioni delgi spazi all’antica e del primo cinquecento alle mutate condizioni della committenza veneta, così Scarpa adattò i suoi modelli americani, senza abbandonare l’ambizione di realizzare opere di grande effetto.”50 Tuttavia se il messaggio di Palladio si può definire universalmente colto e accolto, il percorso di Scarpa appare più complesso e meno lineare, volto a ricercare individualismo e unicità nelle architetture, che rendono la sua opere più ermetica. Il viaggio nel tempo volge dunque al termine, con l’ambizione di avere lucidamente accompagnato il visitatore lungo una storia di cose, persone ed idee lunga secoli, che ha

50

VITALE ZANCHETTIN , Architettura misurata nel paesaggio: la villa per Carlo Scarpa, in GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS (a cura di), op.cit., Venezia 2005, pag. 141.

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l’obiettivo di ricostruire, in una trama fitta di intrecci, la complessa identità della villa, identità di una cultura universale, di un’idea e identità per il paesaggio veneto.

VIAGGIO TRA LE VILLE: IL PAESAGGIO OGGI Da palazzo Barbaran da Porto, nel cuore di Vicenza, il viaggio prosegue con una azione centrifuga dalla città alla campagna, con un itinerario che si è proposto di toccare, in tre giorni51, alcuni dei siti più significativi dell’itinerario della mostra. Dal viaggio nel tempo al viaggio nello spazio si approda nel paesaggio della campagna veneta, per imparare a conoscere concretamente, dal vero, quelle stesse ville di cui si è appresa la storia, osservati i progetti nella mostra intra moenia. Si abbandoni dunque ora il filo del tempo, guida fidata e lucida lungo i secoli del percorso espositivo, per affidarsi allo spirito del viaggio, che libero accompagnerà il visitatore, di tappa in tappa, solo seguendo la strada, che addentrandosi nei paesaggi veneti, condurrà di volta in volta ad incontri significativi, che si succederanno secondo una logica di prossimità ed economia dei percorsi, senza alcuna pretesa di rigore cronologico, o ordine classificatorio dei manufatti, né tanto meno con l’obiettivo di una esauriente trattazione ed elencazione delle architetture palladiane. Si tratta semplicemente di un viaggio, un tour di conoscenza delle ville, palladiane e non, nel paesaggio veneto, e come tale si prediliranno in questa trattazione gli strumenti del viaggiatore: disegni, piuttosto che fredde e patinate immagine di libri, che riprendono le ville sempre dai medesimi punti di vista, e fonti dirette a partire dalle parole del Palladio. Il punto di partenza è Vicenza. Appena ai margini della città incontriamo La Rotonda. Emblematicamente prima tappa del viaggio, villa Almerico Capra (1566), è l’opera più conosciuta di Palladio e icona universale delle ville palladiane, sebbene paradossalmente lo stesso Palladio la presenti nei Quattro Libri tra i palazzi urbani, e non tra le ville “per la vicinanza che’ella ha con la città, onde si può dire che sia nella città stessa” 52.

Figura 11. Andrea Palladio, Villa Almerico Capra della “La Rotonda”, Vicenza. Figura 12.Villa Valmarana ai Nani, Vicenza.

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Il biglietto dà accesso alla mostra e alle quattordici ville dell’itinerario in arco temporale prescelto, che varia tra un giorno, tre giorni, sette giorni. Questa strategia sottolinea ancora una volta come la visita di questa mostra possa essere un viaggio, e non una semplice visita turistica, e come gli eventi culturali - artistici possano diventare occasione di sviluppo economico per tutto il territorio. 52 ANDREA PALLADIO , op. cit., Pordenone 1992, pag. 116, (libro III).

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Perfetta nella sua simmetria, si impone fiera in cima al percorso “di ascesa facilissima” 53 che le dà accesso, dominando il territorio circostante che, scrive l’architetto, si presenta da ogni parte in bellissime viste, cosicché le logge sono state poste su ogni facciata. Si evince chiaramente dalle parole del Palladio come il progetto integri fortemente, fin dalla concezione iniziale, architettura e paesaggio, ed è il paesaggio che diventa protagonista e pilota del progetto stesso, a tal punto da essere realmente l’unico motivo per il quale Palladio ha “fabricato secondo [questa] invenzione”54, e oggi i contemporanei possono ammirare questa opera simbolica e forse, proprio per la sua perfetta simmetria e geometria, misteriosa e variamente interpretata. Ancora il paesaggio, come legame di vicinanza e garante di rapporti, tra due architetture eccellenti, è protagonista della successiva tappa che conduce, nei pressi de La Rotonda, alla seicentesca villa Valmarana ai Nani (1669-1720), degno esempio del patrimonio di ville, di eredità palladiana, che costellano il Veneto. Complesso architettonico composto da tre edifici circondati da un grande parco d’epoca, meraviglia esibendo lo splendore degli affreschi di Gianbattista e Giandomenico Tiepolo. I diciassette nani di pietra, che postillano il nome della villa, presidiando la proprietà dall’alto del muro di cinta, danno commiato al visitatore che prosegue il viaggio, lasciando la città di Vicenza. Il paesaggio, ospite generoso e accogliente di testimonianze e interventi di ogni epoca, consente al viaggiatore di fare un salto temporale di secoli, giungendo a San Vito Di Altivole, presso Treviso. Qui si ha il privilegio di immergersi nella generosa quiete del complesso funerario della famiglia Brion progettato da Carlo Scarpa (1969-1978) come un grande villa imperiale, composta armonicamente di diverse parti, luogo ideale di riflessione sulla la vita e sulla morte e, dal suo interno, in diretto contatto con il panorama delle colline asolane, così come le ville erano intimante rapportate al paesaggio circostante.

Figura 13. Carlo Scarpa, Tomba Brion, San Vito di Altivole (TV).

Alla tappa successiva ritorna protagonista Andrea Palladio con una della sue realizzazioni più maestose e complete dal punto di vista del complesso della villa. Villa Emo a Fanzolo (1558) presenta chiaramente una nuova tipologia dove le necessità pratiche della vita agricola sono tradotte in forme inedite e in un linguaggio nuovo ispirato alla vita antica: gli edifici funzionali alla vita agricola e la casa padronale raggiungono in questo progetto una sintesi architettonica unica, che riunisce in un’unità lineare casa, barchesse, colombare, che si adagiano come sdraiandosi nel grande parco. 53 54

Ibidem. Ibidem.

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Figura 14. Andrea Palladio, villa Emo, Fanzolo (TV). Figura 15. Andrea Palladio, villa Godi, Lonedo di Lugo di Vicenza (VI).

A Lonedo, l’una accanto all’altra a dominare uno spettacolare panorama fluviale, oggi in realtà piuttosto alterato dalla diffusione dello sprowl urbano55, le palladiane villa Godi (1537) e villa Piovene (1539) 56, richiamano chiaramente i dettami dei Quattro libri, circa il divieto di “fabbricare nelle valle chiuse fra i monti”57. Una tappa pre-palladiana ci attende a Thiene con Villa Porto-Colleoni, per poi ritornare nei pressi di Vicenza a Caldogno, dove la villa progettata da Palladio 1542, dopo il primo viaggio romano, ospita oggi funzioni pubbliche di uso collettivo, dopo un restauro filologico della villa con il giardino e la peschiera. Palazzo Chiericati e il Teatro Olimpico, ultime due tappe urbane prima di lasciare la città di Vicenza, esulano dal tema della villa e di questo scritto, che prosegue quindi verso Montecchio Maggiore, dove a villa Cordellina (1760) la rilettura del Palladio da parte dell’architetto Giorgio Massari si fonde con lo straordinario ciclo decorativo degli affreschi di Giandomenico Tiepolo, il più significativo del veneto.

Figura 16. Giorgio Massari, villa Cordellina, Montecchio Maggiore, (VI). Figura 17. Andrea Palladio, villa Poiana, Poiana Maggiore, (VI).

Del “cortile et altri luoghi per le cose di villa, dell’altro un giardino che corrisponde a detto cortile e nella parte di dietro il bruolo e una peschiera”, arrivando a villa Poiana (1546) oggi 55

RICHARD INGERSOLL, Sprawltown, Meltemi, Roma 2004. Il coinvolgimento di Andrea Palladio nella realizzazione di villa Piovene è incerto. 57 ANDREA PALLADIO , op. cit., Pordenone 1992, pag. 146, (libro II). 56

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non vi si trova che la villa e una sola lunga barchessa con capitelli dorici. Quasi un’icona moderna per l’astrazione delle forme e la rinuncia ad ogni decorazione scolpita, la villa è caratterizzata da volume e forme pure, in contrasto con il tripudio di affreschi e grottesche delle decorazioni delle stanze. L’itinerario prosegue verso i confini meridionali della Serenissima, verso le basse terre del Polesine per giungere a Villa Badoer (1554). Quasi come in una acropoli, una seria di terrazze raccordate da scalinate accompagnano all’interno della villa che dall’alto domina il cortile anteriore armoniosamente abbracciato da eleganti barchesse curvilinee. In questo accogliente e proporzionato abbraccio ha termine questo viaggio di scoperta che tra il passato e il presente, senza smarrimenti ha seguito e inseguito un’idea una cultura che ha creato il paesaggio stesso che l’accoglie: il paesaggio delle ville venete.

Figura 18. Andrea Palladio, villa Badoer, Fratta Polesine (RO).

CONCLUSIONI Ed è proprio il legame con il paesaggio, e il ruolo sempre maggiore che ha conquistato nella creazione dei progetti che emerge alla fine di questa trattazione, che ha avuto l’obiettivo di restituire e approfondire il percorso di una mostra unica nel suo genere ed estremamente complessa. Dall’antica Roma, alla progressiva apertura della ville medicee nel Rinascimento, giungiamo a Palladio che suggella il legame tra villa e paesaggio, poiché è la villa stessa che affonda e propaga in esso le sue radici. Si evidenzia in questo modo la continuità del “mito della campagna” (nella sua oscillazione e ambiguità tra il tema del diletto e quello dell’utile) attraverso i secoli, dall’inizio, in epoca romana, alla maturità dell’architettura del Palladio, e come questo tema sia stato variamente accompagnato dal ruolo e della concezione del paesaggio. Nessuna villa di epoca romana è sopravvissuta al crollo dell’impero, ma l’idea di villa dell’antichità classica è giunta fino ad oggi, più duratura e tangibile di qualsiasi architettura, trovando appoggio, secolo dopo secolo, non solo nella letteratura, nella pittura, ma soprattutto nei fecondi e innovativi progetti del Rinascimento, dalle ville medicee, a quelle

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romane, fino a quelle Palladiane, che furono poi di impulso per i successivi “survival” e “revival”58dall’Inghilterra del Settecento al movimento moderno, per arrivare a Carlo Scarpa.

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RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 207, cat.17c. Figura 2: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 220, cat.26a. Figura 3: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 223, cat.27a. Figura 4: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 247, cat.34b. Figura 5: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 266, cat.44a. Figura 6: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 381, cat.127. Figura 7: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 259, cat.42a. 58

e la Villa Veneta. Da e la Villa Veneta. Da e la Villa Veneta. Da e la Villa Veneta. Da e la Villa Veneta. Da e la Villa Veneta. Da e la Villa Veneta. Da

JAMES S. ACKERMAN , op. cit., Torino 1992, pag. 28.

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Figura 8: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 309, cat.65. Figura 9: PALLADIO ANDREA, I quattro libri dell’architettura, Edizione Studio Tesi, Pordenone 1992, pag159. Figura 10: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 328, cat.77. Figura 11: disegno di Giulia Tettamanzi, taccuino di viaggio n. 5, 2005, pag. 27. Figura 12: www.villavalmarana.com. Figura 13: foto di Giulia Tettamanzi. Figura 14: disegno di Giulia Tettamanzi, taccuino di viaggio n. 5, 2005, pagg. 48,49. Figura 15: disegno di Giulia Tettamanzi, taccuino di viaggio n. 5, 2005, pag. 51. Figura 16: disegno di Giulia Tettamanzi, taccuino di viaggio n. 5, 2005, pag. 58. Figura 17: disegno di Giulia Tettamanzi, taccuino di viaggio n. 5, 2005, pag. 61. Figura 18: disegno di Giulia Tettamanzi, taccuino di viaggio n. 5, 2005, pag. 65.

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di Novembre 2007. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 – numero 8 – luglio - dicembre 2007 – a cura di Anna Lambertini sezione: Itinerari pagg. 136 - 153

I SIGNORI MERCATELLI. UNA FAMIGLIA ITALIANA D’EPOCA .

DI VIVAISTI E GIARDINIERI IN DOCUMENTI

Franca Vittoria Bessi *

Summary Through the years, the works of the “gardeners” are hardly recognizable in a garden; just few traces remain from their experiments and choices, though reasonable and seldom occasional. Thus, whenever they collaborated to the maintenance of important plant collections or they founded a solid enterprise thanks to their experience, we can find publications and catalogues about their activities that illustrates the gardening trends typical of a certain age. This paper briefly illustrates the work of some members of Italian horticultural families, such as the Mercatellis, and presents two list of the beginning of the 20th century, the former about roses and the latter about palms. Key-words Mercatelli, Horticulture, Palms, Plant collections, Roses. Abstract Gli interventi dei “giardinieri” non sono generalmente percepibili nell’opera giardino a distanza di anni; dei loro esperimenti e scelte, per quanto motivati e raramente occasionali, non rimangono che pochissime tracce. Tuttavia, quando questi hanno collaborato al mantenimento di importanti collezioni botaniche o forti delle proprie competenze hanno fondato una solida impresa commerciale, sulla loro attività si ritrovano pubblicazioni o cataloghi tali da illustrare i gusti e le scelte in fatto di verde di un’epoca. Questo articolo illustra brevemente l’opera di alcuni appartenenti ad una famiglia di orticoltori italiani, quella dei Mercatelli e presenta due elenchi dell’inizio del Novecento e a loro correlati, uno di rose e l’altro di palme. Parole chiave Mercatelli, collezioni botaniche, orticoltura, palme, rose.

* Biologo

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Figura 1: Da sinistra a destra, Tito Mercatelli, il principe Gioacchino Ruffo di Sant’Antimo e il prof. Giorgio Roster.

Gli interventi dei ‘giardinieri’ non sono generalmente percepibili nell’opera-giardino a distanza di anni; dei loro esperimenti e scelte per quanto motivati e raramente occasionali, non rimangono che pochissime tracce 1. Lo studioso può ritrovare in documenti d’archivio, in schizzi ed elenchi, indicazioni sulle entità che in un luogo furono utilizzate ma non sempre come queste siano state veramente disposte e con quali rapporti di valore cromatico. Anche se si può risalire alla presenza di un arredo, difficilmente se ne può stabilire l’esatta composizione e distribuzione, a meno che non ne abbia dato notizia un esperto del settore come Emanuele Orazio Fenzi. Fenzi, nel 1876, riportò per il Bullettino della R. Società Toscana di Orticultura la seguente nota2: “Troviamo nella Flore des Serres la descrizione di una paniera da inverno situata all’ingresso dello Stabilimento Van-Houtte a Gand e composta interamente di forme nane e variegate di Conifere. Al centro Chamaecyparis plumosa aurea, quindi un giro di Pinus strobus umbraculifera, un secondo nastro di Chamaecyparis Boursieri lutea. Il terzo giro è composto di Chamaecyparis andelyensis alternato con Chamaecyparis Boursieri lutea, i 3 ultimi giri sono fatti di Chamaecyparis sphaeroidea andelyensis, e tutto è guarnito di un contorno di Pyrethrum Golden Feather”3. Sono le informazioni di questo tipo, reperibili anche nelle documentazioni e nelle pubblicazioni delle società di orticultura, quelle più utili a ricostruire il substrato tecnico-culturale delle competenze degli operatori del settore. Dall’excursus del materiale ottocentesco si può notare che i cataloghi divennero, col passar del tempo, sempre più accurati nell’aspetto e nella forma tanto che la loro pubblicazione 1

Una puntuale descrizione di impianti, colori e tecniche di coltura sono rintracciabili nell’opera completa di Gertrude Gekyll e questo rende i suoi testi essenziali per la comprensione di quanto possa modificarsi un giardino anche da una stagione ad un’altra e quanto sia oneroso il suo mantenimento. 2 EMANUELE ORAZIO FENZI, Cose di stagione, BRSTO, Anno I, A spese della Società, Firenze, 1876, pag. 31. 3 In ordine e in base alle norme nomenclaturali, attualmente questi taxa vengono più correttamente nominati: Chamaecyparis pisifera (S. & Z.) Endl. ‘Plumosa Aurea’, introdotta nel 1861 dal Giappone da Robert Fortune; Pinus strobus L. ‘Umbraculifera’; Chamaecyparis lawsoniana Parl. ‘Lutea’, scoperta nel vivaio G. & W Rollison a Tooting (London; GB) verso il 1870; Chamaecyparis thyoides (L.) B.S.P. ‘Andelyensis’, scoperta nei vivai Cauchois a Andelys (Eure; F) nel 1850; Chamaecyparis sphaeroidea andelyensis è sinonimo di Chamaecyparis andelyensis.

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divenne un’operazione oltre che promozionale anche culturale. Appare inoltre evidente che nell’Ottocento fu vivissima l’attenzione sia per le nuove piante introdotte dall’estero sia per le nuove cultivar ottenute per ibridazione; un interesse che pervaderà la società italiana anche all’inizio del Novecento. Le società di orticultura e i botanofili con la loro stampa specializzata si premurarono di dare notizie sui viaggi dei naturalisti, sulle loro scoperte, sulle introduzioni, sulle collezioni dei privati, sui premi, sulle attività dei circoli mentre i proprietari di parchi e di collezioni botaniche davano alle stampe i propri cataloghi o le loro riflessioni. I più facoltosi si affidarono non solo a progettisti, e ad esperti realizzatori di manufatti ma anche ad un “giardiniere” che condividesse con loro scopi e passioni4 e per distinguersi ulteriormente dagli altri puntarono anche sull’esclusività delle loro collezioni5. La classe abbiente fece dei propri giardini non solo l’icona di una solida ricchezza, ma li organizzò quali luoghi di una sociabilità esclusiva ed elettiva nonostante eventuali aperture ad un pubblico più o meno ristretto 6. Un pubblico a sua volta interessato ad arricchire i propri spazi verdi con novità e che si rivolgeva in modo sempre più organico al vivaismo. Un settore commerciale relativamente nuovo la cui storia si intersecò a quella delle famiglie che se ne occuparono7: un nome per tutti, i Vilmorin, i grandi vivaisti-introduttori che hanno regalato alla cultura europea l’arboreto di Barres8. Spesso le competenze acquisite nella cura di grandi giardini furono lo zoccolo su cui poggiare una solida impresa come nel caso dei Descement9 o degli stessi Mercatelli. I Mercatelli si affermano nell’Ottocento a Firenze 10 in un periodo fortemente significativo per la floricoltura e orticoltura italiana11. 4

Fu cura di numerosi proprietari far stampare i cataloghi delle piante coltivate nei propri parchi e giardini. Possiamo citare per esempio, la collezione di azalee del marchese Cosimo Ridolfi o quella di rose in vaso del principe Rospigliosi. 6 Apertura dei giardini in caso di mostre e/o esposizioni. Nel 1877 D’Ancona, scrivendo sulla collezione di rose che il barone Bettino Ricasoli aveva nella sua “villa suburbana, al Pellegrino [a Firenze, presso il Giardino Sperimentale della R. Società Toscana di Orticultura] disposta con un ordinamento che denota ben manifestamente l’amore e la scienza di chi fu preposto a formarla”, accenna al fatto che il barone negli anni precedenti apriva il giardino, facendo pagare una “tenue tassa, percetta a benefizio di qualche istituto di beneficenza della nostra città.” C. D’ANCONA, Le Rose, BRSTO, Anno II, A spese della Società, Firenze, 1877, pag. 150. 7 La Toscana vanta solide tradizioni per quanto riguarda l’orticoltura, la viticoltura, la selvicoltura e il vivaismo. Alla fortuna di questo settore hanno contribuito e contribuiscono, ancora oggi, imprese familiari nel loro alternarsi generazionale, come a Pistoia, dove alcune aziende storiche sono tutto oggi rinomate o per la loro attività di ibridatori o perché attente al miglioramento genetico. 8 Barres si trova in Francia, vicino a Montargis (Loiret). La proprietà delle terre di Barres (283 ha) fu acquistata da Philippe André de Vilmorin, considerato da alcuni uno dei precursori del miglioramento forestale, che si interessò soprattutto al genere Pinus e alle querce americane, costituendo un arboreto di 67 ha. Alla sua morte, nel 1862, gli eredi cedettero allo stato l’Arboreto e l’amministrazione forestale incrementò la collezione dendrologica. Maurice de Vilmorin, erede della parte est della proprietà, nel 1894 impiantò un “fruticetum” che accolse piante esotiche. Il “fruticetum” tuttora ricco di piante ‘tipo’, venne donato allo stato nel 1921. Lo stato francese, che a Barres aveva fondato una scuola di selvicultura e un vivaio, in seguito acquistò dai Vilmorin quanto di quella proprietà in fabbricati, compreso il castello, e in terre era loro rimasto. 9 Si hanno notizie dell’opera dei Descement a Parigi a partire dalla metà del XVII secolo. Nel 1741, Pierre Descement curò un ‘Catalogue des Plantes du jardin de Mrs Apothicaires’. Jacques Descement, succeduto al padre Pierre come “Jardinier des Apothicaires”, iniziò nel 1768 un proprio commercio in rue de Charbonniers e nel suo catologo del 1773 presentava già venti tipi di rose diverse (e non solo rose botaniche). Il più rinomato giardiniere-vivaista dei Descement fu suo figlio Jacques-Louis. Oltre ad ampliare l’attività del padre, partecipò alla vita culturale parigina e venne anche affiliato alla loggia ‘le nove sorelle’ che rappresentava il centro principale dell’attività filosofica francese. Introduttore di piante dal Nord America e ibridatore, arrivò a coltivare per la vendita ben seimila piante di rosa di cui quattromila erano delle R. x centifolia. Sotto l’Ancient Regime, fu nominato da Monsieur, il fratello del Re, ‘Jardinier fleuriste’ e dopo la rivoluzione rimase ancora in auge al servizio della nuova classe al potere. 10 “Si getti pure uno sguardo a Firenze dove l’industria orticola crebbe e si ingrandì negli ultimi anni, dove gli orticultori di professione sono numerosi e se non forniti dei mezzi potenti delle Case del Belgio e d’Inghilterra, pure rappresentano una parte non piccola del lavoro e dell’industria della città”. Atti della Società. Firenze, 26 gennaio, 1876. BRSTO, Anno I, A spese della Società, Firenze,1876, pagg. 15-16. ”Nella produzione delle numerose varietà che arricchiscono le moderne collezioni l’Italia ha mantenuto sempre il primato e Firenze non tiene certamente l’ultimo posto.[...] Ricorderemo soltanto che l’allevamento delle Camelie 5

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Nel settembre del 1855, alla Seconda Esposizione della Società Toscana d’Orticultura, che si tenne nel Giardino del Marchese Ferdinando Panciatichi parteciparono sia Carlo Mercatelli 12 con una collezione di ‘Dianthus Imperialis’ e ‘Aster Sinensis’, sia Venceslao Mercatelli, 13 sia Raffaello Mercatelli 14 . Alla Terza Esposizione parteciparono Raffaello Mercatelli con “Un disegno d’invenzione di un Giardino all’Italiana, lungo braccia 144, e largo braccia 60” ricevendone una menzione onorevole senza ricompensa di denaro e Venceslao Mercatelli che ottenne una Menzione onorevole con Lire trenta per un mazzo da decorazione15. Nel 1857 a Firenze, durante la Quarta Esposizione nel giardino del conte Ugolino della Gherardesca Raffaello Mercatelli, decoratore della ditta Averardo Margheri e C., ottenne “una medaglia di terza classe con aggiunta di L. 50” per un “disegno di un Pomario sulle dimensioni date dal programma”16. Nel 1861 all’Esposizione Italiana a Firenze, Agostino Mercatelli di Pieve a Nievole (PT) espose ‘Mobilia da Giardini’ e Raffaello Mercatelli presentò per il conte Ugolino della Gherardesca di cui era giardiniere, una “Collezione di Gloxinia speciosa fl. erecto in 100 varietà” da lui ottenute da seme17. Venceslao Mercatelli lavorò alla Petraia e a Pratolino18, fu capo giardiniere19 a Boboli dal 1854 fino al 1878 20, un anno prima della sua morte. Il livello della sua competenza fu acclarato dalla menzione ottenuta all’Esposizione di Orticultura tenuta in Firenze nel settembre 1875 per la sezione pomicultura e ortaggi. “Non farà al certo meraviglia se anche in questa mostra di prodotti orticoli il Reale Giardino di Boboli seppe riportare la ben meritata palma con la numerosa e scelta collezione in frutti recisi di n. 40 varietà di Citrus medica, Citrus aurantiacum, e di Citrus limonium, poiché a tutti è ben nota la reputazione che si acquistò questo R. Giardino nella coltivazione degli agrumi per le cure indefesse del giardiniere sig. Vinceslao Mercatelli, al quale pur devesi un tributo di lode. E questa giusta reputazione venne riconfermata colla medaglia di prima classe che la Commissione conferì a quel R. giardino.”21

rappresenta in Italia una delle fonti più lucrose della industria orticola poiché se ne fa attivo commercio di esportazione, forse più di qualunque altro genere di piante, per tutte le parti di Europa non solo ma ancora per la lontana America.” EMANUELE ORAZIO FENZI, Camelie nuove, BRSTO, Anno I, A spese della Società, Firenze, 1876, pagg. 151–153. Famosi ibridatori fiorentini di Camelie furono Cesare Franchetti e Emilio Santarelli. 11 Ne sono testimonianza le numerose esposizioni botaniche che furono organizzate in Italia, anche se la partecipazione degli italiani a quelle estere e l’importazione furono rese difficoltose, per l’introduzione della “…legge 30 maggio 1875 che autorizzava il Ministro di agricoltura industria e commercio a prendere tutti quei provvedimenti che avrebbe giudicati opportuni per preservare il territorio del Regno dall’invasione della Phylloxera vastatrix” Atti della Società, op. cit., Firenze,1876, pag. 12. 12 Carlo Mercatelli era il giardiniere del March. Gino Capponi. Società Toscana d’Orticultura, Catalogo degli oggetti presentati alla Seconda Esposizione fatta a Firenze nel giardino del March. Ferdinando Panciatichi nel settembre 1855, Tipografia Tofani, Firenze, 1855, pag. 16 13 Due mazzi di fiori per decorazione. Ibidem, pag. 17. 14 Presentò 35 vasi di Petunia di seme raccolto nel proprio giardino. 15 Società Toscana d’Orticultura, Catalogo degli oggetti presentati alla Terza Esposizione fatta a Firenze nei cortili annessi alla Chiesa di Cestello nel Marzo 1856. Tipografia Tofani, Firenze, 1856, pagg. 28-29. 16 Catalogo per la Quarta Esposizione della Società Toscana d’Orticultura nel Giardino dell’Illustrissimo Signor Conte Ugolino della Gherardesca, Tipografia Barbèra, Bianchi e C., Firenze, 1857, pag. 28. 17 Estratto dal Catalogo officiale, ESPOSIZIONE ITALIANA, Classe prima, Floricoltura e Orticoltura: fiori, frutta, ortaggi, piante viventi ec., Tipografia Barbera, Firenze, 1861 pag. 6. 18 “Il nuovo bosco riordinato, com’è attualmente , fu finito di piantare da Venceslao Mercatelli, prima che dalla Petraia, fosse traslocato come Capo-Giardiniere in Boboli.” MARIO BENCIVENNI e MASSIMO DE VICO FALLANI, Giardini pubblici a Firenze dall’Ottocento a oggi, Edifir, Firenze, 1998 pagg. 280-281. 19 MARIO BENCIVENNI e MASSIMO DE VICO FALLANI, loc. cit. pag. 30. 20 Venceslao Mercatelli, un anno prima della sua morte (1879), sempre per gli agrumi venne premiato all’Esposizione speciale di frutta ed ortaggi, tenutasi a Firenze all’orto sperimentale della RSTO (R. Società Toscana di Orticultura) Federico Maniero, Elena Marcellari, Giardinieri ed esposizioni botaniche in Italia (18001915), ali&no editrice, Perugia, 2005, pag. 33 e pag.140. 21 M. GRILLI, Pomicultura.Ricordi dell’Esposizione del 1875 in Firenze, BRSTO, Anno I, A spese della Società, Firenze,1876, pag. 25.

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Alla Conferenza Orticola del 19 Marzo1876, il socio Venceslao Mercatelli “…per mezzo di suo figlio Tito presenta una paniera di varietà di Viola tricolor ottenute di seme.[…] Il medesimo socio Mercatelli presenta inoltre alcune varietà di Giacinti o Granbrettagne scempi e doppi ottenuti di seme dalle varietà scempie più comuni [...][fiorite] dopo sei anni […]. Il Presidente fa notare la [loro] non comune bellezza [...][per cui] l’esempio del socio V. Mercatelli è veramente degno di lode ”22 Dei suoi figli, Tito gli subentrò nella funzione presso il giardino di Palazzo Pitti, mentre Raffaello si affermò come vivaista e ibridatore. Tito Mercatelli, figlio di Venceslao, fu socio della R. Toscana di Orticultura, lavorò a Boboli e ne divenne Capo Giardiniere dal 1894 al 1911. Qui la sua attività fu connotata anche dall’interesse per le piante esotiche: furono infatti oggetto di lode le sue bellissime varietà di Crisantemi giapponesi ottenute da seme23 mentre gli venne criticata l’introduzione di palme24.

Figura 2: ‘Giuseppina Mercatelli’, cultivar di Camellia ottenuta da Raffaello Mercatelli.

RAFFAELLO MERCATELLI Raffaello Mercatelli è l’esponente ottocentesco più noto della famiglia; da giardiniere del conte Ugolino della Gherardesca 25 divenne un importante floricoltore. Nel 1870 fondò, 22

Conferenza orticola del 19 Marzo 1876, BRSTO, Anno I, A spese della Società, Firenze,1876, pag. 100. “Il socio Tito Mercatelli riceve poi la lode dei soci presenti per le bellissime varietà di Crisantemi giapponesi ottenute dal seme nel R. Giardino di Boboli”. Conferenza orticola del 21 novembre 1875, BRSTO, Anno I, A spese della Società, Firenze, 1876, pag. 8. 24 “Altra inopportuna inserzione di palme fu quella del 1905 con due Cocos australis piantate nei prati dell’Anfiteatro al centro di due aiuole recinte da ringhiera in ferro quando era Capo Giardiniere Tito Mercatelli, e tolte dalla Direzione del Giardino ai tempi del Pucci” Mario Bencivenni e Massimo de Vico Fallani, op. cit., pag. 273. 25 Nel maggio 1865 la Società d’Orticultura conferì “Al Sig. Raffaello Mercatelli, Giardiniere dell’Ill. Sig. Conte Ugolino della Gherardesca, L. 60 per la buona cultura delle Azalea indica” e fu anche premiato con L .130 per “il gruppo decorativo di piante diverse”. R. SOCIETÀ TOSCANA D’ORTICULTURA, Catalogo dei prodotti ed oggetti 23

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assieme a Ferdinando Bucci 26, la ditta F. Bucci e C27, poi alla morte del socio, ebbe una propria ragione commerciale. Quando morì nel 1903, i suoi figli Carlo (1877-1961) 28 e Mario (1880-1952) continuarono il suo lavoro mantenendo per la ditta il nome sociale dato dal padre. Oltre che imprenditore capace e vivaista apprezzato, Raffaello Mercatelli fu anche un ibridatore29 e partecipò intensamente alla vita culturale fiorentina: fu il ‘socio consigliere R. Mercatelli’30 in riunioni dove non difettavano marchesi, cavalieri, cattedratici e generali 31. Socio benemerito e consigliere della R. Società Toscana di Orticultura 32 , partecipò all’organizzazione 33 della prima Esposizione Internazionale di Orticultura in Italia 34 ; nel esibiti nella Esposizione Generale aperta nello Stabilimento della Società dal dì 12 a tutto il 18 maggio 1865, Tipografia G. Barbera, Firenze, 1865, pagg. 22-23. 26 Ferdinando Bucci, si occupò dei giardini “...del cav. G. Nencini, del cav. Carlo Schmitz a Careggi, della sig. ra Stibert a Montughi, del sig. Leader a Vincigliata” e nel 1866-67 disegnò e sistemò il giardino di Piazza D’Azeglio. EMANUELE ORAZIO FENZI, Necrologia, BRSTO, Anno I, A spese della Società, Firenze,1876, pag. 62. Poi nel 1869 ottiene, assieme a Raffaello Mercatelli, l’appalto per la manutenzione del giardino di Piazza d’Azeglio, appalto che nel 1877 dopo la sua morte (25.2.1876) viene confermato al solo Mercatelli. MARIO BENCIVENNI E MASSIMO DE VICO FALLANI, op. cit., pagg. 215-216. 27 Ditta di importanza nazionale. 28 Il Dr. Mario Torricelli Mercatelli, a cui va un vivo ringraziamento, è la fonte delle notizie inerenti Carlo e Mario Mercatelli, gli eredi di Raffaello. Il cav. Carlo Mercatelli, fu anch’esso consigliere RSTO e presidente dell’AOFI mentre il fratello Mario ricoprì l’incarico di Ispettore per i giardini delle ferrovie dello stato italiano. Carlo Mercatelli, fece parte della giuria all’Esposizione di Crisantemi, Frutta e Ortaggi , che si tenne a Firenze dal 9 al 16 Novembre 1913. In quella occasione un altro Mercatelli, Leopoldo, fu tra i premiati sia per il più bel vaso ornato con soli Crisantemi, sia per la più bella paniera sempre degli stessi fiori. G. BONFIGLIOLI , Esposizione di Crisantemi, Frutta e Ortaggi (9-16 Novembre 1913), BRSTO, Anno XXXVIII n. 11, Vol. XVIII della 3. a Serie, Reale Società toscana di orticultura, Firenze, 1913, pag. 234 e pag. 248. 29 ‘Giuseppina Mercatelli’, indicata da alcuni (Piero Hillebrand e Giambattista Bertolazzi, 2003) come una delle ultime cultivar ottenute a Firenze ed in Italia, fu dedicata alla moglie da Raffaello Mercatelli. Venne presentata nel catalogo del 1882 come una “Nuovissima varietà di camelie per la prima volta messa in commercio” con “Fiore grande regolare perfettamente imbricato a spirale, bianco marmo; petali grandi, rotondi, un poco rovesciati alla periferia, gradatamente più piccoli, più stretti ed acuminati al centro; alcuni in modo quasi uniforme sono traversati da una linea o striscia più o meno larga di carminio vivo. Questa superba varietà ottenuta da seme nelle mie culture, è senza dubbio una delle più belle fin qui conosciute e fu distinta con un certificato di prima classe alle Conferenze orticole della R. Società Toscana d’Orticultura. I fiori sono di un’ammirabile perfezione. La pianta è di forma compatta, di bel fogliame e di abbondante fioritura. E’ perciò sotto ogni rapporto raccomandabile per chi desidera formare una collezione scelta e di pregio non comune”. Stabilimento d’Orticultura di R. Mercatelli, membro del Consiglio dirigente della R. Società Tosc. d’Orticultura e Socio Onor. di quella Orto-Agricola di Piemonte, Catalogo delle Camelie. Prezzi correnti per l’anno 1882, Tipografia di M. Ricci, Firenze, 1881, pag, 22 e pag. 3. 30 Consiglio Dirigente della R. Società Toscana di Orticultura 1876: Parlatore Comm. Prof. Filippo (presidente), Ridolfi March. Niccolò e Nobili Comm. Avv. Niccolò (vicepresidenti), Ridolfi March. Comm. Luigi (tesoriere), Barsi Cav. Avv. Cesare, Corsi-Salviati March. Cav. Bardo, Del-Sarto Cav. Ing. Luigi, Franchetti Cav. Cesare, Grilli Sig. Marcello, Mercatelli Sig. Raffaello, Petrini Cav. Ing. Francesco, Pucci Cav. Attilio, Schmitz Cav. Carlo, Stefanelli Cav. Prof. Pietro, D’Ancona Cav. Prof. Cesare e Fenzi Cav. Emanuele Orazio (segretarii). Deputazione di Soprintendenza del Giardino: Barsi Cav. Avv. C., Corsi-Salviati March. Cav. B., Fenzi Cav. E. O., Grilli Sig. M. Comitato del Bullettino: Parlatore Comm. Prof. F. (presidente), Arcangeli Prof. G., Grilli Sig. M., Sommier Cav. S. e Fenzi Cav. E. O. (segretario). La R. Società Toscana di Orticultura nel 1876, BRSTO, Anno I, A spese della Società, Firenze,1876, pag. 2. 31 Al generale Vincenzo Ricasoli, fratello di Bettino Ricasoli, si devono, tra l’altro, l’istituzione del giardino di acclimatazione della Casa Bianca all’Argentario e delle pubblicazioni sulle introduzioni delle specie arboree in Italia che sono ancora fonte di interesse per il mondo forestale italiano. 32 La R. Società Toscana di Orticultura venne fondata nel 1852; il terreno per i vivai e per il giardino della Società fu acquistato nel 1858 sulle prime pendici del Pellegrino (primo tratto di via Bolognese a Firenze) 33 Raffaello Mercatelli si trovò a collaborare con A. De Candolle, T. Hanbury e E. Burnat, due tra i più famosi sistematici del suo tempo e un grande collezionista. 34 Di questa esposizione ambientata nel nuovo mercato centrale di Firenze ed inaugurata il giorno 11 maggio 1874, ne abbiamo una, a volte salace, descrizione a cura dello scrittore e giornalista Yorick figlio di Yorick (avv. Pietro C. Ferrigni ): “A giudizio degli Espositori forestieri che concorsero alle pubbliche mostre di Londra, di Parigi, di Vienna e di Pietroburgo, è questo il più splendido, il più elegante, e il più grandioso edifizio finora aperto alle Feste dei fiori. Sotto ai vostri piedi sta una specie di colle, elevato una diecina di metri sul livello dell’immenso tepidario, formato di grandi massi di tufo, di spugne, di stalattiti, di breccie incrostate di fossili conchiglie, tutto rivestito di muschi verdeggianti, d’ellere abbarbicate, di pendule clematidi, e protetto dall’ombra

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188035 fece parte del comitato ordinatore del Primo Congresso degli Orticultori Italiani 36 e infine nel 1888 fu tra i promotori della Società Botanica Italiana37. Lo ritroviamo nel 1897 a far parte della commissione ordinatrice dell’Esposizione Italiana di Orticoltura38. In qualità

delle grandi Magnolie, delle Palme, delle Conifere, degli Aranci, i cui frutti dorati splendono all’allegro raggio del sole attraverso il cupo verde delle foglie. Nel cavo seno della collina si aprono gli oscuri recessi, ove tra la ghiaia minuta, sui verdi tappeti d’astrèe e di tubipore, fra le punte degli scogli onusti di coralli e madrepore iridate, sotto le larghe foglie delle gorgoni e delle plumarie galleggianti, sognai di vedere guizzare i pesci, aprir le valve i molluschi, correre i carabi, e nuotare in alto le meduse. Il sogno rimase bugiardo come tutti i sogni che aleggiano intorno al mio capezzale, da’ quali non m’è mai riuscito cavare un ambo pel giuoco del lotto, e adesso in quel torbido pantano che pare un mezzo bicchiere di limonata veduto col microscopio, vagano accidiosamente due Reine solitarie, e un’Anguilla filosofessa sbadiglia meditando sulle triste vicende degli aquarii!.... Dietro le vostre spalle cade mormorando un limpido ruscelletto, che diventerebbe un torrente se le ondine capricciose lasciassero libero il corso alle acque, e s’inabissa ne’ canali sotterranei, donde poscia zampilla e fa come un velo all’ingresso della grotta, e più lungi spiccia fuori impetuoso e si alza verso i cristalli della vòlta per ricadere in goccie, in spruzzi, in minutissime stille entro l’ampia vasca che tiene il mezzo del delizioso giardino.”, per poi continuare elegiaco: “...Ho detto poco in verità, perchè il primo sentimento che invade l’animo innanzi a quelle meraviglie dell’arte e della natura, è un sentimento confuso di stupore e di ammirazione che vi agita, vi commuove, e vostro malgrado vi trasporta colla mente fuor della sfera. Oltre la qual non giunge uman compasso.” YORICK FIGLIO DI YORICK (Ferrigni Pietro), La festa dei fiori: ricordo dell’Esposizione internazionale di orticultura in Firenze. 2. ed., Successori Le Monnier, Firenze, 1874, pagg.3-5. 35 Durante la Prima Esposizione Nazionale della Federazione Orticola Italiana (giugno 1880) ricevette premi: per le piante da stufa, per Pelargoni zonali a fiore scempio, per i Pelargoni zonali a fiore doppio, per le azalee che si presentavano con “quelle superbe corolle,[...] quei colori sì spiccanti, [...]quelle variazioni sì sentite”, per “la sempre bella e ricercata Regina dei fiori” medaglia d’oro alla più bella collezione e medaglia di prima classe per le rose recise, per la collezione di Aucube ed infine per l’insieme delle collezioni la Medaglia d’oro del Comizio Agrario di Roma. RANIERI PINI, Relazione della Commissione Giudicante della Prima Esposizione Nazionale della Federazione Orticola Italiana, letta in occasione della solenne distribuzione dei premi. Il 27 Giugno 1880, BRSTO, Anno V, A spese della Società. Firenze, 1880, pagg. 188, 190, 191, 192, 204. 36 Il congresso viene convocato in occasione della Prima Esposizione Nazionale della Federazione Orticola Italiana (15–24 maggio 1880) dal Consiglio Dirigente la R. Società Toscana d’Orticultura. “La considerazione del crescente sviluppo che ha preso la Orticultura in ogni provincia d’Italia negli ultimi anni, non che quella degli interessi molteplici che sonosi creati per la aumentata produzione e per i progrediti commerci interni ed internazionali dei Fiori, delle Piante, degli Ortaggi e delle Frutta, hanno indotto il Consiglio Dirigente la R. Società Toscana di Orticultura a promuovere un Congresso degli Orticultori Italiani, affine di procurare che si avvicinino, si conoscono, e scambino le proprie idee, persone che comunque sparse in ogni angolo della patria nostra , hanno comuni aspirazioni, affetti e bisogni.” Primo Congresso degli Orticultori Italiani, BRSTO, Anno V, A spese della Società, Firenze, 1880, pag. 50. I temi proposti alla discussione furono: L’Orticultura considerata come fonte di morale e materiale benessere, Società di Orticultura, Scuole per l’insegnamento pratico dell’Orticultura, Nuove varietà di piante da fiore e da frutta, Pomona Italiana, Frutta secche e conservate, Commercio interno ed esterno dei prodotti della Orticultura, Questione della Phylloxera. Il Primo Congresso degli Orticultori Italiani fu tenuto in Firenze nell’aula magna del R. Istituto di Studi Superiori dal 20 al 24 maggio 1880. Primo Congresso degli Orticultori Italiani, loc. cit., pagg. 52-53. 37 Nella prolusione del Presidente E. O. Fenzi della adunanza dei promotori della Società Botanica Italiana per la promulgazione del nuovo statuto si ricollega la nuova istituzione alla precedente Società Botanica: “Nell’anno 1717 nasceva in Firenze, ispiratore principale Pier’Antonio Micheli, quella Società Botanica che visse e fiorì quivi presso, nell’Orto Botanico dei Semplici, fino all’anno 1783, quando s’innestò alla più giovane e gagliarda Accademia dei Georgofili. Nell’anno 1852 in seno di questa benemerita Accademia, e sotto la direzione di Filippo Parlatore, di Cosimo Ridolfi e di Pietro Betti ebbe nascimento la nostra Società di Orticoltura” Tra i promotori i sempre presenti: Emanuele Orazio Fenzi, Giuseppe Gaeta e Vincenzo Ricasoli e i più illustri botanici del tempo tra cui: Giovanni Arcangeli, Augusto Napoleone Berlese, Antonino Borzì, Teodoro Caruel,Giovanni Passerini, Romualdo Pirotta, Pier Andrea Saccardo, Stefano Sommier, Agostino Todaro. Riproduzione anastatica del “Bullettino della Società Botanica Italiana” pagg. 184–186 in FRANCO PEDROTTI (a cura di), 100 anni di ricerche botaniche in Italia, Società Botanica Italiana, Firenze, 1988. 38 Presidente: Ridolfi march. Carlo, deputato al Parlamento, Vice Presidenti: D’Ancona cav. prof. Cesare, Pelli Fabbroni cav. Giovanni, Ridolfi march. Niccolò, Consiglieri: Aiuti Luigi, Barbolani Da Montauto march. Giovanni, Bartolini Giuseppe, Bastianini Giuseppe, Caruel prof. Teodoro, Chiari Giovanni, Ciofi ing. Torquato, Corcos cav. prof. Vittorio, Faldi prof. Arturo, Gaeta cav. avv. Giuseppe, Gioli cav. prof. Francesco, Jannetti Bartolommeo, Mercatelli Raffaello, Modena comm. Alfredo, Pegna cav. Giulio, Ricasoli-Firidolfi bar. Giovanni, Ridolfi march. Gio. Battista, Roster cav. prof. ing. Giacomo, Senno prof. Pietro, Signorini Alfredo, Sodini, prof. Dante, Torrigiani march. Carlo, Trionfi prof. Emanuele, Valvassori prof. Vincenzo. Segretari : Cecconi cav. prof. Eugenio, Coppini avv. Cammillo, Pucci cav. prof. Angiolo. Vice Segretario Grilli Goffredo.

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di vivaista ricevette numerosi encomi e per più concorsi nella stessa esposizione39. Nel 1880 lo ‘stabilimento d’orticultura Raffaello Mercatelli’ aveva la sede in Via della Mattonaia N. 18 e in Viale Principe Eugenio N. 7 , mentre i ‘Giardini per la cultura di Piante da Stufa e da Aranciera’ si trovavano in Via del Mandorlo N. 2 e in Viale Principe Amedeo N.1 e le ‘Piantonaje’ in via Farina a Firenze. Per la ditta erano presentati cataloghi distinti di piante, di semi, di camelie, di azalee 40 e di rose. La sua collezione di rose godeva di grande prestigio 41 e Raffaello Mercatelli era in grado di fornire rose a piè franco42 come in seguito lo furono i suoi eredi. E la sua opinione sull’argomento era la seguente: “Le Rose innestate fioriscono più regolarmente che quelle franche di piede; formano in poco tempo chiome grandi e folte, ma sono però di vita breve. Le Rose franche di piede sono invece di più lunga durata e si conservano verdi più lungo tempo nella stagione estiva; si ha inoltre da queste il prezioso vantaggio di poter rinnovare la pianta mediante i polloni che si sviluppano dalla base del ceppo, i quali si possono sostituire ai rami vecchi di mano in mano che questi, indeboliti, vanno a deperire”43.

LE ROSE DEI MERCATELLI Mercatelli riportava, nel catalogo generale del 1880 che “Lo Stabilimento possiede una numerosa e scelta collezione di Rose forse la più estesa che esista in Italia” 44. Il termine ‘scelta’ è quanto mai appropriato in quanto vi figurano rose che possono soddisfare richieste particolarmente raffinate o non usuali quali, limitandoci alle sole rappresentanti di Rosa

Catalogo ufficiale illustrato della Esposizione Nazionale d’Orticoltura, Firenze, Maggio 1897, Tipografia Di Salvadori Landi, Firenze, 1897, pag. V. 39 Per es., durante l’Esposizione generale Orticola del Maggio 1887 della R. Società Toscana d’Orticultura viene premiato ai concorsi n°28 (Mostra di specie di Palme in sementa), 52 (Collezione di Coleus), 68 (Collezione di Fuchsia), 72 (Collezione di Pelargoni Zonali di fiore scempio), 73 (Collezione di Pelargoni Zonali di fiore doppio) , 105 (Collezione di Rododendri), 107 (Collezione di Azalea indica), 110 (Collezione di Azalea indica in 25 varietà distinte, ec.), 112 (collezione di Rosai in 200 varietà), 114 (Collezione di Rosai ibridi rifiorenti in 60 varità) e per l’incremento dato al Commercio delle piante in Firenze assieme a Ferdinando Scarlatti. Durante la stessa manifestazione faceva parte della commissione giudicante, formata da cinque membri tra cui Giuseppe Gaeta e Marcello Grilli, pei concorsi speciali della R. Accademia economico-agraria dei Georgofili. Elenco dei premiati, Bullettino della R. Società Toscana di Orticultura, giugno 1887, Anno XII. N 6, Vol. II della 2. a Serie. Firenze Tipografia di Mariano Ricci, 1887, pagg. 172, 173, 174, 175, 182, 169. 40 All’Esposizione Orticola di Roma del 1876, Raffaello Mercatelli presentò una collezione di Azalea indica in fiore non minore di 40 varietà, ritenute quella che presentava la coltura migliore e più intensa con esemplari di si bel portamento e di effetto maggiore da meritare una medaglia fuori programma. Angiolo Pucci, Relazione sull’esposizione orticola di Roma, Bullettino della R. Società Toscana di Orticultura, Anno I, A spese della società, Firenze, 1876, pagg. 138-139. 41 “E ce ne lusinga l’aver veduto il gran numero di visitatori che per circa un mese generalmente frequentò lo stabilimento del valente ed operoso orticultore Raffaello Mercatelli, il quale ebbe la buona ispirazione di aprire al pubblico il suo giardino posto in Via della Mattonaia ed i locali annessi in Via S. Gervasio per fare visitare la scelta e numerosa sua collezione di Rose di oltre 1000 varietà ...” CESARE D’ANCONA, Le Rose, loc. cit., pagg. 149-153. 42 L’innesto a fior di terra, al collo delle radice, sarebbe preferito dagli orticoltori perché è un modo più facile e spedito e di minor costo per produrre rose. Difficilmente le rose franche di piede si trovano in vendita e qualche collezionista a volte riproduce autonomamente le cultivar più rare anche per talea. L’innesto a fior di terra è stato attribuito a Jean- Baptiste Guillot fils di Lione che l’avrebbe sperimentato verso la metà dell’Ottocento. 43 Rose, Catalogo speciale, Stabilimento d’Orticultura di Raffaello Mercatelli, Tipografia Carnesecchi, Firenze, 1880, pag. 4. 44 La collezione di rose. “ottenne la grande medaglia d’oro (primo premio d’onore) e tre medaglie d’argento all’Esposizione internazionale d’Orticultura in Firenze nel 1874. Quindi tre medaglie di 1a classe, 3 di 2a e 5 di 3° all’Esposizione speciale di Rose in Firenze nell’anno 1878. Stabilimento d’Orticultura di R. Mercatelli, membro del Consiglio dirigente della R. Società Tosc. d’Orticultura e Socio Onor. di quella Orto-Agricola di Piemonte. Catalogo Generale degli Alberi e Arbusti Fruttiferi e Ornamentali e delle piante da stufa e da Aranciera, Tipografia e Litografia Carnesecchi, Firenze, 1879 pag. 93.

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chinensis45, ‘Cramoisi Supérieur’ o ‘Viridiflora’ etichettata da Raffaello Mercatelli come ‘curiosa mostruosità’46.

Figura 4: Rosa chinensis ‘Viridiflora’, Bambridge & Harrison, 1855.

Nel catalogo del 1880, Raffaello Mercatelli si scontra con i problemi di nomenclatura propri del genere Rosa. Egli li risolve utilizzando una dizione apparentemente comune a cui affianca, quando gli è possibile una terminologia più ‘botanica’ come nel caso di Rose a mazzetti per Rosa multiflora. In questo catalogo ‘La France’, considerata a posteriori il primo ibrido di Tea e per convenzione la prima rosa moderna, è ancora presentata come un ibrido rifiorente47. La stragrande maggioranza delle rose messe in vendita nel catalogo Mercatelli del 1880 furono rose rifiorenti e tra queste il primato spetta alle ’Rose ibride rifiorenti’ con più di seicentocinquanta varietà. Dopo la morte di Raffaello Mercatelli, i suoi eredi continuarono ad offrire un ampio assortimento di piante. Nel Catalogo generale del 1909 sono presentate circa seicento rose. Nella collezione, si può facilmente riscontrare come gli ibridi rifiorenti ne rappresentino ancora la stragrande maggioranza, nonostante che i floricoltori non abbiano “omesso di arricchirla con quelle che all’estero maggiormente ottennero il favore degli appassionati amatori e degli orticultori, e scartando di mano in mano quelle che davano fiori scadenti in confronto alle recenti forme più perfezionate. Nonostante però questo continuo lavoro di selezione, il numero delle varietà pregevoli da noi possedute supera quello di 1500.” Elemento di rottura rispetto al passato e passo significativo verso una visione più pragmatica della suddivisione orticulturale del genere Rosa è l’abbandono di pretese sistematiche per le nuove rose e la sottolineatura delle caratteristiche di arredo, come la dizione di rose rampicanti. ‘La France’ è ancora in catalogo, ma come una delle ‘Rose ibride di thé’. 45

Questo gruppo era all’epoca individuato sotto il titolo di Rose del Bengala a cui Raffello Mercatelli aggiunge, nel suo catalogo, come ulteriore specificazione quella di R. semperflorens, evidenziando così il suo livello di preparazione in campo sistematico. Rose. Catalogo speciale dello stabilimento d’orticultura di Raffaello Mercatelli, loc. cit., pag. 18. 46 ibidem 47 Rose, Catalogo speciale dello stabilimento d’orticultura di Raffaello Mercatelli, loc. cit., pag. 32.

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Rispetto alla lista del 1880, non considerando le ‘novità’ 48 , sono diminuiti gli Ibridi Rifiorenti, sebbene siano ancora i più numerosi (167) a favore delle rose Tea (148) e degli Ibridi di Tea (72) e di seguito ne vengono riportate le liste.

Figura 4: Illustrazione per l’elenco delle collezione di rose, nel catalogo della Ditta Raffaello Mercatelli del 1909.

ELENCO DI ROSE TRATTO DAL CATALOGO DI R. MERCATELLI ORTICULTORE DEL 1909 Le varietà vengono riportate come sono scritte nell’elenco, senza essere poste tra apici, ma a differenza della lista originale il loro nome precede il numero di serie attribuito loro dai Mercatelli. pag.49 ROSE THÉE Albert Stopford 823 Aline Sisley 1110 Alphonse Karr 73 Anna Olivier 763 Antoine Weber 1017 Arthur Chiggiato 824 Auguste Comte 737 Baronne Berge 1033 Baronne Ch. De Gargan 1018 Beauté de l’Europe 894

Beauté Incostante 544 Billard et Barré 827 Bougere 1558 Bridesmaid 1119 Chathérine Mérmet 360 Charles de Legrady 205 Charles Lévêque 395 Christine de Noué 246 Clément Nabonnand 1251 Comtesse Bardi 630 Comtesse de Caraman 1038

Comtesse de Frigneuse 900 Comtesse de Grailly 730 Comtesse de Noghéra 1198 Comtesse Lily Kinsky 1009 Comtesse Riza du Parc 1240 Comtesse Sophy Torby 942 Comtesse Théodore Ouvaroff 1096 Comtesse Vitali 1125 Cornélia Cook 1121 Curiace 666 Duchesse Marie Salviati 283 Duchesse Mathilde 57 Elie Beauvillain 1118 Elisa Fugier 364 Elise Stchegoleff 53 Emilie Charrin 1267 Empress Alexandra of Russia 1062 Erzherzog Franz Ferdinand 480 Etendard de Jeanne d’Arc 850 Étoile de Lyon 1554 Fanny Stolwerck 1083 Fata Morgana 1011 Francis Dubreuil 1019 Francisca Krüger 125

Ingegnoli prediletta 714 Jaune d’or 1080 Jaune Nabonnand 709 Jean Ducher 1109 Jean Pernet 407 Joseph Metral 711 Josephe Tyssier 417 La Caleta 1297 La princesse Vera 1287 Letty Coles 611 Luciole 21 Lucy Carnegie 1088 Madame Azelie Imbert 493 Madame Bonnet des Claustres 1300 Madame Bravy 433 Madame Camille 686 Madame Charles 414 Madame Chedane Guinoisseau 838 Madame de Watterville 1682 Madame Eugène Verdier 848 Madame Falcot 219 Madame Hoste 6 Madame Jacques Charreton 1169 Madame Joseph Schwartz 592

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Gruppo di rose presentate prima delle successive sezioni.

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Furstin Bismarck 993 Furstin von Hohenzollern Infantin 1015 Garden Robison 1208 Générale Schablikine 1323 Georges Farber 108 Georges Schwartz 1104 G. Nabonnand 427 Goubault 1552 Grace Darling 170 Grande-Duchesse heritière Hilda de Bade 1012 Graziella 468 Henri Meynadier 466 Honorable Edith Gifford 41

Madame la Générale Paul de Benoist 1291 Madame Laurent Simons 1294 Madame Lombard 1551 Madame Louis Gravier 798 Madame Louis Ricard 695 Madame Lucien Duranthon 1048 Madame Lucile Coulon 1075 Madame Mina Barbanson 977 Madame Philémon Cochet 941 Madame Philippe Kuntz 12 Madame Pierre Guillot 7 Madame Rose Romarin 659

Madame Scipion Cochet 389 Madame Victor Caillet 512 Madame Wagram, comtesse deTurenne 437 Madame Welche 1603 Madeleine Guillaumez 1063 Mademoiselle Emma Vercellone 923 Mademoiselle Jeanne Philippe 820 Mademoiselle Yvonne Gravier 905 Maman Cochet 472 Maman Cochet, à fleurs blanches 1074 Marguerite de Fénelon 698 Maria Christina, reine d’Espagne 667 Marie Sisley 262 Marquise de Lagarde 1040 Marquise de Querhoënt [HCh] 1269 Marquise Litta de Breteuil 431 Médéa 1099 Miss Agnès C. Sherman 1200 Miss Wenn 1026 Monsieur Aimé Colcombet 617 Monsieur Désir 117 Monsieur Tillier 609 Niphetos 54 Paul Nabonnand 917 Perle de Lyon 762 Perle des Jardins 807 Perle des Jaunes 1171 Princesse de Bassaraba de Brancovan 660 Princesse de Sagan 908 Principessa di Napoli 920 Reine Emma des Pays-Bas 1555 Reine Maria Pia 523 Reine Natalie de Serbie 846 Safrano 704

Safrano a fiore rosso 109 Saxonia 966 Sénateur Loubet 537 Sombreuil 355 Souvenir d’Auguste Legros 1090 Souvenir de Catherine Guillot 663 Souvenir de David d’Angers 736 Souvenir de Madame A. Henneven 513 Souvenir de Madame Eugéne Verdier 508 Souvenir de Madame Léonie Viennot 878 Souvenir de M. William Robinson 1103 Souvenir de Pierre Notting 963 Souvenir de S. A. Prince 403 Souvenir d’Hélène Lambert 605 Sulfureux 788 Sunset 528 The Bride 31 Triomphe de Luxembourg 220 Vicomtesse R. de Savigny 1126 Viviand Morel 840 ROSE IBRIDE DI THÉ Apotheher G. Hôfer 1275 Augustine Guinoisseau 375 Balduin 1029 Béatrix, Comtesse de Buisseret 1047 Beauté Lyonnaise 534 Belle Siebrecht 691 Betty 1225 Cannes la Coquette 559 Charlotte Gillemot 476 Clara Watson 1068 Comte Henri Rignon 950 Countess of Derby 1222

Danmark 984 Dorothy 1218 Edith d’Ombrain 969 Etoile de France 973 France et Russie 1053 Grosserzogin-Alessandra 1828 Grossherzogin Victoria Melitta 1089 Gruss an Teplitz 971 Hofgarten-Director Graebener 881 Johannes Wesselhoft 1266 Joséphine Marot 1122 Jules Girodit 1041 Kaiserin Augusta Victoria 699 Killarney 819 Lady Henri Grosvenor 1123 Lady Marie Fitzwilliam 933 Lady Wenloch 1156 La France 394 La France de 1889 65 La Tosca 958 Liberty 986 L’Innocente 996 Madame Alexandre Bernaix 566 Madame Carle 856

Madame Joseph Combet 448 Madame Jules Finger 1204 Madame Mélanie Soupert 1220 Madame J. P. Soupert 1149 Madame Pernet Ducher 547 Mademoiselle Pauline Bersez 1201 Marie Girard 1028 Mildred Grant 944 Monsieur Joseph Hill 1192 Palmengarten-Direktor Siebert 1056 Papa Gontier 646 Papa Lambert 1092 Pinck Rover 151 Prince de Bulgarie 928 Richmond 1224 Rosomane Alix Hugnier 1046 Rosomane Gravéreaux 1128 Shandon 1043 Souvenir d’Auguste Métral 938 Souvenir de Mad.lle Marie Drivon 884 Souvenir du Président Carnot 507 Souvenir of Vooton 1247 The Puritan 641 Triomphe de Pernet père 410

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Madame Caroline Testout 79 Madame Edmond Laporte 702 Madame Frédéric Daupias 990 Madame G. Bénard 893 Madame Hector Leuilliot 1203 Madame Joseph Bonnaire 599

Veuve Menier 780 Vicomtesse Folkestone 382 Waltham Climber I 459 Waltham Climber II 1292 Waltham Climber III 561 William Francis Bennett 479 pag. 53

ROSE IBRIDE RIFIORENT I Abel Grand 668 Achille Gonod 724 Alfred Colomb 148 Alfred de Rougemont 301 Alfred K. Williams 1642 Annie Wood 954 Antoine Quihou 71 Aquila 1006 Archiduchesse Elisabeth d’Autriche 44 Avocat Duvivier 1260 Baron Elisi de ST Albert 529 Baron Girod de l’Ain 1007 Baron T’Kint de Roodenbeke 991 Baronne Adolphe de Rothschild 383 Beauty of Waltham 912 Benjamin Drouet 889 Benoit Comte 725 Bernard Verlot 1274 Camille Bernardin 624 Capitaine Christy 326 Capitaine Christy rose foncè 887 Catherine Bonnard 1548 Charles Bonnet 505

Charles Lamb 557 Charles Lefebvre 162 Charles Margottin 449 Charlotte Corday 350 Clara Cochet 961 Climbing Bessie Johnson 907 Clio 460 Commandant Fournier 361 Comte de Paris 825 Comtesse Cécile de Chabrilland 165 Comtesse Chahen d’Anvers 1239 Comtesse d’Oxford 767 Comtesse Louise de Kergolay 914 Comtesse René de Mortemart 810 Comtesse Renée de Béarn 743 Coquette Bordelaise 813 Crimson Queen 327 Désiré Fontaine 781 Docteur Andry 1248 Duc de Connaugth 531 Duc de Montpensier 155 Duc de Rohan 916 Duchesse de Cambacérès 20 pag. 54

Duchesse de Vallombrosa 1199 Duchesse d’Ossuna 567 Duchesse of Fife 474 Duke of Fife 546 Duke of Tek 308 Earl of Dufferin 1120 Earl of Pembroche 269 Eclair 482 Edouard Pynaert 1396 Elisa Boëlle 705 Elisabeth Vigneron 342 Ellen Drew 755 Emperor 853 Etienne Levet 806 Eugène Appert 487 Eugène Fürst 290 Eugénie Frémy 1058 Ferdinand Chaffolte 1258 Fisher et Holmes 277 François Coppée 1196 François Levet 66 Frau Karl Druschki 921 Frère Marie-Pierre 136 Gabrielle Tournier 551 Gaston Lévéque 1604 Géant des Batailles 103 Général Desaix 438 Général Jacqueminot 119 Georges Moreau 61 Gloire de Bourg-la-Reine 1435 Gloire de Ducher 652 Gloire Lyonnaise 497 Grand Duc Nicolas 1253 Great Mogul 59

Gustave Piganeau 688 Héliogabale 790 Her Majesty (vedi Sa Majesty) 826 Impératrice Maria Féodorowna 469 James Bougault 675 Jean Liabaud 1157 John Hopper 367 Jubilée 1073 Jules Lemaître 164 Jules Margottin 160 Julius Finger 1441 La Rosière 979 Le Lion des Combats 1107 Léna Turner 446 Léon Say 935 Louis Van Houtte 536 Mabel Morrison 1414 Madame Charles Verdier 776 Madame Charles Wood 248 Madame Daurel 454 Madame Dommage 227 Madame E. Forgeot 601 Madame Elisa Tasson 212 [sic] Madame Gabriel Luizet 212 [sic] Madame Georges Vibert 1256 Madame Louis Donadine 1708 Madame Marcel Fauneau 140 Madame Marie Finger 1067 Madame Moreau 439 Madame Norman-Neruda 340 Madame Prosper Laugier 831 Madame Scipion Cochet 1081 Madame Sophie Stern 872

Mademoiselle Eugênie Ve rdier 604 Mademoiselle Therèse Levet 113 Magna Charta 634 Marchioness of Londonderry 406 Margaret Dickson 126 Marguerite de Roman 1711

Reine des Neiges (Frau Karl Druschki) 921 Reine des Violettes 93 Roger Lambelin 587 Royat Mondain 128 Sa Majesty 826 Sécrétaire Jean Nicolas 1718

pag. 55

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Marie Baumann 578 Marie Hartmann 510 Marquise de Castellane 992 Merveille de Lyon 886 Merveille des Blanches 720 Mistress John Laing 740 M.R.G. Sharman-Crawford 461 Monsieur Emile Lordan 258 Monsieur Hoste 865 Nicolas Bellot 1349 Panachée d’Orléans 48 Paul Neyron 538 Paul’s Early Blush 52 Paul Verdier 787 Pierre Notting 114 Président Joachin Crespo 777 Pride of Reigate 965 Prince Camille de Rohan 131 Princesse de Béarn 490 Princesse Willhelm de Prusse 943 Principessa di Napoli 535 Red Dragon 1527

Silver Queen 1263 Sir Rowland Hill 356 Souvenir de Louis Moreau 700 Souvenir de la Reine D’Angleterre 13 Souvenir de Madame Chédanne Guinosseau 1281 Souvenir de Madame Faure 876 Souvenir de Pierre Oger 1100 Souvenir de Spa 812 Souvenir de Victor Hugo 30 Souvenir de Victor Verdier 913 Souvenir de William Wood 217 Suzanne-Marie Rodocanacchi 1179 Théodore Bullier 1455 Thomas Mills 1246 Triomphe d’Amiens 223 Triomphe des beaux-arts 974 Ulrich Brunner fils 1716 Victor Hugo 332 Victor Verdier 198 Waltam Standard 809 Wick’s Caprice 792 Xavier Olibo 678

Le cultivar riportate in azzurro sono quelle che erano presenti anche nel catalogo del 1880 di cui, quasi sempre, ne mantengono il numero d’ordine. Nel catalogo del 1909, le seguenti cultivar vennero presentate nella sottosezione ‘rose nuove’:49 pag.46 Anna Leygues, T50 Barbarossa, HP Blumenschmidt, T Charles I. Grahame [o ‘Charles J. Graham’], HT Doroty Page Roberts [‘Dorothy Page Roberts], [HT]

pag. 47 Herero–Trotha, T Instituteur Sirdey, HT J.B.Clark, [HP] Lady Ashtown, HT Lyon Rose, [HT] Madame Constant Soupert, T Madame E. Sablayrolles [non rintracciata]. T Mad. L. W. Budde [Mad. J. W.Budde], HT Mad. Philippe Rivoire, HT Mad.lle Louise Leroy [non rintracciata] T Mad.lle Simone Beaumetz [Mademoiselle Simone Beaumez] HT.

pag.48 Marquise de Sinety, HT Mrs Harold Brochlebank [Mrs Harold Brocklebank], HT Queen of Spain, HT [non rintracciata] Rhea Reid, HT Renée Denis, HP [non rintracciata] Rosalind orr English, HT Tausendschön,[HMult] William Shean, HT

Sono rose, riferibili al periodo 1905-1908, prodotte da ibridatori francesi (Paul Nabonnand, Joseph Pernet-Ducher), lussemburghesi (Soupert & Notting ), irlandesi (Dickson Nurseries), statunitensi (E. Gurney Hill Co) e tedeschi (Hermann Kiese, Peter Lambert, Johann Christoph Schmidt e Nicola Welter).

TITO MERCATELLI E LE PALME DI VILLA LUCIA Le collezioni sono state un vanto della produzione di Raffaello Mercatelli, tra queste quella delle Palme che veniva presentata come una specialità dello stabilimento 51. I Mercatelli, nei

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Trascritte come nel testo. Accanto ad ogni cultivar è stata posta la relativa sigla del gruppo di appartenenza, questa è riportata secondo la convenzione adottata dall’American Rose Society. Le rose secondo l’American Rose Society e la World Federation of Roses si dividono in tre gruppi: le specie, le rose antiche (Old Garden Roses, OGR) cioè le rose orticole esistenti prima del 1867 e le rose moderne (Modern Roses). Il confine tra rose moderne e rose antiche è ‘La France’ del 1867 ottenuta da Guillot fils. Fanno parte delle rose antiche tra le altre: le rose Tea ‘Tea & Climbing Tea (T & Cl T)’ e gli Ibridi Rifiorenti ‘Hybrid Perpetual & Climbing Hybrid Perpetual (HP & Cl HP)’; mentre sono rose moderne gli Ibridi di Tea ‘Hybrid Tea & Climbing Hybrid Tea (HT & Cl HT)’. La divisione delle rose in rambler e climbing è strettamente collegata alla rifiorenza. 50

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primi del Novecento fornirono palme anche al principe Gioacchino Ruffo di Sant’Antimo52 datore di lavoro di Tito Mercatelli, loro parente53. Troviamo quindi un altro ramo dei Mercatelli di Firenze a Castellammare di Stabia dove agli inizi del Novecento, si era trasferito, a 19 anni, Tito Mercatelli54, che (per stare vicino alla signorina che poi divenne sua moglie) aveva cercato e trovato, grazie all’interessamento di Odoardo Beccari di cui era stato allievo, lavoro a Villa Lucia presso il principe Gioacchino Ruffo di Sant’Antimo. Tito Mercatelli si occupò per tutta la vita, ad accezione di sole due interruzioni, del giardino di Villa Lucia 55, dove il principe Gioacchino Ruffo raccolse a partire dal 1906 un’importantissima collezione di palme, anche con intenti sperimentali riguardo alla loro acclimatazione. Il principe ricercò la collaborazione di Odoardo Beccari56 e di Giorgio Roster 57 per l’identificazione delle palme e il riordino della sua collezione, che ha vantato anche piante “tipo”, suddivisa inizialmente in tre gruppi: una di palme da serra calda58 e temperata59, una da serra fredda e una di palme in piena terra60, questa ultima con 654 palme appartenenti a 119 specie di 24 generi. Di questa collezione Giacchino Ruffo ne scrisse un catalogo ragionato, “Le palme di villa Lucia: giugno 1908 – giugno 1920”, con notazioni sulle palme acclimatate con successo in Calabria, sulle sue fonti di approvvigionamento sia da privati quali lo stesso Beccari e G. B. Ridolfi sia da vivaisti (Casa Haage et Schimidt, Casa Vilmorin – Andrieux, Giuseppe Incoronato di Portici, Kruepper di Napoli, Linari di Firenze, G. B. Marsano, Mercatelli di Firenze, Nabonnand di Golfo Juan, Stabilimento Draps - Don di Leaken). Non mancano le modalità di coltivazione e a volte di sistemazione delle piante a terra, come l’utilizzazione di una paniera di Anemone japonica per una Phoenix roebelinii o la collocazione di una Washingtonia filifera nel mezzo di un rosaio rettangolare con agli angoli quattro Butia capitata. Tra le altre informazioni che corredano la descrizione delle specie, oltre alle informazioni di base, quali, l’area di provenienza e la data di sistemazione a terra, vi sono a volte una disamina sulla loro identificazione, un riferimento ai testi utilizzati e il numero 51

“Nella nomenclatura dei diversi generi e specie di Palme ci siamo attenuti a quella generalmente adottata in Orticultura, senza omettere però di citare i corrispondenti e numerosi sinonimi onde evitare il caso, facilissimo, che un amatore si trovi ingannato, acquistando una pianta che già possiede sotto un altro nome”. Le Palme risultano distinte per esigenze fisiologiche di temperatura e vengono presentate anche raffigurazioni. 52 Gioacchino Ruffo, principe di Sant’Antimo, nel 1906 ebbe in dono dalla madre Villa Lucia a Castellammare di Stabia dove trovò nel parco “soltanto qualche Chamaerops humilis, tre Phoenix dactylifera, molto forti, due bellissime Phoenix sylvestris, una Trachycarpus excelsa ed una bella Washingtonia filifera”. In seguito, racconta, in prima persona: “Acquistai altre palme e le piantai sparse per il giardino; così a poco a poco son diventato collezionista e studioso di questa importante famiglia di piante”. GIOACCHINO RUFFO , Le palme di Villa Lucia: giugno 1908 – giugno 1920, Tip. Giuntina, Firenze, 1923, pag.9. 53 Ringrazio il Sig. Guido Mercatelli per le notizie fornitemi su Tito Mercatelli (omonimo di Tito figlio di Venceslao) e il ramo Mercatelli di Castellammare di Stabia. 54 Comunicazione personale del Sig. Guido Mercatelli. Il Sig. Guido Mercatelli si è occupato, quale capo giardiniere, del giardino delle Terme di Stabia. 55 Fu assente dal giardino durante il suo servizio militare e per un ulteriore breve periodo di circa sei mesi. Ibidem. 56 “Sentitamente e con deferenza ringrazio l’illustre Dottore Odoardo Beccari che ha voluto cortesemente studiare il materiale d’osservazione ed identificare molte mie palme” GIOACCHINO RUFFO, op. cit., pag. 13. 57 “Ed al Professor Giorgio Roster, l’emerito igienista, studioso di botanica e collezionista di palme, della cui amicizia mi onoro, vada ancora l’espressione della mia riconoscenza, poiché la sua cortesia ed i suoi libri non piccolo contributo hanno apportato alle mie cognizioni scientifiche ed al riordino della mia collezione” ibidem. 58 “Nel 1907 feci costruire la prima serra, divisa in tre parti: fredda od arancera, temperata e calda; e nel 1908 una seconda molto più grande, divisa in due parti: fredda e temperata”. GIOACCHINO RUFFO, op. cit., Firenze, 1923, pag. 10. 59 “Quasi tutte le palme da serra calda son finite male: alcune per il giardiniere d’allora, che non conosceva bene il suo mestiere; altre per mancanza di calore, quando nel 1916 fu necessario abolire il riscaldamento nelle serre. Oltre alla mancanza del riscaldamento qualche perdita va pure attribuita alla lontananza del mio ottimo attuale giardiniere, Tito Mercatelli, partito come mitragliere per la guerra, ed anche alla mia lontananza, poiché mobilitato in qualità d’ufficiale di cavalleria”. ibidem. 60 Secondo Gioacchino Ruffo “ Le palme in piena terra danno maggiori soddisfazioni ed un esperimento che riesce può avere il risultato pratico della introduzione di una nuova specie nelle nostre colture”. GIOACCHINO RUFFO, op. cit., Firenze, 1923, pag. 11.

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degli esemplari. Nell’elenco sono riportate anche piante di cui non è sicura la determinazione sotto il generico appellativo di species. Questo documento è fonte di interesse non solo per la sua consistenza, ma anche perché contiene l’inventario delle specie che sono state allevate con successo, in piena terra, alle pendici del monte Faito a circa cento metri sul livello del mare. Questo ultimo elenco viene, di seguito, riportato con la nomenclatura (non in corsivo) indicata dal principe, anche quando questa non corrisponda all’attuale o presenti errori di ortografia. In parentesi è riportata la datazione della messa a dimora del primo esemplare. I termini, da allora, possono aver subito variazioni minime come nel caso di Phoenix Roebelinii oggi Phoenix roebelinii, o più sostanziali per es. Arecastrum Romanzoffianum per Syagrus romanzoffiana (Cham.) Glassman.

Palme di Villa Lucia coltivate in piena terra 61 Archontophoenix Alexandrae Wendl. et Dr., (1920). Archontophoenix Cunninghaniana Wendl. et Dr., (1914). Areca Drapsiana Hort., (1917). Arecastrum Romanzoffianum v. australe, Becc., (1912) [Syagrus romanzoffiana (Cham.) Glassman]. Arecastrum Romanzoffianum v. genuinum, Becc., (1908). Arecastrum Romanzoffianum x Butia, (1908). Arenga Engleri, Becc., (1920). Arenga species, (1916). Brahea calcarea, Liebm., (1908). Brahea dulcis, Mart., (1909). Butia Bonneti, Becc., (1907). Butia capitata, Becc., (1908). Butia capitata var., (1908). Butia capitata var. odorata, Becc., (1907). Butia capitata var. subglobosa, Becc., (1907). Butia capitata var. virescens, Becc., (1907). Butia eriospatha, Becc., (1909). Butia lejospatha, Becc., (1914). Butia species, (1907). Butia Yatay Becc., (1908). Chamaedorea amazonica, Hort., Lind., (1917). Chamaedorea Arembergiana, Wendl, (1916). Chamaedorea bambusoides, Hort, (1915). Chamaedorea concolor, Mart,

Erythea armata, S. Watson., (1907). Erythea Brandegeei, C. A. Purpus, (1919). Erythea edulis, S. Watson., (1908). Erythea elegans, Franceschi sp.n., (1920). Howea Belmoreana, Becc., (1916). Howea Forsteriana, Becc., (1918). Howea species, (1916). Jubaea spectabilis, H. Bpld. et Knth., (1908).64. Kentiopsis divaricata, Brgt., (1916). Livistona altissima, Zoll., (1920). Livistona australis Mart., (1907). Livistona australis v. macrophylla, (1919). Livistona chinensis R. Br., (1908). Livistona chinensis var. aurea, (1920). Livistona chinensis v. 65 erecta, (1919). Livistona chinensis, v. variegata, (1920). Livistona decipiens, Becc., (1909). Livistona Mariae, F. Muell., (1915). Livistona oliveaformis, Mart., (1910). Livistona subglobosa, Mart., (1914). Nannorhops Naudeniana, Becc., (1917). Nannorhops Ritchieana, H. Wendl., (1929). 66.

Rhapis flabelliformis, L. fil., (1909). [Rhapis flabelliformis L'Herit. ex Ait. (Palmae).]. Rhapis flabelliformis, var. nana, (1916). Rhapis humilis, Blume, (1915). Rhapis Kwanwortzick, Wendl., (1920). Rhapis major, Bl., (1916). Rhapis species, (1916). Rhopalostylis Baueri, Wendl. et Dr., (1913). Rhopalostylis sapida, Wendl. et Dr., (1917). Sabal Adansoni, Guernsent, (1907). Sabal Blackburniana, Glazebrook, (1908). Sabal havanensis, Lodd, (1908). Sabal longifoliam, Hort., (1919). Sabal longipedanculata, Hort., (1918). Sabal macrophylla, Hort., (1907). Sabal Magdalenae, Linden, (1910). Sabal mauritiaeformis, Gr. et Wendl., (1908). Sabal Palmetto, Lodd., (1907). Sabal princeps, Hort., (1916). Sabal Rosei, Becc., (1918). Sabal species 69, (1908). Syagrus comosa, Mart., (1918). Syagrus coronata, Becc., (1919).70 Syagrus insignis, Becc., (1920). Trachycarpus caespitosa, Becc. sp. n., (1920). Trachycarpus excelsa, H. Wendl., [ ]71 [Trachycarpus fortunei cfr.]. Trachycarpus excelsa var., (1912).

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Qualche esemplare era coltivato in vaso, ma sempre all’aperto, altri in zone più riparate. A volte, il principe Ruffo nella disamina di un taxon annota come e quanto risulti incerta la sua determinazione, soprattutto nei casi indicati con ‘species’; per questi ed altri particolari si rimanda alla pubblicazione originale. 63 Chamaerops humilis L. (Palmae), detta anche Palma nana o Palma di S. Pietro, ha come areale d'origine la Regione mediterranea occidentale; è l’unica palma spontanea della flora italiana. 64 Da ricercare sotto il nome di Jubaea chilensis (Mal.) Baill. (Palmae). 65 Nel testo vengono usate indistintamente sia l’abbreviazione var. o semplicemente v. secondo l’uso dell’epoca. 66 Un magnifico esemplare di questa pianta, fu ammirato dal principe alla Villa Beccari di Pian dei Ripoli presso Firenze. 67 Per uno di questi esemplari Gioacchino Ruffo scrisse “Quando il luglio 1919 ebbi la fortuna di essere ospite del Prof. Roster all’Ottonella [Isola d’Elba], ammirai l’uguale nel suo incantevole giardino. Egli l’ha col nome di Phoenix senegalensis”. RUFFO GIOACCHINO, op. cit., pag. 46.

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(1916). Chamaedorea corallina, Karst., (1916). Chamaedorea desmonceides, Wendl., (1916). Chamaedorea elegans, Mart., (1914). Chamaedorea Ernesti Augusti, Wendl., (1916). Chamaedorea graminifolia, Wendl., (1916). Chamaedorea oblongata, Mart., (1916). Chamaedorea Sartorii, Liebm., (1916). Chamaedorea species, (1918). Chamaerops Biroo, Sieb. et Zusc., (1918) 62. Chamaerops humilis var., (1909). Chamaerops humilis var. cerifera, Becc., (1909). Chamaerops humilis var. dactylocarpa, Becc., (1920). Corypha Gebanga, Mart., (1907). Corypha species, (1908). Chamaerops humilis, L., [prima del 1906] 63

Phoenix abissinica, Drude., (1920). Phoenix canariensis, Hort., (1908). Phoenix canariensis var. macrocarpa, Hort., (1919). Phoenix canariensis var. melanocarpa, Hort., (1920). Phoenix cycadifolia, Hort., (1909). Phoenix dactylifera, L., (prima del 1906). Phoenix farinifera, Roxb., (1908). Phoenix humilis, Royle, (1909). Phoenix hybrida, Andrè, (1908). Phoenix paludosa, Hort., (1908). Phoenix reclinata, Jacq., (1908). Phoenix Roebelinii, O. Brien., (1909). Phoenix rupicola, T. Anders, (1915). Phoenix sylvestris, Róxb.,. Phoenix species, (1920) 67. Phoenix species nana, (1920). Rhapidophyllum Hystrix, H. Wendl., et Dr., (1909). 68.

Trachycarpus excelsa var. marmorata, (1909). Trachycarpus Martiana, H. Wendl., (1920). Trachycarpus Takil, Becc. sp. n., (1920). Trachycarpus Wagneriana, Hort. Winter, (1909). Trithrinax acanthocoma, Drude, (1911). Trithrinax campestris, Dr. et Gris., (1916). Washingtonia filifera, H. Wendl., (prima del 1906). Washingtonia filifera, var. microsperma, Becc., (1914) Washingtonia robusta, H., Wendl., (1908). Washingtonia robusta, var. gracilis, Parish, (1911). Washingtonia sonorae, Hort., (1911).

Questa raccolta di palme, impiantata con scopi collezionistici e di ricerca, è ancora oggi oggetto di studio e di interesse per i botanici. Allo stesso modo lo sono molti impianti di specie arboree ottocentesche 72 , quali quello della Casa Bianca di Vincenzo Ricasoli, (Argentario) e quello all’Ottonella del Roster (Isola d’Elba); anch’essi manifestazione di un fervore di interessi botanici che forse in Italia non sono mai stati, in seguito, uguagliati.

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Phoenix senegalensis Van Houtte ex Salomon è sinonimo di Phoenix reclinata Jacq. Indicata come specie rusticissima ma di lenta vegetazione. 69 “Due piante: una, acquistata da Kruepper di Napoli, che aveva l’uguale nel giardino del Dott. Garbari, presso Portoferraio, e l’altra proveniente “da semi di una Sabal di Villa Torlonia, credo Villa Albani”. GIOACCHINO RUFFO, op. cit., pag. 53. 70 “L’ebbi dal compianto orticultore Linari di Firenze che m’assicurò d’averlo ottenuto da semi del bellissimo Cocos coronata del R. Orto Botanico di Firenze.” “ I Cocos sono stati dal Dott. Beccari riportati [al genere Syagrus Mart.].” GIOACCHINO RUFFO, op. cit., pag. 54. 71 Con cinquantadue esemplari. 72 Vedi PAOLO GROSSONI, La conservazione della biodiversità negli orti botanici e nei giardini storici. Un’esigenza per il XXI secolo in Inf. Bot. Ital., 38(1), Società Botanica Italiana, Firenze, 2006, pagg. 230-235. 68

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RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1: RUFFO GIOACCHINO , Le palme di Villa Lucia: giugno 1908 – giugno 1920, Tip. Giuntina, Firenze, 1923, Tav. II, Biblioteca Marucelliana di Firenze, Collocazione: AI. C.XII. 279, scansione da fotocopia. La Biblioteca Marucelliana ne vieta ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo. Figura 2: Immagine tratta da: CATTOLICA GUIDO, LIPPI ANGELO, TOMEI PAOLO E., Camelie dell'Ottocento in Italia: manuale di riconoscimento per un itinerario nel territorio lucchese, Pacini, Lucca, 1992, fig. 56. Figura 3: Foto Paolo Grossoni, 2003. Figura 4: Catalogo generale Stabilimento d’orticultura della ditta Raffaello Mercatelli n° 64, Stab. Chiari, Succ. C. Cocci & C., Firenze, 1909, pag. 46. Autorizzazione della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di settembre 2007. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso, ad esclusione della riproduzione delle figure 1 e 2, purché sia correttamente citata la fonte. 153


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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 – numero 8 – luglio - dicembre 2007 – a cura di Anna Lambertini sezione: Itinerari pagg. 154 - 166

PERCORSI PROGETTUALI DI UN LABORATORIO DIDATTICO. HOOKE PARK: UN PARCO, UN BOSCO E UNA SCUO LA DI ARCHITETTURA. Elena Barthel* Summary Defining Hooke Park is not easy: is it a park, a woodland or, as it says on the front gate, a ‘School of Architecture’? Which is the right hierachy? Which function has priority? The public space, the woodland or the university? The answer appears to be that Hooke Park is unique and represents a great opportunity because of its many functions. Every day the citizens of Hooke village walk through the park, perhaps even horse riding or cycling, together with kids playing, hunters hunting, and the Architectural Association students experimenting with contemporary architecture. This is Hooke Park: 150 hectares of woodland owned by one of the most renowned schools of architecture in Europe. How better to define it than: “a rare opportunity?” This essay tells the story of the work of Diploma 9, a design studio looking at Hooke Park Strategy Plan, searching for a durable and self sustaining future. Key words Hooke Park, Architectural Association, Strategy Plan, Learning by doing, Green wood.

Abstract Definire Hooke Park non è compito semplice. Lo si può chiamare parco, bosco o come immancabilmente suggerisce la targa affissa all’ingresso: ‘Scuola di Architettura’. Ma come scegliere l’ordine delle parole? Quale funzione definire centrale? Lo spazio pubblico, il bosco o l’università? In realtà la risposta a queste domande sta nel fatto che ciò che rende Hooke Park un luogo unico e di grande potenzialità è la polifunzionalità. Mentre gli abitanti del villaggio omonimo popolano ogni giorno il parco a cavallo, a piedi o in bicicletta, insieme ai cacciatori e a valorosi uomini impegnati in corsi di sopravvivenza, gli studenti dell’ AA sperimentano forme e funzioni dell’architettura contemporanea. Questo è Hooke Park: centocinquanta ettari di alberi d’alto fusto di proprietà di una delle più rinomate scuole di architettura d’Europa. Come meglio definirlo quindi se non: “una rara opportunità”? L’articolo racconta il lavoro di Diploma 9 seminario di progettazione impegnato nella stesura di Hooke Park Strategy Plan, per un futuro duraturo e sostenibile. Parole chiave Hooke Park, Architectural Association, Piano Strategico, Imparare facendo, Legno fresco

* Dottorato di Progettazione Urbanistica e Territoriale, Università degli Studi di Firenze; Unit Master alla Architectural Association di Londra per l’A.A. 2006-2007.

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INTRODUZIONE

Siamo a duecento chilometri a sud della grande metropoli di Londra, nel West Dorset, regione degli sport acquatici delle prossime Olimpiadi 2012. Hooke Park ci accoglie con una mirabile opera di land art, site specific, firmata Andy Goldsworthy: due serie di tronchi miracolosamente piegati in circonferenze concentriche.

Figure 1,2 : Andy Goldsworthy a Hooke Park.

Appena varcato l’ingresso, un bosco fitto ci immerge in un paesaggio rassicurante nella sua spiccata artificiosità , e misterioso laddove rimasto incolto e buio. La geometria delle faggete, intervallate da sporadiche piantagioni di conifere, articola lo spazio tra pieni, vuoti, luci ed ombre, sotto il ciclico passaggio delle stagioni e l’evidente azione della pioggia e del vento.

Figure 3,4: Il paesaggio di Hooke Park.

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Tre sperimentali costruzioni in green wood come monumenti intitolati al bosco, completano il paesaggio antropizzato. Sono la testimonianza dell’avventura iniziata a Hooke Park agli inizi degli anni ’80, che ha visto impegnati nella costruzione di una scuola di design, grandi protagonisti dell’architettura ed ingegneri nord europei. Primo fra tutti Frei Otto con ABK, Ted Cullinan e Buro Happold.

Figure 5,6: Frei Otto e Ted Cullinan a Hooke Park. Il refettorio e il dormitorio.

Definire Hooke Park non è compito semplice. Lo si può chiamare parco, bosco o come immancabilmente suggerisce la targa affissa all’ingresso: Scuola di Architettura. Ma come scegliere l’ordine delle parole? Quale funzione definire centrale? Lo spazio pubblico, il bosco o l’università? Quale produzione definire predominante? La socialità, il legname da costruzione o l'architettura? In realtà la risposta a queste domande sta nel fatto che, ciò che rende Hooke Park un luogo unico e di grande potenzialità, è la polifunzionalità. Mentre gli abitanti del villaggio omonimo popolano ogni giorno il parco a cavallo, a piedi o in bicicletta, insieme ai cacciatori di cervi, i bambini in cerca di avventure ‘antiurbane’ e valorosi uomini impegnati in corsi di sopravvivenza, gli studenti dell’Architectural Association (AA) sperimentano forme e funzioni dell’architettura contemporanea. Questo è Hooke Park: 150 ettari di alberi d’altofusto di proprietà di una delle più rinomate scuole di architettura d’Europa. Come meglio definirlo quindi se non: “una rara opportunità”?

LA STORIA DI HOOKE PARK

Le prime tracce di Hooke Park, fanno riferimento a Hooke Woods, nominato dal Domesday Book1, nel 1086, come bosco di centosessanta ettari appartenente al villaggio di Hooke. Per la denominazione Park, dobbiamo invece attendere il 1338 anno in cui Hooke Woods viene trasformato in una riserva di caccia. 1

Il più completo rilievo della storia del territorio inglese voluto da Guglielmo il Conquistatore.

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Alla fine del 1700 i nobili delle località di Clevedon e di Sandwich acquistano Hooke Park mantenendolo tale fino agli inizi del secolo scorso quando, all’imminente scoppio del secondo conflitto mondiale, l’intera area viene disboscata per la produzione di legname destinato all’industria bellica. Finita la guerra sarà la Forestry Commission2 a rilevare i terreni, provvedere alla ripiantagione e a ripristinare il parco e il bosco, cresciuto fino ad oggi. Nel 1983 la Parnham Trust, della vicina Bournemouth, organizzazione senza fini di lucro presieduta da John Makepeace, succede alla Forestry Commission e Hooke Park viene trasformato in Hooke Park College. Una scuola di design fondata sull’avveniristico proposito di utilizzare il legname prodotto dal processo di diradamento del bosco, comunemente destinato a legna da ardere. Nell’arco di quindici anni tre grandi studi di architettura (Frei Otto con ABK e Ted Cullinan, insieme a Büro Happold) progettano masterplans e edifici per la realizzazione delle infrastrutture di Hooke Park College. Si costruiscono tre fabbricati: il Training center, un laboratorio di seimila metriquadrati costruiti con una struttura ad arco, di tronchi freschi di dodici centimetri di diametro; il Refectory, pensato come prototipo di residenza, costruito con una struttura A Frame la cui copertura è sorretta da tronchi freschi di sei centimetri di diametro. Infine il Dormitory, che ospita sedici studenti in una struttura immersa negli alberi di una faggeta e coperta da un tetto in erba. Nel 1999, in seguito al fallimento della Parnham Trust, Hooke Park viene rilevato dall’Architectural Association di Londra che attualmente ne gestisce parco, bosco e infrastrutture, come workshop di supporto all’attività didattica della sede principale di Bedford Square. Hooke Park è oggi classificata come Ancient Woodland, termine utilizzato in Inghilterra, per definire tutte quelle aree coperte, da più di quattrocento anni, da alberi d’alto fusto. A queste aree viene attribuito un ruolo predominante nella conservazione della Natural England, la natura autoctona del paese. Sono pertanto regolate da specifiche normative mirate al mantenimento e al ripristino delle specie native nonché alla tutela della biodiversità, sotto lo stretto controllo della commissione forestale. Se negli anni Cinquanta del secolo scorso la scelta delle specie fu condizionata dall’industria del mobile in espansione, l’attuale Hooke Park risponde alla attuale normativa in materia di rinaturalizzazione. Nel rispetto delle direttive nazionali il bosco ceduo e d’altofusto è misto e costituito al novantapercento da latifoglie, in prevalenza faggio (Fagus sylvatica) insieme a castagno (Castanea sativa), querce (Quercus robur, Q. rubra e Q. alba), frassino (Fraxinus excelsior) e ontano nero (Alnus glutinosa), mentre il solo restante diecipercento è formato da conifere, tuia gigante (Thuja plicata), pino nero (Pinus nigra), abete rosso (Picea abies) e abete di douglas (Pseudotzuga menziesii). Ad oggi, dopo sessanta anni dalla riforestazione, la produzione del bosco è rappresentata per la maggior parte da legname da ardere derivante dal governo a ceduo e dal diradamento del governo d’altofusto. Il legname da costruzione viene da qualche hanno venduto all’interno di un consorzio di boschi, nato nel West Dorset, per ovviare alla mancanza di produzione e di commercio a livello locale.

IL PIANO STRATEGICO PER HOOKE PARK

Da due anni la Architectural Association (che in seguito nomineremo semplicemente A.A.) sta lavorando ad un piano strategico (Hooke Park Strategy Plan)3 per la trasformazione di 2

Apparato amministrativo equivalente alla nostra Forestale. Nel 2006, l’autrice del testo, in collaborazione con gli architetti Andrew Freear, Anupama Kundoo e Luis Feduchi, hanno presentato all’Architectural Association di Londra la proposta di progetto per la stesura del Piano Strategico per Hooke Park, come tema del corso di progettazione Diploma 9 per l’anno accademico 2006-2007. 3

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Hooke Park nella sede del Master di Progettazione Architettonica e del Paesaggio: Hooke Park Studio. Un laboratorio, improntato sul learning by doing4 con l’ambizione di divenire un programma modello che risponde alla domanda: “Cosa dovremmo fare?” piuttosto che: “Cosa è possibile fare?” In un ambiente culturale come quello della AA, in cui gran parte della didattica è improntata sulla digitalizzazione della progettazione, Hooke Park Studio rappresenta l’altra parte dell’educazione dell’architetto: quella dell’architetto artigiano. Una didattica a tutto tondo, basata sulle specificità del luogo e capace di coinvolgere gli studenti in tutti i suoi potenziali aspetti, articolando la ricerca in tre direzioni chiave: La sperimentazione di edifici ecosostenibili in legno Dopo l’esperienza americana del Balloon Frame, che cosa significa costruire in legno nella città europea contemporanea? Che ruolo ricopre all’interno dell’industria edile? Costruire sostenibile: quali le risorse messe in gioco? Quale ciclo di produzione e quale paesaggio pianificare per quale città e quale campagna? Tale ricerca si basa sulla possibilità che Hooke Park offre agli studenti di diventare produttori, imprenditori, progettisti e costruttori al tempo stesso. Una combinazione che investe una rosa di discipline e le loro possibili interrelazioni, unica all’interno del panorama didattico europeo. L’esplorazione della “casa accessibile” E’ possibile costruire la casa locale? Che cosa differenzia la casa rurale da quella suburbana? Come si può essere responsabili dell’ambiente vivendo in una zona rurale? Questo secondo canale di ricerca si basa sulla possibilità che Hooke Park offre agli studenti di progettare, costruire e testare gli edifici necessari alla costruzione della sede del Master. La fase di infrastrutturazione diventa parte integrante della didattica, con la sperimentazione di prototipi, in futuro esportabili all’esterno. Il presupposto è che il mondo accademico possa spingere la ricerca laddove l’industria e la libera professione non possono arrivare e dare una risposta alla richiesta del mercato immobiliare di abitazioni a basso costo. Il parco rurale e il bosco produttivo: la costruzione del futuro della campagna Quale è il ruolo dello spazio pubblico nelle aree rurali? Quale la relazione tra produzione e ricreazione? Come possono le risorse locali portare all’autoefficienza? Possono le idee viaggiare di più e la materia viaggiare meno? Ancora una volta è il bosco di Hooke Park a fornire l’opportunità agli studenti di pianificare, progettare e produrre le risorse necessarie al proprio sostentamento: dalla costruzione di una casa da abitare, al suo riscaldamento, l’approvvigionamento e lo smaltimento dell’acqua. Fino alla produzione dell’autosufficienza alimentare. Al tempo stesso il parco, diventa l’occasione per progettare e costruire le infrastrutture necessarie alla comunità locale sperimentando materiali, forme e contenuti del vivere la ruralità oggi.

Attualmente è in corso la prosecuzione del lavoro di ricerca che prevede la conclusione del Hooke Park Strategy Plan per maggio 2008. 4

Il metodo dell’imparare facendo fa riferimento all’esperienza svolta dal Rural Studio all’interno della Auburn University in Alabama, che da quindici anni costruisce edifici per la comunità locale dopo aver sperimentato tecniche e materiali all’interno del proprio campus. Vedi il sito ufficiale del Rural Studio: WWW.ruralstudio.com Vedi anche il sito di Undercostruction e il video Juanita’s House che racconta l’esperienza degli studenti del Rural Studio nella ricostruzione di una casa unifamiliare in Alabama www.under-construction.it

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IL CORSO DI PROGETTAZIONE DIPLOMA

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Durante l’anno accademico 2006-2007 Hooke Park Strategy Plan è stato oggetto di un corso di progettazione del 4° e 5° anno, che da ora in poi chiameremo Diploma 9. Il corso si è articolato in tre trimestri producendo un lungo lavoro di analisi sul campo, che ha portato alla formulazione di quattordici diversi progetti per il futuro di Hooke Park. Il lavoro di analisi: esplorare Hooke Park Il primo assunto del corso è stato considerare le funzioni esistenti, il parco, il bosco e la scuola, come risorse preziose e la loro analisi, lo strumento per costruire il bagaglio di conoscenze necessario alla stesura di progetti per un futuro di lunga durata. Durante il primo trimestre gli studenti hanno studiato il Physical ed il Building Landscape, intendendo con paesaggio l’insieme di relazioni tra le cose. L’indagine è stata divisa intorno alle tappe principali dell’evoluzione storica di Hooke Park, dal medioevo a oggi. Nella fase di analisi del parco e del bosco sono stati studiati la fauna e la flora, soprattutto negli aspetti che riguardano la scelta delle specie e il management del bosco ed il terreno, relativamente al sistema geologico, idrogeologico e alla topografia, caratterizzata da un forte grado di instabilità dovuto al dilavamento e alla composizione mista argilla e sabbia. Sono stati inoltre analizzati i fattori climatici, con particolare attenzione al ruolo delle stagioni nella definizione delle forme e dei contenuti del paesaggio.

Figura 7: Hooke Park Physical Landscape. Le risorse suolo e acqua.

Degli edifici si sono studiati i masterplan, il programma, il sistema strutturale e quello energetico, gli spazi tra i fabbricati e in particolare le relazioni con il parco ed il bosco. Schizzi a vista, rilievi metrici e plastici hanno messo in evidenza la proprietà del legno di resistere a compressione e a trazione e la duttilità del tronco fresco ad essere piegato in opera5. 5

Correntemente in tutta Europa il legno viene utilizzato per la realizzazione di travi da costruzione sottoposte a flessione. Per far fronte alla scarsa elasticità del materiale sono necessarie sezioni considerevoli anche per luci non troppo elevate. Ad esempio una trave di abete per un solaio di tre metri di luce necessita una sezione di 8X8 cm. Da qui deriva la necessità, nel governo dei boschi d’altofusto, di ritardare la produzione di materiale da

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Figura 8: Hooke Park Physical Landscape. La risorsa bosco.

Figura 9: Hooke Park Building Landscape

costruzione fino al raggiungimento di tronchi di minimo venti centimetri di diametro. Gli edifici realizzati a Hooke Park introducono un nuovo materiale: il green wood di piccolo diametro (6-12 cm). Questa tecnica apre un’interessante dibattito, nel panorama dell’architettura sostenibile, ponendo l’attenzione sulla appropriatezza di un materiale attualmente sottoutilizzato, soprattutto nei luoghi in cui rappresenta una risorsa locale facilmente reperibile.

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Durante tutta la ricerca è stata data particolare importanza agli attori e agli utenti che ogni giorno gestiscono, abitano e usano Hooke Park adottando l’intervista come principale strumento di contatto e di scambio. La ricerca sul campo è stato il principale metodo di indagine. Per tre giorni, ogni settimana, gli studenti di Diploma 9 si sono trasferiti da Londra e hanno “colonizzato” Hooke Park scontrandosi con le problematiche della vita lontana dalla metropoli, l’isolamento, la convivenza e il lavoro di gruppo. A partire dalla loro esperienza diretta, le forme e i contenuti del loro abitare nel bosco, il corso ha riflettuto sulla domanda: “Come stabilire una filosofia per Hooke Park? Pensare globale e agire locale?” 6 Particolarmente interessante è stata l’esercitazione Choose your favourite Place e Hooke Park Tour che ha portato gli studenti all’esplorazione individuale dei luoghi più reconditi del parco, alla ricerca di quello che in Toscana chiameremmo Invarianti Territoriali, fino alla progettazione di due mappe mentali: Timing e Homo Sapiens. Due diverse geografie di Hooke Park, che mettono in evidenza la percezione temporale e quella topografica del luogo.

Figura 10: Mappe mentali. Timing e Homo Sapiens.

Contemporaneamente, attraverso la scelta di un materiale, ogni studente, ha riflettuto sul ruolo che la tecnologia gioca oggi sull’architettura, imponendo un sempre maggior controllo della materia a favore di una omogeneizzazione diffusa. I materiali scelti hanno spaziato dal 6

A questa parte della ricerca è stata affiancata la lettura di quattro autori: WENDELL BERRY, fattore del Kentucky, famoso negli USA per aver denunciato l’ignoranza del popolo americano in merito alla provenienza degli alimenti. Una totale inconsapevolezza del ciclo di produzione delle risorse alimentari come risultato di un distacco incolmabile con la natura. I suoi testi più interessanti sono Think Little e The pleasure of eating, in particolare il saggio “The art of the common place”: the agrarian essays of Wendell Berry. BILL MCKIBBEN scrittore ambientalista nord americano, famoso per il testo provocatorio The end of nature, nel saggio Hope Human and Wild , suggerisce progetti in cui l’architettura e l’urbanistica possono contribuire alla costruzione di una via di uscita alla distruzione del pianeta, prima fra tutte l’esperienza di Curitiba in Brasile. BRUCE MAU, progettista canadese, la cui teoria sulle responsabilità del progetto di fronte allo spreco delle risorse del pianeta ha fatto il giro del mondo con il testo e l’esposizione itinerante Massive Change. ALBERT GORE, Vice Presidente degli Stati Uniti d’America, con il suo The inconvenient Truth e la sensibilizzazione a livello mondiale al surriscaldamento del pianeta.

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legno, al rame, al bamboo, fino al muschio e alla sabbia, tutti materiali le cui proprietà suggeriscono un’accentuata propensione alla trasformazione sotto l’azione degli agenti atmosferici.

Figura 11: Lo studio di un materiale. Il muschio

Infine gli studenti hanno analizzato casi studio mettendo in evidenza analogie con la polifunzionalità di Hooke Park. I riferimenti più interessanti riguardano l’esperienza di Arcosanti in Arizona per la multiscalarità e l’autoefficienza della città di Paolo Soleri e Auroville nel Tamil Nadu, India, per la stretta relazione di interdipendenza tra città e foresta7. Ogni fase del lavoro di esplorazione di Hooke Park è stato supportato dalla ricerca bibliografica estesa a fonti regionali, nazionali ed internazionali. Il progetto: il futuro di Hooke L’obiettivo posto dal corso è stato rispondere alla domanda: “Quali azioni per il futuro di Hooke Park?”. Agli studenti si è chiesto di affrontare questioni strategiche, formali, ambientali, sociali, intellettuali ed economiche ma soprattutto è stata sollecitata una realistica e al tempo stesso ambiziosa riflessione sulle relazioni tra Hooke Park e il suo proprietario: l’Architectural Association. Nella consapevolezza della natura evolutiva delle cose, i progetti sono stati strutturati in fasi a partire da tre programmi affrontabili separatamente o in stretta relazione: Il Parco e lo spazio pubblico, Il Bosco e la produttività del territorio, La scuola ed il programma didattico. I progetti più interessanti sono stati quelli che hanno affrontato la polifunzionalità come risorsa. A partire dalla critica dell’attuale sottoutilizzazione del bosco e la sempre maggiore importanza per l’architetto di ristabilire stretto contatto con i materiali dell’architettura, un primo gruppo di progetti ha affrontato il binomio Produzione-Educazione. Gli aspetti educativi sono stati trattati come fondamento delle proposte inserendo l’architettura, la formazione dell’architetto e l’etica della professione al centro del dibattito. In questo senso Hooke Park è stato trattato come “una rara opportunità” per sperimentare una scuola che prima di tutto insegni uno stile di vita. Si sono formulate ipotesi in cui lo studente possa studiare, vivere e operare in un contesto in cui la provenienza delle risorse e le tecniche atte al loro utilizzo, siano parte integrante del processo di educazione. Al tempo stesso si sono studiati nuovi modelli di Woodlands che superano la monofunzionalità della normativa vigente. Le proposte sono state sviluppate a varie scale, da quella territoriale a quella architettonica. 7

Auroville è stata meta del viaggio di studio di Diploma 9 che nell’occasione ha partecipato, insieme alle maestranze locali, alla costruzione di una torre di legno, di 7 metri di altezza, per il giardino botanico della città. Vedi ELENA BARTHEL, Beyond Johnny. Un osservatorio per il Giardino Botanico di Auroville, India, marzo 2007, in Macramè n.2, Firenze, FUP, 2008. L’esperienza è stata oggetto del documentario omonimo visitabile su YouTube.

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Fa parte di questo gruppo il progetto Hooke Park Craft Village (dello studente Jae Won Yi) che individua nel bosco la potenziale “fabbrica del villaggio” e la rete dei villaggi un’alternativa all’economia locale basata sul turismo stagionale. Hooke Park Craft Village permette alla AA di diventare un centro di sperimentazione di edifici ecosostenibili in legno e al bosco di diventare il luogo della produzione e sperimentazione delle risorse necessarie. Il Centre for Cultivated Construction (tesi di laurea dello studente Alex Cattidrall) diventa l’occasione per ripensare il bilanciamento delle specie del bosco introducendo, gradualmente, la struttura territoriale e le coltivazioni necessarie alla produzione di materiali da costruzione naturali, prime fra tutte le fibre di canapa, ortica e semi di lino. La progettazione della struttura ricettiva del Centro, affrontata fino alla definizione dei dettagli strutturali8, è stata completamente progettata con materiali provenienti dal nuovo Hooke Park. In questo senso diventa il primo dei prototipi che gli studenti della AA avranno la possibilità di sperimentare, vivendo in stretto contatto con il processo di produzione, dalla semina alla raccolta alla fabbricazione di semilavorati. Interessante il progetto intitolato Living within the forest (dello studente Joo-Han Baek) che prevede la costruzione di un laboratorio di progettazione architettonica nomade che si sposta all’interno del bosco, seguendo la rotazione del processo di taglio degli alberi d’altofusto. Gli studenti vivono gli edifici che ogni volta progettano e costruiscono a partire dai materiali e i paesaggi messi a disposizione dal bosco. I risultati e l’esperienza degli studenti cambiano, secondo il compartimento abitato, in cui gli alberi hanno 10, 20, 40, 80 anni, sono latifoglie o conifere, in cui la topografia è più o meno scoscesa e l’esposizione suggerisce ogni volta diverse tecniche e tecnologie per il risparmio energetico.

Figura 12: Living within the forest. Joo-Han Baek

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Il corso Diploma 9 si è avvalso della consulenza di qualificati architetti e ingegneri strutturali e ambientali. Paul Stauler di Atelier 10 di New York, si è occupato degli aspetti del risparmio energetico insieme con Anupama Kundoo, autrice di molti degli edifici sperimentali della città di Auroville, India. Martin Manning di ARUP e Tim Macfarlen della Dewhurst Macfarlane Engineers di Londra hanno seguito la progettazione delle strutture degli edifici progettati dagli studenti.

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Un secondo gruppo di progetti, a partire dalla critica dell’attuale sottoutilizzazione del parco, e la sempre maggiore importanza di trovare forme contemporanee di ruralità, riscatta ruoli ed economie nelle geografie dell’abitare oggi affrontando il binomio Produzione-Ricreazione. Ci si è cioè interrogati sul ruolo dello spazio pubblico e nella fattispecie del parco nelle aree rurali, in cui il coinvolgimento del pubblico richiede sempre più la progettazione di ruoli attivi. Che cos’è un parco? E un parco rurale? Protezione degli ecosistemi, produzione, educazione, ricreazione, sport? Oppure, la storia di un paesaggio in evoluzione? Una risposta alquanto interessante e provocatoria è stata fornita da Par 1000 (della studentessa Marisa Diyana Shahrir) un campo da golf ecologico che si affianca alla rinaturalizzazione di Hooke Park voluta dalla Forestry Commission. Una nuova infrastruttura per il pubblico locale pensata come modello per una alternativa sostenibile alla dilagante diffusione di campi da golf nel West Dorset, veri e propri Wall Mart del paesaggio 9. Le minimali strutture di Par 1000 entrano in dialogo con gli elementi del paesaggio, il bosco d’alto fusto, i corsi naturali dell’acqua, la topografia, inducendo l’utente a riflettere sull’essenzialità e la sfida lanciata dal bosco. Quando il ‘green’ viene spostato altrove, le strutture rimangono al servizio della produzione di legname da costruzione (magazzini ed essiccatoi). Hooke Park Contemporary Farm (tesi dello studente Killion Moquete) è una fattoria di centocinquanta ettari capace di sfruttare al meglio le proprietà meccaniche e chimiche del suolo, dalla punta più alta di Warren Hill, a duecentocinquanta metri sopra il livello del mare, fino al confine con il villaggio di North Porton, centocinquanta metri più in basso. Nella parte bassa del terreno vengono coltivate piante acquatiche e praticata la pesca, dato il suolo argilloso e la naturale confluenza delle acque piovane. La parte centrale, laddove si è riscontrata la maggiore fertilità del terreno, viene dedicata al mantenimento del bosco ceduo e d’alto fusto, per poi passare all’orto e al frutteto, fino a raggiungere la cima della collina, luogo privilegiato, grazie all’esposizione, all’antropizzazione. Le strutture architettoniche, piccole serre articolate lungo una spina che percorre la curva di livello, sono dedicate alla coltivazione di primizie, l’essiccamento dei prodotti alimentari e la stabilizzazione del terreno stesso. Hooke Park Contemporary Farm diviene un parco agricolo aperto ad un pubblico di piccoli coltivatori, fondato sulla valorizzazione delle risorse naturali come fonti per uno sviluppo sostenibile.

Figura 13: Hooke Park Contemprary Farm. Killion Moquete

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Il progetto si è avvalso della consulenza di locali giocatori professionisti, chiamati a testare le diverse aree all’interno di Hooke Park.

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RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1, 2, 3,4,5,6: immagini fornite dall’autore del testo, 2007. Figura 7: immagini fornite dall’autore del testo. Autori dei disegni: Marisa Diyana Shahrir e Ivana Bocina, 2006. Figura 8: immagini fornite dall’autore del testo. Autori dei disegni: Bianca Marni Thelmo e Joo Han Baek, 2006. Figura 9: immagini fornite dall’autore del testo. Autori dei disegni: Joo Han Baek, Soo Hyun Jin, Jae Won Yi, Yuki Namba, 2006 Figura 10: immagini fornite dall’autore del testo. Autori dei disegni: Diploma 9, 2006 Figura 11: immagini fornite dall’autore del testo. Ricerca di Joo Yun Cho, 2006 Figura 12: immagini fornite dall’autore del testo. Progetto di Joo Han Baek, 2007 Figura 13: immagini fornite dall’autore del testo. Tesi di laurea di Killion Moquete, 2007

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di novembre 2007 © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 2007 – numero 8 – luglio/ dicembre - a cura di Anna Lambertini sezione: Eventi e Segnalazioni pagg. 187 - 198

WISE PLANS – LABORATORIO PARCO DEL TICINO

PER LA SOSTENIBILITÀ ENERGETICA DEL

Antonello Naseddu*

Summary In the era of networks, it is clear that the idea of local environmental protections also cannot be considered apart from the global dynamics. With this consideration it becomes more vital the necessity for adapting politics for the governance of protected natural areas. Wise plans are the first experiments in Europe to create the energy sustainable communities through energy saving and implementation of renewable energies . The project constitutes Italy, Spain, Galles and Sweden with a common effort to elaborate the guidelines of a base on a further elaboration for local energy plans. This essay analysed the first conclusions of the case study for Italy.: the Community of the Regional Park of Ticino. Key-words Protected natural areas, Ticino park, politics for the sustainable development, energetic plan, European energetic politics, energy saving, renewable energy sources, sharing planning, eco sustainable communities

Abstract Nell’era delle reti, in cui appare chiaro che la difesa dell’ambiente, anche a livello locale, deve rapportarsi con dinamiche globali, appare necessario un adeguamento delle politiche di gestione delle aree naturali protette. Wise-plans è il primo esperimento a livello europeo che ha come obiettivo quello di creare “comunità energeticamente sostenibili” attraverso il risparmio energetico e l’ implementazione di fonti energetiche rinnovabili. Il progetto vede impegnate Italia, Spagna, Galles e Svezia in uno sforzo comune per l’elaborazione di linee guida che rappresenteranno la base per Lo studio di piani energetici locali. Nel breve saggio vengono analizzate le prime conclusioni del caso studio italiano: la comunità del Parco Regionale del Ticino. Parole chiave Aree naturali protette, parco del Ticino, politiche per la sostenibilità, piano energetico, politiche energetiche europee, risparmio energetico, fonti rinnovabili, pianificazione partecipata, comunità eco-sostenibili

* Architetto, Diplomato al Master in Paesaggistica dell’Università di Firenze.

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VERSO UN NUOVO MODO DI INTENDERE I PARCHI

Protezione dell'ambiente e tutela delle risorse ecologiche e naturali rappresentano per le società del terzo millennio due incontestabili paradigmi etici. E’ oramai universalmente riconosciuta l’esigenza, di giorno in giorno sempre più pressante, di sottrarre parti del territorio a logiche speculative tendenti ad annullare le specificità proprie del territorio stesso1. E’ tuttavia da osservare, nonostante una sempre più capillare informazione riguardo queste tematiche e una conseguente sensibilizzazione della società civile, che i luoghi dove le politiche di protezione dell’ambiente rappresentano una priorità assoluta nel governo del territorio, ovvero le aree naturali protette, vengono tuttora mal viste, se non rifiutate dalla popolazione. Sono in molti infatti a ritenere i parchi porzioni di territorio sottratte all’uomo in nome di una difesa radicale che non prevede la presenza antropica. Questa visione delle cose è indotta innanzitutto da una carenza di informazione a riguardo: chi si dovrebbe occupare di educare e informare (quindi anche gli Enti stessi) considera la divulgazione e l’educazione ambientale un’attività di secondaria importanza, lasciando che nell’opinione pubblica passino messaggi semplicistici secondo cui un parco sia un “luogo del non fare”, aree chiuse all’interno delle quali viene limitato il diritto delle comunità locali di fruire del proprio territorio. D’altra parte chi si occupa di tracciare le politiche dei parchi talvolta alimenta questa visione distorta amministrando secondo criteri che non tengono conto delle reali esigenze della popolazione che all’interno di queste aree ci vive. A partire dagli anni Settanta, si è innescato un acceso dibattito a proposito del ruolo delle aree protette. Da una parte erano schierati i sostenitori della deep ecology, secondo i quali al centro del sistema-parco doveva essere collocata la natura e l’uomo doveva interferire il meno possibile con essa 2. Secondo questo modo di vedere le cose, la natura considerata nella sua accezione di “natura selvaggia”, (wilderness) doveva essere non violata, non contaminata dalla presenza dell’uomo. Preservare la natura voleva dire sottrarla all’influenza antropica, considerata negativa sempre e comunque. I sostenitori della deep ecology provenivano per lo più dal mondo anglosassone e dal Nord-Europa, da aree, geografiche e culturali, dove la presenza di immense foreste incontaminate rendeva possibile un tipo di tutela senza compromessi e dove non a caso sorsero i primi grandi Parchi Nazionali. Nell’area mediterranea invece, dove il sistema ambientale si intersecava con quello antropizzato dei piccoli centri rurali, dei comuni, della rete di strade e percorsi, dei paesaggi agricoli, un modello del genere non era applicabile. In Italia, schierato su un fronte alternativo rispetto al precedente, a riequilibrare le idee derivate da un punto di vista così diverso dal nostro modo di concepire (e quindi proteggere) i beni ambientali e il paesaggio fu Valerio Giacomini, che assieme a Valerio Romani gettò le basi per una visione più moderna della politica del territorio e del paesaggio. Considerando l’uomo, sebbene entità “diversa”, facente parte integrante della biosfera, la visione della tutela ambientale cambiò radicalmente. Ecco quindi che, dando dignità ai “paesaggi storici” come frutto della modificazione della natura operata dall’uomo nel corso dei millenni, si apriva una nuova frontiera della conservazione. 1

Le specificità di un territorio sono intese sia in senso paesaggistico che in senso strettamente biologico. Se definendo il paesaggio si parla di “parti di territorio così come sono percepite dalle popolazioni locali” (vedi convenzione europea del Paesaggio, art. 1), quindi come insieme di modificazioni che si sono succedute nel corso dei secoli, per quanto riguarda le caratteristiche biologiche bisogna rifarsi al concetto di biodiversità, ben descritto nel seguente saggio: Ross, Biodiversity, - Washington, D.C, E.O. Wilson and F.M. Peter, eds 2 DEVALL, BILL; SESSIONS, GEORGE, Deep Ecology, Gibbs M. Smith, 1985.

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Non solo secondo Giacomini non era da considerarsi un’eresia, tanto per rifarsi ad un argomento sempre attuale, comprendere all’interno dei parchi centri abitati e attività produttive, ma era necessario, perché così facendo si considerava il sistema nella sua globalità e poteva quindi essere governato nel modo più corretto. In un passo della pubblicazione chiave che raccoglie le teorie di Valerio Giacomini e Valerio Romani3 si legge: “Poiché un parco è istituito e amministrato con il fine di ricercare comportamenti compatibili ottimali, esso deve intendersi, oltre che come strumento di conservazione, anche come occasione e veicolo di sviluppo e di promozione sociale per quelle comunità che in esso sono comprese. Ciò significa, in pratica, considerare un parco come luogo di attività e constatare l’identità fra pianificazione di un parco e pianificazione economico-sociale ed urbanistica (in senso lato) dell’area medesima” (…) “In altri termini, la progettazione di un parco è da intendersi come lo studio di un processo capace di avviare una coscienza collettiva, dilatata alla dimensione ecologica, che garantisca la qualifica di <compatibile> ai modelli di sviluppo in atto e in avvenire sull’area.” Avendo la presunzione di correggere leggermente il tiro, si potrebbe dire che i modelli di sviluppo possono (talvolta devono) essere verificati e casomai modificati per far sì che all’interno di un’area protetta agiscano esclusivamente attività che non ne intacchino non solo i beni naturalistici, ma anche quelli economici tradizionali e sociologici. Attualmente il dibattito non solo sembra essersi insabbiato, ma in alcuni casi appare addirittura regredito. Paradossalmente, al notevole aumento del numero delle aree protette di questi ultimi anni fa riscontro un atteggiamento più diffidente da parte di amministratori e comunità locali, dovuto a politiche di gestione restrittive e tutt’altro che lungimiranti. Probabilmente in questo momento storico in cui è evidente che non ha senso parlare di difesa della natura entro confini delimitati, visto che il sistema ecologico va compreso e gestito nella sua globalità 4, occorre fare un passo in avanti. Altri temi inoltre, negli ultimi due decenni, sono stati affiancati alla tutela ambientale “tradizionale”, temi strettamente legati ai disastri ambientali provocati da un uso troppo disinvolto dei combustibili fossili e dell’energia in generale: oggi non si può parlare di tutela ambientale senza trattare la questione del risparmio energetico. L’idea di “parco a misura d’uomo”auspicata da Giacomini non è più sufficiente garanzia di sostenibilità delle trasformazioni. Pare il caso piuttosto di educare “uomini a misura di parco”, intesi come elementi che, grazie alla consapevolezza della non inesauribilità delle fonti naturali ed energetiche del pianeta, mettono in atto una serie di comportamenti “ecologici” che hanno come fine il ripristino di equilibri perduti. I parchi potrebbero diventare luoghi dove le politiche energetiche potrebbero essere sperimentate per poi essere trasferite nel resto del territorio. Il raggiungimento dell’autonomia energetica, o comunque la non completa dipendenza dall’esterno, favoriranno logiche di sviluppo svincolate da quelle attuali, che ci vedono parte di un sistema globale costituito da un circolo vizioso di consumo e produzione. Delle comunità locali energeticamente indipendenti potrebbero rappresentare un modello di sviluppo alternativo che abbia al centro del proprio essere le risorse locali e il lavoro dell’uomo. Si reintrodurrebbe almeno in parte uno dei principi di equilibrio della civiltà contadina, in cui la produzione era calibrata sul consumo. Se dal punto di vista economico questa è ormai un’utopia, dal punto di vista energetico potrebbe rappresentare un punto fondamentale per costituire “comunità energeticamente sostenibili”. L’idea di sperimentare politiche energetiche sostenibili all’interno delle aree naturali protette non è una novità: già nel 2001, in cui l’adesione al Protocollo di Kyoto 5 era ancora di là da 3

VALERIO GIACOMINI, VALERIO ROMANI, Uomini e Parchi , Franco Angeli Editore, Milano 1982. Pagg 53-54 L’applicazione pratica del concetto di reti ecologiche è stata messa in atto dal progetto UE “natura 2000”. Tutte le informazioni a riguardo sono disponibili sul sito http://ec.europa.eu/environment/nature/index_en.htm 4

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venire, la Federazione Italiana dei parchi e delle riserve naturali, in accordo con Enel e Ministero dell’Ambiente, si impegnò a “sostenere l’attività gestionale delle aree protette secondo le proprie finalità istitutive e quelle fissate dalla legge 394/91, con particolare riferimento alla promozione della ricerca scientifica e alla sperimentazione di attività produttive compatibili” 6. Quel protocollo, come è facile dedurre a sei anni di distanza, non ha avuto alcun seguito. C’è voluta la concomitanza di due fattori per sensibilizzare i Governi sul problema dell’energia: da una parte l’impennata dei prezzi del petrolio avvenuta negli ultimi anni, dall’altra la necessità di garantire gli approvvigionamenti energetici –evidentemente essenziale per la competitività economica nel mercato globale- in un periodo di instabilità geo-politica che non permette pianificazioni a lungo termine7. Se, come si è detto, è ormai evidente che le conseguenze ambientali delle politiche energetiche nazionali si ripercuotono a livello globale, è altrettanto vero che è a livello locale che si decide la loro fattibilità. La sperimentazione di seguito descritta, nonostante si collochi in un ambito trans-nazionale molto ampio che non si ferma né al Parco del Ticino, né alla rete di aree che costituiscono il Progetto Wise-plans, è fortemente calata sul territorio: del territorio infatti si studiano innanzitutto le caratteristiche e le potenzialità, così come delle comunità locali si recepiscono le istanze.Il progetto si può definire come un’esplorazione su un altro modo di vedere i parchi, che da luoghi del non fare diventano luoghi di sperimentazione, avanguardie di un modo nuovo di vedere il nostro rapporto con le risorse energetiche.

Figura 1: centrale idroelettrica sul fiume Skellefteå, in Svezia.

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Il testo integrale del Protocollo di Kyoto è scaricabile dal seguente indirizzo internet: www.legambiente.org/campagne/ecolampadine/allegati/protocolloKyoto.pdf 6 L’energia nei Parchi. Protocollo d’intesa promosso da: Enel, Federazione Italiana dei parchi e delle riserve naturali, Legambiente e Ministero dell’Ambiente. Consultabile al seguente indirizzo internet: http://www.legambiente.eu/documenti/2000/protocollo_enel4.php 7 Lo sviluppo delle rinnovabili in Italia tra necessità e opportunità, Rapporto ENEA 2005, consultabile al seguente indirizzo internet: http://www.enea.it/com/web/pubblicazioni/REA_05/REA_05.html

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IL PROGETTO WISE-PLANS

Wise plans “Cooperation Between Communities for Energy Action Plans” è un progetto finanziato dall’Unione Europea che ha avuto inizio il primo gennaio 2006 e si concluderà il 31 dicembre 2007. Il progetto si inserisce in un contesto ben preciso dettato dalle politiche energetiche europee: E’ del 10 gennaio 2007 l’ultimo documento della Commissione Europea che conferma gli indirizzi comunitari in materia di energie rinnovabili; un pacchetto integrato su energia e cambiamenti climatici volto a ridurre le emissioni di almeno il 20% nel 2020 attraverso l’abbattimento delle emissioni grazie all’uso di moderne tecnologie, presentato dalla Commissione agli Stati membri8. Wise plans, in linea con queste politiche, ha come fine quello di creare “comunità energeticamente sostenibili” (SEC) caratterizzate da un uso razionale delle risorse e dall’implementazione di fonti energetiche alternative che sfruttino elementi naturali, quindi a impatto zero. Questa esperienza –unica nel suo genere- vede coinvolte quattro comunità in altrettante nazioni europee: Italia, Spagna e Galles e Svezia (gli svedesi, definiti “partner tecnici”, avendo già esperienza nel settore dei piani energetici, assumeranno il ruolo di supervisori e consulenti del progetto). Nonostante i siti siano di diversa natura, la caratteristica comune è la coesistenza di aree di alto valore ecologico e paesaggistico e di attività produttive, agricole e industriali.

Figura 2: una delle sedi del Parco regionale del Ticino che ha ospitato un incontro con gli stakeholders.

Tutti gli attori del mercato energetico, inclusi i comuni cittadini, sono resi partecipi di un processo che vedrà la definizione di Piani d’Azione Energetici. In questo modo la sostenibilità energetica diventa un obiettivo non solo per i decisori politici ma anche per chi è coinvolto nei processi produttivi e tutti coloro che agiscono all’interno della comunità.I 8

Una politica energetica per l’Europa, Comunicazione della Commissione al Consiglio europeo e al Parlamento europeo del 10 gennaio 2007

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cittadini partecipano quindi, grazie a un meccanismo che li vede direttamente coinvolti, a un processo migliorativo del proprio territorio. Un ruolo fondamentale per la riuscita di un progetto così ambizioso lo avrà l’attività informativa messa in atto dalle autorità locali e le scuole, che sensibilizzeranno la popolazione sul ruolo fondamentale che ogni individuo potrà avere affinché si metta in atto il contenimento energetico attraverso piccole azioni quotidiane.Prioritaria è stata la definizione di una metodologia comune. A questa fase, in cui si sono studiate azioni comuni sulla base di caratteristiche eterogenee dei siti, si è data grande importanza visto un degli obiettivi fondamentali del progetto: ottenere un processo replicabile ovunque. Durante il primo anno si è quindi reso necessario un coordinamento generale tra i partner per definire metodi comuni di lavoro applicabili alle quattro realtà, che avesse come obiettivo quello di coinvolgere tutti i portatori di interesse e definire un comune metodo di sviluppo dei SEAPs (Susteinable Energy Action Plans). Contemporaneamente si sono effettuate delle indagini sui singoli territori per analizzare i consumi energetici, valutandone natura ed entità. Fondamentale per comprendere quali potessero essere le migliorie da apportare al sistema energetico locale sono state analisi riguardanti la provenienza dell’energia utilizzata corredati da un bilancio energetico che prendesse in considerazione l’uso di energia primaria. Analizzati i punti di forze e di debolezza dei sistemi, si è proceduto a tracciare una bozza comune dei SEAPs, che è stata in seguito presentata alle autorità locali. Da questo confronto, con il fondamentale supporto tecnico-scientifico dato dai partner svedesi, nascerà la base per la pianificazione condivisa e quindi l’elaborazione dei piani definitivi.

Figura 3: zona costiera di Swuansea County, nel Galles.

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Figura 4: una veduta generale del Parco del Ticino

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L’ESPERIENZA CONDOTTA NEL PARCO DEL TICINO

In Lombardia, con La Legge Regionale n. 86 del 1983, è stato istituito il “Sistema delle aree Protette Lombarde” che include ventisei parchi regionali distinti per tipologia (fluviali, montani, di cintura metropolitana, agricoli e forestali), ventidue parchi di interesse sovracomunale, cinquantotto riserve naturali, venticinque monumenti naturali. La rete dei parchi lombardi ha come primo obiettivo quello di istituire attraverso gli Enti Gestori delle “agenzie territoriali” per la promozione dell’educazione e della divulgazione ambientale. Nel 1997 diventa operativo il progetto “Sistema parchi – Programma didattico”, finalizzato alla diffusione delle opportunità e degli strumenti esistenti nelle aree protette al mondo della scuola. Ma il sistema parchi non è solo scuola: vuole diventare una rete di opportunità di crescita per i parchi stessi e per le comunità che li abitano. Attraverso uno scambio di informazioni e di competenze tra le varie aree, l’obiettivo è quello di avviare uno sviluppo sostenibile all’interno dei parchi stessi. 9

Il Parco lombardo della Valle del Ticino è un parco regionale della Lombardia. Nato nel 1974 su iniziativa popolare, il Parco del Ticino ha come obiettivo principale la difesa e la conservazione del fiume e dell’ambiente naturale dagli impatti conseguenti alla crescente antropizzazione del territorio. Il Consorzio che gestisce il Parco è costituito da 47 Comuni e 3 Province. Il Parco è caratterizzato da un elevato grado di biodiversità, riconosciuta dall’UNESCO come “ Man Biosphere Riserve”. In virtù della localizzazione strategica tra le Province di Milano, Pavia e Varese, il Parco del Ticino è diventato un attore importante nell’implementazione di politiche di sviluppo locale. Nel territorio del Parco sono localizzate svariate centrali idroelettriche, un importante impianto termoelettrico (1.740 MW) e l’aerostazione intercontinentale di Malpensa. Il compito del Parco è armonizzare il bisogno di un ambiente protetto con quello dello sviluppo socio-economico della popolazione che lo abita: si ricorda che questa zona è la più popolata in Italia. Il fiume Ticino non solo rappresenta un polmone verde in un’area di forte antropizzazione e industrializzazione, ma anche un corridoio naturalistico che collega, per un centinaio di chilometri, l’area pedemontana del Lago Maggiore al Po con una significativa varietà di paesaggi, animali e specie vegetali.

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Un progetto innovativo come Wise plans non poteva non trovare qui terreno fertile per le sue sperimentazioni. Il Parco del Ticino ha una superficie complessiva pari a 91.547 ettari, circa il 5% del territorio protetto lombardo. E’ composto da una grande varietà di tipologie di territorio e di attività produttive, che lo rende ambito ideale per una sperimentazione del genere: 22.645 ettari sono a spiccata vocazione naturale. Sono comprese in queste aree quelle naturali prossime al fiume, zone umide e piccoli residui delle foresta planiziale che ricopriva l’intera Pianura Padana duemila anni fa. 50.160 ettari sono occupati da attività agricole (la zonizzazione del parco prevede “attività compatibili con la tutela delle aree protette”). 18.742 ettari sono urbanizzati. Sono comprese in queste zone anche importanti attività produttive e grandi infrastrutture, prime fra tutte l’aeroporto di Malpensa. Nella prima fase di lavoro si è ritenuto opportuno istituire, già in fase di raccolta dati, dei gruppi di lavoro, i cosiddetti LABs (Local Action Boards) che si occupassero di aspetti ritenuti fondamentali per uno sviluppo compatibile del parco: agricoltura, edilizia, mobilità, produzione, distribuzione e uso dell’energia. I LABs hanno visto coinvolti i Comuni, le province di Milano, Pavia e Varese, le associazioni di categoria, le associazioni ambientaliste e tutti gli stakeholders (portatori di interesse). I tavoli di lavoro tematici creati sono stati cinque, e ognuno ha approfondito un tema ritenuto strategico: a) Agricoltura e foreste; b) Edilizia; c) Mobilità sostenibile e Agende 21; d) Produzione e distribuzione di energia; e) Informazione, disseminazione e prototipi. Al fine di coordinare i lavori ai diversi livelli di progetto, europeo e locale, è stata istituita una “cabina di regia” interna all’ente. Anche le scuole sono state coinvolte attraverso il lancio del concorso “WISE-SCHOOL” per la presentazione di idee e prototipi finalizzati alla realizzazione di percorsi informativi per i cittadini: le Vie dell’energia.

Figura 5: Parco Nazionale di Doñana, Spagna

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Dopo il primo anno, in seguito alla raccolta e all’elaborazione dei dati, al dibattito con operatori del settore e con diversi soggetti pubblici e associativi operanti sul territorio, è stato possibile individuare per grandi linee una serie di azioni da sviluppare nella successiva fase di lavoro. Ecco di seguito una tabella schematica con le priorità divise per settore, così come riportate nei primi atti dei laboratori divulgati dal Parco 10: SETTORE

PRIORITA’ Introduzione di coltivazioni energetiche e utilizzo di co-digestione con reflui zootecnici per la produzione di biogas. Sviluppo della filiera della biomassa forestale per alimentare impianti centralizzati.

Agricoltura

Diffusione dell’installazione di caldaie a legno di piccole dimensioni e elevati standard ambientali. Promozione di “aziende agricole modello” (private o centri Parco) che utilizzino diverse tecnologie a fonte rinnovabile (solare, biomassa, geotermico) e siano di esempio nel territorio del Parco. Introduzione di standard minimi, linee-guida e incentivi per il risparmio energetico (e l’utilizzo delle fonti rinnovabili) negli strumenti amministrativi (esempio: piani di governo del territorio, regolamenti edilizi) dei Comuni del Parco.

Edilizia Promozione di audit energetici (e di possibili successivi interventi) sugli edifici pubblici per tutti i Comuni del Parco; promozione di contratti di esercizio energia per gli edifici di proprietà dei Comuni del Parco. Promozione dell’incremento di percorsi ciclabili urbani e di collegamento urbano/extraurbano da parte dei Comuni del Parco. Mobilità

Analisi delle recenti iniziative in tema di mobilità sostenibile e proposizione delle più efficaci per una possibile ripetizione nei diversi contesti del Parco. Sfruttamento del potenziale di co-generazione e teleriscaldamento a partire dal calore di scarto di impianti termoelettrici esistenti.

Produzione, distribuzione e uso dell’energia

Sfruttamento delle risorse idriche (fiumi, canali ecc.) per la produzione di energia rinnovabile; nuove installazioni e gestione sostenibile (secondo parametri imposti dai criteri di Deflusso Minimo Vitale) degli impianti esistenti. Sfruttamento del potenziale di risparmio energetico da interventi diffusi sul territorio (esempio: illuminazione pubblica, gestione delle risorse idriche, cigli di sistemazioni di lotti industriali, eccetera).

10

Cfr. Bozza del Piano d’azione per l’energia sostenibile nel parco del Ticino.

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I risultati più interessanti giunti da questa prima fase di lavoro sono quelli derivanti dalla proposta di riconversione e di ammodernamento delle attività industriali esistenti sul territorio. Il pragmatismo che ha caratterizzato i tavoli di lavoro ha fatto sì che non si cedesse alla tentazione di proporre sperimentazioni, soprattutto nel campo delle produzione e distribuzione dell’energia, avulse dal contesto. Le proposte qui sopra elencate, ora in via di sviluppo, sono derivate da una attenta lettura delle potenzialità e delle criticità del territorio del Parco e sono proposte quantificabili, compatibili, in una parola realizzabili. Un lavoro molto importante è stato fatto nel settore dell’agricoltura. Qui si è partiti dall’idea di conservare e rafforzare il rapporto storico tra l’uomo e territorio, che ha prodotto nel corso dei secoli una società contadina fortemente caratterizzata. Viene qui introdotto il concetto di riconversione delle aziende agricole in aziende energetiche, che se da una parte, come detto, non snatura il secolare rapporto tra uomo e territorio, dall’altro inserisce un’idea fondamentale: quella di produrre materia prima che verrà poi utilizzata come fonte energetica per altri tipi di produzione di energia. Si prevede l’introduzione di coltivazioni energetiche11 all’interno del territorio del Parco, sia erbacee (mais) sia legnose (pioppi) attraverso la riconversione di parte delle attività esistenti. L’obiettivo sarebbe quello di raggiungere una quantità di biomassa tale da alimentare gli impianti produttivi esistenti e al contempo “progettare” il territorio avendo come obiettivo quello di migliorarne le caratteristiche paesaggistiche e faunistiche. Per quanto riguarda coltivazioni esistenti come mais e riso, è previsto il recupero dei sottoprodotti (stocchi di mais, paglia, eccetera) che produrranno anch’essi energia, evitando tra l’altro la liberazione nell’atmosfera dei prodotti della combustione. I residui forestali potrebbero invece essere facilmente riconvertiti per alimentare caldaie a biomassa (pellets innanzitutto) per usi privati ma anche aziendali. E’ prevista la produzione inoltre di bio-combustibili grazie all’individuazione di colture destinabili alla produzione di bioetanolo, anche alternative al mais12. Le coltivazioni energetiche elencate, unite al riutilizzo di reflui zootecnici al fine di produrre energia e di ricircolo del carico minerale per usi agricoli, rappresenterebbero quindi una grande riserva di energia primaria di cui il territorio del parco potrebbe disporre. Queste attività saranno supportate infine“da una campagna di sensibilizzazione della popolazione locale sul significato ambientale degli interventi realizzati nelle aziende agricole e delle amministrazioni pubbliche affinché collaborino con le aziende in qualità di “utilizzatori” delle energie prodotte sul suo territorio con la progettazione di filiere”13.

APPLICABILITA’

Gli obiettivi che il progetto Wise-plans si è dato, già riassunti sinteticamente, saranno raggiunti attraverso tre tipi di azioni: a. di pianificazione; b. di supporto alla elaborazione e gestione di progetti pilota opportunamente individuati; c. di supporto a progetti di informazione.

11

AA. VV., Le colture dedicate ad uso energetico: il progetto Bioenergy Farm, Quaderno ARSIA 6/2004, Firenze, U.N.I.F., Di.S.A.F.Ri., I.R.L., Biomasse agricole e forestali per uso energetico, Atti del convegno nazionale, AGRA Editore, Selva di Meana-Allerona (TR), 28-29/09/2000 12 Mosca G. (2004), Aspetti Agronomici e Ambientali della Filiera Biodiesel, atti del convegno ''Chimica Verde'' dall'agricoltura materie prime rinnovabili e a basso impatto ambientale, Firenze, Fortezza da Basso, 1-3 aprile 2004 13 Bozza del Piano d’azione per l’energia sostenibile nel parco del Ticino.

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A livello locale l’esperienza di Wise-Plans si tradurrà in un Piano di settore, che definirà le politiche (energetiche e non solo) del Parco a integrazione del Piano di Coordinamento, strumento di pianificazione della Regione Lombardia introdotto dalla L. R. n.86 del 1983.

CONCLUSIONI

Il valore di un’esperienza come quella di Wise-Plans, seppure ancora in corso, non può certo essere valutato solo rispetto alla mole (comunque notevole) di elaborazioni scaturite durante le attività di laboratorio. Per verificarne l’efficacia e la serietà si deve per forza di cose fare riferimento all’approccio ai problemi analizzati, che, è importante dirlo, mai è stato di tipo semplificatorio. Le caratteristiche positive individuabili sono riassumibili in tre punti: 1. valutazione della complessità del territorio e dei fenomeni che ne fanno parte; 2. ricorso a un’autentica forma di pianificazione partecipata, avvenuta attraverso scambi costanti con laboratori locali, scuole, associazioni eccetera; 3. proposta di quelle soluzioni realmente fattibili, che tengono conto della realtà sociale e culturale del luogo, quindi realmente applicabili. La replicabilità del progetto renderà possibile l’introduzione del concetto di SEC anche in altri luoghi. La speranza è che, grazie anche a queste esperienze, si attuino sforzi sempre maggiori per comprendere i territori e studiarne uno sviluppo realmente sostenibile.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI Le colture dedicate ad uso energetico: il progetto Bioenergy Farm, Quaderno ARSIA 6/2004, Firenze DEVALL, BILL; SESSIONS , GEORGE, Deep Ecology, Gibbs M. Smith, 1985. VALERIO GIACOMINI, VALERIO ROMANI, Uomini e Parchi, Franco Angeli ed., Milano, 1982. U.N.I.F., Di.S.A.F.Ri., I.R.L., Biomasse agricole e forestali per uso energetico, Atti del convegno nazionale, AGRA Editore, Selva di Meana-Allerona (TR), 28-29/09/2000

PUBBLICAZIONI CONSULTABILI VIA INTERNET :

Le fonti rinnovabili. L’Italia che non si esaurisce e che rispetta l’ambiente. http://www.sorgenia.it/Home/Saperne_di_piu/Efficienza_Ambiente/Fonti_Rinnovabili/ L’energia nei Parchi. Protocollo d’intesa promosso da: Enel, Federazione Italiana dei parchi e delle riserve naturali, Legambiente e Ministero dell’Ambiente. http://www.legambiente.eu/documenti/2000/protocollo_enel4.php Protocollo di Kyoto. www.legambiente.org/campagne/ecolampadine/allegati/protocolloKyoto.pdf Lo sviluppo delle rinnovabili in Italia tra necessità e opportunità, Rapporto ENEA 2005. www.enea.it/com/web/pubblicazioni/REA_05/REA_05.html

RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Tutte le immagini sono state fornite dall’autore del contributo.

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di settembre 2007. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze

Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica

http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 2007 - numero 8 luglio/dicembre - a cura di Anna Lambertini sezione: Eventi e Segnalazioni pagg. 178 - 186

GIARDINI CONTEMPORANEI IN FRANCIA: SPERIMENTAZIONI /ESPERIENZE. UN INCONTRO A FIRENZE CON HERVÉ BRUNON. Claudia Maria Bucelli *

Summary Confronted by the more and more complex social and cultural structures of our times and the more and more varied debates on contemporary garden projects, an imperative need for research arises which would allow us to find comprehensive instruments and interpretation viewpoints for new realisations. As in ancient times, the garden continues to be a reflection of the world that bore it and at the same time contains it. By translating itself both ethically and aesthetically, with its own formalisms and the 'idea' that such a world generates. Finally it creates a work open to critical interpretation on how new relationships between man and nature and the millenary art of gardening, that stems from it, came into relation. Key-words Contemporary garden, France, sperimentation, maintenance, ergonomy, new tipology, ecology.

Abstract Davanti alla sempre più complessa compagine socio culturale dei tempi contemporanei ed al sempre più variegato dibattito attorno al progetto di giardino contemporaneo sorge imperativa la necessità di cercare e trovare strumenti di comprensione e chiavi di lettura per le nuove realizzazioni. Come nei tempi passati, infatti, il giardino continua, in quanto riflesso del mondo nel quale nasce e che lo contiene, a tradurre eticamente ed esteticamente nei propri formalismi l''idea' che tale mondo genera, In questo modo viene a costituire conseguentemente un'opera aperta alla lettura critica di come si strutturino i nuovi rapporti dell'uomo nei confronti della natura e dell'arte millenaria del giardino che da essa trae ogni origine. Parole chiave Giardino contemporaneo, Francia, sperimentazione, manutenzione, ergonomia, nuova tipologia, ecologia.

*Dottoranda di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze

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«Le jardin est l'une des formes qui transitent à travers l'histoire car il est, littéralement, une inscription, aussi précise qu'un dessin magique, que trace le travail du sol à la surface du globe terrestre, héritant de toute la tradition des corps à corps avec la terre rebelle pour l'amadouer, la féconder, l'asservir peut-être. Chaque jardin implanté et cultivé décrit les limites d'un territoire défini, d'un domaine réservé et clos dans lequel, et par lequel, l'esprit a réussi à comprendre et à dominer les lois de l'univers» Isabelle Auricoste, 2006.

LE FINALITÀ DEL SEMINARIO Se l'«histoire des jardins n'a rien de linéaire, car l'évolution des idées et des formes n'est jamais continue ni homogène répondant aux vicissitudes complexes qui président à la transformation des sociétés et des cultures»1, a maggior ragione, davanti alla implementante molteplicità della società odierna, ed al parallelo, sempre più consistente e poliedrico dibattito attorno al giardino contemporaneo che da essa nasce e significa, si prospettano interrogativi che imperativamente richiedono risposte. Emblematico della complessità strutturale di quelle culture che lo partoriscono, il giardino2, ancorché contemporaneo, spazio mentale, metafora della 'natura' assunta ad 'universo' vivente, rappresentazione simbolica, etica, estetica, della relazione dell'uomo con la natura, continua a costituirsi, nella trasversalità diacronica, come struttura paradigmantica del mondo. Imago mundi, dunque, «luogo platonico per eccellenza, il luogo in cui la realtà naturale viene modellata dall'uomo imitatore del Demiurgo platonico: e con finalismo di sé consapevole viene configurato come mimesi dell'idea».3 Immagine generata in un momento storico, quello attuale, in cui ancora non si è risolta la profonda crisi dell'idea di giardino reale, figura e diretta conseguenza della crisi del giardino ideale.4 E dove la Visio mundi è ancora da delineare mentalmente, analizzare teoricamente, alla ricerca di quello che l'idea di giardino, «la plus petite parcelle du monde et puis (...) la totalité du monde»5 continua a significare per la coscienza degli uomini. Del resto, ambito di speculazione filosofica, molteplice racconto di segni e simboli, luogo di formalizzazione di quell'idea mentale, rapporto ideologico uomo-natura, Visio Mundi appunto, tra etica ed estetica, che lo ha necessitato, attorno alla realtà del giardino si ripropongono interrogativi circa la consapevole relazione uomo-natura e la conseguente formalizzazione come risultato di eticità ed artisticità. Effetto del fare e dell'agire degli uomini, secondo quell'intrinseco legame per cui «non c'è progetto senza etica», 6 ma neanche esperienza estetica di paesaggio, di giardino, separata «dalla contemplazione, dal viverci dentro»,7 porta spontaneamente ad interrogarsi circa quali siano gli attuali orientamenti della 1

HERVE BRUNON, MONIQUE MOSSER, Le Jardin contemporain. Renouveau, expériences et enjeux Paris, Editions Scala, 2006, p. 15. 2 A Massimo Venturi Ferriolo si deve la specificazione che non esiste differenza fra giardino e paesaggio, che come essenza hanno una profonda corrispondenza, se non, addirittura, una identità: "La concettualizzazione del paesaggio [...] ci conduce, nella teoria, anche alla determinazione del giardino, dal momento che oggi, dopo l'esperienza dei secoli XVIII° e XIX°, tendiamo, grazie proprio alla speculazione filosofica, a configurare unitariamente giardino e paesaggio." Cfr. M. VENTURI FERRIOLO, Pensare il giardino, in Pensare il giardino, a cura di Laura Capone, Paola Lanzara, Massimo Venturi Ferriolo, Milano, Guerini e Associati, 1992, p. 29. 3 R. ASSUNTO , Il giardino come filosofia della natura e della storia in Il giardino come labirinto della storia, Atti del Convegno Internazionale, Palermo, 14-17 aprile 1984, Palermo, Centro Studi di Storia e Arte dei Giardini, s.d. (1987), p. 11. 4 Ibidem. 5 Michel Foucault, in HERVE BRUNON , MONIQUE MOSSER op. cit., Paris, 2006, p. 11. 6 M. VENTURI FERRIOLO, Etiche del paesaggio, cit., p. 39. 7 M. VENTURI FERRIOLO, Definire il paesaggio, in Paesaggio e paesaggi veneti, a cura di Giuliana Baldan Zenoni-Politeo, Milano, Guerini Studio, 1999, p. 18.

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paesaggistica europea, che sempre più nettamente si definisce come ambito privilegiato di dibattiti ed innovazioni sul giardino, da interventi di ampio respiro paesaggistico a piccole aree di verde. Quali gli strumenti teorici, culturali, quale il taglio teoretico d'indagine per poter leggere, interpretare, comprendere le innumerevoli realtà di un panorama in continua trasformazione, afferente a sempre più numerose e differenziate specificità disciplinari ed approcci critici. Un approfondimento di queste tematiche, sguardo trasversale sulle contemporanee realizzazioni dello specifico francese, dove il sistema delle beaux-arts aveva prima mantenuto il giardino ai margini della creazione artistica, per poi renderlo progressivamente protagonista nello sviluppo di una ricca gamma di pluridisciplinari concertazioni speculative e concretizzazioni formali, è stato presentato da Hervé Brunon. Storico impegnato nell'ambito della ricerca sull'architettura moderna, Brunon sta indagando, dopo eminenti esempi del passato, nello specifico Pratolino, il tema del giardino contemporaneo, in particolare proprio le realizzazioni francesi degli ultimi trent'anni. E proprio in Francia questo nuovo protagonista del panorama figurativo, il giardino appunto, si colloca nelle sue molteplici valenze tipologiche e formali in contesti altamente differenziati, proponendosi in risposta a problematiche e dinamiche urbane e periurbane completamente trasformate. Ed esplicitando, in quanto ambito privilegiato di speculazione filosofica e territorio in cui si misurano filosofia e concreta operatività, quella complessa funzione ricettiva delle istanze della società che gli è propria e lo comprende, e che hanno visto mutare radicalmente le stesse valenze delle figure professionali che vi afferiscono. Il paesaggista sta infatti assumendo in Francia, e non solo, i peculiari contorni di mediatore fra sollecitazioni sociali, commesse pubbliche, statali o locali, e figure professionali in senso più lato, sia nel restauro dei giardini storici che nella creazione di nuovi parchi, oppure, come nel caso emblematico di Lione, nel coordinamento in team di intere politiche urbane coerenti. Infatti, prodotto culturale di una società, laboratorio di esperienze sociali ed ecologiche in luoghi spesso, per così dire 'alternativi', nonché modello formale per un nuovo modo di rapportarsi ed abitare la natura ed il nostro pianeta, il giardino continua anche ad essere, sempre, l'opera intima delle singole personalità dei progettisti. Conseguentemente diviene la concretizzazione filtrata delle molteplici tendenze concettuali e morfologiche del contesto, ma anche di specifiche valenze e idealità sulle quali l'incontro di seminario, svoltosi il 12 dicembre 2006 presso l'Aula delle Pietre, nel Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio, Università degli Studi di Firenze, ha voluto orientare una riflessione. Costituendo un'occasione di confronto panoramico su numerosi interventi, con un Relatore che dall'arte millenaria del giardino molto ha estrapolato criticamente, l'incontro seminariale si è infatti proposto come momento di attenzione circa gli attuali indirizzi progettuali a livello europeo, peculiari esempi rappresentativi in risposta ad alcune fra le richieste e gli interrogativi più pressanti dell'uomo contemporaneo.

IL RELATORE Hervé Brunon, storico dell'arte, è chargé de recherche presso il CNRS a Parigi (Centre André Chastel, Centre National de la Recherche Scientifique - Université de Paris-IV Sorbonne). Ammesso nel 1991 in major de promotion al concorso della Ecole Normale Supérieure di Parigi, segue un percorso di studi prima scientifico (botanica ed ecologia), poi umanistico (letteratura e filosofia). L'orientamento allo studio dei giardini, e successiva specializzazione, è legato all'incontro, nel 1993, presso l'Ecole Nationale Supérieure du Paysage di Versailles, con Monique Mosser. Nel 2001 consegue il Dottorato di Ricerca in Storia dell'Arte all'Université de Paris-I Panthéon-Sorbonne, con una tesi, di cui è relatore Daniel Rabreau, dal titolo: Pratolino: art des jardins et imaginaire de la nature dans l’Italie de la seconde moitié du XVI e siècle, di prossima pubblicazione.

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Dopo cinque anni trascorsi in Italia, come borsista della Ecole Française de Rome e della Académie de France à Rome (Villa Medici, Roma), e fellow dell’ Harvard University Center for Italian Renaissance Studies (Villa I Tatti, Firenze), ora vive e lavora a Parigi. Insegna Storia dei giardini e del paesaggio presso l'Ecole Nationale Supérieure du Paysage (Versailles) e l'Ecole Nationale Supérieure d’Architecture (Versailles), prestandosi a moduli didattici anche presso altre sedi, fra le quali l'Institut National du Patrimoine (Parigi), l'Università Internazionale dell’Arte (Firenze), l'Università “La Sapienza” di Roma, l'Accademia delle Arti del Disegno (Firenze), il Gruppo Giardino Storico (Università di Padova). Fa parte del comitato di redazione della rivista Les Carnets du paysage, è membro invitato del comitato scientifico della Fondazione Benetton Studi Ricerche di Treviso, del Conseil d'Unité del Centre André Chastel (UMR8150), del Comitato scientifico per il restauro di Villa Medici a Roma, e co-fondatore del gruppo di ricerca sulla storia dell'arte dei giardini nell'Europa moderna «Autour d'André Le Nôtre». E' anche responsabile, con Monique Mosser, del programma Jardin et Paysages nel gruppo di ricerca sulla storia dell'architettura moderna (ERHAM). Dopo approfonditi studi su cultura e giardini dell'Italia rinascimentale, si occupa attualmente, in approccio critico interdisciplinare, di storia dei giardini e del paesaggio nella cultura europea in età moderna e contemporanea, di estetica del giardino, di storiografia ed epistemologia del paesaggio in rapporto alle scienze umane e sociali. Ha pubblicato numerosi saggi in riviste, cataloghi di mostre, raccolte di contributi, ed ha partecipato ad altrettanto numerosi convegni in Francia, Germania, Italia, Spagna e Svizzera. Ha curato il volume Le Jardin, notre double. Sagesse et déraison (Autrement, 1999), raccolta di contributi di sociologi, storici, filosofi, paesaggisti e scrittori sul significato attuale del giardino. Con Monique Mosser e Daniel Rabeau, ha organizzato il Convegno Internazionale Les Éléments et les métamorphoses de la nature. Imaginaire et symbolique des arts dans la culture européenne du XVIe au XVIIIe siècle (William Blake & Co, Art & Arts, 2004). Ha curato e tradotto un’antologia critica di scritti di Rosario Assunto (1915-1994) sull’estetica del giardino e del paesaggio: Retour au jardin. Essais pour une philosophie de la nature, 1976-1987 (Les Editions de l’Imprimeur, 2003). Ha recentemente pubblicato con Monique Mosser Le Jardin contemporain. Renouveau, expériences et enjeux (Editions Scala, 2006).

QUALCHE RIFLESSIONE SUL GIARDINO CONTEMPORANEO IN FRANCIA Il ventennio 1950-1970 fu un periodo di profonda crisi, protrattasi nei suoi epigoni fin dentro gli anni '80 e più, e ancora non completamente superata. Crisi della realtà del giardino in quanto crisi della sua stessa idea, non solo per le peculiarità italiane, ma anche francesi, degradate e declassate a verde pubblico nelle ZUP 8. Gli albori di una rinascita, anticipata da voci di denuncia davanti alla preziosità di un patrimonio unico sacrificato alla speculazione si intravidero solo verso la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta. Accorati appelli di letterati e scienziati denunciarono la perdita di opere d'arte nei giardini distrutti e lo sfruttamento scellerato delle risorse del pianeta, con conseguenze probabilmente irreversibili che oggi paghiamo e che ancora più nel futuro pagheremo. E il giardino riapparve dunque, nel suo spessore ideologico, ecologico, ma anche mnemonico, storico, culturale, prima come desiderio, poi come oggetto vivente, in tempi relativamente recenti, rincominciando a recuperare gradualmente, e non senza difficoltà, spazi e dignità perduti. In risposta ad esplicite e sempre più risolute pressioni di ampie fasce di popolazione, e di consapevoli movimenti intellettuali, prima élitari e poi sempre più collettivi, si è ridefinito, per voce della sociologa Françoise Dubost, oggetto protagonista di una nuova forma di sensibilità nei confronti della natura e del passato, 'Patrimonio verde'.9

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Zone à Urbanisation Priorité. 'Vert patrimoine', in HERVE BRUNON, MONIQUE MOSSER op. cit., Paris, 2006, p. 23.

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E se dal punto di vista ideologico e morfemico i formalismi del giardino degli anni Settanta si distinsero per un'ultima metamorfosi della tradizione paesaggistica, mettendo l'accento sull'artificialità dei rilievi, gli anni Ottanta si caratterizzarono per una reinterpretazione dell'eredità delle linee del cosiddetto 'giardino regolare',10 mentre dalla fine degli anni Novanta la qualificazione si spostò, dal punto di vista stilistico, sullo sviluppo dell'estetica 'naturalista' 11. Una risposta a tematiche progettuali vicine a quelle ecologiche ed al sempre maggiormente percepito problema del destino del pianeta, che suggerirono iconologie meno geometriche, più naturalistiche, nelle quali tornava protagonista il fruitore, e, ad esso connesso, il tema dominante del percorso, della passeggiata, del giardino fatto per camminarci dentro, luogo assuntiano dove vivere la contemplazione. Alle soglie del nuovo millennio imminenti tematiche fondative che lo propongono quale soggetto attivo di valorizzazione e tutela ecosistemica, supporto etico-ecologico di unità nella diversità, laboratorio di sperimentazione, manutenzione ed ergonomia, indicatore di nuovi criteri fruitivi, fra i quali intuitività e 'sesto senso'12, sembrano definire precisi riferimenti concettuali. Sulla falsariga della loro specificazione si è snodato il percorso della comunicazione di Hervé Brunon, in un parallelo finalizzato a tratteggiare i contorni delle nuove linee stilistiche oggetto dell'attuale attenzione. Dunque intervento su eredità del passato, reinvenzione della coerenza degli spazi pubblici urbani, il rischio, sempre attuale, di degradare il giardino a strumento di lucro, il tema, anch'esso sempre attuale, del giardino personale d'artista, il nuovo modo di vivere e abitare il mondo, ed il giardino, suo riflesso, secondo attitudini sociali ed ecologiche responsabili13 hanno costituito le linee guida di una proficua riflessione sui nuovi orientamenti di lettura, fruizione, spesso interattiva, recupero e restauro del giardino e del paesaggio nella contemporaneità francese. I concorsi per Le Tuileries, La Villette, il Parco Citröen ne sono stati un esempio paradigmatico. Per Le Tuileries, giardino storico, 'monumento vivente', risultò vincitore un progetto, quello di Pascal Cribier e Louis Benech che pose quale momento di riflessione portante il recupero dell'unitarietà e la attenzione all'economia manutentiva, motivo di reale, fattiva sopravvivenza di ogni giardino, con la conseguente 'ergonomia del giardinaggio', che ha definito imperativamente ogni caratteristica dimensionale dell'intervento.14 La Villette, uno dei primi Grands Travaux voluti dal Presidente Mitterand, fu una preziosa, riuscita occasione di rinnovamento teorico attorno al tema del giardino pubblico che, lo dimostra l'eccezionale mobilitazione suscitata dal Concorso Internazionale del 1982, costituiva già ambito privilegiato di riflessione e confronto per moltissimi progettisti. L'ambizioso progetto richiedeva di definire un parco precursore per il XXI secolo, espressione della cultura per la nuova città di Parigi, rappresentativo elemento accentratore e distributore di attività nell'integrazione di nuove tecnologie, nuovi morfemi, nuovi significati per il parco urbano. Rifiorito su un'area industriale dismessa, il progetto vincitore di Bernard Tscumi si evidenzia come griglia di punti, ventisei in tutto, visualizzati dalle folies, formalizzazione della rigida maglia geometrica di una scacchiera ortogonale, trama alla quale sovrapporre linee, curve e superfici per le varie funzioni. Uno spazio appartenente alla città, e come tale trattato, urbanisticamente: "La Villette est un morceau de ville, il fallat donc retrouver ici une certaine densité du bâti. Cette densité s'exprime par la trame"15. Il Parco Citröen, voluto dal Presidente Chirac in risposta politica e di immagine a quanto operato dal suo predecessore, definiva una regola di concorso richiedente sia disegno formale che 'caratteri di paesaggio'. Vinto da Allain Provost e Gilles Clément ex aequo, nella riunione dei progetti si definì alla fine come un vero 'ritorno al giardino' rispetto alla tecnologicità Tschumiana della Villette. Con la proposta dei giardini a tema, poi, per ognuno 10

Ibidem, p. 21. Ivi. 12 Ivi. 13 Ivi. 14 Dai viali, ai vialetti, ai carrés, calcolati sulle misure degli attrezzi dei giardinieri che se ne devono prendere cura, in HERVÉ BRUNON, MONIQUE MOSSER op. cit., Paris, 2006, p. 28. 15 Bernard Tschumi, 1999, in HERVE BRUNON, MONIQUE MOSSER op. cit., Paris, 2006, p. 43.

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dei quali precise ambiences ricreano specifiche atmosfere, si concretizzò come plurima interpretazione di 'aura paesaggistica' che costituisce, già di per sè, nel segno cui segue il simbolo, anche un ritorno alla simbologia nel giardino. Successivi importanti proposte seguirono a questi grandi parchi pubblici legati alla riqualificazione delle aree dismesse, come la Promenade Plantée, di Philippe Mathieux e Jacques Vergely, giardino pensile lungo quattro Km e largo 30 metri nato dal riuso di una infrastruttura divenuta obsoleta. Arteria verde generata su di un vecchio tratto di ferrovia, questo progetto ripropone una tipologia, quella dei Jardins Suspendus o Jardins sur Dalle, sviluppata dal punto di vista tipologico e tecnologico dagli anni Settanta. Poggiando il proprio supporto concettuale sul tema della passeggiata si definisce come un percorso, un viaggio, ponendosi, con i numerosi accessi alla viabilità sottostante, a legame non solo visivo fra i quartieri eterogenei che attraversa. Nel mantenimento del lussureggiante giardino e della vegetazione spontanea, robinie e ailanti, propone inoltre sia il tema della Coulée Verte che quello del Jardin de Friche. Gli esempi urbanistici di Lione sono un altro importante segnale della realtà francese contemporanea e, soprattutto, prova concreta di una valida, orchestrata strategia urbana in materia di giardini pubblici nella ridefinizione del sistema dei parchi di una grande città. Una politica degli spazi aperti paradigmatica e lungimirante verso tematiche quali ecologia, sviluppo sostenibile, governo del territorio, dove ancora una volta manutenzione ed ergonomia sono protagonisti della riflessione progettuale. Sviluppata parallelamente a livello compositivo e manutentivo, essa ha comportato anche la definizione di alcuni attrezzi specifici, spesso meccanici, colti dalle attività agrarie e precipuamente messi a punto per la periodica gestione degli ampi spazi verdi. Parte della riflessione del seminario si è orientata anche al tema giardino effimero, per il quale immancabile sorge la domanda se possa definirsi, nei termini della sua caratteristica di temporalità limitata, come prodotto culturale. Fenomeni apparsi in modo consistente dai primi anni Novanta, Chaumont-sur-Loire e Lausanne esempi paradigmatici, occasioni di espressione creativa a termine, i giardini effimeri, generalmente allestiti sulla suggestione di un unico tema proposto alla creatività dei Concepteurs, permettono di dare libero corso all'immaginazione, osando sperimentazioni ed innovazioni compositive e tecniche. Costituiscono inoltre nuclei ideali di novità anche formali, forse talvolta declassati a meri esercizi di stile in ricerca dell'effetto, sui quali risulta tuttavia opportuno riflettere. Si tratta infatti di eventi che in parte manifestano quell'ossessione alla novità e al cambiamento che divora la contemporanea società dei consumi: estetica sempre aggiornata, giardini sempre rinnovati, in un certo senso giardini usa e getta, di facile comprensione intellettiva, intenso coinvolgimento emotivo, agevole fruizione, veloce raggiungimento da parte di quello che il saggista Philippe Muray ha definito l'Homo festivus16 che non vuole perdere tempo a sperimentare la riflessione, e che sembra riuscire a comprendere solo qualcosa di pensato, progettato, compreso in vece sua. In questo senso una tale tipologia può porsi come filtro di riflessione anche davanti alle interessanti e meditate installazioni di Gerda Steiner e Jörg Lenzlinger, in particolare il loro Méta Jardin, collocazione temporanea che trasformandosi successivamente in un vero e proprio libero caos vegetale gioca in termini ironici fra i temi di arte e natura. Altre formalizzazioni di giardini che sembrano emergere nella contemporaneità a noi più vicina, i giardini a concetto, sono stati ampliamente trattati: diversi dai giardini tematici, esplicitazione di una nuova tendenza, che nell'esplicitato concetto, appunto, fornisce ogni chiave di interpretazione, si sono recentemente moltiplicati, divenendo fenomeno di moda, sull'onda dello sviluppo del cosiddetto turismo dei giardini. Hanno come loro emblematico esempio i Jardins de l'Imaginaire di Terrasson progettati da Kathryn Gustafson, che, nati come risposta ad un'esplicita richiesta di concorso per, in qualche modo, 'inventare' un'identità, garantendo visibilità turistica ad un piccolo comune rurale, si propongono come itinerario simbolico multisignificato e multireferenziale. Nel richiamo ad una pluralità di 16

HERVE BRUNON, MONIQUE MOSSER op. cit., Paris, 2006, p. 57.

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simbolismi il più possibile emblematici, massivamente comprensibili e, soprattutto, raccontati in un unico, monolitico percorso, sono fruibili, necessariamente, solo tramite visite guidate. E proprio nel processo rituale della visita, in un percorso imposto e ridondante di significati obbligati, definiscono la propria astratta referenzialità ideologica, per quanto mediata dall'innegabile qualità e suggestione compositiva, che nell'esplicitazione condizionata nega qualsiasi interpretazione personale e qualsivoglia percorso alternativo autonomo. Una proposta di frames tridimensionali in successione, di quadri compositivi da attraversare tangenzialmente ma da non percorrere, la cui controparte forse più massiva, le rotonde di ingresso ai centri abitati, spesso degenerazione del concetto di giardino e risibili soluzioni stilistiche da guardare in movimento per brevi secondi, costituiscono l'emblema di ben oltre la crisi dell'idea.

Figg. 1, 2: Kathryn Gustafson, Les Jardins de l'Imaginaire, Terrasson-Lavilledieu, Dordogne in HERVE BRUNON, MONIQUE MOSSER Le Jardin contemporain. Renouveau, expériences et enjeux Paris, Editions Scala, 2006, pp. 64, 66.

Sul prototipo del Jardin d'Artiste, il giardino privato di Monet essendone il vessillo, un'altra tipologia di giardino contemporaneo definisce i propri precipui caratteri, il Jardin Personnel, la cui concezione e trasposizione, differenziandosi da esempi passati, diventa un'arte che si impara sul campo, praticandola, come ha fatto Eric Borja, artista, scrittore, fotografo, divenuto giardiniere autodidatta nella creazione del proprio giardino di Clermonts17. Appassionato di giardini giapponesi, reinterpretati secondo la sua arte ed il suo proprio sentire, «(...) la création d'un jardin (...) (c'est) exprimer par une recréation idéalisée, stylisée, sublimée, le sentiment, l'émotion poétique qu'elle a suscités»18 Borja è ora progettista di giardini per la contemplazione che, privi di barriere, si aprono sul paesaggio agrario circostante. Accanto a lui Max Sauze, le cui opere d'arte dialogano con gli spazi del giardino, in un gioco di riflessioni e reciprocità figurali con l'elemento vegetale. Vicino alla tipologia del Jardin d'artiste si pone il giardino del collezionista, nell'esempio presentato del Jardin Plume, proprietà di Sylvie et Patrick Quibel, il cui protagonista, le 17 18

Beaumont-Monteux, Drôme, in HERVE BRUNON , MONIQUE MOSSER op. cit., Paris, 2006, p. 81. Eric Borja, 2005, in HERVE BRUNON , MONIQUE MOSSER op. cit., Paris, 2006, p. 81.

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graminacee disposte a profusione nel rigore di un impianto planimetrico a carrés, lo trasforma in giardino a tema e da collezione. Le diverse specie di graminacee, scelte e disposte sulla base del loro portamento, caratteristiche biologiche, fioritura e sfumature di colore in termini eminentemente pittorici, generano, nel moto del vento, una pacificante sensazione intensamente poetica.

Fig. 3: Érik Borja, Jardin des Clermonts, Beaumont-Monteux, Drôme. Fig. 4: Sylvie et Patrick Quibel Le Jardin Plume, Le Thil, Auzouville-sur-Ry, Seine-Maritime, Normandie, in HERVE BRUNON, MONIQUE MOSSER Le Jardin contemporain. Renouveau, expériences et enjeux Paris, Editions Scala, 2006, pp. 80, 76.

Dalla specificità botanica allo studio della biodiversità ai diversi approcci al tema dell'ecologia, spesso avvicinato come innovativo spunto di linguaggio artistico, Patrick Blanc con i suoi muri vegetali, Albert Kahn nel suo metaforico giardino di incontro e racconto, Louis Guillome Le Roy, fondatore dell'ecocattedrale, work in progress di ecosistema, monumento in divenire perpetuo costruito interamente con materiali di recupero e di riciclo cominciato nel 1983, si approda alle tematiche approfondite da Gilles Clément di Jardin en Mouvement e Jardin Planetaire, cui necessariamente riserviamo in questa sede brevissimi accenni. Il concetto di Giardino Planetario, teoria di un "projet politique d'écologie humaniste"19 che, nato dal pensiero di Giardino in Movimento, si allarga non solo a teoria, ma anche a principio progettuale, impegna ciascuno a relazionarsi alla terra, giardino in sè finito, chiuso, e soprattutto fragile, con lo stesso senso di responsabilità di un giardiniere che coltivando il proprio frammento si prende cura dell'intero pianeta, sfruttando le molteplici potenzialità e dinamiche naturali in totale sinergia con l'ambiente. Altri progetti di ecologia per così dire concreta sono accomunati da queste tematiche, per le quali forse uno dei pensieri più affascinanti e reinterpretati è quello della ricolonizzazione di aree abbandonate, caso emblematico il giardino di Annick Bertrand e Yves Gillen, una nicchia ecologica dove vivere in autosussistenza e coltivazioni biologiche indipendentemente dalla società dei consumi. Torbiera umida sulla quale vigoreggia una lussureggiante vegetazione di vivaces e rose, questo spazio mantiene volutamente una parte lasciata ad incolto, che è stata lentamente riconquistata dalla foresta. Altri progetti orientati alla salvaguardia e alla tutela vi si aggiungono: il Jardins du Marais, nel Parc Naturel Régional de Brière, proprietà collettiva indivisa, che, nel rischio di scomparire, ha movimentato coscienze ed energie raccoltesi sinergicamente a dare vita ad un esperimento innovativo di conduzione secondo principi naturalistici d'avanguardia. Tecniche di adeguamento del suolo, compostaggio e pacciamatura, drenaggio con scavo di canali in terra, sfruttamento di energia solare ed eolica vi permettono l'equilibrato mantenimento del fragile ecosistema della zona umida, visitabile a pagamento. Esempio simile è quello del Marais de Larchant, per il quale i 19

HERVE BRUNON, MONIQUE MOSSER Le op. cit., Paris, 2006, p. 103.

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proprietari, privati, con l'aiuto del paesaggista Pascal Cribier, hanno istituito nel 1988 una riserva naturale volontaria, creando una rete di argini e canali, successivamente popolatasi di specie che vi hanno riconquistato un loro habitat. 20

Fig. 5: Annik Bertrand e Yves Gillen, Les Jardins du Marais, Hoscas, Herbignac, Loire-Atlantique. Fig. 6: Ensemble des propriétaires, con Pascal Cribier, Marais de Larchant, Larchant, Seine-et-Marne, in HERVE BRUNON , MONIQUE MOSSER Le Jardin contemporain. Renouveau, expériences et enjeux Paris, Editions Scala, 2006, pp. 98, 99.

Dai temi dell'ecologia a quelli sociali il passaggio è spesso conseguenza obbligata: esempio ne sono i Jardins Partagés, giardini collettivi né privati né pubblici, legittimamente istituiti dal 1999, semplici luoghi di incontro e vita di collettività, spazi verdi sottratti alla speculazione dove la pratica alternativa dell'orticoltura e del giardinaggio in città diventa elemento di aggregazione. Nati dall'eredità dei Jardin Ouvriers questi luoghi hanno subito trasformazioni, nel ricco dopoguerra il ruolo alimentare divenuto secondario, lasciando il passo a finalità sociali più raffinate: incontro, scambio culturale, sperimentazioni colturali, attività artistiche. Ad essi sono strettamente imparentati i giardini a fini terapeutici, messi a profitto di alcuni servizi medici per alleviare difficoltà psichiche, e i Jardins d'Insercion, giardini carcerari finalizzati al reinserimento di persone in difficoltà tramite attività manuali in giardino, la cui produzione biologica, come nel carcere femminile di Rennes, viene rivenduta ad una selezionata cerchia di persone sensibili ed attive nell'ambito di queste tematiche, chiamati Consommacteurs proprio a sottolineare il loro attivo ruolo di impegno sociale ed ecologico.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: BRUNON, H. MOSSER , M. (2006) Le Jardin contemporain. Renouveau, expériences et enjeux, Editions Scala, Paris. ASSUNTO R., (1987) Il giardino come filosofia della natura e della storia, in Il giardino come labirinto della storia, Atti del Convegno Internazionale, Palermo, 14-17 aprile 1984, Centro Studi di Storia e Arte dei Giardini, Palermo. VENTURI FERRIOLO M., (2003) Etiche del paesaggio, in Oltre il giardino. Le architetture vegetali e il paesaggio, a cura di Gabriella Guerci, Laura Pelissetti, Lionella Scazzosi, Olschki, Firenze. VENTURI FERRIOLO , M. 1999) Definire il paesaggio, in Paesaggio e paesaggi veneti, a cura di Giuliana Baldan Zenoni-Politeo, Guerini Studio, Milano. Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di ottobre 2007 © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte. 20

HERVE BRUNON, MONIQUE MOSSER op. cit., Paris, 2006, p. 99.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768

Università degli Studi di Firenze Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 5 - numero 8 - luglio/dicembre 2007 - a cura di Anna Lambertini sezione: Eventi e Segnalazioni pagg. 167 - 177

APPUNTI

DA E PER UN SEMINARIO. TRA PROGETTO D'INFRASTRUTTURA E PROGETTO URBANO : IL CASO DELLA TRAMVIA DI FIRENZE Francesco Alberti*

Summary For twenty years we have observed all over Europe a renaissance of the tramway as a public transport system. This phenomenon can be related to the upgrades of technology and especially to the interventions of urban improvement usally carried out together with the construction of new tracks. On the contrary, in Florence, where a new tram network has been building since 2004, a traditional sectorial approach has still prevailed, unable to offer solutions to conflicting uses of the street space. Consequently citizens’ hostility against the tramway has increased. The University of Florence has attempted to reopen the discussion about the positive link between new infrastructures and urban renovation, promoting a seminar, that has been joined by town planners, transport experts, politicians and public officials. As a contribute, there was presented a proposal –both methodological and effective- in order to align the Florentine project to the quality standards achieved in other european cities. Key-words Florence, infrastructures, sustainable mobility, tramway, urban design

Abstract Da circa vent’anni si assiste in Europa a una rinascita del tram come mezzo di trasporto collettivo. Il fenomeno è legato sia all'evoluzione tecnologica del sistema, sia soprattutto agli interventi di riqualificazione urbana che accompagnano solitamente la posa dei binari. A Firenze, dove una nuova rete di tranvie è in costruzione dal 2004, ha invece prevalso una progettazione di tipo ancora strettamente settoriale, incapace di fornire soluzioni adeguate al conflitto tra modalità antagoniste di utilizzo dello spazio stradale, che ha contribuito a creare un clima di ostilità nei confronti dell’intervento. L’Università di Firenze ha tentato di riaprire la discussione sul possibile rapporto tra nuove infrastrutture e riqualificazione urbana con un seminario a cui hanno partecipato urbanisti, esperti di trasporto, politici e funzionari pubblici. Tra i contributi, una proposta metodologica e operativa per riallineare il progetto fiorentino agli standard di qualità raggiunti nelle altre città europee. Parole chiave Firenze, infrastrutture, mobilità sostenibile, progetto urbano, tram

* Dottore di Ricerca in Progettazione urbana territoriale e ambientale, Università di Firenze.

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TRAMVIA E CITTÀ: I MODELLI EUROPEI

A Firenze è in corso di realizzazione un sistema di “tramvie moderne” (“alla francese”), che, dal 2009, diventerà l’ossatura portante del trasporto pubblico locale, integrato a un servizio ferroviario d’area metropolitana. Si tratta della più importante opera infrastrutturale e di trasformazione urbana conosciuta dal capoluogo toscano dai tempi del Piano Poggi, destinata a modificare radicalmente le abitudini di trasporto e di vita di residenti e city user e a cambiare il volto di strade e piazze lungo i circa trentacinque chilometri di sviluppo complessivo delle linee. Come noto, le tramvie moderne, sperimentate in Francia già dalla metà degli anni Ottanta e oggi molto diffuse in tutta Europa, differiscono in modo sostanziale dai sistemi tradizionali sia per tecnologia, sia per concezione. Dal punto di vista degli utenti, le principali innovazioni tecnologiche riguardano la gestione informatizzata delle linee, che garantisce cadenze e puntualità paragonabili a quelle di una metropolitana; la possibilità dei convogli di adattare la propria capacità alla domanda reale aumentando o diminuendo i segmenti che li formano; il pianale ribassato, che rende accessibili i mezzi a tutte le categorie di utenti e consente di ridurre i tempi di fermata; l'abbattimento drastico di vibrazioni e rumori dovuto all'inserimento di cuscinetti in materiale plastico sotto i binari o al ricorsi a mezzi su pneumatici. Tuttavia, come sottolineano vari autori che, in area francese, hanno proposto un bilancio della “révolution du tramway”1, l'elemento di maggior interesse – per cui “rare, in effetti, sono le grandi agglomerazioni del paese che non [abbiano affrontato] l'ingresso nel terzo millennio senza una tramvia in esercizio, in corso di realizzazione o in progetto”2 - risiede nel suo travalicare la dimensione funzionale del collegamento per divenire proposta globale di un modo diverso di vivere e circolare in città.

Figura 1. Place de Jaude a Clermont-Ferrand. L’enorme piazza (3,5 ettari) è stata interamente ridisegnata e resa pedonale in funzione del passaggio della Linea 1 della nuova tramvia su gomma (a destra). La sistemazione è il frutto di un concorso internazionale vinto dall’architetto paesaggista Alain Marguerit con Bernard Paris (2005).

Superata l'impostazione, rivelatrice d'un atteggiamento ancora strettamente settoriale, secondo la quale l'occupazione di una parte della sede stradale è vista unicamente come una 1

Cfr. HACEME BELMESSOUS, L'effet tramway. Premier bilan d'une renaissance, “Architecture Intérieure Créé”, 286, 1999, pagg. 74-79. 2 HACEME BELMESSOUS., op cit., 1999, pag. 75.

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riduzione della capacità di traffico dell’area interessata, la presenza delle sovrastrutture un impatto ambientale (rispetto invece all'invisibilità delle reti sotterranee), la coesistenza con altre forme di movimento, ivi compresi gli spostamenti pedonali, un elemento d'insicurezza, un “perditempo”, una diseconomia3, l'opzione a favore di un sistema a guida vincolata di superficie assume la forza di una scelta culturale di portata più generale, di cui la qualificazione sistematica dello spazio pubblico “à coté” dei binari non solo è parte integrante, ma diviene anche lo strumento più efficace per costruire consenso intorno all’opera e rendere possibile, anche dal punto di vista di amministratori e politici, la sua realizzazione. Scrive al proposito l’urbanista Bernard Reichen: “La constatazione dello slittamento d'un progetto tecnico verso un progetto urbano adattato alla situazione particolare d'una città è una presa d'atto che si può fare per tutti i progetti recenti. Quello che si chiama l'inserimento urbano nasconde la ricerca d'una moltiplicazione degli effetti indotti dal progetto. A tal punto che questo parametro dell'inserimento diventa spesso la premessa alla scelta del modo di trasporto.” 4 Nelle città contemporanee, altrimenti condannate a trasformarsi per “parti” laddove si registri la concomitanza fra disponibilità di spazi e di mezzi finanziari, la realizzazione di un sistema tramviario di questo tipo è quindi un modo “… di “mettere in prospettiva” l’azione urbana”5 ed ha permesso, nei casi migliori, “… di introdurre i principi di una “cartografia attiva” che può divenire il filo conduttore d’un nuovo modo di trasformazione della città.” 6

Figura 2. Il nuovo tram di Bilbao. Il potenziamento dei sistemi di trasporto pubblico (metropolitana e tramvia) è parte integrante dell’ambizioso programma di rinnovo urbano della città basca avviato negli anni Novanta e traguardato al 2010.

3

Rilievi di questo tenore figurano ancora persino su un numero di “Paesaggio urbano” del 1992; si veda in particolare: ERNESTO STAGNI, Tramvie moderne e metropolitane leggere, “Paesaggio urbano”, 3-4, maggioagosto 1992 , pp. 27-31. 4 BERNARD REICHEN, Des villes nommeés désir, in Fondation pour l'Architecture, Dynamic city, Bruxelles, 2000, pag. 88. 5 Ibidem. 6 BERNARD REICHEN, op. cit., 2000, pag. 89.

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D’altra parte, come osserva invece Aleth Picard, è la natura stessa dell'infrastruttura tramviaria, in quanto linea che si sovrappone ad un'altra infrastruttura, a costringere “i suoi ideatori a prendere in considerazione la città” 7. La condivisione dello spazio stradale è infatti la condizione a partire dalla quale urbanisti e tecnici del trasporto sono obbligati a confrontarsi, indirizzando il loro lavoro verso soluzioni non convenzionali: una ricerca che porta a “ripensare le dimensioni di tutte le componenti stradali, in modo più preciso ed economico”8, a creare nuovi paesaggi urbani (come il passaggio dei binari su sedi erbose o l'invenzione del boulevard con “mail” centrale) e a recuperare la dimensione del dettaglio come elemento di scansione urbana, attraverso il progetto integrato di sovrastrutture, fermate e arredi. In tal modo “La piattaforma del tram, i binari, le stazioni o le linee aeree dispiegano un filo continuo sul territorio attraversato e prolungano così i segni e la qualità della città fin dentro la periferia.”9 Per garantire i migliori risultati, ottimizzando il notevole impegno economico che l’intervento infrastrutturale comunque comporta, ci si è spesso affidati – come a Nizza e Strasburgo - a concorsi di progettazione, oltre che all’istituzione di uffici ad hoc aventi fra l’altro il compito di coordinare il progetto con le altre trasformazioni previste degli strumenti urbanistici. L’obiettivo è quello di garantire sempre, lungo le linee, le condizioni ottimali di accessibilità alle varie fermate (con particolare attenzione ai nodi d’interscambio con gli altri mezzi pubblici e alla creazione di parcheggi scambiatori), di servizio diretto ai principali poli d’attrazione, di funzionalità per il traffico locale, d’integrazione con le reti pedonali e ciclabili.

Figura 3. Alexandre Chemetoff: tavola di sintesi degli elementi utilizzati nel progetto di inserimento urbano della tramvia Bobigny/Saint Denis a Parigi (1989-1992).

7

ALETH PICARD, Le tramway, désir de ville pour la banlieue, "Les Cahiers de la Recherche. Architecturale", 38-39, 1996, pag. 141. 8 ALETH PICARD, op. cit., 1996, pag. 150. 9 ALETH PICARD, op. cit., 1996, pag. 140.

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IL “CASO FIRENZE” Due decenni di buone pratiche internazionali sono un tempo più che sufficiente affinché queste diventino bagaglio culturale acquisito e condiviso da tutti, tecnici e amministratori in testa. Per chi ha in mente gli interventi di Grenoble (che per prima introdusse il nuovo standard tecnologico), di Strasburgo (città simbolo della rinascita del tram), di Nizza (dove i lavori per la prima linea sono ancora in corso), ma anche per esempio di Dublino, Atene o Bilbao - tanto per citare alcune delle realizzazioni più recenti10 - può dunque apparire strano l’atteggiamento di diffuso allarme e, in molti casi, di plateale ostilità dimostrato a Firenze dalla cittadinanza, ben oltre i limiti del dissenso fisiologico e del prevedibile manifestarsi di effetti tipo “nimby” (“not in my backyard”). Il fatto è che, se assumiamo – con Reichen e Picard – l’inserimento urbano come parametro di valutazione, il progetto fiorentino di tramvia moderna appare tutt’altro che un progetto moderno di tramvia. Occorre dire che, fin da subito, il Comune di Firenze aveva di fatto rinunciato al ruolo che gli competeva di “regista” dell’operazione, mantenendo soltanto quello di un controllo a posteriori dei progetti; la loro elaborazione, insieme alla realizzazione delle opere, è stata infatti interamente affidata a soggetti esterni, per nulla interessati, come è risultato evidente, a investire sulla qualità delle sistemazioni urbane11. Nonostante la carenza dei finanziamenti pubblici abbia ovviamente pesato molto, non si può comunque parlare di una scelta obbligata. Nello stesso contesto e con gli stessi interlocutori, il Comune di Scandicci, che si trova a un estremo della Linea 1 oggi in via di completamento, ha accompagnato tutta la fase di definizione del progetto con l’aggiornamento dei suoi strumenti urbanistici e la messa a punto di un progetto guida per l’area centrale, allo scopo di valorizzare al massimo, in termini di funzionalità, qualità urbana e immagine (il ricorso a una firma prestigiosa come quella di Richard Rogers ha chiaramente anche una valenza di marketing territoriale) l’occasione di rilancio offerta dal nuovo collegamento veloce con il capoluogo. Al contrario, quello che oggi cominciamo a vedere ai margini della piattaforma della stessa linea, lungo viale Talenti e via del Sansovino a Firenze (marciapiedi asfaltati, aiole dalla forma casuale delimitate da cordoli prefabbricati, assenza di criteri morfologici nella configurazione dei parcheggi, degli attraversamenti pedonali, degli spazi pedonali, eccetera…) mostra con chiarezza come le opportunità di propagare “i segni e le qualità della città all’interno della periferia” non siano state minimamente colte. Com’era prevedibile, l’attenzione dell’opinione pubblica e dei media si è concentrata soprattutto sull’attraversamento del centro storico da parte della futura Linea 2. Di fronte alle preoccupazioni esternate da soggetti autorevoli (anche se forse non del tutto aggiornati) come l’associazione “Italia Nostra”, il Comune è intervenuto richiedendo modifiche fuori preventivo ai veicoli in costruzione: saranno così dotati di una speciale batteria interna, in modo da poter eliminare le linee aeree in corrispondenza del passaggio per piazza del Duomo. Si tratta di una scelta probabilmente opportuna, visto il clima arroventato delle 10

Un’ampia documentazione sui progetti di Nizza e Bilbao è disponibile, rispettivamente sui siti www.tramway-nice.org e www.euskotren.es/euskotran/flash.html. 11 Per la definizione dei progetti esecutivi e la realizzazione delle opere, si sono seguite due diverse procedure. Per la Linea 1 – Scandicci- Firenze Stazione Santa Maria Novella – è stato bandita nel 1999 una gara di appalto integrato (progettazione esecutiva, costruzione, fornitura dei materiali rotabili), a partire da un progetto preliminare redatto da Italferr in base a un accordo stipulato in occasione delle trattative tra Ferrovie e Comune per il passaggio dell’alta velocità a Firenze. Dopo una prima gara andata deserta, si è arrivati - nel settembre del 2002 - ad aggiudicare l’appalto ad un’ATI formata da Ansaldo Breda e imprese costruttrici locali. I lavori dovrebbero concludersi nel 2008. Per la Linea 2 (aeroporto- stazione AV- centro storico-Piazza della Libertà) – e per un primo stralcio della Linea 3 – (stazione centrale-polo espositivo alla Fortezza da Basso-policlinico di Careggi,) si è invece adottata la soluzione del project financing. La gara, conclusasi nel 2004, è stata vinta dall'ATI guidata dalla società francese Ratp, che si è aggiudicata la realizzazione delle opere e la gestione di tutto il sistema per 30 anni. I lavori, appena avviati, dovrebbero concludersi nel 2009. Il secondo stralcio della Linea 3 (con due diramazioni verso i quartieri orientali e Bagno a Ripoli) è ancora tutto da definire.

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polemiche, sintomatica anch’essa, però, della rinuncia a utilizzare gli strumenti del progetto per conciliare le apparenti incompatibilità tra infrastruttura e contesto urbano (nelle città francesi la questione è in genere affrontata, in modo più economico, integrando il design dei pali dell’alimentazione elettrica con quello dell’illuminazione pubblica, al centro come in periferia).

Figura 4. Schizzo del nuovo Centro Civico di Scandicci, imperniato sulla stazione della tramvia (2007). Il progetto per il quale è stata avviata dal Comune la procedura di project financing è una versione semplificata di quello inizialmente predisposto da Richard Rogers. Il bando tuttavia prevede espressamente che sia lo stesso Studio Rogers a elaborare il progetto esecutivo.

Figura 5. I nuovi marciapiedi realizzati lungo il tracciato della Linea 1 in Viale Talenti a Firenze. L’intervento è privo di qualsiasi intenzionalità progettuale e conferma il carattere “periferico” della strada. Nel panorama europeo, occasioni mancate di questo tipo rappresentano per fortuna un eccezione.

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I maggiori problemi d’inserimento urbano riguardano comunque la Linea 3, che collegherà la stazione di Santa Maria Novella con il policlinico di Careggi passando per tessuti urbani particolarmente densi. Tra le scelte più criticabili, vi è da un lato quella di smantellare l’intera sequenza di viali tra la Fortezza da Basso e il quartiere di Rifredi, collocando la piattaforma tramviaria al posto dei filari centrali di alberi (piante più piccole saranno poi sistemate, a tratti, su un solo lato delle strade) e dall’altro quella di riadattare la viabilità che attraversa il quartiere a scapito degli spazi pedonali: un evidente contraddizione ai principi della “mobilità sostenibile” 12.

UN SEMINARIO UNIVERSITARIO E UNA PROPOSTA OPERATIVA PER LA TRAMVIA FIORENTINA Nello scontro, quotidianamente amplificato dai giornali, fra l’Amministrazione comunale, che accusa gli oppositori di voler fermare “la battaglia per la modernizzazione di Firenze” e i comitati che mettono tout-court in discussione la tramvia come scelta modale adeguata alle esigenze della città, nessuno spazio residuo è lasciato alla discussione sul merito, ovvero a una valutazione tecnica dei progetti che si ponga il ragionevole obiettivo di correggerne gli aspetti più critici derivanti da un approccio culturale ampiamente superato. Un’iniziativa in tal senso – cioè volta ad insinuare, nella dialettica tra “sì” e “no”, un fronte di riflessione sul “come” – è stata comunque tentata dalla facoltà di Architettura di Firenze, con il seminario “La tramvia di Firenze: tra progetto d’infrastruttura e progetto urbano”, promosso congiuntamente dal Dipartimento di Urbanistica e pianificazione del territorio, dalla Scuola di dottorato in Progettazione della città, del territorio e del paesaggio e dal Corso di laurea in Urbanistica e pianificazione territoriale e ambientale di Empoli, tenutosi a Palazzo San Clemente il 24 maggio 2007. I lavori sono stati introdotti dall’intervento di Maurizio Morandi, coordinatore del Dottorato in Progettazione urbanistica e territoriale, e dalla relazione d’inquadramento di Marco Massa sul tema del rapporto tra “infrastrutture, progetto urbanistico, riqualificazione urbana”. Il primo si è soffermato sull’importanza sociale e il contenuto intrinsecamente democratico degli interventi sul trasporto pubblico, nonché sull’apporto fondamentale che i sistemi ben progettati – come la nuova tramvia di Montpellier – sono in grado di dare al rafforzamento dell’identità locale e del rapporto di affezione dei cittadini nei confronti della loro città. Il secondo, dopo aver rimarcato l’importanza crescente assunta, da Barcellona in poi, dalle infrastrutture della mobilità all’interno di strategie più ampie di rinnovo urbano portate avanti nelle principali città europee, ha sottolineato come, viceversa, l’errore di delegare a terzi la loro progettazione (che accomuna tutte le “grandi opere” realizzate o allo studio in Toscana: dai nuovi by-pass urbani all’autostrada tirrenica) mortifichi in partenza ogni aspirazione per soluzioni innovative di integrazione tra le infrastrutture e i paesaggi attraversati. Il tema della tramvia fiorentina è stato quindi affrontato in modo specifico nella relazione dell’ing. Giovanni Mantovani, chiamato a lavori iniziati a fare il consulente del Comune per l’intero sistema tramviario (il suo ruolo è quello di coordinare le imprese incaricate del progetto e gli uffici tecnici del Comune ), e nella presentazione da parte di chi scrive di una proposta d’inserimento urbano della Linea 3 alternativa ai progetti ufficiali (una sintesi della proposta è riportata nel paragrafo successivo). In particolare Mantovani ha insistito sulle grandi potenzialità del sistema adottato a Firenze sia in relazione alle dimensioni e caratteristiche all’area urbana, sia alle prospettive d’integrazione con il nascente servizio ferroviario metropolitano, evidenziando però al tempo stesso le criticità – anche a livello trasportistico – presenti nelle linee in progetto 13 e alcune 12

I progetti delle linee sono consultabili sul sito: www.tramvia.fi.it. Si tratta, per altro, di aspetti tutt’altro che irrilevanti: fra gli altri, il nodo d’interscambio con la prevista stazione dell’alta velocità, la fermata a servizio del polo fieristico della Fortezza da Basso e quella per gli ospedali di Careggi e Nuovo Meyer. 13

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ipotesi di soluzione allo studio. Ne viene fuori un quadro in cui l’urgenza di problemi ancora irrisolti che attengono alla funzionalità stessa della rete contribuisce a mettere sempre di più in secondo piano il tema della qualità delle sistemazioni urbane. Il seminario si è poi concluso con una tavola rotonda a cui hanno partecipato Raimondo Innocenti (preside di Architettura), Giancarlo Paba (che è stato il consulente di Scandicci per il Piano strutturale e il nuovo Regolamento urbanistico), Giuseppe Matulli (vicesindaco di Firenze e assessore alla mobilità), Mario Preti (già Direttore della Mobilità presso il Comune), Adriano Poggiali (Responsabile del settore Pianificazione mobilità e trasporti della Regione Toscana), Giovanni Maltinti (dirigente dell’IRPET). Fra i numerosi temi e le considerazioni emerse nel dibattito, preme qui evidenziare in particolare alcuni punti: - la grave arretratezza culturale che caratterizza, al pari del progetto tramvia, tutti gli interventi nel campo della mobilità realizzati negli ultimi anni a Firenze (parcheggi interrati, sottopassi, nuova viabilità), cui occorre al più presto porre rimedio, pena la dequalificazione dell’intero sistema urbano (Paba); - l’obiettivo, che l’Amministrazione deve far proprio, di ridurre i motivi di conflittualità con la popolazione residente sul tema dei progetti ritenuti strategici anche attraverso il ricorso a meccanismi di partecipazione e informazione più efficaci (Innocenti); - la necessità di sviluppare i progetti in una logica integrata tra dimensione locale e scala metropolitana, con particolare riguardo ai nodi d’interscambio (Poggiali, Preti); - l’impegno dell’assessorato alla mobilità a intervenire in ogni momento utile, fino al completamento delle opere, al miglioramento dei progetti (Matulli). Riguardo a quest’ultimo punto bisogna però segnalare che, nei mesi successivi all’incontro, nessuna iniziativa concreta in tale direzione è stata finora presa dal Comune. L’inserimento urbano della Linea 3: questioni metodologiche e soluzioni concrete La proposta progettuale per la Linea 3 illustrata in occasione del seminario riguarda uno dei tratti più complessi – a causa dell'elevata densità edilizia e dell'esiguità degli spazi disponibili - dell'intero sistema: quello tra la Fortezza da Basso (via dello Statuto) e il quartiere Rifredi (Piazza Dalmazia). Lo studio, consegnato al Comune già nel marzo 2007, è stato a più riprese discusso con amministratori e tecnici (gli stessi assessore Matulli e ing. Mantovani, la presidente del Quartiere 5, membri della Consiglio comunale, funzionari dei settori infrastrutture e traffico) ed è attualmente oggetto di dibattito all'interno della Commissione Ambiente. Esso si basa su alcuni valori guida non derogabili, facilmente desumibili dalla lettura delle migliori esperienze internazionali, da rispettare nella progettazione delle linee; la quale dovrà quindi: 1. valorizzare gli elementi di identità e qualità presenti nel tessuto urbano, siano essi di natura morfologica, ambientale o sociale; 2. integrarsi col sistema dei percorsi pedonali e degli spazi pubblici, garantendone la continuità fisica e l’immediata riconoscibilità da parte degli utenti; 3. garantire la funzionalità dei fronti strada in ordine alle esigenze della residenza e delle attività commerciali; 4. razionalizzare la circolazione lungo i tracciati, favorendo la distinzione tra collegamenti urbani e viabilità di servizio alla residenza. Da questi “postulati” discendono alcuni “corollari” direttamente riferibili alla situazione specifica: il progetto dovrà allora preservare i viali esistenti, assecondare la vocazione commerciale degli ambiti urbani attraversati, non comportare la riduzione dei marciapiedi (semmai l'ampliamento), integrare le fermate agli spazi pubblici esistenti in modo da creare luoghi urbani significativi, mantenersi a un'adeguata distanza dagli edifici, consentire la creazione di “Zone 30” e la riorganizzazione dei parcheggi a servizio delle residenze attraverso un uso più razionale dello spazio stradale. La semplice applicazione di questi principi metodologici porta necessariamente a una revisione radicale, tratto per tratto, del progetto ufficiale, pur nel rispetto delle caratteristiche

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tecniche e di esercizio della linea 14. Di seguito sono descritti, sia pur sommariamente, i risultati ottenibili più qualificanti. Fortezza – Piazza Leopoldo: l'asse di Via Statuto-Guasti-Tavanti mantiene il suo carattere di viale con alberi al centro; anziché sdoppiare la viabilità con corsie nella stessa direzione di marcia a destra e sinistra della piattaforma tramviaria, la strada occupa interamente una metà del viale (conservando la sede attuale), mentre l'altra metà è concepita come una spazio pubblico pavimentato continuo destinato al tram e ai pedoni;

Figura 6. La sistemazione urbana proposta dallo Studio per Via dello Statuto. La circolazione di quartiere segue un percorso anulare, mentre le strade intermedie sono trasformate in parcheggi residenziali a sfondo cieco (l’uscita su Via dello Statuto è comunque consentita ai mezzi commerciali e a quelli di soccorso). Il sottopasso ferroviario ospita la fermata del tram, interconnessa con la stazione ferroviaria soprastante. Le auto sono invece incanalate in un nuovo sottopasso.

Figura 7. Simulazione al computer della proposta per Via dello Statuto. Davanti ai negozi è possibile ricavare uno spazio pedonale continuo di circa 4 metri di profondità, affiancato, sullo stesso piano, dalla piattaforma tranviaria.

Piazza Leopoldo: l’area pedonale della piazza, che già svolge un ruolo di centralità di quartiere, viene aumentata con una modifica alla circolazione, così da creare una continuità di spazi pubblici interdetti alle auto tra la fermata tramviaria e i due giardini esistenti, al centro e davanti al nuovo centro commerciale (il progetto ufficiale prevede invece un frazionamento della piazza e la riduzione degli spazi perdonali). 14

In realtà, anche da questo punto di vista, almeno un aspetto meriterebbe di essere rimesso in discussione: l'eccessiva larghezza della piattaforma: 7,50 m. per i due binari, contro i solo 6 m., ad esempio, della tramvia di Bilbao: uno spazio indebitamente sottratto ad altri usi (pedoni, circolazione, sistemazioni ambientali).

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Piazza Leopoldo-Piazza Dalmazia: anziché biforcarsi, riducendo gravemente lungo uno dei due rami la funzionalità della sede stradale (oggettivamente troppo stretta) , la linea prosegue compatta sul tracciato più a ovest, sufficientemente ampio e con fronti edilizia arretrati rispetto al marciapiede; dopo aver attraversato una piccola area attualmente adibita a parcheggio privato, raggiunge quindi Piazza Dalmazia attraverso via di Rifredi.

Figura 8. Il tracciato proposto tra Piazza Leopoldo (parzialmente pedonalizzata) e Piazza Dalmazia. La fermata Corridoni è localizzata in modo da poter servire, attraverso il sottopassaggio pedonale esistente (da ristrutturare), anche l’area di Viale Corsica, posta dall’altra parte della ferrovia.

Figura 9. Piazza Dalmazia e il primo tratto di Via Reginaldo Giuliani possono essere in gran parte pedonalizzati deviando il traffico sul sottopasso ferroviario recentemente realizzato (a sinistra). Il mercatino di Via di Rifredi viene spostato di pochi metri all’interno della stessa piazza per consentire il passaggio del tramvia, che diventa così l’occasione per riqualificare l’intera zona, valorizzandone il carattere di centro commerciale naturale.

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Piazza Dalmazia: la piazza, cuore pulsante del quartiere di Rifredi, viene ridisegnata valorizzando il suo carattere di “centro commerciale naturale”, con la rilocalizzazione, al suo stesso interno, del mercatino di Via di Rifredi, la pedonalizzazione dell’antico borgo lineare all'inizio di Via Reginaldo Giuliani, la creazione di uno spazio pubblico baricentrico che dà forma al previsto nodo d'interscambio tram/bus, la collocazione dei parcheggi nelle aree immediatamente adiacenti: potenzialità negate dal progetto attuale, per effetto dello sdoppiamento dei binari e del conseguente riassetto della circolazione automobilistica. Come si vede, nessuno degli interventi proposti è particolarmente ardito o ambizioso. Inoltre, gli schemi progettuali non contemplano volutamente soluzioni architettoniche e di “paésagement” univoche, ma definiscono uno spartito su cui è facile sovrapporre visioni urbane diverse, come quelle, per esempio, che hanno accompagnato, in contemporanea con le vicende fiorentine, la progettazione della Linea 1 di Nizza o il prolungamento della linea C a Bordeaux. L'ambizione, semmai, sta nei presupposti: l'idea che sia ancora possibile ridurre la distanza fra il nostro paese e le regioni più progredite d'Europa: una distanza che ormai non riguarda più solo il livello delle dotazioni infrastrutturali, ma, in modo anzi più evidente e drammatico, il livello tecnico-culturale di cui esse sono espressione.

Figura 10. Simulazioni al computer delle sistemazioni urbane previste lungo il prolungamento della Linea C a Bordeaux: Cours Evrard de Fayolle (a sinistra) e Place Paul Doumer. Come il resto della rete, il progetto è opera dello studio Brochet-Lajus-Pueyo, con il gruppo Signes (architettura del paesaggio) ed Elisabeth de Portzamparc (arredo urbano), selezionati nel 1998 a seguito di un concorso bandito dalla Communauté Urbaine.

RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1: fotografia di Aline Fryzman, archivio Magnard (www.geolicee.magnard.fr). Figura 2: archivio dell’azienda basca di trasporto pubblico Euskotren (www.redparsec. com/euskotren25/web/galeria.eu). Figura 3: CAPUTO PAOLA (a cura di), Le architetture dello spazio pubblico. Forme del passato forme del presente, Electa, Milano 1997, pag. 114. Figura 4: Comune di Scandicci (www.comune.scandicci.fi.it). Figura 5: fotografia dell’autore. Figure 6, 8, 9: elaborazioni grafiche dell’autore. Figura 7: elaborazione di Giovanni De Stefano. Figura 10: elaborazioni studio Artefacto, archivio della Communauté Urbaine de Bordeaux (www.lacub.com).

Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di dicembre 2007. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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