Ri-Vista 01/2004

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RI-VISTA Ricerche per la progettazione del paesaggio Anno 1 - numero 1- gennaio/giugno 2004 Firenze University Press

EDITORIALE Gabriele Paolinelli*

La sperimentazione editoriale richiamata da Giulio Rizzo nella presentazione del numero zero sta portando ai primi cambiamenti utili al miglioramento della qualità e della leggibilità della rivista. Con questo numero l’ultima sezione muta titolo e contenuto, per accogliere contributi di significativo portato scientifico relativi a casi studio di natura tecnica maturati in ambito professionale. Diversi dai saggi, che rispondono ai canoni di base della letteratura scientifica, i progetti, da qui il nuovo titolo della sezione progetti, eventi e segnalazioni, sono descrizioni di casi studio, nella cui esemplarità sono rintracciabili risvolti scientifici che ne motivano la pubblicazione in questo periodico. Apre questa iniziativa il progetto per la Valle dei Templi di Agrigento presentato da Giuliana Campioni e Guido Ferrara. Si tratta, come sottolinea il titolo, di un caso studio di pianificazione del paesaggio di un’area notoriamente caratterizzata da una elevata sensibilità, quanto soggetta a evidenti e rilevanti forme di pressione. Pertanto la sezione raccoglie sotto la categoria generale dei progetti tutte le diverse scale e i numerosi strumenti nei quali la progettazione paesistica si esprime con significativi apporti disciplinari. La redazione sta inoltre considerando, a livello di programmazione editoriale, la possibilità di produrre numeri monografici su temi e o aree geografiche. Sotto questo punto di vista e più in generale in relazione alla programmazione complessiva, è auspicabile la più ampia partecipazione della comunità scientifica con la proposta di contributi che, una volta sottoposti al comitato scientifico, potranno essere organicamente inseriti nel programma editoriale. E’, infatti, da quando nel Dottorato è stato avviato questo progetto editoriale che la rivista è stata pensata come organo aperto, potenziale luogo di incontro di saperi ed esperienze capace di contribuire alla crescita scientifica del Dottorato stesso attraverso l’apporto esterno, ma anche di contribuire alla crescita complessiva della disciplina nel nostro paese. In questo numero, Massimo Venturi Ferriolo apre la sezione saggi con un contributo sull’etica, sulla intepretazione che essa esprime dei rapporti tra gli uomini e l’ambiente in ragione dei comportamenti degli individui. Alla comprensione della complessità del paesaggio può contribuire sostanzialmente la presa di coscienza di questa realtà relativamente ai suoi risvoli ideali e reali. Si tratta di aspetti in stretta connessione e con possibili decisive assonanze con la percezione delle popolazioni, che la convenzione europea definisce come fattore costitutivo del paesaggio. Dall’estetica all’arte, il lettore può tracciare più di un percorso di riflessione passando al lavoro di Raffaele Milani. Alle domande precise e concrete di conoscenza e comprensione della natura e della cultura dei luoghi essenziali nella lettura del paesaggio quale realtà unitaria, dinamica e complessa è possibile riferire una concezione del paesaggio come espressione di un’arte delle origini dai profondi radicamenti culturali, ma sensibile alle mutazioni sia naturali sia culturali, che esso registra nelle proprie trasformazioni. Il paesaggio viene proposto come entità dalla duplice valenza, reale, espressione del fare, mentale, espressione della percezione della realtà. Paolo Zermani porta

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questo percorso ideale dall’etica all’arte nel campo dell’espressione artistica in cui da sempre avvengono importanti incontri culturali sia con la tecnica, che con la percezione culturale: l’architettura. Il titolo ritaglia il punto di vista essenziale e peculiare della concezione dell’architettura come generatore culturale di paesaggio. Le relazioni che l’architettura tesse nello spazio possono divenire significativi elementi di “misurazione” del paesaggio nei termini in cui gli edifici e gli spazi che essi articolano permettono esperienze di conoscenza e percezione delle molte facce di questa realtà assoluamente poliedrica. La lettura storicistica, con cui Gabriele Corsani declina quelle che felicemente chiama visioni vittoriane del paesaggio, produce un’apparente deviazione dai percorsi appena richiamati, mantenendo però la riflessione assai precisa e esplicita su una linea di discussione complementare alle precedenti. Essa riguarda la concezione del paesaggio fiorentino che emerge dalla produzione letteraria di Janet Ross e Vernon Lee: dalla precedente lettura del paesaggio attraverso il singolare mezzo dell’architettura, si viene coinvolti in un avvincente ragionamento intepretativo in cui è proprio l’opera scritta ad essere letta come paesaggio mentale di una specifica cultura. Vi ritroviamo l’accezione del paesaggio come entità mentale di cui Milani suggerisce l’importanza. Cosa fanno gli americani (?), si chiede Danilo Palazzo, uscendo solo apparentemente dalla articolazione del ragionamento che la sezione propone. L’autore, del quale è nota la profonda conoscenza della realtà scientifica e tecnica dell’architettura del paesaggio statunitense, profila un quadro organico sui ruoli che la disciplina esprime. La sezione dialoghi propone un incontro con Maria Goula sulle esperienze di progettazione del paesaggio europee. Il particolare osservatorio costituito dalla biennale europea di Barcellona, della quale la Goula è membro del comitato organizzatore, permette di tracciare un panorama ampio e circostanziato con un approfondimento relativo alla realtà della città catalana riferito, sia alla pratica professionale, che all’insegnamento dell’architettura del paesaggio. A due scale decisamente diverse si riferiscono i lavori presentati nella sezione itinerari. Gli ecomusei, in alcune esperienze europee e italiane, sono declinati da Antonello Boatti come politiche territoriali per la valorzzazione delle risorse. Il tema della progettazione del parco urbano contemporaneo è affrontato a San Francisco da Enrica Dall’Ara nell’opera di Hargreaves Associates. La già richiamata sezione progetti, eventi e segnalazioni, aggiunge al progetto sulla Valle dei Templi di Agrigento, la presentazione di Tessa Matteini della mostra internazionale sull’opera di Pietro Porcinai svoltasi nel 2004 a Colonia e quella, curata da Claudia Bucelli, degli esiti della tredicesima edizione del Festival Internazionale di Chaumont-sur-Loire, incentrata sull’esplorazione progettuale dei rapporti tra la teoria del caos e l’arte dei giardini. * Professore a contratto di Architettura del paesaggio presso il Corso di laurea in Urbanistica e Pianificazione territoriale e ambientale dell’Università di Firenze. Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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RI-VISTA Ricerche per la progettazione del paesaggio Anno 1 - numero 1- gennaio/giugno 2004 Firenze University Press

ETICHE DEL PAESAGGIO* di Massimo Venturi Ferriolo**

A BSTRACT L’etica riflette sui rapporti fra uomo e ambiente. Indaga l’azione dell’uomo. Svela la sua visione della vita e il mondo possibile e accoglie in sé un complesso di norme morali e di costume che identificano un preciso comportamento nella vita di relazione. Si riferisce all’agire dell’individuo in una struttura sociale che lo comprende. Siamo alla ricerca di un’essenza del paesaggio indipendente dalla mera pittura, dalla rappresentazione, dall’immagine sentimentale: dalla natura sia ideale che reale. Prendere coscienza della cosa in sé, anche nei suoi aspetti ideali, significa comprenderne la complessità. Possiamo leggere quindi ogni paesaggio come realtà etica, risultato dell'operosità dell'uomo nella natura, ambito complessivo della vita: nel significato peculiare di progetto del mondo umano, che parte da lontano, da quando l'uomo ha incominciato a trasformare il proprio ambiente naturale per creare i luoghi dell'abitare, modellati con la mano e con lo spirito. La conoscenza dei paesaggi in tutta la loro complessità, a partire dal mondo antico, diventa quindi un nostro obiettivo. Questo significa superare, se non addirittura rovesciare, alcuni luoghi comuni consolidati e storicizzati: la teoria secondo la quale il paesaggio, nella sua dimensione estetica, sarebbe un'invenzione della modernità; il collegamento tra la moderna pittura di paesaggio e la nascita dei concetti estetici; la confusione tra natura e paesaggio, frequente nelle concezioni ecologicoambientaliste; la tesi lessicale della nascita della coscienza del paesaggio, legata all'esistenza di una parola specifica che lo indichi.

PAROLE CHIAVE Etiche del paesaggio, ethos, esteticità, luogo.

Un percorso peculiare supera il solo punto di vista dell’estetica in favore della filosofia pratica, aristotelica, del mondo possibile, umano, differente da quello necessario della natura: l’etica del paesaggio. Indaga una realtà presente, concreta, complessa, non circoscrivibile con un concetto preciso. Non è, infatti, possibile offrire la definizione ontologica di un ambito vitale in continuo movimento. Il rischio è l’astrazione di un’entità afferrabile con lo sguardo e immediatamente indirizzata verso la trascendenza. Un’ambiguità di fondo è costante e incide sui piani del visibile e del visivo, tra realtà e immagine senza confini. Platone e la sua ombra lunga sono sempre presenti: la nostra tradizione gli è indissolubilmente legata, più che al Monoteismo ebraico-cristiano. La contemplazione ci offre due piani della percezione tra idea e realtà, entrambi legati allo spirito e all’agire degli individui. Un gioco antico esprime la potenza divina della vista per superare la visione di ciò che è oggettivamente osservabile. L’idea della natura accompagna così da sempre noi moderni in una prospettiva più morale che estetica. Per questo parleremo di paesaggi - non del paesaggio - e del loro rapporto con il sacro, per svelare il gioco di un’originaria immanenza dimenticata, legata al mito e alla sua legittimazione eticonormativa.

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L’etica riflette sui rapporti fra uomo e ambiente. Indaga l’azione dell’uomo. Svela la sua visione della vita e il mondo possibile. Studia la realtà contingente. Si rivela lo strumento migliore. Accoglie in sé un complesso di norme morali e di costume che identificano un preciso comportamento nella vita di relazione. Si riferisce all’agire dell’individuo in una struttura sociale che lo comprende. Questa è la comunità a cui l’uomo tende per natura, come ci ha insegnato Aristotele, fonte dell’esperienza greca, antropica del costruttore di poleis, di comunità politiche, espressioni paesaggistiche, etiche appunto. Siamo alla ricerca di un’essenza del paesaggio indipendente dalla mera pittura, dalla rappresentazione, dall’immagine sentimentale: dalla natura sia ideale che reale. Prendere coscienza della cosa in sé, anche nei suoi aspetti ideali, significa comprenderne la complessità. Non cerchiamo una categoria moderna, che esprima il nostro bisogno di una natura perduta, riflesso di una bellezza iperurania. Tenteremo di svelare una realtà etica ed estetica peculiare tra antico e moderno: il progetto del mondo umano, da intendersi nel senso ampio di desiderio possibile, fonte di creatività e di modifica. L'uomo plasma la materia e crea luoghi che gli appartengono e raccolgono la sua storia e la sua cultura. Costruisce paesaggi quale risultato di un'arte che modifica una realtà, caratterizzata dalla contemporanea esistenza di presente e di passato. Un’esteticità diffusa, cioè il suo pregio artistico, copre ogni singolo paesaggio e offre una rappresentazione visiva più o meno estesa, dove è leggibile la storia di una comunità. Nei paesaggi - a chi sappia leggerli - si riflette la libera azione creatrice degli uomini: ogni paesaggio è il prodotto dell'arte, di un agire antropico volto a mutare la natura verso l'utile e il bello. Questa realtà non è solo estetica, ma soprattutto etica, poiché è connessa all'azione, al progetto dell'individuo all'interno dell'ambiente e della comunità che lo comprendono. Ogni tempo, ogni popolo ha il suo paesaggio: per questo parliamo di etiche. Ogni paesaggio ha in sé uno spirito peculia re ed esprime una determinata visione del mondo: il complesso delle tendenze e delle caratteristiche di un popolo. Quello antico, per esempio, accoglie e cela, al tempo stesso, un cosmo religioso aderente alla realtà concreta, dove il divino si manifesta nelle forme della natura. Così nell’antico mondo mediterraneo l’epifania divina appartiene al suo luogo, caratterizzandolo (da ethikos = caratteristico) nel senso etico della totalità dell’esistenza, l’ethos, appunto. Empedocle, filosofo mediterraneo espressione del mito, ci offre un quadro etico di straordinaria importanza che c’invita a riflettere e rivedere alcuni luoghi comuni. La sua lettura illumina bene un’entità unitaria sconosciuta ai moderni, che domina il frammento 21 dei Physika, offrendo un bel quadro del rapporto dei greci con il loro paesaggio, comprensivo di tutti gli aspetti della vita, raffigurabili con la pittura e con la poesia. Empedocle parla degli elementi che costituiscono le cose passate, presenti e future, che si uniscono e si bramano grazie all’amore: gli alberi sono germinati, e gli uomini e le donne, / e le fiere e gli uccelli, ed i pesci che vivono nell’acqua, / ed anche i numi (theoi) longevi di rango eccelso. / Sono soltanto quelli, infatti, gli elementi che esistono, e correndo gli uni attraverso gli altri / diventano corpi di ogni genere; questo appunto, che esiste, la mescolanza tramuta.

Segue subito dopo un passo di straordinario valore documentario dello spirito paesaggistico greco; un brano che ci dà la prova della rappresentazione anche pittorica di un ambito complessivo della vita: come quando i pittori illustrano le variopinte pareti, / essendo esperti nel mestiere per loro intelligenza: / quando con le mani hanno afferrato le svariate tinture, / che mischiano in armonia, quali in maggior misura e quali in minore, / con questi colori essi foggiano figure somiglianti a tutto, / e costruiscono gli alberi e gli uomini e le donne, / e le fiere e gli uccelli, ed i pesci che vivono nell’acqua, / ed anche i numi longevi di rango eccelso. / Pertanto, non prevalga nell’animo tuo

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l’inganno, che da altra origine / sia la fonte dei corpi mortali, che ora sono manifesti e si producono all’infinito; / ma sappi limpidamente tutto questo, avendo udito il mio racconto intorno alla dea.

La dea è thea, la vista, la luce. Empedocle ci offre il quadro del paesaggio antico nella sua totalità comprensiva dei numi longevi di rango eccelso, gli dèi, theoi, visibili, come il paesaggio di cui sono l’epifania vivente nella mescolanza degli elementi. La nostra attenzione è rivolta al luogo particolare, denso di mito e di storia, al quale ogni uomo appartiene con i suoi miti (se nei miti si coglie l'espressione della vita quotidiana e festiva), col suo linguaggio, le sue tecniche, le sue istituzioni. Di qui il valore etico: in questo contesto colmo di avvenimenti che si rinnovano nel tempo e determinano la cultura, l'agire storico degli uomini e i paesaggi vanno di pari passo, variamente intrecciandosi ed esprimendo - di volta in volta - le nuove esigenze, i nuovi ideali, le nuove forme di bellezza. Ma soprattutto i nostri paesaggi affondano le proprie radici - come tutte le opere d'arte, si potrebbe dire - in un mondo segnato profondamente dai miti, tanto che Walter F. Otto collega il mito all’esistenza stessa, creatrice, del genere umano. Studieremo quindi ogni paesaggio come realtà etica, risultato dell'operosità dell'uomo nella natura, ambito complessivo della vita: nel significato peculiare di progetto del mondo umano, che parte da lontano, da quando l'uomo ha incominciato a trasformare il proprio ambiente naturale per creare i luoghi dell'abitare, modellati con la mano e con lo spirito. Nostro obiettivo diventa così la conoscenza dei paesaggi in tutta la loro complessità, a partire dal mondo antico. Ciò significa - di fatto - superare, se non addirittura rovesciare, alcuni luoghi comuni consolidati e storicizzati: 1) la teoria secondo la quale il paesaggio, nella sua dimensione estetica, sarebbe un'invenzione della modernità; 2) il collegamento tra la moderna pittura di paesaggio e la nascita dei concetti estetici; 3) la confusione tra natura e paesaggio, frequente nelle concezioni ecologico-ambientaliste; 4) la tesi lessicale della nascita della coscienza del paesaggio, legata all'esistenza di una parola specifica che lo indichi. Il nostro percorso ha un altro indirizzo, in continuo dialogo con fonti antiche e moderne nonché con le teorie contemporanee, per cogliere il significato concreto e complesso, non ontologico dei singoli paesaggi. Il paesaggio, in senso assoluto, è un'astrazione che allontana la comprensione delle singole realtà oggettive e soggettive, con le proprie metamorfosi nel tempo, parallele al trasformarsi dei modi di vita, dello spirito, della cultura, e al mutare delle economie delle singole comunità. Queste relazioni sono comprensibili a partire dall'antico mondo mediterraneo, fino alla nostra contemporaneità proiettata sui progetti futuri, tenendo conto della stretta relazione mito e paesaggio e del suo perpetuarsi nella pittura e nell'iconografia. Questo metodo ci indica le prospettive d'intervento e gli stimoli per un dibattito sul nuovo paesaggio, non separabile, oggi, dall'ambito della città come massima espressione dell'artificio. Ogni paesaggio è una realtà vivente che muta, una realtà etica, terreno dell’azione, spazio della vita umana associata: è realtà possibile di deliberazione e di trasformazione. La sua essenza appartiene alla filosofia pratica, quindi all’etica. L’azione presuppone la contingenza, dominio del paesaggio. La Convenzione Europea del Paesaggio rivaluta la sua essenza etico-politica. Ogni luogo appartiene ai suoi cittadini, che non possono subirne le trasformazioni senza parteciparvi. Una dichiarazione etica fondamentale riconosce un ruolo attivo degli abitanti per le decisioni che riguardano i propri paesaggi. Essi hanno l’occasione d’identificarsi con i territori dove vivono e lavorano, d’immedesimarsi con l’ambito complessivo della loro vita nella totalità dei suoi caratteri, con la sua storia, con le sue tradizioni, soprattutto con la sua cultura. La relazione con il luogo forma l’identità personale, il senso dell’appartenenza e la coscienza delle diversità locali, fattori educativi della persona nell’ambito della società. I paesaggi vanno così considerati nella loro globalità e complessità, nel senso originario dell’ethos: il luogo comprensivo della totalità dell’esistenza, la vita attiva. Il suo rapporto

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integrante con il mito è espresso bene da Cesare Pavese, che in Feria d’agosto ha voluto sottolineare il carattere reale etico di ogni paesaggio e non quello astratto naturalistico. I contenuti etici ed estetici peculiari ne fanno un luogo di lettura a ritroso del mondo. Ogni paesaggio appartiene all’uomo, suo unico e vero artefice in quanto ul ogo della sua relazione con la natura. L’antica lezione della storia è scritta nell’esteticità diffusa di ciascun paesaggio e nell’esteticità raccolta di ogni singolo giardino, risultati irreversibili di trasformazioni, risultati della libertà. I paesaggi, infatti, sono opera della libertà umana che dà forma, crea, modifica, costruisce, trasforma attraverso l’arte e la tecnica. Quest’attività è etica e ha nelle azioni lo scopo della trasformazione come atto stesso della libertà del soggetto che agisce. Le scelte compiute in ogni singolo contesto guidano le modifiche. La libertà come arte è stata ben definita da Immanuel Kant nella Metafisica dei costumi, dove è spiegata la differenza fra libertà e natura, tra lo scopo dell’azione umana e l’effetto della natura. Arte è produzione mediante libertà, cioè tramite una volontà posta dalla ragione. Lo conferma la Critica del Giudizio: l’opera d’arte (Kunstwerk), differenziata da un effetto naturale (Naturwirkung), è opera dell’uomo. Ciascun paesaggio, orizzonte della contemplazione, è prodotto della libertà, risultato dell’arte, effetto del fare e dell’agire degli uomini. Non è una realtà soltanto estetica, ma anche e soprattutto etica. C’è qualcosa di più: come ha sottolineato Martin Schwind, ogni paesaggio è un’opera d’arte, paragonabile a qualunque creazione umana, ma molto più complessa: mentre un pittore dipinge un quadro, un poeta scrive una poesia, un intero popolo crea il proprio paesaggio; costituisce il serbatoio profondo della sua cultura: «reca l’impronta del suo spirito». Opera d’arte, dunque, ogni paesaggio è frutto di un’attività creativa simile a quella dei giardini, definita con la propria specificità nel par. 51 della kantiana Critica del Giudizio, rientra nella sfera della deliberazione, della responsabilità, del mondo possibile a seconda delle scelte. L’uomo fissa con l’arte e la tecnica la sua effimera figura di essere vivente oltre il passaggio del tempo. Incide la sua esigua temporaneità nell’infinita temporalità della natura, che, nella storia dello spirito, è spesso l’espressione del divino: plasma un luogo con determinati caratteri e realizzato in molti modi, attraverso diverse poetiche. Il gioco fra arte e natura nonché natura e cultura crea paesaggi dalla forma differente, indicatrice, nello stile e nell’architettura, della specifica cultura che l'ha promossa. Questi luoghi sono contenitori culturali, serbatoi storici e spazi di lettura del mondo, interpretabili nella loro realtà come insieme di fatti umani, globalità degli interventi dell’uomo nel corso del tempo, demiurgo di un ambiente peculiare che accoglie il sacro. Ogni paesaggio, quindi, è produzione antropica in duplice senso: da una parte imprime direttamente ai luoghi il gusto di una cultura; dall’altra esprime un’esteticità velata con l’agricoltura e con ogni forma d’insediamento urbano o rurale. L’esteticità implicita dell’azione qualifica indirettamente in modo positivo o negativo il pregio artistico dell’operosità umana. Differenti sono i risultati di un’attività finalizzata alla creazione di un’opera d’arte e quelli di un agire comunitario. Multiformi sono gli aspetti e la gamma di significati che ogni luogo può racchiudere nel senso astratto e in quello concreto. In modo parallelo si muove lo studio della sua figura nell'arte come nella filosofia: possiamo quindi parlare di figure di paesaggio come forme di un pensiero senza bordi. Alle spalle ci sono secoli di storia e di ideali. Aristotele conferma questa tesi. Infatti la cosa può essere detta in molti modi (to on pollachos leghetai): è un invito a non radicalizzare le tesi sul linguaggio che collegano l’esistenza del paesaggio o del suo senso con la presenza della parola, argomenti che uniscono la cosa a un termine preciso, senza analizzarne l’essenza passata e quella attuale . La storia del pensiero e quella delle idee dimostrano l’esistenza di una mentalità e di un linguaggio specifico degli antichi e di una mentalità e di un linguaggio dei moderni. Per comprendere i greci – così come i popoli antichi (profondo è il pozzo del passato scriveva Thomas Mann) - bisogna conoscere a fondo la loro visione del mondo e tenerla da conto. Le

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tesi radicali sul linguaggio, oggi molto praticate, portano - come è stato notato anche da Alain Roger, che ha abbandonato queste tesi estreme - alla “ossessione del lessico, come se l’assenza delle parole significasse anche quella delle cose e di ogni emozione”. I greci non possedevano una parola per nominare in astratto il paesaggio, ma avevano più termini per indicarlo e l’hanno descritto, con le sensazioni, con la rivelazione di un profondo senso immanente della natura nella totalità del cosmo. In effetti natura e paesaggio sono nella totalità del cosmo, pur rivelando insospettati aspetti d’autonomia. Omero mostra queste sfumature. In lui la sensibilità di fronte al territorio e alla natura raggiunge dei punti alti, che segnalano l’esistenza di un particolare genio del luogo, una presenza divina nella sua epifania, fonte di uno stupore (thambos- thauma) che pervade gli Inni. Anche se il paesaggio è una rappresentazione recente, la sua idea è antica ed è legata al sentimento di meraviglia suscitato dalla contemplazione. Dobbiamo indagare i paesaggi oltre il moderno. Il problema va forse individuato nella relazione che l’uomo ha con la natura, come ha già dimostrato a suo tempo Friedrich Schiller nel saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale. Si potrebbe quindi parlare di paesaggio inserito nella natura o nel cosmo e di paesaggio separato dalla natura. I paesaggi vanno differenziati dal paesaggismo come genere pitturale. Sono due cose concettualmente differenti. Paesaggio non va inteso, come si potrà ben vedere in queste pagine, nel senso cinese, o collegato alla mentalità orientale, delle montagne e delle acque (sahnshui) o anche nel senso olandese della rappresentazione della wilderness, o ancora nel senso di prima, seconda, terza natura (e via di qua), tutte tesi seducenti ma unilaterali e riduttive. Una corretta indagine epistemologica ci porterebbe a dimostrare esplicitamente il fondamento autonomo della natura, l’essenza specifica di ogni paesaggio e i caratteri della rappresentazione: tre entità che non possono essere confuse tra di loro. Paesaggio è termine occidentale, viene da paese, viene dall’uomo inquadrato nella natura, in quella terra «rude senz’arte né forma», trasformatasi grazie alle sue capacità creative, evidenziate da Ovidio nelle Metamorfosi. L’uomo è demiurgo di luoghi e, come Apollo, nell’Inno omerico a lui dedicato, costruisce paesaggi e innalza templi per osservare la sua opera. La natura è l’archetipo ideale che fornisce il modello: dalla sua figura lo spirito crea forme divine. È utile distinguere i concetti di natura e di paesaggio, nonché afferrare l’essenza di quest’ultimo nei suoi contesti reali e/o immaginari. Soprattutto in quanto realtà presente, dove l’uomo abita e produce; realtà ch’egli modifica. La ricerca s’indirizza quindi verso «un’idea concettualmente determinabile». Cerchiamo l’oggetto di esperienza e il soggetto di giudizio estetici. La nostra prima domanda non sarà tanto rivolta a cos’è un paesaggio, ma a quali situazioni o realtà presuppone. La percezione del paesaggio negli antichi e nei moderni segue una poesia differente. Schiller l’ha ben detto: il moderno è soltanto più ricco in materia sentimentale. La vera differenza tra gli antichi e i moderni è il sentimento nella sua ricchezza particolare: l’antico, ingenuo, è natura; il moderno, sentimentale, l’ha perduta ed essa è divenuta ideale. L’uomo moderno è uscito nella natura, la cerca e la trova come paesaggio, sintomatico di un nuovo rapporto dell’uomo con la natura nella sua totalità. Per i moderni è il risultato di un divorzio: l’uomo da una parte, la natura dall’altra. Il paesaggio diventa ora una parte estranea e una compensazione per ciò che si è perduto. Il bello nella natura suscita la sensazione di un che di irrimediabilmente passato: di una natura perduta che l’uomo moderno ha sostituito col sentimento e la realtà del paesaggio; lo hanno sottolineato Friedrich Schiller e Joachim Ritter nell’esaltare il rapporto-conflitto natura e libertà da quando Kant ha studiato il problema morale della relazione etica-estetica. L’arte rivela una tradizione nascosta, ma rivelatrice. Quando Kant, nel par. 46 della Critica del Giudizio, parla del genio, si collega al significato ereditato dal mondo classico. Il genio, infatti, s’identifica con la natura stessa, cioè con «la disposizione innata dell'animo (ingenium) per mezzo della quale la natura dà la regola dell’arte», e la dà in quanto natura. Non è una definizione soltanto estetica, ma soprattutto etica, connessa all’uso, al costume, al carattere di un popolo. Da qui il carattere di un luogo. Ingenium, infatti, si collega al greco

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ethos che aveva in origine il significato di luogo abituale, dimora, sede, stalla, tana. La connessione con i costumi, con il vivere quotidiano, comporta una scelta fra azioni possibili appartenenti alle opposte categorie del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto. Un luogo non può esistere senza genio. La relazione tra i due termini è stretta, vitale e va pienamente recuperata. Non c’è progetto senza etica, al di fuori delle caratteristiche di ogni luogo nella sua trasformazione con le nuove istanze contemporanee. L'agire riconduce l'uomo alla responsabilità della trasformazione di ogni paesaggio, inteso nel suo senso ampio: mondo umano. I paesaggi, quindi, progetto umano, sono una realtà etica con la sensibilità e lo spirito del proprio tempo: interessa il tessuto urbano, così come quello extraurbano, ambiti di relazioni umane. Essi presuppongono il significato attivo della contemplazione e l'etica della comunità. In quanto riflessi del mondo i paesaggi sono caratterizzati dalla simultanea contemporaneità di presente e di passato, che, in alcuni giardini di pregevole carattere estetico, accoglie le figure del mito, memoria dell’antico, sopravvivenza degli dèi e del loro seguito nelle multiformi epifanie vegetali, minerali e animali. I paesaggi si caratterizzano come ambiti complessivi mitici di luoghi, nella loro totalità umana, che genera un sentimento emozionale nei confronti del passato e del presente, un afferramento emozionale, un sentimento di commozione propulsore di creatività. Questa percezione etica tiene conto di una visione globale della vita e dell'ambiente, del rapporto natura-cultura, che lo ha contraddistinto e caratterizzato con i segni dell’abitare. I paesaggi sono ricettacoli, vere e proprie chorai dove si legge il mondo nella sua complessità. In essi la storia è contenuto di una natura - per così dire - che rispecchia la civiltà immedesimandosi nelle sue stesse forme. Ogni paesaggio è un accadere di cose concatenate fra di loro, definito dall’accordo delle sue singole componenti, dalle cose agli stati d’animo; è contraddistinto dai molteplici elementi di un’immagine univoca. Questa immagine ha in sé una visibilità senza confini, che contiene più di ciò che l’occhio vede: quella dei paesaggi antichi, stimolata dalla divina potenza di thea. Ogni individuo, nella sua qualità di ente indivisibile, ha il suo posto e il suo senso all’interno di una relazione paesaggistica, cioè in un rapporto con l’altro, nella molteplice, doppia contemporaneità. Un paesaggio si definisce nella sua specificità con l’insieme delle relazioni che lo pervadono, comprese quelle meteorologiche. Gli accadimenti del passato entrano nell’immagine attuale dei paesaggi. Sono visibili nei luoghi dove si sono svolti, perché essi vi sono percepibili in quanto hanno impresso loro un determinato carattere. I prati e i boschi si offrono come libri aperti. Gli avvenimenti possono essere letti talvolta nei cimiteri e nelle tombe, che offrono un profondo livello di lettura paesaggistica. Sono soprattutto i santuari e gli altri siti sacri a esporre una visibilità straordinaria nella loro qualità di luoghi unici - come ha notato Cesare Pavese - «legati a un fatto a una gesta a un evento. A un luogo, tra tutti, si dà un significato assoluto, isolandolo nel mondo. Così sono nati i santuari». I santuari rimangono fissi a scandire la storia di un movimento-mutamento; svelano gli accadimenti incisi nell’immagine paesaggistica attuale. Il divenire tra antico e moderno dà forma. Gli avvenimenti del passato plasmano il carattere di ogni luogo, offrendone la lettura del mondo e il recupero della memoria dall’oblio. In questo senso racconti e leggende sono elementi di paesaggio. Si può comprendere che non si tratta di rievocare una natura presente o perduta e del nostro rapporto con questa, bensì - come scrive Ute Guzzoni - di formulare un «pensiero paesaggistico». Un pensiero paesaggistico è un percorso senza confini: indaga gli individui, coglie gli oggetti particolari di un «qualcosa che comprende tutto», cioè il paesaggio osservato. Le singole cose hanno rilevanza per la loro appartenenza a un dato paesaggio: si configura quindi una relazione tra il singolo e l’universale, dove gli elementi semplici, nella loro individualità con una propria esistenza concreta, hanno un significato se inseriti in una data totalità, dove costituiscono una comunità con gli altri elementi in un’esistenza complessiva, universale: paesaggistica. L’attenzione per il paesaggio tiene conto della molteplicità di questi rapporti che lo compongono.

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Si può sostenere forse con ragione - come propone Guzzoni - l’impossibilità di una definizione univoca, ontologica, del paesaggio per il fatto di accogliere in sé un insieme complesso di rapporti: «una mutevole totalità di relazioni di cui ci si può accorgere solo quando il pensiero prova ad abbandonare il proprio carattere ontologico-oggettivo e contemporaneamente avido di origine, e si interpreta come un intrattenersi nel mondo e tra cose dotate di mondo». Il pensiero paesaggistico non mira a un concetto, ma a entrare nel luogo, interrogando ogni suo singolo individuo sulla sua collocazione. Non interessa la cosa, ma il suo contenuto, con tutte le relazioni collegate e rese comuni dalla figura heideggeriana reale e simbolica del ponte. Ogni stato, ogni momento storico può essere individuato in ogni paesaggio, chora della molteplice contemporaneità, dove l'uomo deposita la sua relazione con la natura, creando una struttura, un punto fermo sul quale studiare il mondo. L'immagine del luogo è forma della conoscenza, un'antica rappresentazione da inseguire e indagare attraverso ogni spazio e tempo fino alla più recente contemporaneità, per interpretare storia - paesaggio - siti mutamenti. Risultato irreversibile di trasformazioni, ogni paesaggio è il punto di arrivo di un movimento continuo risalente alle origini stesse del territorio. In esso sono individuabili i mutamenti sociali, il modificarsi dei modi di produzione, dell'abitare, delle forme urbane, dei modi di vita, delle attività lavorative ed economiche, soprattutto della visione del mondo. In questa metamorfosi rimangono dei punti fermi, dei santuari, simboli del passato, del demonico: del sacro in aperta dialettica con il mutamento. L’artificio è un dato di fatto oggettivo che caratterizza i paesaggi. L'uomo, fin dalla sua nascita e nel corso della sua esistenza, è un essere naturale parte integrante della natura come sua cellula: con essa ha sempre convissuto modificandola in modo diretto o indiretto. Anche i filosofi antichi erano coscienti di quest'affinità. Già Aristotele dimostra la naturalità della vita umana associata e delle sue creazioni urbane. L'uomo è per natura un costruttore di poleis, di un territorio da abbracciare con un solo sguardo, comprensivo della città, della campagna e del mare: la totalità del paesaggio comunitario urbano, vegetale o extraurbano e marino. È la prima determinazione reale del paesaggio: un concetto insito nella mentalità greca, ripresa da Hölderlin: l’uno in se stesso distinto.

* Testo fornito dall’autore in occasione del seminario del Dottorato in Progettazione Paesistica sul tema "Etiche del paesaggio: Il progetto del mondo umano " del 28 febbraio 2004, promosso da Anna Lambertini. ** Politecnico di Milano e Università degli Studi di Salerno.

Testo acquisito dalla redazione nel giugno 2003. Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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RI-VISTA Ricerche per la progettazione del paesaggio Anno 1 - numero 1- gennaio/giugno 2004 Firenze University Press

L’ARTE DEL PAESAGGIO E LA SUA TRASFORMAZIONE* di Raffaele Milani**

ABSTRACT Leggere il paesaggio significa capire la natura, la storia e la cultura di un luogo. Una lettura importante per recuperare i segni del passato, renderli visibili e accostarli a più recenti segni provenienti dalle nuove richieste di possibili trasformazioni. Le forme riconoscibili di un paesaggio rivelano pagine di una lunga storia, dalla tradizione alla modernità. Perché esso è moderno e antico allo stesso tempo. Il paesaggio esprime un’immagine di forme, una reazione sentimentale e allo stesso tempo un’esigenza d’astrazione. E’ categoria dell’oggetto e del soggetto. Dufrenne, in un secolo che sembrava avesse dimenticato la bellezza del paesaggio, aveva elogiato sin dal 1955 la percezione estetica della natura sottolineando una certa indistinzione del sensoriale e dell’affettivo. In generale si accenna a un’arte del paesaggio quando esso viene concepito e sentito in relazione allo sguardo pittorico, alla veduta, alla teatralizzazione della natura, alle suggestioni visive delle note di viaggio. Ma, se vogliamo veramente pensarlo come un’arte dell’origine, un’arte che precede i suoi riflessi nella riproduzione dell’arte figurativa, esso ci appare più ampiamente e profondamente unito a un insieme di aspetti che mettono in luce l’uomo tra natura, cultura, storia e mito. Quest’ultimo si fa poi strumento importantissimo nel cogliere e trasmettere il mistero, l’inesplicabile, l’invisibile. Il paesaggio è, allora, sia reale, un’arte fornita dal fare e dalla cultura di un popolo, sia mentale, legato alla rappresentazione e alla visione del mondo. Gli architetti e i paesaggisti che sono invitati a ridare dignità a un territorio degradato, o troppo alterato e manipolato, dovranno ricordarsi dell’interazione di queste due accezioni ed essere capaci di leggere e interpretare i segni della presenza dell’uomo e migliorare così l’aspetto dei luoghi. PAROLE CHIAVE Arte del paesaggio, esperienza estetica, categoria culturale.

STORIA E CULTURA Thomas Hardy, in The Major of Casterbridge (1886), osservava che molte città industriali appaiono con violenza alla nostra vista: “corpi estranei caduti come massi nella pianura di un mondo verde con il quale non hanno nulla in comune”.1 Quest’immagine di pesante estraneità si è sempre più diffusa e moltiplicata lungo tutto il Novecento. Rispetto a questa visione delle cose, ci domandiamo quanto sia cambiato il paesaggio contemporaneo rispetto a quello precedente o a quello antico. Di fronte ai luoghi, alle loro trasformazioni e alle loro memorie, ci chiediamo anche se esista ancora e come possa manifestarsi un vivo piano di bellezze diverse e utili all’uomo, tra l’ansia dell’innovazione e la necessità della conservazione. Bellezza e utilità compongono un quadro di valori da conservare e invitano a 1

THOMAS HARDY, The Major of Casterbridge, 1886, trad.it. di Luigi Berti, Il Sindaco di Casterbridge, Milano, BUR, 1984, p.72.

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pensare buoni criteri per osservare e riallestire l’oggetto naturale o urbano. Ci fu un tempo in cui l’arte del paesaggio reale era unita al paesaggio rappresentato, ma questo tempo non è completamente finito, perché ha bisogno di noi, delle nostre scelte e del nostro mirato ed equilibrato intervento, per ridivenire vivo e presente. Il degrado, la globalizzazione, i cosiddetti “non luoghi”, la città “diffusa”, tutti elementi dell’attuale, terribile stravolgimento dei caratteri, delle forme del paesaggio, possono essere nuovamente dominati da un’intelligenza dell’organizzare, del salvaguardare e del progettare.

Figura 1. Pianura agricola bolognese, Anonimo pittore fiammingo (metà Settecento).

Leggere il paesaggio significa capire la natura, la storia e la cultura di un luogo. Una lettura importante per recuperare i segni del passato, renderli visibili e accostarli a più recenti segni provenienti dalle nuove richieste di possibili trasformazioni. Le forme riconoscibili di un paesaggio rivelano pagine di una lunga storia, dalla tradizione alla modernità. Perché esso è moderno e antico allo stesso tempo. Paesaggio e cultura compongono una relazione inscindibile. Tecniche e conoscenze, legate all’attività collettiva e trasmesse attraverso le generazioni, formano il sistema del sapere tradizionale. Come afferma Laureano2, ogni pratica tradizionale non è un espediente per risolvere un singolo problema, è invece sempre un metodo elaborato, spesso polifunzionale e che fa parte di un’integrazione tra società, cultura e economia, legata a una concezione del mondo basata sulla gestione accurata delle risorse locali. Per esempio un terrazzamento vale come modo di proteggere un pendio, ricostituire i suoli, raccogliere l’acqua, creare uno spazio utilizzabile come ricovero per gli animali e anche qualcosa di più. Vi si legge un’intrinseca qualità estetica e opera all’interno di una organizzazione sociale e di un sistema di valori condiviso che lo sostiene e allo steso tempo si basa su di esso. La società antica visse nell’equilibrio tra risorse e loro uso produttivo. Nel bacino del Mediterraneo, precisa Laureano, nelle sue isole, penisole, in Siria, Libano, Mesopotamia, Palestina, Arabia e Nordafrica, luoghi delle più antiche civiltà nelle quali c’erano campi e giardini fiorenti ed ora abbandonati, il continuo peggioramento dell’ambiente non è tanto dovuto a cause naturali e climatiche, ma alla pressione indiscriminata operata sulle risorse naturali. Abbiamo ricordato l’immagine del paesaggio antico, la sua percezione e il suo sentimento. Se pensiamo ai Greci, ci illumina un recente studio di Dario Del Corno3. In questa riflessione troviamo che città e campagna si integravano a costituire i fondamenti dell'economia antica, 2

Cfr PIETRO LAUREANO, Fine della tradizione, scomparsa del paesaggio, in “Parametro” n. 245, Numero monografico Mutazioni del paesaggio, p.68. 3 DARIO DEL CORNO, L’ambiente naturale nel mondo greco: funzione economica e qualità estetica, “In forma di parola”, inverno 2004, in corso di stampa.

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a cui si aggiungeva come terzo fattore il mare. L'ambiente naturale della terraferma includeva aree immense, che si estendevano al di fuori del territorio occupato dagli uomini.

Figure 2 e 3. Vista della pianura nei dintorni di Bologna e Villa Albergati: due immagini attuali del paesaggio rurale bolognese.

Nei viaggi, nelle battute di caccia, nelle spedizioni militari i Greci, dice Del Corno, percorrevano questi spazi liberi, che apparivano loro come “la sede di una vitalità spontanea: ne affrontavano le incognite e i pericoli, ma avevano anche appreso a considerarli come parte essenziale di una realtà, che si raccoglieva nell'immagine totale della terra. La campagna s'identificava invece con l'ambiente che l'uomo aveva assoggettato alle proprie necessità, destinandolo alla produzione dei mezzi di sostentamento, ossia l'agricoltura e l'allevamento; e tuttavia, per così dire sull'altro versante dell'opposizione con la città, c'erano panorami che presentavano rapporti di affinità e di differenza con lo spazio naturale della campagna”. La consapevolezza di tale complessa realtà è antichissima, tanto che se ne ritrovano le tracce già nell'Odissea. Nel canto V del poema, ai vv. 63-75, là dove Ermes, arrivando all'isola di Calipso, si arresta ad ammirare la selva che circonda la grotta della dea, una meraviglia della natura immune dall'intervento dell'uomo; oppure nella contemplazione del giardino di Alcinoo da parte di Odisseo (Odissea, 7, 112-32) che ascrive la straordinaria fertilità a un dono divino. Entrambi i passi, continua Del Corno, rientrano in una comune tipologia descrittiva, che si potrebbe definire "naturalistica"; e peraltro essi sono distinti da uno scarto fondamentale, che oppone la vegetazione spontanea e quella programmata. I due passi odissiaci attestano la presenza di questo duplice modello dell'ambiente "naturale" ai primordi della cultura greca, sebbene in essa non sia possibile identificare una precisa corrispondenza lessicale sia per l'idea di "ambiente", sia per quella di "natura" nell'accezione richiesta dai nostri passi. Ma in linea di massima si può ritenere che, in qualsivoglia cultura, la mancanza di vocaboli specifici per una nozione non comporti necessariamente la mancanza della nozione stessa, o almeno di un ambito di idee ad essa affine. Nel mondo greco esiste una sorta di precognizione del modello che noi esprimiamo con la formula "ambiente naturale"; e tuttavia tale modello è relegato ai margini di un'esplicita definizione, soppiantato dalla centralità che la mente greca conferisce all'agire dell'uomo e alla sua storia. Da queste osservazioni di Del Corno sulla campagna e sull’ambiente naturale spontaneo, emergono i due modelli che giungeranno fino all’inizio del Novecento nella nostra cultura, e allo stesso tempo si chiarisce l’origine del sentimento occidentale legato al paesaggio e alla natura.

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Troviamo un altro importante passo sull'antitesi fra la città e l'ambiente naturale nel Fedro platonico (230 A-E). Condotto dall'amico in una passeggiata fuori dalle mura di Atene, Socrate ammira come una novità lo splendore del paesaggio e ne elenca le attrattive: il platano alto e frondoso, l'agnocasto che spande ombra e profumo, la fonte freschissima, il mormorio del vento e il coro delle cicale, il declivio del prato su cui distendersi comodamente. Ma dalla grazia di tale bellezza egli prende però le distanze: in questo luogo ameno lui non è che un forestiero, come spiega a Fedro, stupito della sua sorpresa: “Io sono uno che ama imparare e la campagna e gli alberi non mi vogliono insegnare niente; gli uomini della città, invece, sì”, Socrate appare comunque colpito da un'esperienza fino a quel momento mai provata: la percezione del paesaggio come fonte di emozione.

Figura 4. Una teggia nel campo.

Da qui possiamo far nascere anche lo stupore che è alla base della valorizzazione estetica della natura e le ragioni che storicamente potranno poi definire il paesaggio come un’arte. Nel corso dei secoli e soprattutto nel Novecento, l’aspetto del territorio e la rappresentazione del paesaggio sono cambiati notevolmente. Osserviamo grandi mutamenti paralleli alle profonde modificazioni della sensibilità umana e della conoscenza. Ciò è avvenuto appunto tra i modi della cultura e della storia, tra le immagini della qualificazione simbolica e della critica, tra i valori della tradizione e dell’evoluzione. Nelle meraviglie del giardino come paesaggio e del paesaggio come giardino, come diceva Rosario Assunto4, l'uomo ha organizzato le forme della realtà circostante per istituire un'immagine e un'esperienza di coesione sociale. Al di là della polemica opposizione tra tecnica e natura, il paesaggio appare, dinanzi a noi, come una categoria dinamica, plurivoca e anche transculturale. Dall'India antica alla Grecia classica, via via sino al Settecento quando il paesaggio si fece "ideale estetico", contemplazione e lavoro figurano in un unico disegno. La teoria e l’esperienza si sono fuse nel tempo delle trasformazioni e delle memorie. Ciò che possiamo chiamare arte del paesaggio viene alla luce attraverso queste considerazioni. Impressioni e ragionamenti che spingono a interrogarci, allo stesso tempo, sul futuro della terra e della storia, per aprire così l’intero capitolo dell’appartenenza dell’uomo alla natura secondo la storia culturale del paesaggio. Si individua un piano di diversi generi di mutazione che va dalla foresta o dalla palude alle coltivazioni e agli insediamenti umani, dai 4

ROSARIO ASSUNTO, Il paesaggio e l’estetica, Napoli, Giannini 1973.

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disastri ecologici all’industrializzazione incontrollata, dall’uso di materiali tradizionali al cemento armato. E’ un problema legato all’ecologia e alla sopravvivenza, alla moderazione dei consumi e all’identità del bene comune al quale il paesaggio da sempre appartiene. IL PAESAGGIO COME OGGETTO ESTETICO Uomo e paesaggio condividono uno stesso avventuroso destino: il continuo processo di cambiamento. Per l’uomo è il lavoro a condurlo nel regno della trasformazione che lui stesso promuove, per il paesaggio è invece il complesso delle mutazioni a organizzare il piano dei suoi segni evolutivi. Entrambi sembrano raccontare qualcosa. L’uno con un insieme di datità dispiegate nel territorio per sovrapposizione e intreccio, l’altro con un sistema di opere, descrizioni, immagini e sentimenti. Il paesaggio è costituito da valori in parte persistenti e in parte mutanti. Inoltre le trasformazioni vi appaiono lente e brusche. Esso mostra l’evoluzione del territorio e incrocia il suo proprio racconto con quello narrato dagli uomini. E’ risultato della memoria che è connessa al tema centrale dell’identità dei luoghi, come si può capire bene anche dalla cosiddetta “identità mediterranea”. E l’identità è sempre composita. Il Mediterraneo, citato poco sopra, è infatti prodotto di secoli di trasformazioni, eppure diciamo che esiste un’identità mediterranea. Usiamo questa espressione, anche se non veramente appropriata, per affermare un valore insignito dell’eterogeneità e del divenire. Oggi il territorio è sempre più un paesaggio addomesticato, ma talmente umanizzato da essere divenuto, a volte, disumano.

Figura 5. Canaletto, Le isole di S.Cristoforo, San Michele e Murano dalle Fondamenta Nuove, 1722 – 23.

Questa aspirazione o desiderio di indagine legata anche alla scoperta e all’uso delle risorse muove da sempre l’agire culturale, sentimentale, poietico dell’uomo. I suoi spostamenti sono legati alla ricerca di risorse, ma sono a volte legati al semplice piacere del viaggio, ai piaceri della vista, delle diversità e delle curiosità estetiche. Questo fenomeno dell’uomo viaggiatore, proprio in relazione a un discorso sul cambiamento del paesaggio, conduce verso un altro lato dell’immaginare, spinto a ricercare ciò che è estraneo, a sovrapporre segni della lontananza, di una cultura lontana geograficamente o storicamente, con quelli della vicinanza, del qui e ora, nel costruire stesso, nell’abitare stesso. La sensibilità umana

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esprime naturalmente un’ansia di ricerca dell’esotico e del non abituale che muove particolarmente il viaggiatore e la sua percezione del mondo. Il fatto favorisce l’apprezzamento della “varia” bellezza della natura, di come essa appaia in vario modo sulla terra. Viaggiatori, esploratori, geografi, scrittori, pittori, scienziati hanno esaminato la terra in quanto espressione storica e culturale attraverso grandi peregrinazioni conoscitive ed estetiche. Fino ad esagerazioni, tipiche della vertigine estetica del Grand Tour, già denunciate dallo stesso Byron5 quando dichiara: “In questi tempi gloriosi, ogni persona sciocca descrive/ i suoi viaggi meravigliosi in qualche corte straniera…. esigendo le vostre lodi”. In tal modo la Natura viene maltrattata e manipolata, alterata da tante guide, versi, racconti di viaggi, schizzi e illustrazioni.

Figura 6. Basoli, Altana del Prof. Schiassi, via Belle Arti, Bologna 1828.

L’ansia della differenza e della lontananza, che abbiamo detto spontanea, originaria, possiede pure una sua “perversa” dimensione estetica sin dall’antichità. Già Plinio (Epistulae), ai primi del II secolo, annotava: “noi viaggiamo per strade e mari al fine di vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi. Ciò accade perché la natura ha così fatto le cose: che noi prediligiamo ciò che è lontano e restiamo indifferenti a ciò che è vicino, oppure perché ogni desiderio perde d’intensità quando è facile soddisfarlo, o perché ci disinteressiamo di ciò che possiamo vedere quando ci piace, sicuri che ben presto avremo l’occasione di capitarci davanti”. In questo passo leggiamo un’anticipazione di quel particolare sentimento d’età barocca e rococò che vuole scoprire la natura non com’è, ma come potrebbe essere: prodotto allo stesso tempo dall’immaginazione e dalla poiesis. Questa citazione, al di là dell’ammirazione per ciò che è lontano pur essendo eventualmente davanti ai nostri occhi, è molto utile se esaminiamo l’idea del viaggio nell’ambito delle categorie estetiche e del pittoresco in particolare. Vediamo infatti muovere da qui importanti interrogativi su ciò che è naturale e su ciò che è artificiale, sulla natura naturans e sulla natura naturata. E’ un tema e un’esperienza che coinvolge artisti, scrittori, architetti, giardinieri, filosofi. 5

BYRON, Don Juan, V, 52.

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L’idea del viaggio, nel gusto illuminista e poi romantico, con la scoperta di luoghi inusitati e il ritrovamento di cose conosciute, ma rivalutate perché viste altrove, rientra pienamente nel corso di questi eventi culturali fornendo un preciso gusto estetico attraverso l’uso del citazionismo. L’industrializzazione diffusa e l’imporsi di strutture territoriali continue (autostrade, ferrovie, etc.) ha creato uno stato caotico dell’ambiente in generale e una difficile leggibilità del paesaggio stesso. Quest’ultimo passaggio della trasformazione risulta fortemente critico. Si è alterato in modo rapidissimo e brutale il millenario rapporto cittàcampagna. L’industrializzazione diffusa e l’imporsi di strutture territoriali continue (autostrade, ferrovie, aree industriali, aeroporti, grandi magazzini, industrie del divertimento infantile ecc.) ha creato uno stato caotico dell’ambiente in generale e una difficile leggibilità del paesaggio stesso. Nel caos e nel Kitsch ovunque disseminati s’apre tutta una riflessione sul campo architettonico e urbano rappresentato principalmente da un “perverso” modo di vedere il mondo e mettere in pratica la citazione; risulta eclatante, in questo senso, il modello Las Vegas, caso esemplare e clamoroso. Inoltre, accanto a esempi di questo genere, emergono, in diverse città del pianeta, altri elementi di cambiamento nella funzione e nel valore degli stessi edifici; si pensi ai media buildings, semplici facciate per iscrizioni pubblicitarie. Il pericolo, imminente e grandissimo, è la perdita della memoria dei luoghi, la perdita di quei processi e di quei segni di trasformazione che hanno costituito l’identità dei luoghi stessi sulla base della loro eterogeneità. E’ l’attuale regno “post moderno” inoltre ad aver alterato in modo rapidissimo e brutale il millenario rapporto città-campagna. Se confrontiamo i diari del Grand Tour di vari intellettuali del Settecento o dei primi dell’Ottocento non possiamo non constatare profonde ferite d’immagine, rispetto alle rappresentazioni dell’industrializzazione oggi e della sua difficile leggibilità. Il paesaggio italiano visto da Goethe e da Schinkel, come da tanti altri, non esiste più o quasi. Che cosa è stato della campagna romana o della via Appia? E delle piccole case di Mosca o di Cuba dietro le quali sorgono immensi falansteri? Mentre altri pezzi d’Italia, d’Europa, del mondo sono ancora identici a quelle visioni: come le colline vicine a Bologna e ritratte da Morandi, ampie zone della Toscana ritratte in famosi dipinti, o tanti altri esempi, altrove. L’eventuale ricomposizione del paesaggio, dopo le ferite al suo territorio, può certamente appoggiarsi, almeno in parte, all’istituzione di parchi letterari, musicali, pittorici. Si avverte tuttavia il rischio di trasformare il paesaggio in un museo. Andare a visitare la casa di Brentano, nelle valli del Reno, o la casa di Leopardi, nelle Marche, o quella di D’Annunzio sul lago di Garda, e seguire viste e itinerari dell’immaginazione letteraria è interessante e bello, utilissimo se poi chi deciderà cosa e come costruire si ricorderà anche di questi aspetti della storia e della cultura, soprattutto se confrontiamo queste immagini con gli scempi delle coste, delle valli, delle colline, ma potrebbe diventare un pellegrinaggio estetico troppo turistico e divenire un rituale Kitsch. Bisogna fare attenzione: nella nostra mente sopravvivono memorie storiche e descrizioni pittoriche e poi cinematografiche per uno sterminato registro dell’immaginazione umana. Tra gli innumerevoli squarci e intuizioni d’epoca, possiamo ricordare la gioia del passeggiare tra le antiche mura di Urbino, di Tuscania o di Heidelberg, le piacevoli soste tra le grandiose rovine di Roma o di Ostia, a vista dei resti gotici della cattedrale di Bacharach, sul Reno, ritratti da Carus, la contemplazione di paesaggi reali come quelli dei dintorni di Greifswald, che ritroviamo nei quadri di Friedrich (salvo il fatto che in uno di questi luoghi memorabili hanno edificato dei centri commerciali). In tutta questa viva esperienza estetica si respira ancora un’atmosfera mista, tra pittoresco e romantico, una gioia dell’”autentico”. Ma, se vogliamo entrare nella rivisitazione della storia, dei suoi modelli e delle sue immagini, da parte della contemporaneità e interpretare le relazioni, anche con un tocco di magica ironia, tra l’ambiente e il gusto citazionista, perché non ricordare i progetti e le realizzazioni di Robert Wines, alla maniera del pittoresco? Una formula voluta, diretta e intelligente perché in questo caso si è saputo dove intervenire.

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Figure 7 e 8. Una torre di Sanà, nello Yemen, ed una torre di Bologna.

IL CAMBIAMENTO Nella vita di un uomo il cambiamento di un certo paesaggio, piccolo e grande che sia, aveva sino a pochi anni fa le proporzioni di un giardino e di un orto che diventano posteggi per le auto, di un chiostro che, ricoperto di cemento, può diventare un campo di pallacanestro, di campi coltivati che diventano zone edificate con l’istituzione di “aree verdi” o di parchi urbani ecc. Oggi però è crollato il delicato sistema di relazione tra campagna e città. Non ci sono più le passeggiate fuori porta, se non in certe piccole città. Lo sviluppo urbano è diffuso ovunque. S’agita un improvvisato universo percettivo e inventivo dello spazio, con una profonda modificazione d’impatto antropologico. Circa dalla metà del Duecento registriamo norme per la qualità urbana e dell’architettura, tuttavia la società attuale non riesce a mettere in campo un sistema di regolamenti sicuri e veloci nell’esecuzione. Mentre da un lato certi vincoli e indicazioni dei centri storici a salvaguardia delle zone monumentali fanno delle nostre città dei luoghi spesso accettabili o “ideali”, dall’altro invece l’estensione della nuova città è incontrollabile. Emerge una contraddizione spaventosa. E l’uomo si smarrisce, è disorientato, diventa un estraneo nella sua stessa patria, come ha sostenuto anni fa D. Lowenthal.6 La rapidità del processo è tale da privare, di fatto, l’osservatore dello stesso diritto alla nostalgia. Ci si ritrova, a volte, quasi improvvisamente in un “paese divenuto straniero”. Viviamo in spazi urbanizzati e manipolati dove la natura sembra ormai poco riconoscibile. S’impongono modalità virtuali allestendo un paesaggio mistificato, tipico delle società dello spettacolo, delle società del simulacro di cui ha parlato Baudrillard. E’ la fine del cosiddetto Genius loci, è l’età della vertigine della simulazione, come sostiene Turri.7 Prima della fase attuale, prima dell’avvento della post-modernità, trovavamo da un lato la natura, dall’altro l’uomo e le sue attività di trasformazione. A questa visione del 6

D. LOWENTHAL, The Past is a Foreign Country, Cambridge, Cambridge University Press, 1985. TURRI EUGENIO, Viaggio verso Atopia, in AA.VV., Paesaggio perduto, Quattroventi, Urbino,1996. Si veda anche, dello stesso autore, La conoscenza del territorio, Marsilio, Venezia, 2002.

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paesaggio, risultato di varie teorie, da Simmel, Ritter fino ad Assunto, è succeduto un nuovo orientamento o “disorientamento”; una fase nuova, diversa. L’uomo viene visto operare in una sorta di grande openfield nel quale la natura è quasi totalmente artefatta, manipolata, dove il rapporto locale tra uomo e natura non avviene più sulla base di un confronto diretto. Questa la situazione dei nostri giorni alla quale si oppone però un’ansia del naturalizzare, del ritrovare l’autenticità del vitale che ha radici presso i romantici. Aspetti già affrontati, come gli effetti dell’industrializzazione e dall’anomia, il desiderio del viaggio e la passione per l’artificiosità del naturale, debbono essere infatti analizzati insieme a un altro importantissimo fatto culturale: la consapevolezza della rappresentazione della Natura come potere vitale. Di quest’ultima aveva già trattato, tra gli altri, William Wordsworth quando descrive poeticamente la regione dei laghi.8Egli ricordava come le umili abitazioni di quella regione invitassero lo spettatore, assorto in contemplazione, a vederle come un prodotto della natura. Osservava che tali costruzioni, considerate primitive e belle, sono sorte come da un istinto innato dalla roccia nativa. I blocchi di ardesia e la pietra grezza mostrano tracce di licheni, muschi, felci e fiori. In tal modo queste abitazioni, ricoperte parzialmente da un abito vegetale, richiamano alla mente, diceva Wordsworth, i processi stessi della Natura. Esse sembrano accolte nel principio vivente delle cose esistenti tra boschi e campi. Si tratta di una visione olistica dell’armonico rapporto tra uomo e natura. Siamo dunque qui nel gioco della Natura, tra quello che è e quello che può essere, per un gioco di trasfigurazioni e trasformazioni, tra i dati oggettivi e i segni della nostra percezione soggettiva. Ci troviamo, con questo esempio, nel fuoco di due fenomeni paralleli e intrecciati, il paesaggio umano e il paesaggio naturale letti nella gamma delle categorie estetiche. Noi siamo presi, in questo sentimento di scoperta dell’ambiente attorno a noi, in un processo di naturalizzazione. Si ripropone qui il tema del cambiamento del tessuto vegetale e abitativo alla luce di ciò che è o può essere considerato naturale o artificiale. CATEGORIA MENTALE, CATEGORIA CULTURALE La rappresentazione del paesaggio nel disegno, nell’opera pittorica e nella descrizione letteraria, ripropone specularmente il risultato delle attività umane e della potenza della natura, in un complesso percorso che va dalla Grecia classica fino alla rivoluzione di Turner elogiata da Ruskin e riguardante la resa della più profonda verità della natura attraverso “lo sguardo della mente”. E’ questa una delle tesi più acute della contemplazione del paesaggio, moto dei sensi e della mente dal quale comunque parte l’opera stessa dell’uomo. In relazione all’origine di questo sguardo mentale per la rappresentazione, che è in anticipo sull’arte dell’imitazione e della raffigurazione, quasi un sensus communis dello sguardo sulla realtà circostante, e volendo eventualmente trovare delle analogie, tra popoli, culture, storie ed epoche diverse, possiamo azzardare un confronto tra le torri di Bologna e quelle di San’a (Yemen). Perché non è assurdo rintracciare in entrambi i casi un comune piacere della vista da parte di uomini così diversi che ammirano l’ambiente circostante, nell’alternarsi del buio e della luce e delle stagioni, dalle stanze “alte” di quei fantastici oggetti architettonici, non soltanto adibiti alla difesa militare. Si tratta di un abbraccio tra architettura e natura, tra il fare dell’uomo e lo spazio intorno a lui, di una fusione tra soggetto e oggetto. L’esempio vale ad affermare l’insieme delle ragioni, delle emozioni, dei sentimenti del paesaggio che si presentano all’uomo sin dall’alba della civiltà. La storia del paesaggio e della sua rappresentazione ha radici antiche, in un continuo agitarsi trasformativo, come si è accennato. Sin dall’antichità città e campagna, paesaggio urbano e paesaggio rurale hanno fornito una coppia continuamente in trasformazione, come si è detto. L’abitare oscillava tra il vivere in città e il risiedere in villa. Nel mondo greco e romano, come ci ha dimostrato con numerosi esempi ancora Dario del Corno,9 l’opposizione città8 9

WILLIAM WORDSWOTH, Guide to the Lakes, 5a ed. a cura di E. SELINCOURT, 1835, Oxford, pagg. 62-63. DARIO DEL CORNO, Paesaggio ed ecologia nel mondo greco e romano, in “Parametro” cit., pagg. 33-35.

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campagna era drammatica. La terra subiva anche allora l’aggressività e la violenza dell’uomo. Sallustio denunciava che si dilapidassero patrimoni “per spianare monti e interrare mari” (Congiura di Catilina, 13,1 e 20,11); Seneca prevedeva la sistematica devastazione dei litorali: “dovunque il litorale si curva in una baia, voi getterete fondamenta e, contenti solo del terreno che create artificialmente, incalzerete il mare fino nel suo interno” (Lettere a Lucilio, 89,21). Del Corno parla anche di disastri ecologici e degli impressionanti stermini delle cacce sportive. Ma la differenza oggi sta nella proporzione di fenomeni simili. Oggi la potenza devastatrice è certamente superiore.

Figura 9. C.D. Friederich, Paesaggio montano con arcobaleno, 1809.

Il problema del paesaggio muove, nella prospettiva di queste riflessioni, non tanto dalla trasfigurazione artistica (il paesaggio nelle rappresentazioni pittoriche o letterarie) quanto dal piano dell’operatività umana, della visione del mondo e della contemplazione. Si vuole comprendere il significato del paesaggio come categoria estetica nel campo della sensibilità umana, sotto il segno della realtà, del valore, del simbolo, alla luce del manifestarsi molteplice delle cose che ci circondano e poi delle sue trasfigurazioni nell’arte e nella letteratura. Attraverso una rete di impressioni, sentimenti e giudizi, l’esperienza delle forme si offre in un particolare disegno di “conoscenza”, fuori da schemi di paradigma indiziario, vale a dire dell’osservazione, percezione e decifrazione di tracce e segni del territorio. La categoria estetica mira a rivelare la struttura stessa degli oggetti e dei fenomeni, ponendosi tra l’intenzione degli uomini e la natura intima del mondo. In questo percorso la varia bellezza del paesaggio naturale e del paesaggio costruito viene letta nell’ambito appunto di un’arte quale risultato del fare, del sentire e dell’immaginare. Siamo da sempre affascinati dalla natura intorno a noi. Possiamo infatti comprendere il significato e il valore del paesaggio come categoria estetica lungo l’intero cammino della civiltà . E’ un gusto che si evolve nei secoli e che si organizza, nel campo della sensibilità umana, attorno a complesse riflessioni sul molteplice manifestarsi della natura. Il paesaggio esprime un’immagine di forme, una reazione sentimentale e allo stesso tempo un’esigenza d’astrazione. E’ categoria dell’oggetto e del soggetto. Dufrenne, in un secolo che sembrava avesse dimenticato la bellezza del paesaggio, aveva elogiato sin dal 1955 la percezione

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estetica della natura sottolineando una certa indistinzione del sensoriale e dell’affettivo.10 In generale si accenna a un’arte del paesaggio quando esso viene concepito e sentito in relazione allo sguardo pittorico, alla veduta, alla teatralizzazione della natura, alle suggestioni visive delle note di viaggio. Ma, se vogliamo veramente pensarlo come un’arte dell’origine, un’arte che precede i suoi riflessi nella riproduzione dell’arte figurativa, esso ci appare più ampiamente e profondamente unito a un insieme di aspetti che mettono in luce l’uomo tra natura, cultura, storia e mito. Quest’ultimo si fa poi strumento importantissimo nel cogliere e trasmettere il mistero, l’inesplicabile, l’invisibile. Nel quadro esposto, gli oggetti naturali, anche quando appaiono svincolati da un’azione produttiva dell’uomo, possono poi ugualmente appartenere all’espressione dell’arte sulla base della valorizzazione che l’uomo stesso, con un più esteso e mirato atto intenzionale, assegna all’esperienza estetica del mondo. L’ARTE DEL PAESAGGIO L’arte del paesaggio è un complesso di forme e dati percettivi, un prodotto del fare e della fantasia. L’uomo modella territori con le coltivazioni, migliora l’assetto dei luoghi, cura la realizzazione di giardini, insegue il sogno di siti non contaminati dalla sua presenza, fornisce o inventa immagini del mondo, elabora un universo di impressioni. Egli si rappresenta quei dati in un sentire necessario, per tradurlo in un riconoscimento delle forme e poi ancora in una loro evocazione, fino ad elaborarlo in viva partecipazione e annullamento catartico.

Figura 10. E. Munch, Moonlight,1895.

Il paesaggio, nel suo statuto morfologico, non ha canoni e tecniche, non è un’attività, ma un rivelarsi di forme in consonanza con l’intervento materiale e immateriale dell’uomo. Vi ritroviamo una fusione di spirito e materia.. Per citare ancora Dufrenne (1989), potremmo dire, per esempio, che un certo angolo di paesaggio può essere considerato opera dell’arte nei termini di una riflessione sulla natura naturans e sulla natura naturata; perché i luoghi sono oggetti culturali e naturali allo stesso tempo, relazione di dati oggettivi e creazioni 10

MIKEL DUFRENNE, Arte e natura, in MIKEL DUFRENNE E DINO FORMAGGIO, Trattato di estetica, 2 vol., Milano, Mondadori 1981, pp. 25-48.

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dell'uomo, in vista anche di uno scambio tra naturale e artificiale. L’uomo, imitando la natura, agisce in quanto naturante attraverso il genio da essa (natura) infuso negli uomini.11 In questo senso e in questa direzione del gusto si può anche affermare che arte e categoria estetica sono qui correlativi. Si promuove così, divergendo da una linea di riflessione che può avvicinare Simmel, Kerényi, Cassirer, M. Schwind, E. Strauss, J Ritter, Heidegger, Klages, Jauss, Adorno, una promozione umana di tipo plurisensoriale e poietica. Il significato estetico del paesaggio prende luce da interventi legati al “fare e organizzare l’ambiente” e il territorio. Non si tratta semplicemente di un procedere dopo avere analizzato la percezione, di un muoversi esclusivamente nell’ambito di un’immagine del paesaggio, ma di elaborare un disegno organico dell’uomo nell’ambiente e offrire la datità stessa di quel particolare contesto fisico. L’estetica del paesaggio, ponendosi necessariamente tra conservazione e innovazione, richiede altre due importanti categorie correlative, quelle del riconoscimento e dell’interpretazione. Infatti non vi può essere risultato di coerenza e continuità tra i dati naturali e culturali, senza aver constatato la corrispondenza a un’identità del luogo, e senza aver tradotto in termini accessibili l’essenza morfologica del luogo stesso. Si può procedere, nell’analisi del paesaggio, attraverso i concetti di situazione, relazione, intervento, quali indici di qualificazione estetica del territorio che così diviene, a tutti gli effetti, paesaggio. E ciò proprio nell’intento di voler precisare il paesaggio che già in apertura avevamo battezzato come categoria dinamica, plurivoca e transculturale e che sappiamo gareggiare con un’altra, la categoria mentale, di radice rappresentativa, legata alla vista, al panorama, alla visione, alla scena, allo spettacolo, all’inquadramento dell’oggetto naturale, al racconto, alla scrittura figurata. La situazione mostra il risultato della cultura della storia. E’ un’immagine in continuo mutamento secondo le rapide trasformazioni dell’attività umana con inevitabili spostamenti nella scelta degli oggetti di produzione. La natura esprime un’immagine multiforme. Abbiamo infatti una visione dell’ambiente composta da numerosi elementi. Paesi, villaggi, borghi, montagne, spazi coltivati, foreste, ecc. appartengono storicamente al nostro repertorio umano di appartenenza: contadini, mercanti, viaggiatori, esploratori, guerrieri, pellegrini, ecc. Dai vari documenti sui distretti territoriali, dalle varie carte dei luoghi, dai vari diari di viaggio, si trae un immenso catalogo di immagini del mondo. Superfici, luci e forme compongono un ordine delle cose i cui effetti lasciano emergere continue relazioni fra architettura e natura. L’esperienza estetica, nell’intreccio di percezione, conoscenze, lavoro, rappresentazione e contemplazione, prevede l’interazione tra uomo e ambiente. Dal punto di vista progettuale ciò significa cogliere nei paesaggi, i transiti tra la memoria e la necessità del nuovo per un equilibrio tra passato e futuro, affermando un’ipotesi allo stesso tempo conservativa e inventiva se riusciamo a collegare le diverse funzioni e utilizzazioni del territorio. L’intervento è in sostanza il paesaggio come prodotto di un trattamento compositivo della natura intorno a noi. Possono essere impiegate delle tecniche di modificazione del suo assetto morfologico e dei suoi codici visivi capace di esprimere i caratteri di quel certo luogo, oppure possono essere impiegate delle modificazioni di rappresentazione dello stesso luogo, attraverso citazioni che spingono a separare, elevando l’uno o l’altro aspetto, lo sguardo del soggetto e i tratti distintivi dell’oggetto naturale o urbano. L’intervento potrebbe più estesamente farci pensare all’utile concetto di “medianza”, oggi diffuso nel segno di un ambiente vissuto, ma anche designato sul piano semiologico. La cosa è connessa ai processi La relazione indica il paesaggio come il risultato di un continuo scambio. dell’artificiare un paese in paesaggio, nel dare cioè a un semplice villaggio il pieno riconoscimento dei tratti caratterizzanti la sua cultura e la sua storia. Il paesaggio, dunque, non va visto soltanto sotto il modello ottico della pittura o emozionalistico di certa letteratura. Perché constatiamo lo specchiarsi delle forme naturali nelle forme dell’arte e del lavoro umano e viceversa. Sembra che il paesaggio spontaneo o costruito si presentino ai nostri occhi riuscendo a enunciare una

11 MIKEL DUFRENNE, L’espérience esthétique de la nature, “Revue Internationale de Philosophie” n. 31, 1955, pp. 98-115.

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vera poetica, una vera pratica e teoria del mondo intorno a noi. In questo senso possiamo dire, con Simmel, che il paesaggio esprime la natura che si rivela esteticamente. Il paesaggio è dunque sia reale, un’arte fornita dal fare e dalla cultura di un popolo, sia mentale, legato alla rappresentazione e alla visione del mondo. Gli architetti e i paesaggisti che sono invitati a ridare dignità a un territorio degradato o troppo alterato e manipolato dovranno ricordarsi dell’interazione di queste due accezioni ed essere capaci di leggere e interpretare i segni della presenza dell’uomo e migliorare così l’aspetto dei luoghi. Il loro intervento potrà essere di diversa natura progettuale e, come accade per il restauro o l’architettura, ma qui, molto più complessamente, seguirà in generale due percorsi, due idee: imitare, rifare il modello originale o rimodellare, riplasmare quello esistente. In entrambi i casi esistono, in astratto, ambiguità e pericoli, ossessioni e paure, perché il paesaggio è storia e, in quanto tale, disegno di forme in mutamento, espressione di un’identità che abbiamo sottolineato essere composita. E’ questa identità composita, insieme a un progettare per “relazione”, che dovrà essere messa in campo. E la scelta di qualità estetiche dipenderà dalle regole del gusto, della tradizione, della conservazione, dai processi di innovazione rispetto alle risorse. Non vi sono regole assolute. Ogni situazione va analizzata nel suo contesto. Si può ripristinare un paesaggio antico, ma di quale epoca? Si possono ricoprire i muri e i pilastri di cemento con splendide rampicanti, ma il cemento non è di per sé un’offesa alla bellezza. Dipende da chi lo usa. Ecco dunque il punto centrale nel giudizio estetico, una volta superata la necessità di leggi adeguate: il valore della coerenza nel rigore dell’intenzionalità creativa e progettuale. E con intenzionalità intendo una volontà direttiva che centra la posizione del soggetto. I modelli e gli ideali cui si è fatto riferimento sono ideati e messi in pratica dalla promozione pragmatica dell’intenzionalità artistica la quale va intesa come dato attivo di pregnanza e complessità, come segno di processi concretati. L’intenzionalità insomma è coinvolta profondamente nella fase di compimento del progetto dove oggetto e soggetto si fondono. Idee, pensieri, tecniche, intenzioni promuovono un’attività condotta da una coscienza incalzante. L’intenzionalità è un progetto che crea continue, fertilissime prestazioni chiamando dal vuoto alla presenza certi identificati obiettivi. E’dunque un mirare che non si distoglie dalla vita, ma vi si immerge. * Testo fornito dall’autore in occasione del seminario del Dottorato in Progettazione Paesistica, "L'arte del paesaggio e la sua trasformazione, del 12 maggio 2004 promosso da Anna Lambertini. ** Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Bologna. Testo acquisito dalla redazione nel giugno 2003. Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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RI-VISTA del Dottorato di ricerca in Progettazione paesistica Anno 1 - numero 1- 2004 Firenze University Press

IL PAESAGGIO DELL’ARCHITETTURA* di Paolo Zermani** ABSTRACT Il saggio si articola come un’itinerario tra alcuni progetti italiani proposti come “occasioni di applicazione di un modo d’intendere l’architettura nel rapporto con il paesaggio smarrito, che cambia, ma potrebbe custodire ancora i valori di ciò che Heidegger definiva il “soggiorno”: la riconoscibilità intesa come misura”. Le architetture, come strumenti di conoscenza dello spazio, entrano nel paesaggio per diventarne speciali “misuratori”. Partendo dai luoghi del paesaggio padano, Noceto, con il Nuovo Municipio, con la minimale Cappella della Madonna, con il Padiglione privato, e Varano, con la Casa dal grande occhio spalancato sul bosco, alle terre umbre, con la Chiesa ed il Centro Parrocchiale di Perugia ed il Cimitero di Sansepolcro, si propone un percorso di ricerca di una identità dell’architettura italiana contemporanea nella dimensione paesaggistica.

PAROLE CHIAVE Paolo Zermani, identità dell’architettura, cultura del progetto architettonico, Misura.

Nel film di Bernardo Bertolucci “Prima della rivoluzione” del 1962 Fabrizio e Gina visitano la Rocca di Fontanellato. La mano di Fabrizio guida Gina nel buio del piccolo locale nel torrino a ovest sulla cinta muraria: “La camera ottica! E’ un gioco di specchi. E’ magica, ma è vera. Però è magica”. Sul bianco schermo orizzontale, un lenzuolo illuminato da un raggio di sole, compare l’immagine di Fabrizio, nel frattempo uscito sulla piazza posta nella facciata anteriore, oltre il fossato. “Che bello, lo ruberei questo trucco che mi fa parlare con te quando non ci sei. Dov’è che sei?” Attraverso un complesso effetto prismatico il sofisticato meccanismo, realizzato nell’Ottocento, anticipando il principio della telecamera, consente di trasportare le immagini oltre gli ostacoli che impedirebbero l’osservazione diretta, per ribaltare la realtà a distanza. Nel mistero della camera e delle sue rappresentazioni allegoriche può essere riassunta la sostanza architettonica che il ventesimo secolo ci ha trasmesso: la disperata necessità di un punto di vista da cui comprendere la vera distanza delle cose. Possiamo forse costruire l'architettura raccogliendo le istanze di nuove microcosmi, camere sottratte al tempo che si possono abitare come interni con vista, da cui osservare le mutazioni della scala? Mostrerò alcuni progetti, che riguardano volutamente esperienze italiane, occasioni di applicazione di un modo d’intendere l’architettura nel rapporto con il paesaggio smarrito, che cambia, ma potrebbe custodire ancora i valori di ciò che Heidegger definiva il “soggiorno”: la riconoscibilità intesa come misura.


UNO La vicenda architettonica del Vignola, applicata alla Pianura Padana, unisce ancora architettura e struttura del paesaggio. A Piacenza i suoi progetti per la costruzione del Palazzo Farnese, nelle diverse versioni, pongono la struttura bonificata del territorio agrario tra la città e il Po come elemento centrale per concepire il carattere dell’edificio, chiuso verso la città e dotato di un cortile interno nel quale un teatro classico viene ottenuto scavando il corpo di fabbrica opposto all’ingresso. La gradonata è divisa da un vomitorio che risulta in diretta continuità spaziale con la facciata posteriore, questa è forata da cinque logge rivolte verso il paesaggio. Da lì parte il canale d’acqua che raggiunge il Po, dal Po si può raggiungere il mare. Dalle logge si guarda la Lombardia e, nelle giornate chiare, si può scorgere Cremona. Il monumento costituito dal Palazzo non è che un frammento costruito e strettamente relazionato al paesaggio. Le figure classiche, il semicerchio, il quadrato delle piante, il rettangolo della loggia, si organizzano per rappresentare questo rapporto fondamentale e per consentirne lo svolgimento. Vignola, quale cardine spaziale di questo ragionamento, sceglie il teatro classico, quindi il semicerchio, un percorso non nuovo, ma tutt’altro che casuale o di maniera: come ci ricorda Tacito Piacenza aveva posseduto il più grande fra gli anfiteatri romani dell’antichità. E così attraverso il teatro scavato nel Palazzo architettura e struttura sostanziale del paesaggio si toccano, coincidono raggiungendo l’equilibrio più intrigante fra distanza e presenza. A Noceto il nuovo Municipio, che ho costruito sul margine del torrente, si presenta attraverso le figure ideali della “strada”, della “piazza”, della “casa”, riconoscibili nel grande elemento distributivo centrale costituito dai corridoi e dallo scalone, dalla sala consiliare e dalla sala civica poste nel punto di arrivo di quel percorso centrale, dagli uffici modularmente disposti sui due lati del percorso stesso. L’edificio è così, esso stesso, un “paese”, la rappresentazione costruita simbolica della vita di comunità. Planimetricamente disposto “di scorcio” rispetto alla strada principale, con l’ingresso principale rivolto verso il Centro Storico, l’edificio di progetto viene colto dalla strada principale attraverso la più felice condizione prospettica data dall’ingresso di testata e dalle “casette” che degradano progressivamente. In un lotto di margine rispetto all’edificato, tra il Centro Storico e il paesaggio che precede la Via Emilia, lo scalone rappresenta la continuità spaziale della relazione ora parzialmente interclusa, tra la città antica e il paesaggio agrario o quel che resta di esso. La salita centrale che conduce alla sala civica dell’ultimo piano annuncia, fin dal primo gradino, il fuoco prospettico costituito da una finestra centrale della sala. Quando dalla scala si sale l’ultimo gradino di accesso al pianerottolo superiore, allora e solo allora, si inquadra il permanere, verso la Via Emilia, di un frammento di paesaggio agrario superstite costituito da una tenuta agricola porticata, prototipo dell’insediamento padano tradizionale e cardine di un ordine ripetuto e preciso.


Figura 1. Il nuovo Municipio di Noceto

La scala, corpo vuoto e animato nel corpo pieno e duro dell’edificio, come scavata al suo interno, porta dentro l’edificio l’ordine, forse ormai anacronistico, attraverso cui la città si è formata nel tempo, quasi a conservarne la matrice, nell’attesa di poterla trasmettere. Dopo la frattura l’ordine delle cose, ogni ordine immaginabile, non può che appellarsi a una geografia, frammentata ed episodica, che sappia convivere con le interferenze stabilendo altri panorami. Nell’intervallo tra città, pianura e collina ho inserito in questo luogo altre due piccole architetture. A Noceto, a poche centinaia di metri dalla chiesa pievana di S.Martino, la Cappella della Madonna è costruita nell’ultima frangia di edificazione verso il monte. Il luogo è complesso, quasi in campagna, ma stretto dalla condizione periferica: la strada, l’insediamento rurale restaurato e trasformato, un distributore di benzina, alcuni condomini. La Cappella protegge un luogo raccolto e cruciforme, composto di quattro cubi vuoti, ognuno costituito da tre setti murari e sceglie di rivolgersi al suo interno. Al centro degli assi della croce è posta la statua della Madonna realizzata da Paolo Borghi. Dall’esterno la statua si intravede, nelle quattro diverse direzioni, attraverso lo spazio lasciato nell’intervallo tra i setti. Dall’interno, dai frammenti di luce che la separazione fra i quattro blocchi consente, si leggono in sequenza la casa rurale, la strada, il paesaggio agrario preappenninico. In sostanza l’interno è un fuoco che raccoglie le quattro direzioni e che misura quattro esterni.


Figura 2. La Cappella della Madonna a Noceto. Quattro blocchi disegnano lo spazio vuoto, cruciforme, nel cui centro è collocata la statua della Madonna, opera di Paolo Borghi.

Sul percorso della linea ferroviaria, che dalla pianura risale all’Appennino e raggiunge la Liguria, il Padiglione di Noceto, concepito per la pittura e l’osservazione, è ricavato in luogo di una piccola rimessa per attrezzi agricoli e rispetta, come da prescrizione, l’ingombro planimetrico e le cubature preesistenti. La costruzione, appendice alla casa di abitazione esistente, può essere pensata come una macchina per guardare il paesaggio. I due fronti a est e a ovest sono completamente chiusi, il fronte a nord, rivolto verso l’ingresso alla proprietà e la ferrovia, è completamente aperto, il fronte a sud, rivolto verso il paesaggio agrario e la collina, è diviso in due parti, l’una chiusa, l’altra aperta in forma di una grande finestra crociata. L’interno è diviso da un solaio nelle parti corrispondenti al muro ed è a tutta altezza nella parte corrispondente alla finestra , ove è collocata la scala che collega i due livelli. Un piccolo frammento di solaio è sospeso anche sull’estremità di questa parte che affaccia sulla finestra, per consentire la vista del paesaggio e la sua contemplazione dalla quota più alta. Chi cammina nel paesaggio coglie l’edificio come un parallelepipedo diviso in due, per metà murato in mattoni a vista di diverse tonalità cromatiche, per metà aperto in una grande finestra che consente di osservare l’interno e, in trasparenza, addirittura la ferrovia e il piccolo casello posti poco lontano. Chi sta all’interno vede, nelle campiture della grande croce in ferro, frammenti della prima collina e, in distanza, l’Appennino. Dal treno il padiglione è una scatola magica, trasparente di giorno e accesa di sera, posizionata oltre la ferrovia e la via Emilia che segnano la “civilisation”, verso l’orizzonte della montagna.


Figura 3. Ancora a Noceto, il Padiglione. Visto dal treno, appare come una scatola magica.

Poco distante, ma verso l’Appennino, nella Casa a Varano, è evidente il significato del discorso inerente la “scala”. La casa, costruita sul percorso dell’antica strada indicata ai pellegrini di Borgo, affiora dal suolo, luogo di antiche fornaci posto tra la strada, il torrente, il bosco, il castello: è appoggiata sul sedime delle fornaci a tre metri lineari dalla quota di superficie. Una linea di crinale, rappresentata da un sentiero tracciato, collega i lembi estremi della proprietà e congiunge il castello del IX secolo posto sul vertice del bosco e la casa posta sul fondo della valle, in prossimità del torrente. Il fulcro della casa è la biblioteca, a doppio volume e a tutta altezza, caratterizzata dal grande occhio centrale, su cui ruotano gli altri ambienti domestici. La biblioteca ha pareti in mattoni a vista come l’esterno, a segnare il carattere di spazio non esclusivamente privato: un luogo di tutti perché luogo di libri, rivolto verso il paese. Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, quando istituì la biblioteca di palazzo Leopardi, si preoccupò che tutti gli abitanti di Recanati potessero accedervi. Pochi la frequentarono, forse. Ma servì a vedere l’Infinito.


Figura 4. Il grande occhio della Casa a Varano, spalancato sul bosco.

L’intero spazio interno è mediato e regolato, in tal modo, dal grande occhio che osserva, assorbe e riflette il paesaggio esterno e proietta il rapporto tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori la casa. Anche la luce naturale si accende e si spegne, per chi sta nella casa, attraverso l’occhio, che non ha oscuramento esterno e segnala alle stanze attigue, la camera da letto e il soggiorno, l’arrivo del giorno e della sera. La biblioteca, che governa attraverso lo spazio del libro il rapporto tra una grandezza e un’altra, tra la struttura del pensiero e la struttura del paesaggio, è il luogo in cui la verità della casa e delle cose si raccoglie e si rivela. Il mondo dei libri, come il teatro, è la rappresentazione più completa del rapporto fra grandezze. Chi entra nel libro cambia la scala delle cose. I libri avvolgono lo spazio, abitato unicamente a un grande camino contrapposto all’occhio finestrato, e da un quadro di donna che legge. Lo studio privato, che occupa interamente lo spazio anteriore al piano sottotetto, vive in simbiosi con la biblioteca e l’occhio, li illumina e ne è illuminato, vi si affaccia, li avvolge.


DUE Un frammento d’Umbria, un casale rosa, gli ulivi, la speculazione edilizia si contendono il fondale su cui deve nascere la chiesa francescana di Perugia . La Chiesa e il Centro Parrocchiale si appoggiano al corpo della collina attraverso una sequenza che privilegia il concetto di sostruzione, di scavo, di piazza bassa e piazza alta che è nella storia della città di Perugia, di quel suo centro che i perugini chiamano, significativamente “Acropoli”. Una linea retta segna il percorso sacro del Sagrato alla Chiesa Principale alla Chiesa Feriale alla Canonica: lungo questa linea gli spazi si dispongono come Stazioni. Il percorso è duplicato all’esterno, attraverso la grande scala che lega la Piazza Bassa e la Piazza Alta, con una dimensione analoga al corpo della Chiesa. In sezione il corpo della Chiesa, alto tredici metri lineari, raggiunge la stessa quota altimetrica del Centro Parrocchiale, alto sei metri e cinquanta. La quota superiore degli edifici è così identica e amplifica la presenza della scala, piazza anch’essa, che congiunge il Sagrato inferiore con quello superiore. La Chiesa principale ha la sua entrata sul Sagrato inferiore, verso strada, la Chiesa feriale ha l’entrata sul Sagrato superiore, verso il Centro Parrocchiale. Entrambe le Chiese sono accessibili anche dalle direzioni opposte. Il corpo complessivo della Chiesa è attraversato da una linea di luce che nella Chiesa Principale segna il taglio verticale della facciata e continua in copertura, accompagnando il fedele fino all’altare. Analogamente avviene nella Chiesa feriale, in opposta direzione. La linea di luce, come la croce che essa forma in facciata intersecandosi con una putrella in ferro, è leggibile dalle colline e segna il confine tra spazio interno e cielo. Il blocco petroso Chiesa Principale-Sagrestia-Chiesa Feriale, come una continuazione della natura del suolo, si sviluppa sul fronte strada, chiudendolo, per cinquanta metri lineari, costituendo una sorta di grande muro, di suolo rialzato che protegge lo spazio doppio, vuoto, della grande scalinata - piazza rivolta a monte, verso la collina, dal traffico veicolare. Se pure la grande croce di facciata rimane impressa su chi si affaccia all’incrocio, giungendo da Perugia, l’organismo architettonico organizza poi uno spazio protetto per la comunità che si svolge al proprio interno. Il mattone che appare in piena vista come materiale esterno ed interno, consacra l’appartenenza alla natura del suolo e alla storia, all’identità di Perugia e dei suoi Santi Lungo il percorso liturgico, indicato all’esterno dal grande taglio verticale della facciata, segnato dal prolungarsi della linea di luce lungo tutto lo sviluppo dell’aula fino all’altare, lo spazio è scandito dalle colonne, scostate di pochi centimetri dal paramento murario, fino a giungere alla zona presbiteriale, quest’ultima sovralzata di tre gradini. Tra lo spazio dell’assemblea e lo spazio presbiterale sono collocati, a sinistra, il coro, a destra il fonte battesimale: per accedere al fonte si scendono tre gradini rispetto al piano dell’aula. Il battistero è costituito da una vasca cubica di pietra. Nella zona presbiteriale al centro è l’altare di pietra; un blocco parallelepipedo. A sinistra è l’ambone. Dietro l’altare un setto murario, costruito nello stesso materiale delle pareti perimetrali, di forma quadrata, chiude la prospettiva della linea di luce che rimane così sospesa alle spalle del celebrante. Continuando il percorso, dall’interno, si giunge alla Chiesa Feriale, concepita in forma di “cripta”. Ad essa si accede anche, in forma autonoma, attraverso le scale poste sul fronte del corpo chiesa rivolto alla Piazza Alta. Anche la Chiesa feriale è illuminata da una linea di luce dall’alto. La Casa Parrocchiale e i locali di Ministero Pastorale sono posti a circoscrivere lo spazio della Piazza Alta, distribuita su due piani dotati di un portico anteriore a tutta altezza.


TRE Il principio della misura è palese in Piero più che in ogni altro protagonista della pittura italiana. Un mondo preciso e classificato delle figure si antepone a quei fondali descritti, quasi sempre idealmente rappresentanti la piana dell’alta Val Tiberina, e li popola attraverso selezionate fisionomie rimandabili a un mondo preciso. Non è difficile riconoscere un ovale, un cono, un cilindro, un cubo, un parallelepipedo, una sfera nei capi, nei corpi, nei colli, nei copricapi, ma anche nei vestiti e nelle capigliature, o addirittura nelle pieghe degli abiti. Due sono gli elementi che appaiono: il fondale e la geometria delle figure. Ma anche la composizione geometrica, che governa il rapporto tra fondale e figure. Nella “Resurrezione di Cristo” il sepolcro è la base di un triangolo equilatero al cui vertice superiore è il capo del Cristo risorto con l’aureola e la bandiera crociata. Non è diverso il caso della Madonna della Misericordia che, in un impianto di cui il proprio capo rappresenta il vertice più alto, trattiene e protegge gli altri personaggi.Il Gesù in croce, nello spesso polittico, è ugualmente al vertice di una figura triangolare. Alla Madonna del Parto di Monterchi mancano i margini, ed è difficile capire se oltre la tenda schiusa dai due angeli Piero avesse impaginato altre cose, perché l’immagine è stata asportata dalla piccola chiesa di Momentana, crollata a causa del terremoto e ricollocata come frammento. Ma in questo caso Piero non aveva bisogno di dipingere il paesaggio, perché il paesaggio già c’era, quello vero. Sansepolcro, a metà del cammino tra Santiago di Compostela e Gerusalemme, luogo natale di Pietro della Francesca, è circondato dalle colline di confine tra Toscana e Umbria che il pittore ha trasferito nel proprio spazio pittorico. Piero osserva spesso il paesaggio dall’interno dell’architettura, per lui il fondale è importante come lo è il punto di vista. L’applicazione prospettica straordinaria delle sue immagini impone la relazione tra occhio, architettura e paesaggio con un’evidenza didascalica. Il paesaggio di Sansepolcro costituisce un luogo riconosciuto fin dalla descrizione offerta da Plinio: "Bellissimo è l’aspetto della regione: puoi immaginarla come un immenso anfiteatro: quale solo la natura riesce a creano. Una larga ed estesa piana è cinta da monti che alla loro sommità sono coronati da boschi folti e antichi, con ricca ed assortita cacciagione. Di li le foreste di cedri discendono lungo il declivio, e accolgono fra di esse pingui colli, facili alla coltura (non vi si trovano, infatti, sassi neanche a cercarli), non inferiori per fertilità ai campi di più bassa pianura, e capaci di produrre un’altrettanta ottima messe, maturandola solo un po’ in ritardo. Al di sotto si estendono, da ogni parte, vigne, con lo stesso andamento regolare, per lungo e per largo; e dove esse cessano, quasi a creare in basso un confine naturale, nascono gli arbusti. E poi prati e campi, che solo grossi buoi e robusti aratri riescono a spezzare ed i prati sono floridi e gemmei, pieni di trifogli e di altre erbe tenere e molli, sempre freschissime, nutrite da corsi d’acqua perenni. Né, se pur l’acqua è moltissima, vi sono paludi, perché essendo il terreno inclinato, la dove non può venire assorbita, essa si riversa nel Tevere (...). Soprattutto ti piacerà vedere questa regione dall’alto di un monte (...) e non ti parrà di avere, davanti a te, dei campi e dei colli, ma un modello dipinto e con estremo artificio; e dovunque cadranno i tuoi occhi, resteranno incantati dalla sua varietà, dal suo sorprendente profilo”.

L’importanza dei dislivelli, del vedere dal basso e del vedere dall’alto il paesaggio è chiara a Plinio al punto che lo porta ad anticipare di secoli, osservandola come già dipinta nella realtà, l’osservazione pierfrancescana. In questo anfiteatro avviene, per Piero, la comunione tra umano e divino del Battesimo di Cristo ove, come è noto, l’altezza di S. Giovanni è analoga all’altezza del Cristo. Nella Resurrezione un basamento sorregge la composizione e il paesaggio. Così avviene nel Polittico della Misericordia.


Figura 5. Modello in legno della Chiesa francescana di Perugia.

La piana è oggi occupata dall’antica città dalla industrializzazione recente, come l’alveo di un fiume colmo di oggetti disparati, li confluiti. La collina, da lontano, è quasi intatta, più verde che marrone, perché rimboscata nel nostro secolo, rispetto alla raffigurazione del San Girolamo, del Battesimo di Cristo e della Resurrezione pierfrancescani, ritratti, se pure idealizzati, di diverse antiche stagioni del ciclo colturale. La conca, l’anfiteatro, esistono ancora. la scena è ingombra, ma non compromessa per sempre. In questo fondale si misurano Cielo e Terra, dall’azzurro al marrone, suggerendo i possibili materiali per l’architettura di un luogo tra vita e morte. Attraverso la pittura il tema della sepoltura e l’evidenza simbolica della croce che ne riassume la sostanza sembrano toccarsi. Poco lontano, ad Arezzo, il “Mistero della vera croce” costituisce una manipolazione del simbolo della croce in senso monumentale.


Figure 6 e 7. Il nuovo Cimitero di Sansepolcro.

La croce si manifesta in una successione di variazioni dimensionali e di significato che ne guidano l’idea di costruzione come definitivo riconoscimento. Gli occhi dei personaggi volgono al rispetto e alla ineluttabilità dell’opera, del simbolo, resosi materico e misurabile.


Il fronte a monte dell’antico cimitero di Sansepolcro è architettonicamente apprezzabile e media il rapporto con la strada superiore e il piede della collina, mentre il fronte a valle, molto recente, non è che un retro, di qualità architettonica scadente, anch’esso affacciato su una strada. La collocazione del cimitero tra la città e la collina pone l’opera in un potenziale ruolo di mediazione tra il centro storico e il paesaggio. Il nuovo cimitero si sviluppa su un tracciato rettangolare inglobando completamente, sul fronte sud, parzialmente sul fronte nord, il cimitero esistente costruito, attraverso vari accrescimenti, dal 1800 ad oggi. Il corpo perimetrale, costituito da una gradonatura in mattoni, si adatta agli andamenti altimetrici che variano, dal lato est al lato ovest, di circa 10 metri lineari, ma riporta il livello di sommità della muratura a un’unica quota. Il cimitero appare così dall’esterno, sviluppandosi sul fronte più lungo per 150 metri lineari, una sorta di basamento delle colline. Chi sta all’esterno vede il basamento sorreggere il paesaggio, chi sta all’interno vede il paesaggio e il cielo. Sul lato sinistro del cimitero esistente, all’interno della nuova cinta perimetrale, viene mantenuto l’Infernaccio, torrente dei morti. L’interno è diviso in campi da una maglia quadrata costruita: nei corpi in elevazione sono collocati i loculi, che occupano anche una vasta parte della cinta perimetrale, su quattro livelli. Nei campi sono collocate le sepolture a inumazione. Le coperture dei corpi costruiti sono raggiungibili e percorribili: si costruisce così un grande camminamento in quota dal quale osservare la città e il paesaggio. A questa quota è posto l’ossario, costituito da un grande corpo a croce, traslato rispetto agli andamenti ortogonali delle corti e dei campi e rispetto all’impianto perimetrale, direzionato con l’asse maggiore verso la Porta Fiorentina, da lassù visibile, antico accesso alla città storica. L’ossario è un luogo d’aria, sospeso fra cielo e terra: i materiali dà costruzione, un volume privo di ermetiche chiusure, uno spazio filtrante senza serramenti né pareti, danno conto di questa condizione aerea. La grande croce, passeggiata sospesa al cui interno sono depositate le ceneri, si affaccia in sommità al basamento perimetrale, verso la città, introducendo un percorso urbano preciso che indica il nuovo ingresso principale. Rispetto alla cinta muraria la croce, vuota ad eccezione delle cellette per gli ossari e disposta più in alto, quasi si smaterializza.

* Testo fornito dall’autore in occasione del seminario del Dottorato in Progettazione Paesistica "Il paesaggio dell’architettura " del 24 ottobre 2002, promosso da Maristella Storti ed Anna Lambertini. ** Facoltà di Architettura, Università degli Studi di Firenze.

Testo acquisito dalla redazione nel giugno 2003. Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.


RI-VISTA Ricerche per la progettazione del paesaggio Anno 1 - numero 1- gennaio/giugno 2004 Firenze University Press

VISIONI VITTORIANE: IL ROSS E VERNON LEE*.

PAESAGGIO FIORENTINO NELLE OPERE DI JANET

Gabriele Corsani

ABSTRACT Fra l’ultimo scorcio dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento Firenze e i suoi dintorni sono il soggetto privilegiato di una grande quantità di descrizioni, note di diario, racconti, opera di scrittori stranieri, in particolare inglesi, che si radicano nell’approdo elettivo di quei luoghi. Il testo presenta la traccia letteraria del paesaggio fiorentino nelle opere di Vernon Lee e Janet Ross, due tipiche rappresentanti di questa tendenza che hanno vissuto, attraverso vicende biografiche in qualche modo parallele, un’esperienza di intensa identificazione con il paesaggio fiorentino. Di Janet Ross, viene commentato Old Florence and Modern Tuscany, volume che raccoglie una serie di articoli pubblicati su alcune riviste inglesi e fornisce una efficace panoramica sull’interesse molto concreto di Janet Ross per il mondo rurale che la vede addirittura impegnata nella gestione della fattoria di Castagnolo, a Lastra a Signa. Più sfaccettato è il commento alle opere di Vernon Lee, di cui sono commentati passi da Vanitas. Polite Stories, Genius Loci, Hortus Vitae and Limbo, in virtù della maggiore ampiezza e complessità del suo mondo culturale. Ne sono cifra distintiva la associazione fra storia e realtà attraverso la dimensione del mistero, che risulta una delle chiavi di acccesso alla bellezza e alla vitalità del paesagggio e la capacità di cogliere il ritmo proprio dei luoghi e di entrare in reale sintonia con essi. PAROLE CHIAVE Janet Ross, Vernon Lee, Paesaggio fiorentino

INTRODUZIONE All’interno della fortuna che la Toscana incontra dalla metà del Settecento – fra «mediazione dell’antico» e «anticipazione (…) modello e premessa della civiltà europea contemporanea»1 - il rinvenimento dell’affresco di Giotto con il ritratto di Dante nel palazzo del Bargello (1840)2 può considerarsi la tappa inaugurale della fortuna di Firenze città d’arte. Nei decenni successivi questo mito urbano si alimenta con i restauri, e spesso con le alterazioni, di non poca parte del patrimonio monumentale del medioevo. Gli interventi, se non arrivano a conferire un carattere unitario all’intera zona centrale, come ad esempio a Bologna per opera di Alfonso Rubbiani, si ispirano a un non meno manierato medioevo che incontra unanimi consensi3, sia prima che dopo la demolizione del vecchio centro. Si afferma poi, intorno alla

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L. Mascilli Migliorini, L’Italia dell’Italia. Coscienza e mito della Toscana da Montesquieu a Berenson, Firenze, Ponte alle Grazie, 1995, p. 53. 2 Dal ritratto di Dante alla mostra del Medioevo, 1840-1865, catalogo a cura di P. Barocchi e G. Gaeta Bertelà, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 1985. 3 Testimonianze neomedievali a Firenze, mostra fotografica a cura di M.C. Tonelli e C. Camarlinghi, Comune di Firenze, Quartiere 1 – Centro storico, 1980; M. Dezzi Bardeschi, Il monumento e il suo doppio: Firenze, Firenze, Alinari, 1981.

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fine del secolo, l’immagine imperitura e universale del Rinascimento, che si impone come modello dei rifacimenti in stile. Intorno alla fine dell’Ottocento l’apprezzamento di Firenze da parte della numerosa colonia straniera che vi soggiorna, in particolare di quella inglese, comprende sia la città che i suoi dintorni. La campagna entro un raggio di circa sei miglia, da secoli riconosciuta come splendida corona dell’organismo urbano, diventa il luogo ideale di una significativa componente, soprattutto anglo-americana, di quella colonia4. Nelle dimore suburbane si compiono numerose trasformazioni che, oltre alle architetture e agli arredi, coinvolgono le sistemazioni degli spazi esterni. Se per i giardini, riadattati o creati ex novo, il riferimento obbligato è quello italiano5, alcuni interventi mostrano una vocazione eminentemente paesaggistica, come ad esempio nella sistemazione delle adiacenze del castello di Vincigliata sopra Fiesole, in una delle più suggestive e celebrate zone collinari, ad opera di Temple Leader6; o, a una scala ancora più ampia, nel ripristino operato dai Demidoff del parco mediceo di Pratolino7. Nella passione per la natura, insieme ai parchi e ai giardini, il soggetto privilegiato è la campagna, in tutte le sue componenti. Anche se erano avvertibili i primi segni di cambiamento8, la mezzadria era nella sua massima espansione e l’intera campagna appariva un giardino. Firenze è anche il centro di gite e di soggiorni oltre la zona più propiamente suburbana. George Perkins Marsh, geografo e umanista, primo ambasciatore degli Stati Uniti presso il Regno d’Italia, che dal 1865 al 1871 risiede a Firenze in una villa fra prati e boschi fuori porta alla Croce, a est della città9, è affascinato dalla maestosa bellezza della foresta sulla montagna di Vallombrosa, circa venti chilometri a est dalla città, piantata dai monaci benedettini fino dal secolo XI10. A ovest, poco oltre il contado fiorentino, sopra Pistoia, ove la collina trapassa rapidamente nella montagna, con valli strette e scoscese solcate da torrenti impetuosi e tessute di fitti boschi, l’assetto ancora medievale del territorio costituiva un richiamo non meno apprezzato. Vernon Lee elegge come soggiorno estivo il villaggio di Migliorini, vicino a San Marcello Pistoiese, dove lascia una traccia esplicita del suo amore per quel genius loci, un distico elegiaco in una targa sulla parete della villa ove abitava che guarda i boschi: “Numina quæ fontes, silvas, loca celsa tenetis / Nostram animam vestro 4 D. Lamberini, Residenti anglo-americani e genius loci, in Gli anglo-americani a Firenze. Idea e costruzione del Rinascimento, a cura di M. Fantoni, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 125-142; sul rapporto con la città e la campagna degli stranieri a Firenze cfr. A. Brilli, Il ‘Genius Loci’, in L’idea di Firenze, a cura di M. Bossi e L. Tonini, Firenze, Centro Di, 1989, pp. 239-242; quanto alla presenza, come proprietari o come ospiti, di stranieri in sei significative ville urbane o periurbane (Il Ventaglio, Strozzi al Boschetto, Favard a Rovezzano, Oppenheim-Cora, di Montalto, dell’Ombrellino a Bellosguardo) cfr. G. Trotta, Ville fiorentine dell’Ottocento, Firenze, Becocci/Scala 1994. 5 D. Lamberini, Residenti anglo-americani, cit., pp. 140-141. 6 Il castello di Vincigliata e i suoi contorni, Firenze, Tipografia del vocabolario, 1871. 7 L. Zangheri, Pratolino, il giardino delle meraviglie, Firenze, Gonnelli, 1979, voll. 2, Prefazione di F. Borsi; II ed. con aggiunte, 1987. 8 Angelo De Gubernatis, fecondo illustratore di usi e costumi di vari popoli, nel Proemio alla raccolta, curata dal figlio Alessandro, Le tradizioni popolari di Santo Stefano a Calcinaia (Roma, Forzani, 1894) afferma, riferendosi non soltanto al villaggio di Calcinaia, sulle colline di Lastra a Signa (Firenze), che è necessario affrettarsi a raccogliere il materiale etnografico prima che inizi il processo di disgregazione sociale (p. 6). 9 Cfr.: S. Bertocci, L. Lucchesi, Villa Arrivabene: affreschi di città, fortezze e condottieri in una villa fiorentina, Firenze, Edizioni della Meridiana, 2001; in G.P. Marsh, L’uomo e la natura, Milano, Franco Angeli, 1987, a cura di F. O. Vallino, la tav. XII mostra Marsh nella biblioteca della villa (1865). Villa Arrivabene è ora sede del Quartiere 2 – Campo di Marte. 10 Vallombrosa – tradizionalmente nota come la “montagna fiorentina” – è legata alla città di Firenze sia per il monastero benedettino, fondato dal nobile fiorentino San Giovanni Gualberto all’inizio dell’XI secolo, sia perché la foresta piantata dai monaci ha fornito buona parte del legname necessario alla città a cominciare dalla grande espansione edilizia della prima metà del Trecento. Il luogo ha sempre incontrato gradimento da parte dei visitatori inglesi, come mostra anche la guida: W.W. Story, Vallombrosa, Edinburgh and London, Boackwood, 1881. Sulla figura e sull’opera di Marsh cfr. il saggio introduttivo di F.O. Vallino a L’uomo e la natura, ed. cit. nella nota precedente e la recensione di G. Corsani in Studi sulla città e sul paesaggio, Atti IRTU 89/90, Università di Firenze, pp. 92-94.

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credimus hospitio”11. Anche la mostra attualmente in corso (6 aprile-31 agosto 2004) presso la Galleria degli Uffizi di Firenze, “I giardini delle regine – the myth of Florence in the PreRaphaelite environment and in American culture between 19th and 20th centuries” è una ennesima testimonianza del ruolo degli spazi aperti nella fortuna di tale mito12. IL PAESAGGIO FIORENTINO COME TOPOS DELLA LETTERATURA VITTORIANA Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nella ricca letteratura ispirata a Firenze, il lembo di valle e le colline che circondano la città sono dunque il soggetto privilegiato di una grande quantità di descrizioni, note di diario, racconti13, così come di disegni, incisioni, pitture, fotografie. Dell’apprezzamento di quel paesaggio John Ruskin è il modello indiscusso14, insieme, con un ruolo assai minore, a Walter Pater15. In Ruskin, che è anche eccellente disegnatore, si coglie soprattutto la grande capacità di coniugare i caratteri peculiari della visione panoramica e degli sguardi ravvicinati, che si sedimentano nell’animo, nella scrittura, nella trascrizione grafica o pittorica. In questo senso è paradigmatica la descrizione di Firenze e del territorio, dal campanile di Giotto e da Fiesole, fatta in una lettera del suo primo viaggio in Italia, il 23 novembre 184016. Ancora più indicativa è una descrizione del 6 maggio 1845, durante il secondo viaggio italiano di Ruskin, del panorama visto dalle mura di Lucca al tramonto, in cui il paesaggio e il sepolcro di Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia, oggetto, subito dopo, di una visita solitaria, sono accomunati da un unico flusso di incanto, in un continuo trapassare di dimensioni, sensazioni ed evocazioni cromatiche e materiche17. In quest’ultimo esempio si rivela un altro topos della visione urbana di Ruskin: la sicurezza data dall’interno ove - solo, nella penombra – in rapporto alla scultura egli filtra e armonizza il fulgore della passeggiata en plein air, pur tanto apprezzata All’efficacia della sintesi territoriale fa riscontro in Ruskin l’esperienza fisica del paesaggio alla piccola scala. È nota la sua passione per i minerali e per la flora, parte di rilievo dei suoi interessi fino dalla adolescenza; nei dintorni di Firenze egli studia e raccoglie i fiori di campo, che confronta poi con quelli raffigurati negli sfondi delle pitture del Trecento e del Quattrocento18. 11

«O numi tutelari di queste fonti, boschi e colli, al vostro asilo affidiamo il nostro spirito». Devo le notizie sul soggiorno di Vernon Lee a Migliorini e la conoscenza di questa lapide alla gentilezza di Chiara Dazzi, della famiglia Cini anche allora proprietaria di quei luoghi (cfr., oltre, la citazione del passo di Vernon Lee dalla dedica alla baronessa Elena French-Cini di Vanitas. Polite Stories). 12 Alla mostra è esposto il ritratto di Vernon Lee (1832) di Berthe Noufflard. 13 Si fa qui riferimento solo a pubblicazioni monografiche sulla Toscana, o in cui la Toscana ha una parte rilevante. Ricordiamo: W.D. Howells, Tuscan Cities, Leipzig, Heinemann and Balestrier, 1891; E. R. Williams, Hill towns of Italy, London, Eldewr, 1904; M. Hewlett, The road in Tuscany, with illustrations by Pennell, London, Mac Millan, 1904, voll. 2; D. N. Lees, Scenes and shrines in Tuscany, London, Dent, 1907, Id., Tuscan Feasts and Tuscan Friends, London, Chatto & Windus, 1907; F.P. Fletcher Vane, Walks and people in Tuscany, Florence, Dominican Press, 1908 (II ed.); E. Hutton, Country Walks about Florence, London, Methuen & C., 1908; M. Lovett Cameron, Old Etruria and modern Tuscany, London Methuen, 1909; E. Hutton, The Valley of Arno. A study of its geography, history & works, Boston and New York, Hougton Mifflin, 1926; N De Robeck, Up in the Villa, down in the City, London & Toronto, Dent, 1932. Fra gli studi su aspettti specifici spicca l’edizione dei canti popolari toscani edita da Ruskin: F. Alexander, J. Ruskin, Roadside Songs of Tuscany, Sunnyside, Allen, 1885. 14 Cfr. in particolare il saggio di G. Leoni, Fonti e fortuna critica di “Pittori moderni”, in J. Ruskin, Pittori Moderni, a cura di G. Leoni, con la collaborazione di Alessandro Guazzi, Milano, Einaudi, 1998, voll. 2; pp. LVCVI. 15 Le opere di Pater che più direttamente influiscono sull’apprezzamento del paesasggio italiano, con un approccio tardo romantico che ha la matrice prima in Modern Painters di Ruskin, sono gli Studies in the History of Renaissance (1873) e Marius the Epicirean (1885). Per un efficace bilancio critico su Pater cfr.: E. Bizzotto, F. Marucci, a cura di, Walter Pater (1839-1894). Le forme della modernità. The forms of modernity, Bologna, Cisalpino, 1996. 16 J. Ruskin, Viaggi in Italia 1840-1845, a cura di A. Brilli, Firenze, Passigli, 1985, p. 32. 17 Ivi, p. 125. 18 Ruskin e la Toscana, catalogo della mostra a cura di J. Cleg e P. Tucker, Sheffield, Ruskin Gallery, Collection of the Guild od St. George, Ed. it. in collaborazione con la Fondazione Ragghianti, Lucca, 1993, p. 14.

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Ricordiamo ancora che nella letteratura toscana, e non solo in quella scientifica, esiste una genuina tradizione di apprezzamento del paesaggio, come mostra il passo seguente di Pietro Thouar che descrive la percorrenza di un tratto collinare della via Vecchia Pisana, da Lastra a Signa a Malmantile: «La strada, serpeggiando lungo un torrente, saliva su ripida framezzo ad amene collinette, in parte coltivate a vigneti, in parte rimaste selvatiche. Dopo aver percorso un lungo tratto della verdeggiante e popolata pianura valdarnese, quel luogo svariato e alquanto solitario e alpestre diveniva anche più gradevole; e il cielo sereno, l’aria purissima, la fragranza delle piante aromatiche e le ginestre e le scope fiorite accrescevano la bellezza della campagna e il diletto di passeggiarvi. Dopo aver salito un bel pezzo, ecco l’orizzonte a poco per volta più largo, e a destra, sull’opposta riva dell’Arno, sorgere in lontananza le pittoresche cime d’Artimino, di Pietramarina e di Montalbano; e a sinistra i gioghi della Romola, e di faccia di quando in quando il castello di Capraia, o la veduta di una porzione della pianura Empolese. Dove la campagna montuosa apparisce meno fertile e meno coltivata, in quella vece fanno più spicco le vallatelle scoscese, e le fettuccine di terreno verdeggiante messe a frutto più qua e più là dall’industria; e l’occhio è ricreato grandiosamente dalla veduta di molte miglia di paese lontano, dallo spettacolo delle boscaglie di pini che incoronano i monti slanciando le folte chiome nell’azzurro del cielo, e dai gioghi maestosi dell’Appennino che in maggior lontananza incorniciano il quadro.» 19. Presentiamo qui alcune note sulla traccia letteraria del paesaggio fiorentino nelle opere della fine dell’Ottocento – inizio del Novecento di Vernon Lee (nom de plume di Violet Paget) e Janet Ross20. Le due scrittrici sono tipiche rappresentanti della tendenza degli intellettuali inglesi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento al nomadismo fisico e intellettuale che approda, in questi due casi, al radicamento in una realtà di cui non si apprezza solo la diffusa ricchezza di opere d’arte, ma soprattutto la bellezza antica e moderna insieme della vita rurale, delle pievi, delle ville e delle case dei contadini: mondo vivo, di contro alla città, troppo invecchiata e allo stesso tempo troppo trasformata e rumorosa. Il legame che unisce ai luoghi narrati la vita degli scrittori inglesi in Italia nel periodo considerato in questi esempi è particolarmente intenso, come mostrano le rispettive vicende biografiche21. Queste scrittrici, che hanno una ampia conoscenza di molte parti d’Italia, stabiliscono nei dintorni di Firenze la loro dimora definitiva. Janet Ross arriva a Firenze nel 1869 con il marito Henry Ross, uomo d’affari americano, e nell’estate del 1870 si stabilisce in un’ala della Villa di Castagnolo dei marchesi Lotteringhi della Stufa, sulle prime pendici delle colline di Lastra a Signa22; nel 1888 i Ross si trasferiscono nella villa di Poggio Gherardo, vicino a San Martino a Mensola, ove Janet muore nel 1927; Vernon Lee, che abita a Firenze fino dall’età giovanile, vive poi nella Villa Il Palmerimo a Maiano, ove muore nel 193523. Nel caso di Vernon Lee l’approdo in Italia non significa «la fuga in una dimensione 19

P. Thouar, Le tessitore. Racconto, Firenze, coi tipi della Galileiana, 1844; Cap. La scampagnata, p. 47. Pietro Thouar (1809-1861), letterato fiorentino con passioni politiche (affiliato alla Giovane Italia passa poi a posizioni assai moderate), si dedica all’educazione del popolo, sulla scia di Raffaello Lambruschini, e in particolare alla letteratura per l’infanzia. 20 Delle due scrittrici, sostanzialmente dimenticate fino a tempi recenti, la più nota e dotata è indubbiamente Vernon Lee, su cui recentemente è comparsa l’ampia monografia di V. Colby, Vernon Lee: A Literary Biography (University Press of Virginia, 2003) e si è tenuto il convegno: Vernon Lee: Literary Revenant (Institute of English Studies, University of London, 10 giugno 2003). In An Encyclopedia of British Women Writers (by P. & J. Schlueter, New York & London, Garland, 1988) Janet Ross non compare, mentre è registratata la madre, Lucie Duff Gordon, oltre a Violet Paget – Vernon Lee. Cfr. anche: C. L. Dentler, Famous Foreigners in Florence, 1400 - 1900, Firenze, Bemporad Marzocco, 1964. 21 Per Violet Paget cfr. un recentissimo contributo italiano, D. Boni, Geografia del desiderio. Italia immaginata e immagini italiane nelle opere di Frederick Rolfe, Vernon Lee Norman Douglas, Capri, La Conchiglia, 2003, pp. 137-207 e la bibliografia, pp. 339-344. Per Janet Ross cfr. Gordon Waterfield, Aunt Janet. Her Friends & victims. Biography of Janet Duff Gordon (Mrs Henry Ross), s.d., dattiloscritto (devo alla gentilezza del marchese Bernardo Pianetti Lotteringhi della Stufa la conoscenza di questa ricerca inedita). 22 G. Waterfield, Aunt Janet, cit., p. 75. 23 M. Praz, Studi e svaghi inglesi, Firenze, Sansoni, 1937, pp. 319-320.

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ideale (…) o il luogo amato di un esilio (…), ma fu il naturale approdo di viaggi e spostamenti che iniziarono con la prima infanzia, al seguito di una famiglia cosmopolita già dalle origini.»24. Non di meno, anche in questo caso, la naturalezza della scelta italiana si deve ai fattori sopra accennati, o comunque alla dichiarazione di estraneità rispetto a ciò che rappresentava allora l’Inghilterra. Questa coté così rilevante partecipa della più ampia tematica del significato dell’Italia per alcune scrittrici anglo-americane dell’Ottocento, che non necessariamente vi avevano vissuto né l’avevano mai visitata, come Emily Dickinson25. Sulla predilezione per il paesaggio toscano, e in particolare fiorentino, di Janet Ross e Vernon Lee influiscono molteplici fattori, relativi alla loro formazione culturale, alle attese intellettuali ed esistenziali e ai caratteri dei luoghi. La realtà fisica, se effettivamente è il motore di tutto il processo descritto, viene percepita e apprezzata in virtù dei precedenti parametri: non solo quindi quello consueto del bagaglio culturale, ma quello che deriva da un nomadismo approdato a un radicamento sempre da verificare, rivendicato come identità eccentrica. La scelta dell’Italia – in questo caso del cuore della Toscana – si apprezza sullo sfondo di superamento del concetto di grand tour e di predilezione per una diversità contigua, quella della grande tradizione europea, con la illusione di poter individuare, ancora incontaminati nella innocenza del mondo rurale, gli eredi diretti dei grandi protagonisti del Medioevo e del Rinascimento. La tradizione inglese dei «poeti di umile origine»26 ha inoltre una sua influenza, nel più ampio e tradizionale trasporto per la campagna del cultivated english. Per questi scrittori la campagna fiorentina si fa palestra di applicazione del background culturale a una realtà in cui la componente naturale era completamente risolta nell’artificio della civiltà e allo stesso tempo conservava sorprendenti isole di wilderness. L’Italia centrale appare dunque luogo di composizione ideale fra natura e cultura. Da quella sintesi si libera una bellezza che è sentita propria e altra insieme, omogenea per formazione e intrisa di una indubbia, pur contigua e riconoscibile, dimensione del diverso: «Per apprezzare l’influenza e capire lo spirito dei cipressi si deve andare in Italia, poiché sebbene i loro fusti possano crescere robusti e alti nei paesi del nord, i loro spiriti parleranno all’animo umano soltanto sotto i loro profondi e teneri cieli. Gli alberi, come le persone, sono riservati e imprevedibili nei loro momenti di abbandono, e i cipressi in Inghilterra sono estranei, insignificanti, mentre in Italia, immoti nel quieto calore meridiano, ardenti dell’oro che il sole intreccia a ogni cosa, o nettamente definiti contro lo zaffiro, il rosa e il verde del tramonto, essi hanno una capacità di attrarre e un significato poetico del tutto peculiare.»27. In questo passo si coglie anche un Figura 1. D. N. Lees, Tuscan Feasts and Tuscan Friends, London, Chatto & Windus, 1907. Antiporta e frontespizio. aspetto allora comune nella campagna toscana, che consisteva nella sua “nettezza” data dalla cura delle coltivazioni. Gli scorci e le vedute tante volte descritti ed 24

D. Boni, Geografia del desiderio, cit., p. 140. [Sandra]«Gilbert elenca cinque distinti aspetti di questa tropologia dell’Italia-come-donna che appare nell’opera di Christina Rossetti, Barret-Browning, and Emily Dickinson: “(1) Italia come alma madre – una terra che nutre, (2) Italia come appassionata sorella – una terra che attira, (3)Italia come casa dell’arte – una terra che crea, (4) Italia come paradiso magico - una terra che trasforma e integra, e (5) Italia come donna morta, respinta e che respinge – una terra rifiutata e che rifiuta”» (S. Benstock, Expatriate Modernism. Writing in the Cultural Rim, in Women’s Writing in Exile, ed. by M.L. Broe & A. Ingram, University of North Carolina Press, 1989, p. 25). 26 M. Praz, La letteratura inglese; Firenze, Sansoni, 1967, voll. 2 (nuova ed. aggiornata); vol. 2, p. 77; in particolare Praz cita John Clare e ricorda che Dylan Thomas apprezzava i suoi sonetti. 27 D.Nevile Lees, Tuscan Feasts, cit., Tuscan Trees, Cypresses, p. 198. 25

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effigiati oggi in buona parte non sono più apprezzabili per la crescita dellavegetazione infestante che, con la sua presenza indubbiamente verde, risulta non poco esiziale a questo paesaggio. Nello stesso tempo tale nettezza non era sufficiente a contenere tutte le realtà del paesaggio, intriso di presenze misteriose e inquiete, sia per la stessa essenza della dimensione naturale, sia per la stratificazione che la storia vi ha sovrapposto. Vernon Lee è naturalmente disposta alla percezione di tale altrove, come dimostrano gli aspetti filosofici e psicologici presenti nella sua opera. Questa componente si coglie nella urgenza di stabilire un nesso fra gli oggetti della visione e il rapporto che instauriamo con essi, nella necessità di cogliere, oltre gli aspetti caduchi – oltre il sentiero che si perde all’orizzonte – ciò che costituisce l’essenza immutabile del paesaggio. Ma proprio attraverso l’intensa identificazione con il paesaggio fiorentino queste scrittrici vivono la tragedia esistenziale di riconoscere che non esiste luogo che possa essere abbandonato o con cui ci si possa identificare fino in fondo. Da questo punto di vista riscontriamo una affinità fra Janet Ross e Vernon Lee: ambedue, in forme diverse, arrivano ad intuire, prima di constatarlo tra la fine degli anni ’20 e la metà degli anni ’30 del Novecento, l’inizio della decadenza del mondo fisico e spirituale in cui avevano scelto di vivere. JANET ROSS (LONDRA, 1842 - VILLA POGGIO GHERARDO, VINCIGLIATA, 1927)28 La sua tipicità e al tempo stesso la sua anomalia sono rivelatrici dei caratteri propri degli intellettuali vittoriani, che Janet Ross assorbe dalla madre, Lucie Duff Gordon, scrittrice e viaggiatrice, specie in Egitto, adusa ad immergersi negli usi e consuetudini locali. Old Florence and Modern Tuscany, da cui si traggono i passi commentati, raccoglie una serie di articoli negli ultimi decenni dell’Ottocento su alcuni riviste inglesi di diffusione culturale di buon livello, tipici della pubblicistica anglosassone. Nella introduzione alla raccolta Janet Ross rivendica la sua piena dimestichezza con il mondo dei contadini: «Si potrebbe rilevare che le mie descrizioni dei contadini toscani sono un po’ troppo lusinghiere e pittoresche. Posso solo dire che ho vissuto fra di loro per trentaquattro anni, e che in nessun luogo come in Italia vale così appieno l’aurea regola “Fai agli altri come vorresti che facessero a te”. Potrei raccontare molte storie della loro gentilezza, dato che, come mia madre afferma nelle sue Lettere dall’Egitto, “mi siedo in mezzo al popolo” e non “mi faccio grande”, ciò che un italiano apprezza tanto quanto un arabo. »29. Il richiamo alla madre vale come garanzia, non solo intellettuale, della sua capacità di inserimento. Anche il titolo del libro si presta ad alcune considerazioni, relative alla “modernità” della Toscana, che non risiederebbe, poniamo, nel suo artigianato, men che meno nell’industria ma, di fatto, nell’attività agricola30. Janet Ross è colpita dal mondo rurale, fatto di campi, boschi, case, fattorie, ville, chiese, conventi, scrutati da un osservatorio pulsante come la fattoria di Castagnolo. Al di là della storia di una sua infatuazione per Lotteringo Lotteringhi Della Stufa, causa di rivalità con un’altra nota scrittrice inglese, 28 J. Ross, «September Day by the Arno», English Illustrated Magazine, London, 1886; Italian Sketches, Illustrated by Carlo Orsi, London, 1887; Three Generations of English Women, London, Fischer, 1893; Leaves from our Tuscan kitchen, or how to cook vegetables, London, Dent and Co., 1899; Florentine Villas, With reproduction in Photogravure from Zocchi’s etchings and many line drawings of the villas by Nelly Erichsen, London, Dent, 1901; Old Florence and modern Tuscany, London, Dent, 1904; Florentine Palaces and their stories, London, 1905; The Story of Pisa, London, Dent, 1909; Lives of the early Medici as thold in their correspondence, London, Chatto, 1910; The Fourth Generation. Reminiscences, London, Constable, 1912. 29 J. Ross, Old Florence, cit., Prefazione, p. n.n. 30 Il titolo del libro riprende quello del primo saggio di una precedente raccolta, Italian Sketches (1887), ove compaiono quasi tutti i contributi relativi all’agricoltura riportati poi in Old Florence and Modern Tuscany (cfr. la nota 33). Il tema del saggio del 1887 è una illustrazione storica degli ornamenti femminili e degli usi nuziali della tradizione fiorentina, che, ormai desueti presso la nobiltà, sono rimasti appannaggio dei contadini, inclini alla conservazione delle tradizioni; non di meno Janet Ross intravede una fine anche di questo patrimonio sociale, una volta che «l’educazione avrà modo di influire sulla classe più bassa» (Italian Sketches, cit., p. 23).

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Ouida, che dal 1871 frequenta quel piccolo mondo31, è indubbio che la fattoria di Castagnolo è all’origine di una reale conoscenza non solo del territorio suburbano ma dei ritmi, dei nomi e delle tecniche agrarie, tanto che Janet Ross si impegna attivamente nella gestione dei poderi32. Il capitolo A September Day in the Valley of the Arno racconta una gita in campagna in una bella giornata di settembre: «Lasciata Firenze dalla Porta San Frediano abbiamo percorso quattro miglia fino alla antica Badia di Settimo, famosa negli annali politici e religiosi della Toscana. I contadini erano affaccendati come api, intenti a preparare le botti e i tini per la vendemmia; il martellare risuonava dappertutto incessante, mescolandosi al fruscio della saggina – una varietà di miglio che si lascia crescere per farne scope, spedite via nave in Inghilterra e in America. I campi di saggina alta sono una delle cose più belle, con le foglie verde pallido che si piegano armoniosamente alla brezza e la molle testa con i semi che ricade in una cascata di grani color ruggine dalla cima degli steli sottili. Agli occhi di un inglese il turgore dei grappoli d’uva aveva dell’incredibile. Fra un acero e l’altro pendevano lunghe ghirlande di viti in forme fantastiche: Buon Amico, con imponenti grappoli sciolti color viola tendente al nero, Trebbiano, color giallo vivido, con una macchia marrone scuro nella parte esposta al sole, Uva Grassa, con un giallo verde indeciso, e l’attraente Occhio di pernice, con un rosa dalle venature vermiglie sparse qua e là in ogni grappolo, il cui profumo era degno della bellezza (…) Si raccoglievano enormi zucche dorate, poponi, cocomeri e pomodori rossi; in alcune fattorie le donne e i bambini erano intenti a fare dolci rotondi con le ultime frutta e a seccarle al sole per il consumo invernale. Fuori dalla finestra pendevano dei rami di Acacia horrida, di cui si dice sia stata fatta la corona di spine; ogni lunga spina portava una quantità di fichi aperti, gelatinosi, che stillavano dolci gocce di nettare rappreso dai raggi del sole. Sul piccolo muro che delimita l’aia erano stesi bassi canestri, tavole e vassoi, coperti di pesche affettate e di fichi che seccavano ai raggi del sole, perché i bambini li potessero mangiare d’inverno col pane.»33 Siamo nella breve pianura fra la via Pisana, che corre vicina al margine collinare, e l’Arno, piccolo lembo di terra assai atto alle coltivazioni orticole e ai frutteti. Il fervore dell’attività anima nella descrizione un paesaggio turgido di forme e colori, assai diverso dalle rarefatte presenze delle coltivazioni collinari. Il richiamo ai bambini e alle premure materne verso di loro per i mesi invernali è una Figura 2. Id., La raccolta dei fichi in una fattoria toscana. costante della 31

La vita della villa-fattoria di Castagnolo negli anni ’70 dell’Ottocento ha lasciato più di una traccia letteraria; cfr.: August Hare, The Story of my life, London, George Allen, 1900, voll. 4; vol. 4, Journal, Florence, 10th May 1874, pp. 193-196; Journal, Castagnolo, 3rd May 1875, pp. 310-320 (G. Waterfield, Aunt Janet, cit., p. 80); Elisabeth Butler, née Thompson, An Autobiography, London, Constable, 1922; Elisabeth e la sorella Alice erano rimaste talmente entusiaste di un’estate passata a Castagnolo, dell’atmosfera della villa e della vita della fattoria, che arrivate alla Victoria Station di Londra in una sera fredda e nebbiosa cantano stornelli toscani mentre la carrozza le accompagna a casa (G. Waterfield, Aunt Janet, cit., p. 79). 32 G. Waterfield, Aunt Janet, cit., p. 78 . In Old Florence and Modern Tuscany i capitoli dedicati all’agricoltura, cinque su quindici , traggono origine dalle esperienze di Castagnolo, ma la fattoria non è mai nominata. 33 J. Ross, Old Florence, cit., pp. 67-68.

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partecipazione umana di Janet Ross alla vita dei campi. Passato il borgo murato di Lastra a Signa, che la scrittrice mostra di non apprezzare in alcun modo, né per il suo aspetto né per i suoi abitanti, la carrozza imbocca la via Vecchia Pisana e inizia il tratto collinare verso il castello di Malmantile, meta della gita: «La strada per Malmantile, lungo il piccolo ruscello di Rimaggio è piacevole. Il ripido fianco della collina rivestito di erica e di pini, i ciclamini e i crocus autunnali, o colchi, che ardono sotto il sole, le foglie dell’anno passato, gialle, splendenti, marroni e nere, le capre ispide arrampicate sulle rocce sporgenti formavano un quadro degno del pennello di Salvator Rosa. Percorse quattro miglia marine, scorgemmo, appollaiato su un poggetto fitto di alberi, con rocce frastagliate e un intricato sottobosco di agrifoglio, erica e rovi la casa colonica di S, Antonio, che in altri tempi deve essere stata una fortezza che dominava la valle. È abbastanza pittoresca, tutta spigoli, angoli e archi, con una torre grigia, ora abitata da una quantità di piccioni. “Che tubavano con i loro dolci richiami d’amore / Mentre le loro ali si aprivano e si chiudevano” (…) Poco oltre la vista è assai gradevole. La valle appena passata forma una V perfetta, con la torre grigia di S. Antonio proprio al centro, come un cane da guardia a custodia del passo; più sotto il lungo profilo del convento di S. Lucia coronava la cima della collina sulla sinistra; sullo sfondo l’ampia valle dell’Arno era immersa in una foschia dorata, con la mole color grigio violaceo del Monte Morello, lontano lontano. Superata un’ultima collina, scorgemmo, in solitaria grandezza, il castello di Malmantile stagliato nel cielo blu. Da qui la vista è estesa e imponente; le colline aride e tondeggianti sembrano senza fine dalla parte della Val di Pesa; all’estremo limite San Miniato al Tedesco “alza al cielo / il suo diadema torrito” (…) Il vecchio castello è in rovina, con misere Figura 3. Id., Autunno nei boschi. casupole cresciute come funghi addosso alle mura. La popolazione è poverissima, ma sorridente e gradevole; alla nostra ammirazione per una bella bambina che cantava, con un vestitino azzurro più curato delle sue compagne, la mamma disse, con evidente orgoglio ma con un accento che voleva sembrare di disapprovazione: “Sì, è come il cuculo, tutto voce e penne” [in italiano]. Il sole stava calando e la civetta iniziava ad emettere il suo grido malinconico; posato un ultimo sguardo sulla vecchia e pittoresca rovina abbiamo volto i cavalli verso la Città dei Fiori e ci siamo diretti a casa.»34. Janet Ross coglie efficacemente l’inserimento della casa colonica e del castello nella struttura del paesaggio, alle varie scale. Più limitato è l’apprezzamento nei confronti delle forme architettoniche, a parte alcune note sulla casa. Prevale non solo la serie delle citazioni erudite, assai ampia per il poema eroicomico seicentesco di Lorenzo Lippi, Il Malmantile racquistato, che dal castello di Malmantile prese il nome e un effimero pretesto, ma il racconto del contatto con la popolazione locale, reso con compiaciute sottolineature delle espressioni linguistiche popolaresche. Interessante come testimonianza della vita che scorre 34

Ivi, pp. 78-82.

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anche fra queste rovine, questo rapporto con i luoghi riflette le attese dei lettori inglesi degli articoli di Janet Ross, sia dal punto di vista della conferma di un sentire comune, in questi luoghi, non troppo distante da quelli esperibili in Inghilterra, sia per la diversità legata a un cielo garante della effettiva e già ambigua dimensione del sud. In un altro episodio di Old Florence and Modern Tuscany prevale sulla storia, che pure occupa la maggior parte della descrizione, la animazione del paesaggio per la partecipazione popolare a un rito religioso, ora del tutto perduto, in cui convivono evidenti suggestioni pagane: «Vicino alla Villa delle Selve, adagiata fra olmi e cipressi su uno sperone della stessa collina, c’è la Chiesa delle Selve adiacente a un monastero dei Carmelitani, soppresso come molti altri da Napoleone I. L’appartamento dell’abate è occupato dal parroco del borgo e l’orto, con un bel pozzo antico al centro, è usato attualmente come vivaio per piccoli olivi. La chiesa, che si dice sia stata restaurata dal Buontalenti, ha una navata di altezza notevole, ben conclusa da un’abside e sotto l’altare sopraelevato c’è una piccola cripta dove S. Andrea Corsini celebrò la sua prima messa. Il giovane sacerdote fuggì dai grandiosi preparativi fatti a Firenze e si rifugiò presso i monaci alle Selve; quando allo spuntar del giorno, trepidante di fervore religioso, accostò il calice alle labbra, gli apparve una visione della Madonna che sorridendo amabilmente piegò la testa e gli disse Tu es servus meus. Nella chiesa c’è un crocifisso miracoloso e ogni cinquant’anni, nel mese di aprile, si celebra la festa del Crocifisso della Provvidenza. Poco prima del tramonto del sole il Crocifisso è portato fuori dalla chiesa seguito da una lunga fila di sacerdoti, chierichetti con le tuniche bianchissime, vigorosi contadini che sorreggono bandiere e baldacchini. La collina scende ripida verso Ponte a Signa e tutti spargono petali di rosa, iris, erbe aromatiche; la lunga processione scende serpeggiando verso il fiume e risale con torce fiammeggianti come un enorme serpente di fuoco, avanzando lentamente su per la collina sotto gli olivi e i cipressi quando iniziano a brillare le stelle. I contadini mettono le candele alle loro finestre e la maestosa villa, ora proprietà della Contessa Cappelli, è un bagliore di luce.»35. Anche questa descrizione riporta il consueto mix di erudizione e di efficacia descrittiva del rito nel piccolo paesaggio della collina delle Selve. La scrittrice si muove con agilità, attraverso il comune sfondo medievale, dalla storia di S. Andrea Corsini alla consuetudine che affonda in quel tempo remoto il suo legame con i luoghi e che risulta ancora capace di aderirvi in maniera così partecipata. Questo aspetto in cui probabilmente è fatta risiedere la modernità Figura 4. Id., Cipressi toscani. della Toscana - si coglie nel capitolo Virgilio e l’agricoltura toscana, forse il più rivelatore dell’approccio di Vernon Lee. Richiamiamo un passo alla fine di questo capitolo sul paesaggio “virgiliano”: «Il doppio filare di scuri cipressi e l’intricato sottobosco di rosmarino, lavanda e roselline cinesi, il prato smaltato di giunchiglie, primavere e orchidee selvatiche, e qua e là il ronzio indaffarato delle api, componevano un quadro difficile a dimenticarsi. Gli alveari sono quasi sempre fatti in tronchi cavi di salici, chiusi sopra e sotto con una tavola e le fessure sono stuccate con argilla, proprio come è descritto nelle Georgiche. 35

Ivi, p. 142.

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Molti dei miei lettori devono avere spesso confrontato Virgilio con l’Italia di oggi. L’amore per la casa e per la propria terra, per i forti affetti familiari che oggi ci legano, sono descritti dal vecchio poeta mantovano nell’inno di lode più alto mai scritto in onore di un paese.»36. Più degli altri squarci paesaggistici, anche per l’esplicito richiamo a Virgilio, quello ora riportato descrive il mondo rurale con un insieme di pittoresco operoso e di disinvoltura che non convincono appieno. Questa nota investe il paesaggio attraverso l’attività dei contadini, con i quali Janet Ross rivendica la lunga consuetudine, presunta alla pari, esposta nella prefazione. In realtà tanta conoscenza non rivela, proprio con riferimento al modello esplicitamente evocato, alcuna solennità di atteggiamenti o di gesti - né la dileguata presenza degli dei pagani, né il nuovo radicamento operato dal cristianesimo -, ma coglie singoli episodi, come la tecnica di trasformazione dell’uva in vino, qualche notizia su un luogo, la citazione di un proverbio o di un adagio sul tempo profferti dai contadini a beneficio della curiosità della lady, convinta di mescolarsi con loro e ignara del loro chiedersi il perché di tanto interesse. L’approccio al paesaggio vero e proprio è più felice, per la reale capacità di cogliere la sua organizzazione morfologica, ma l’apprezzamento è restituito in maniera frammentaria attraverso memorie figurative (Salvator Rosa) e classiche (Virgilio) direttamente trasposte a una realtà che si supponeva, e si voleva, immobile. Se è apprezzabile l’immagine della vita affaccendata dei campi, specie nell’ultima fase della stagione del raccolto, la campagna fiorentina non è mai stata simile all’opulenza delle nature morte fiamminghe. È dunque descritta una campagna fiorentina che non esiste, e che non è mai esistita. Così era stato per la campagna dei contadini e dei pastori cantati da Virgilio: la sostituzione del pittoresco alla poesia porta però alla caduta di ogni autentica aura. VERNON LEE (ST. LEONARD, BOULOGNE-SUR MER, 1856 – VILLA IL PALMERINO, MAIANO, 1935)37 Anche per la specificità esistenziale sopra notata – essere cioè l’Italia per Vernon Lee terra di elezione, il suo rapporto con il paesaggio italiano, fiorentino in particolare, appare più sfaccettato di quello di Janet Ross. Inoltre Vernon Lee mostra anche un concreto e competente interesse per la dimensione urbana. A Firenze, prima di installarsi nel 1889 nella villa Il Palmerino, a Maiano, abita con la famiglia nel nuovo quartiere delle Cascine e mantiene sempre uno stretto rapporto con la città. All’inizio del Novecento partecipa con vigore alla campagna della Associazione per la difesa di Firenze antica, di cui è socio fondatore, che mira a impedire il proseguimento delle insensate demolizioni appena perpetrate nel cuore della città con la distruzione della piazza del mercato vecchio, corrispondente al foro romano, e del ghetto adiacente. A questo riguardo la sua lettera del 5 dicembre 1898 al Times, ivi pubblicata il 15 successivo e comparsa poi sul primo numero del Bollettino della Associazione38, è una disamina degli errori commessi assai pertinente nel merito delle questioni igieniche e sanitarie. Da un notevole patrimonio culturale ed erudito che aveva nelle storie italiane, specie del Settecento, un centro privilegiato non ignaro degli apporti di altre matrici culturali, Vernon Lee attinge una concreta penetrazione della vita e delle forme del paesaggio. Ne risulta una 36 Ivi, p. 149; segue la traduzione del passo con la lode citata, disinvolta unione di versi del secondo libro delle Georgiche; ancora nelle Georgiche il libro dedicato alle api è il quarto. 37 Principali opere di Vernon Lee direttamente legate ai temi del paesaggio: Studies of the Eighteenth Century in Italy, A new Edition, London, Unwin, 1887; Limbo and other essays, London, Grant Richards,1897; Genius Loci. Notes on Places, London, Grant Richards, 1899; Genius Loci and The enchanted woods, Leipzig, Tauchnitz, 1906; Hortus Vitae and Limbo, Leipzig, Tauchnitz, 1907; Laurus nobilis. Chapters on art and life, London, Lane, 1909; Vanitas. Polites stories, Including the hitherto unpublished story entitled “A frivolous conversation”, Leipzig, Tauchnitz, 1911 (I ed.: Vanitas. Polite Stories, London, Heinemann, 1892); The Tower of the Mirrors, and others Essays on the Spirit of Places, 1914; The sentimental traveller. Notes on places, Leipzig, Tauchnitz, 1921; The Golden Keys, and other Essays on the Genius Loci, London, Lane, 1925. 38 «All’Editore del “Times”», Allegato F, Bollettino dell’Associazione per la Difesa di Firenze antica, Firenze, Franceschini, Primo fascicolo, aprile 1900, pp. 35-44.

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scrittura intessuta di memorie e di intensa partecipazione, traccia della capacità di cogliere «il ritmo segreto dei luoghi (…) e di entrare in sintonia con essi.»39, con un processo di reale interazione. Lo spirito che emanava dalla scrittrice pervadeva la realtà circostante, come testimonia il giovane Mario Praz che, tornando a Firenze dalla villa Il Palmerino ove per la prima volta aveva incontrato Vernon Lee, medita: «nel ricordo la burbera signora s’aureolava d’incanto. Forse contribuiva a questo il paesaggio, che durante le nostre conversazioni non cessava d’ammiccare dalle finestre, sicché ora, per esempio, non saprei ben ricordare gli argomenti discussi, ma ricordo benissimo certo dorso di collina profilato coi suoi cipressi contro un cielo serale, e certi buoi bianchi in atto d’arare un pendio, stimolati dal rauco grido del contadino, e il colpo secco delle cesoie del giardiniere che tosava i bossi, aspetti e rumori della villa vhe lì assumevano agevolmente un valore quasi emblematico.»40. Nella dedica del suo libro Vanitas. Polite Stories, “Alla Baronessa E. French-Cini, Pistoia per Igno”, Vernon Lee si riferisce a «quell’antica villa episcopale sul più basso contrafforte dell’Appennino, dove le castagne cadono, con suono di seta frusciante sulle foglie secche al suolo, e passano le tempeste che gettano sulla pianura un velo di crespo color d’inchiostro, e cancellano quel distante biancheggiamento che, alla luce del sole, era Firenze un momento fa.»41. In questo passo citato da Praz la relazione stabilita fra microcosmo e macrocosmo appare tributaria, oltre che della lezione di Ruskin, di quella di Pater. Più in generale traspare una cifra tipica della scrittrice, la associazione fra storia e mistero, qui accennati e composti nella virtuosa pennellata d’ambiente, altrove più esplicitamente centrati in una più complessa sacralità. Come nel primo paragrafo di The arte and the country. Tuscan notes, in un’altra efficace sintesi appena incrinata da un eccesso di storicismo: «Mentre sedevo, nel sole di gennaio, sul ciglio della collina di Fiesole, con la vista che domina le cave dirimpetto (qualche margherita dal lungo stelo nella ghiaia ai miei piedi, imperlata ancora di rugiada per il gelo notturno), i miei pensieri presero il colore e il respiro del luogo. Si disposero in cerchio, come i sentieri che cingono la collina, intorno a queste arcaiche città greche e antiche città italiane, ove le mura ciclopiche, le olivete negli esatti terrazzamenti, seguivano le tracce fatte per la prima volta dal piede del pastore e della capra, come le vediamo ora nelle colline tutt’intorno. Che civiltà erano quelle, radicate nella roccia come la menta e la mirra selvatiche, e cresciute sotto la vampa del sole sulla pietra, e il turbine del vento giù nelle valli! Se ne sono andate, sono scomparse, e la loro esistenza oggi sarebbe improponibile. Ma ci hanno lasciato la loro arte, l’essenza che hanno distillato dal loro ambiente. E ciò è così buono per l’animo nostro come il sole e il vento, come il profumo delle erbe aromatiche dei loro colli.»42. Ove risalta la capacità di graduare il senso della veduta ottica con quella interiore, di passare dal lembo di primo piano delle margherite imperlate di rugiada prima di ridestarsi alla contemplazione delle tracce della storia che hanno modellato il paesaggio e che ce ne restituiscono ancora il sapore, dopo una lunga teoria di secoli. È quindi del tutto pertinente il giudizio di Mario Praz che «Vernon Lee ebbe come pochi il genio di scoprire il ritmo segreto d’un paesaggio, d’un’epoca, d’un’opera d’arte. L’unicità delle sue scoperte amava fissare in un nome, in un simbolo emblematico. Ad esempio: “Voglio parlare di quel qualcosa che costituisce il paesaggio reale, individuale il paesaggio che vede uno con i propri occhi del corpo e gli occhi dello spirito – il paesaggio che non si sa descrivere … Non v’è neanche una parola o una frase per designarlo ed io ho dovuto chiamarlo, alla disperata, la giacitura della terra (the lie of the land): è un mistero 39

D. Boni, Geografia del desiderio, cit., p. 155. M. Praz, Studi e svaghi inglesi, Firenze, Sansoni, 1937, pp. 319-320. Quanto abbia influito Vernon Lee sulla colonia anglo-americana che gravitava su Firenze si coglie dalle dediche di alcuni libri, fra cui: Edith Wharton, Italian Villas and their Gardens. Illustrated with pictures by Maxfield Parrish and by photographs, New York, The Century Co., 1904; Nesta De Robeck, Up at a Villa, Down in the City, London, J.M. Dent & Sons, 1932 (“To Vernon Lee with love and gratitude”). 41 M. Praz, Studi …, cit., p. 317; il testo inglese è in Vanitas. Polite Stories, cit., p. 9. 42 V. Lee, The Spirit of Rome and Laurus Nobilis, cit., p. 209. 40

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senza nome in cui entrano vari elementi, e io sento come se dovessi spiegarmi per mezzo d’una mimica … Un aggettivo, una metafora, può evocare un intero effetto atmosferico, dipingerci un tramonto o una notte stellata. Ma le ben più sottili e individuali relazioni di linee visibili sfidano l’espressione: nessun poeta o prosatore può darvi l’inclinazione d’un tetto, l’ondulazione d’un campo, la curva d’ una strada. Eppure son questi gli elementi d’un paesaggio che costituiscono la sua individualità e toccano più profondamente il nostro sentire.»43. Come altri scrittori e scrittrici, specie inglesi e americani, Vernon Lee usa più volte, anche nel titolo delle sue raccolte di saggi, l’espressione genius loci. Ricordiamo Genius Loci, del 1899; Genius Loci and The enchanted woods, 1906; The Golden Keys and other essays on the Genius Loci, 1925. La sua attitudine ad amplificare il sentimento del mistero si trasmette anche allo spirito del luogo, ma nelle descrizioni dei paesaggi, come appare anche dagli esempi citati, l’incanto dei luoghi, la loro ariosa bellezza, spazza ogni ossessione: «La ragione di questa magica mezza estate – la cui esistenza nessun legittimo discendente dei Goti e dei Vandali e altri fra i primi innamorati dell’Italia può plausibilmente negare – è del tutto al di là della mia filosofia.» Questo è l’inizio del paragrafo quinto di Tuscan Midsummer Magic44, la magia toscana di mezza estate, che precede immediatamente il passo Figura 5. Id., Il quieto sentiero fra gli olivi. citato da Mario Praz e che continua: (l’Italia) «si sbarazza delle sue volgarità turistiche, nasconde i tratti caratteristici del suo triviale Ottocento, si adorna con fiori di magnolia e cocomeri, con tende e baracche, con mandolini e chitarre; risplende nelle feste religiose e nelle rievocazioni storiche locali; e invece di candele di cera e di lanterne cinesi splende col più grande sole dorato di giorno, con la più grande luna argentata di notte, tutto a beneficio di pochi infantili discendenti dei Goti e dei Vandali. Non senso a parte, sono portata a pensare che la specifica attrattiva dell’Italia esiste solo nei mesi caldi; quel quid carismatico che dà una fitta e fa sì che uno dica – “Questa è l’Italia”. Avverto quella piccola fitta, cui il mio cuore è stato a lungo non avvezzo, all’inizio proprio di questa estate in Toscana, cui appartengono i caratteri sopra esposti della magia della mezza estate italiana. Stavo passando il giorno in un piccolo ma assai antico monastero benedettino (…) ora convertito in fattoria45, e nascosto, con le mura testimoni di battaglie e le imponenti porte di ingresso, fra i campi di granturco vicino all’Arno. Mi arrivò come un sobbalzo una impressione a lungo dimenticata, sopra tutte le altre, che suonava “Questa era l’Italia”, e martellava ancora e ancora con le stesse tre parole, quando mi sedetti sotto la spalliera di rose, di fronte al capanno della ruota dell’acqua, inghirlandato con festoni di paglia di piselli messa a seccare; e mentre passeggiavo fra le gelide volte, che sapevano di vecchi tini, nel sole improvviso e nelle ampie ombre dei chiostri. 43 M. Praz, Studi e svaghi inglesi, cit., pp. 323-324; in nota: “The Lie of the Land, in Limbo.”. Il sottotitolo del capitolo è Notes about Landscapes; la citazione è alla p. 212. 44 V. Lee, Hortus Vitae and Limbo, cit., p. 239. 45 Si tratta dell’ex monastero di Settimo, prossimo alla via Pisana, lo stesso descritto da Janet Ross in A September Day in the Valley of the Arno.

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Quell’odore era misteriosamente legato ai luoghi; l’odore dei tini mescolato, lo immaginavo (sebbene non possa dirlo), con il dolce odore di sottofondo dell’intonaco cadente e del legno. (…) È curioso come cambiano le associazioni soggettive: oggi Italia significa soprattutto certi effetti familiari di luce e di cielo coperto, certe preziosità di tramonti color ambra che si stagliano su colline blu oltremare, di foschie invernali fra i brumosi olivi, di sequenze di montagne blu pallido; è un paese che non appartiene al tempo, che esisterà sempre, al di là di ogni pittoresco o romantico. Ma questo è solo un godimento indefinito, quasi senza significato. E ogni tanto, quando siamo nel pieno della magia di mezza estate, mi arriva quel così distinto, vecchio e infantile significato della parola; come in quel giorno fra le rose di quei chiostri benedettini, l’ombra fresca degli alberi di fico nei cortili, con il sentore di quell’odore curioso, carico di romanticismo, di legno di quercia saturo di vino e di intonaco sgretolato; e io so allora, con un breve tuffo di gioia, che questa è l’Italia.»46 Nel sentire di Vernon Lee natura e passato convivono in maniera organica. Ai frequenti richiami storici propri di Janet Ross succede nei suoi scritti una comprensione favorita da altri sensi oltre da quello principe della vista, come il tatto e l’olfatto. Quest’ultimo, nella memoria delle ore trascorse nei chiostri del monastero di Settimo, è la piccola madeleine che rimanda alla cifra, estiva eppure perenne, del paesaggio italiano, qui senza alcun dubbio del tutto fiorentino. Nello stesso tempo, l’affermazione che l’Italia - i dintorni di Firenze - «è un paese che non appartiene al tempo, che esisterà sempre, al di là di ogni pittoresco o romantico», esorcizza ciò che è già evidente, cioè che quel tempo è ormai passato. Anche se prima di trascorrere completamente esso è capace di illudere, come sarà a lungo, che esiste almeno un luogo, o un paesaggio, in cui si può esperimentare la memoria della sua sospensione.

* Le traduzioni dall’inglese, ove non altrimenti specificato, sono dell’autore. Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

46

V. Lee, Hortus Vitae and Limbo, cit., pp. 240-242.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio Anno 1 - numero 1- gennaio/giugno 2004 Firenze University Press

MA COSA FANNO GLI AMERICANI? UNA BREVE INDAGINE SUI RUOLI E I COMPITI DEI LANDSCAPE ARCHITECT STATUNITENSI. Parte I Danilo Palazzo*

A BSTRACT Gli studi di landscape architecture statunitensi sembrano aver conservato tra le proprie competenze la progettazione urbanistica. Per scoprire quanto sia autentica questa impressione, che sembra ricavarsi dalle riviste o dalla letteratura di settore, il paper si interroga (in questa prima parte) sulle fasi, sui protagonisti e sui modi in cui avvenne, nei primi anni del XX secolo, il distacco tra la landscape architecture e il city planning sia sul piano dell’associazionismo professionale sia relativamente alla formazione degli specifici curricula formativi universitari. Una separazione che fu lenta e non priva di viscosità e resistenze. La valutazione delle attività, con orientamento “urbanistico”, degli studi di landscape architecture è sviluppata (in una seconda parte che sarà pubblicata prossimamente) a partire dal riconoscimento delle attività di progettazione svolte da alcuni studi professionali, selezionati tra quelli premiati nel 2004 dalla ASLA, l’American Society of Landscape Architect.

PAROLE CHIAVE Architettura del paesaggio, Progettazione urbanistica, ASLA, American Society of Landscape Architect, ASLA award.

Questo scritto, articolato in due parti, ha la pretesa di non essere un saggio. Preferisce, piuttosto, essere considerato un articolo di informazione che fornisce alcuni elementi sulle attività di alcuni studi di landscape architecture statunitensi per comprendere quale sia il campo (o i campi) del proprio lavoro. Una siffatta domanda nasce dalla curiosità, che stimo non essere solo mia, di andare a vedere cosa fanno i professionisti di altri paesi che si riconoscono sotto il titolo di landscape architect, sia per comprendere cosa fanno di più, o di diverso, da quello che fanno altri professionisti che in Italia si riconoscono sotto il titolo corrispondente di “architetti del paesaggio”, sia per capire quali sono i limiti (nel senso di confini) del contributo di questa professionalità alla costruzione del paesaggio, del territorio, della città, sia quali le sinergie che avvia con altri professionisti sia,infine, quali le opportunità di sviluppo di una disciplina che una scuola di dottorato, come quella di Firenze, potrebbe intendere approfondire. I motivi che mi portano ad andare a guardare cosa fanno gli americani1 invece di andare a vedere cosa fanno gli inglesi, i tedeschi o gli olandesi sono almeno tre. Il primo, è banalmente legato alle esperienze di ricerca che ho già svolto in quel paese, anche in questo 1

Quando uso il termine “americani” faccio riferimento agli statunitensi. Uso qui “americani” per il suo più efficace senso evocativo e per l’uso della sineddoche, ormai ampiamente affermato nella lingua corrente,.


campo. Il secondo è connesso al contributo che la landscape architecture statunitense (a partire da Frederick Law Olmsted, per non dire da Thomas Jefferson) ha dato, e continua a dare, alla disciplina. Infine, perché, da urbanista, vorrei meglio comprendere quali sono i caratteri di quella zona di sovrapposizione che sembra resistere, negli Stati Uniti, fra la progettazione e la pianificazione urbanistica (city planning e city design) e l’architettura del paesaggio (landscape architecture) come se non si fossero ancora sciolti quei forti legami che esistevano tra il city planning e la landscape architecture prima della separazione “consensuale” avvenuta più di un secolo fa e che si è riverberata sia nei programmi delle università , sia nelle organizzazioni professionali. Il terzo dei motivi citati è decisamente quello più robusto e merita di essere chiarito, prima di passare alla seconda parte del mio contributo (che sarà pubblicata sul prossimo numero della rivista), con una necessaria digressione nella storia dell’ingresso della landscape architecture e del city planning nelle università statunitensi e nelle organizzazioni professionali. URBANISTI & ARCHITETTI DEL PAESAGGIO2 Nella seconda metà del XIX secolo si avvia l’elaborazione dei contenuti dei curricula formativi universitari dei landscape architect e le prime forme di associazionismo tra professionisti. Queste complesse azioni subiranno una rapida accelerazione a cavallo della fine del secolo e si consolideranno nel successivo periodo. Il city planning tenderà a distinguere le proprie competenze da quelle della landscape architecture nell’arco degli stessi anni. Nei primi decenni del XX secolo emergeranno, a fianco dei corsi universitari e delle associazioni professionali dei landscape architect anche analoghe istituzioni per il city planning, contribuendo così a chiarire ruoli e riferimenti delle due discipline fino ad allora piuttosto confusi e indistinti. Il primo impulso alla realizzazioni delle università pubbliche statunitensi avvenne nel 1862, con la promulgazione del Morril Act attraverso il quale ad ogni Stato erano ceduti dei suoli per realizzarvi istituti di educazione superiore (chiamati land-grant college per ricordare l’atto di cessione gratuita del suolo) dove impartire insegnamenti di agricoltura e meccanica, le due discipline più rilevanti per il consolidamento degli insediamenti dei colonizzatori dei nuovi territori. Il Morril Act offrì ampie opportunità di diffusione dell’insegnamento delle tecniche agrarie , fino ad allora affidato alle “società agrarie ed orticolturali” (Agricultural and Horticultural Societies) che, a partire dalla fine del XVIII secolo, organizzavano incontri tra i soci, fiere ed esposizioni e pubblicavano riviste per diffondere la conoscenza delle scienze agrarie. Altri luoghi di divulgazione e di sperimentazione in questo campo furono i giardini botanici che, all’incirca nello stesso periodo, iniziarono a diffondersi specialmente lungo la costa atlantica. Inoltre, alcune università e college degli tredici Stati originari avviarono la formazione di alcuni dipartimenti di botanica e attivarono l’insegnamento delle scienze agrarie ma senza, peraltro, arrivare all’inaugurazione di corsi di educazione superiore. Nel corso del XIX secolo l’idea dell’istituzione di college dedicati specificamente all’agricoltura (agricultural college) venne promossa, in epoche diverse, da Andrew Jackson Downing e Frederick Law Olmsted, due tra i più importanti iniziatori della professione del landscape architect.

2

Questa parte è mutuata, parzialmente, dal mio Sulle spalle di giganti, FrancoAngeli, Milano, 1997 al quale rimando per gli approfondimenti bibliografici.


Figura 1. Frederick Law Olmsted

Il primo corso di landscape design offerto da un’istituzione di educazione superiore fu quello tenuto, a partire dal 1863, da Albert N. Prentiss presso il Michigan Agricultural College, con il titolo di landscape gardening. Solo all’inizio del XX secolo si avviarono i corsi che esplicitamente facevano riferimento all’insegnamento della landscape architecture seguiti da altri nel corso degli anni successivi (vedi tabella).

Università

University of Arizona University of California, Berkeley University of California – Davis Cornell University University of Florida University of Georgia University of Idaho University of Illinois Iowa State University Kansas State University University of Kentucky Louisiana State University University of Massachusetts Michigan State University University of Minnesota

Data di fondazione (alcune precedono il Morril Act)

Data del primo corso sul paesaggio e titolo

Anno di istituzione del corso in landscape architecture

1885

1932 - Landscape Gardening

1975

1868

1913 - Landscape Gardening Floriculture

1913

1868

1949 - Landscape Design

1950

1864

1904 - Landscape Design

1904

1906

1933 - Landscape Design

1933

1912 - Landscape Gardening

1928

anni 30 - Landscape Gardening 1868 - Landscape Gardening (dal 1871 Garden Architecture)

1968

1858 (apertura 1868)

1871 - Landscape Gardening

1914

1863

1871 - Landscape Gardening

1924

1865

1878 - Landscape Horticulture

1973

1860

1941 - Landscape Design

1960

1863

1868 - Landscape Gardening

1902

1855

1863 - Landscape Gardening

1922

1869

1898 - Scienze Forest. e insegnamenti di Landscape Design

1968

1785 (1872 land-gr.) 1889 1867

1907


Mississippi State University North Carolina State University Ohio State University Pennsylvania State University

1887 (apertura 1889) 1870 (apertura 1874)

1880 - Landscape Gardening

1964

1925 - Landscape Architecture

1927

1879 - Ornamental and Landscape Gardening

1915

1855

1906 - Landscape Gardening

1957

Purdue University

1869

1928 - Planting Design Landscape Appreciation

1964

Rutgers University

1766 (1880 land-gr.)

1927 - Landscape Design

1964

1876

1913 - Landscape Art

1926

1888

1939 - Landscape Architecture Design

1939

1872

1948 - Landscape Horticulture

1972

1890

1893 - Landscape Gardening

1950

1867

1964 - Landscape Design

1965

1849

1888 - Landscape Design

1915

Texas A & M University Utah State University Virginia Polythec. Inst. & State University Washington State University West Virginia University University of Wisconsin

1878

Nel XX secolo il termine landscape architecture sostituì, lentamente e con qualche resistenza, il termine landscape gardening e trovò svariati motivi di affermazione. Nel 1899 fu fondata l’American Society of Landscape Architects (dieci anni dopo apparve il primo numero di Landscape Architecture la rivista dell’ASLA tuttora in pubblicazione sotto la medesima titolazione: http://www.asla.org/nonmembers/lam.cfm). Nel 1900 l’Harvard University offrì il primo corso di landscape architecture, voluto da Charles Eliot presidente dell’università e padre dell’architetto del Metropolitan Park System di Boston. La formazione del curriculum fu affidata a Frederick Law Olmsted Jr.

Figure 2 e 3. Il contributo dell’impegno di Charles Eliot per il Metropolitan Park System di Boston. A sinistra la situazione nel 1892, a destra quella del 1902.

Il corso si distingueva da quelli precedentemente avviati sotto altri nomi per il suo legame più diretto con le scuole di architettura piuttosto che con quelle di agraria. Da allora il collegamento con l’architettura divenne più frequente. Il mutamento della popolazione da rurale ad urbana, compiutosi nei primi venti anni del XX secolo, contribuì a spostare


l’attenzione degli studenti, futuri professionisti, dall’agricoltura all’ambie nte costruito. Le università vi si adeguarono (o come nel caso di Harvard la anticiparono) senza però perdere il contatto con la tradizione di studi da cui esse provenivano. Durante i successivi decenni gli incroci e le sovrapposizioni dei corsi di landscape architecture con gli insegnamenti di city planning presero a diventare più diffusi finché i due campi non separarono i propri percorsi educativi e quelli professionali. I PRIMI CORSI DI CITY PLANNING Nelle università statunitensi i corsi di city planning si avviarono più tardi rispetto a quelli della landscape architecture, ed è anzi proprio da essi che derivano. In particolare si possono riconoscere tre tradizioni che influenzarono i contenuti e i modelli dei primi corsi. La prima di queste era quella proveniente dai progettisti dei parchi urbani che incrociarono le proprie storie professionali con il crescente City Beautiful Movement. La seconda tradizione era quella composta da coloro che promossero e progettarono miglioramenti delle condizioni di vita degli abitanti delle città ammalate di congestione. Il terzo filone di studi, che influenzò le nascenti scuole di pianificazione urbana, furono i corsi, fortemente orientati alla prassi, che si svolgevano presso i land-grant college e che contribuirono alla pianificazione delle comunità di appartenenza. Anche nel campo del city planning, come già avvenne per la landscape architecture, l’Università di Harvard anticipò altre istituzioni private o pubbliche. Nel 1909, James Sturgis Pray tenne un corso dal titolo “The Principles of City Planning” all’interno della School of Landscape Architecture e venti anni dopo, nel 1929, Harvard offrì il primo programma in city planning per coloro che intendevano svolgere questa attività da professionisti. E fu ancora ad Harvard che la School of Landscape Architecture inaugurò nel 1923 il primo programma di specializzazione post-laurea in pianificazione urbana, il Master of Landscape Architecture in City Planning. I collegamenti tra il city planning e la landscape architecture erano, almeno nella prima fase di avvio dei corsi di insegnamento universitari, molto serrati e difficilmente districabili, tanto che Peter Walker e Melanie Simo, in un libro sulla ricostruzione del rapporto tra i protagonisti dell’architettura del paesaggio statunitense e il movimento moderno, sostengono che il campo professionale maggiormente frequentato dai landscape architect, almeno fino alla fondazione dell’American City Planning Institute nel 1917, era proprio la pianificazione urbana. Non solo il primo corso di pianificazione urbana si svolse all’interno della scuola di landscape architecture a Harvard, ma molti dei docenti che insegnarono nei primi corsi di city planning provenivano dalle scuole di architettura del paesaggio che, con gli altri campi dell’architettura e dell’ingegneria civile, si contendevano la realizzazione di corsi e imponevano tagli disciplinari tuttora rintracciabili nei curricula. La separazione più netta tra corsi universitari di architettura del paesaggio e di pianificazione urbana, e delle competenze professionali relative ai due settori, coincise e venne rafforzata da tre fatti, che si svolsero nei primi tre decenni del XX secolo e che fornirono la necessaria spinta all’indipendenza professionale e formativa dei pianificatori urbani. Il primo fu l’avvio delle prime forme di associazionismo professionale che tendevano al riconoscimento e alla differenziazione delle competenze. Il secondo fu l’introduzione dello zoning come strumento di organizzazione della crescita urbana. Il terzo, come già detto, fu la constatazione che gli Stati Uniti stavano passando da una configurazione agricola ad una urbana. Il censimento del 1920 stabilì, per la prima volta, che gli abitanti delle città superavano di numero i residenti nelle aree rurali. La fine del XIX secolo e, in particolare, i primi vent’anni del secolo successivo furono anni di intensa attività sia per la landscape architecture che per il city planning negli Stati Uniti. A fianco del riconoscimento di due distinti campi di insegnamento nei programmi universitari si avviarono le prime iniziative di associazionismo professionale. Queste dapprincipio scontarono, oltre alla confusione e alla sovrapposizione dei due ruoli professionali, la ridotta presenza di professionisti attivi (tanto


più che nei primi anni delle associazioni, nonostante esse si dicessero nazionali, i membri provenivano ed esercitavano quasi esclusivamente negli Stati della costa atlantica Settentrionale) al tal punto che la cronaca dei primi anni delle due iniziative vede attivi spesso i medesimi professionisti. LE ORIGINI DELL’AMERICAN SOCIETY OF LANDSCAPE ARCHITECTURE Gli architetti del paesaggio furono i primi ad organizzarsi. Nel gennaio del 1899 a New York viene fondata l’American Society of Landscape Architecture (ASLA, www.asla.org). L’ASLA all’inizio della propria attività dovette affrontare due questioni primarie: i criteri di accettazione dei membri e l’instaurazione del rapporto di convergenza tra le competenze professionali e i programmi di insegnamento universitari. Quanto ai primi la società si dotò di una commissione esaminatrice dei candidati (Examination Board) e John C. Olmsted scrisse ai principali professionisti che agivano nel campo dell’architettura del paesaggio per farsi inviare segnalazioni di altri colleghi meno noti e per interrogarli sui metodi adottati nella pratica professionale. Per quanto riguardava il rapporto con le università l’ASLA contribuì, attraverso alcuni dei propri membri, alla compilazione dei curricula dei corsi e alla diffusione dell’insegnamento della landscape architecture nelle università.

Figura 4. John C. Olmsted

Bremer Pond, in un articolo del 1950 pubblicato nel cinquantesimo della fondazione dell’ASLA, nel tracciare la storia di mezzo secolo della società la suddivide in cinque periodi ciascuno della durata di un decennio. Al primo periodo definito “dell’organizzazione”, che va dalla fondazione al 1910, segue il periodo “dell’espansione” entro la quale fu avviata la rivista Landscape Architecture, e la creazione di un “comitato sull’educazione” (Committee on Education) che aveva il compito di esercitare un controllo sui programmi universitari. Il terzo periodo individuato da Pond è quello chiamato dell’“impegno crescente” ad indicare le molte iniziative in cui l’ASLA e i suoi membri furono coinvolti negli anni venti. In questo periodo si intensificano le iniziative di “controllo” delle iniziative di formazione universitaria anche con attività di accreditamento dei corsi. Negli stessi anni la società degli architetti del paesaggio realizzò anche un consolidamento del proprio ruolo di guida dell’attività professionale con la pubblicazione di alcuni testi sulla pratica di studio. Altri membri, invece, insoddisfatti della vaghe distinzioni tra le competenze di quanti si occupavano di architettura del paesaggio e di pianificazione urbana (che verranno rese più chiare solo qualche anno dopo) abbandonarono la società per aderire all’associazione professionale dei city planner. Il periodo della depressione e del successivo New Deal, secondo Pond, non portarono gravi cadute nel numero degli incarichi agli architetti del paesaggio (né a significativi


aumenti) nell’ambito dei programmi avviati dall’amministrazione di F. D. Roosvelt. Quello che cambiò fu il carattere degli interventi e del ruolo che in essi ebbero gli architetti del paesaggio insieme ad altre figure, quali gli architetti, gli ingegneri e i planner. Molti professionisti trovarono una collocazione nei programmi del National Resources Committee, nella Tennessee Valley Authority, nel Forest Service o nel National Park Service, ma fu solo durante la seconda guerra mondiale, quando furono avviati i programmi di pianificazione ed edilizi per il dopoguerra, che fu precisato il quadro delle diverse competenze tra coloro che si occupavano di pianificazione.

Figura 5. Franklin Delano Roosvelt nel 1940

L’esito di questi accordi, intitolato Division of Responsabilities and Work among the Planning Professions of Architecture, Civil Engineering, Landscape Architecture and Mechanical Engineering on National Defense Housing Projects, fu pubblicato dalla rivista dell’associazione degli architetti americani (American Institute of Architects, www.aia.org) nel gennaio del 1941 e nel supplemento della rivista dell’ASLA nel numero dell’inverno dello stesso anno. La questione del riconoscimento della professione del landscape architect e della sua distinzione di ruolo rispetto ad altre categorie professionali “confinanti” fu però lontana dall’essere risolta definitivamente dal documento compilato in comune. Il secondo dopoguerra, e i problemi della ricostruzione, non sembrarono tenere conto dell’accordo raggiunto sulla suddivisione delle responsabilità dei diversi professionisti. Il rapido sviluppo della popolazione urbana e suburbana e i programmi di trasformazione del territorio, derivante dalla crescita degli anni cinquanta, facevano emergere la domanda, come si vedrà più oltre, della figura del planner e della pianificazione. I landscape architect a fatica ritrovarono spazio nel mercato ricorrendo a cambiamenti del proprio nome in land planner o site planner. Il cambiamento del nome denotò anche un adeguamento alle esigenze e alle domande della società che l’ASLA, lentamente cresciuta negli anni quaranta, portò ad introdurre nei programmi universitari, fino alla svolta degli anni sessanta e settanta quando la questione ambientale investì la professione di nuovi e, per certi versi rinnovati, impegni. LE ORGANIZZAZIONI PROFESSIONALI DEI PIANIFICATORI URBANI E REGIONALI L’organizzazione in senso professionale dei pianificatori urbani fu più tarda di quella degli architetti del paesaggio ma raggiunse, in un tempo minore, una più ampia partecipazione della base associativa.


Eugenie Ladner Birch, una studiosa di storia della pianificazione statunitense, in un articolo del 1980 di ricostruzione della storia delle associazioni dei pianificatori, pubblicato nel settantennale della fondazione della National Conference on City Planning (NCCP) e a ridosso della decisione di riunire l’American Institute of Planners (AIP) e l’American Society of Planning Official (ASPO) nell’American Planning Association (APA, www.planning.org), avvenuta il 30 settembre del 1978, suddivide il percorso durato settant’anni in cinque periodi di diversa durata. I percorsi di formazione e gli obiettivi posti dalle organizzazioni professionali dei pianificatori urbani e degli architetti del paesaggio furono abbastanza simili, mentre si sovrapposero, almeno nei primi tempi, i nomi dei principali protagonisti delle due associazioni. Ciò a dimostrazione della parziale condivisione della storia pre-professionale e pre-universitaria e della comune provenienza culturale dei due campi (se non addirittura della derivazione dell city planning dalla più affermata landscape architecture). Il primo periodo, collocato da Birch negli anni tra il 1909 e il 1919, è contraddistinto dal passaggio dalla forma di movimento spontaneo all’organizzazione di un forum nazionale annuale e poi di un’associazione. Nel 1915 la NCCP iniziò le pubblicazione di un quadrimestrale, The City Plan, che nel 1925 divenne il City Planning Quarterly, una rivista curata da Henry Vincent Hubbard, lo stesso che fino al 1937 curerà Landscape Architecture, la rivista dell’ASLA. Nel 1917 alcuni associati della NCCP aderirono all’American City Planning Institute (ACPI). Questo istituto fu voluto da un nutrito gruppo di planner che intendevano assegnare alla nuova associazione un compito più diretto alla definizione dei compiti e delle competenze professionali. Presidente dell’ACPI fu eletto Frederick Law Olmsted Jr., già attivo nell’ASLA. Egli, nonostante le pressioni che riceveva per restringere i criteri di accettazione degli associati sulla base delle conoscenze tecniche, tese a consentire, almeno fino alla necessaria definizione di criteri più puntuali sui contenuti educativi delle scuole di pianificazione, l’accesso all’ACPI a chi, anche genericamente, si occupava di pianificazione urbana.

Figura 6. Frederick Law Olmsted Jr.

La seconda fase, riconosciuta da Birch è relativa agli anni 1920-1934. Quel periodo cioè in cui il planning maturò varie esperie nze e la pianificazione urbana divenne una professione. I governi municipali, e in particolare quelli delle grandi città, si rivolgevano ai pianificatori per la realizzazione di strumenti per la gestione e lo sviluppo delle aree terziarie centrali e delle infrastrutture di trasporto. Nel 1923 fu fondata da Lewis Mumford, Benton MacKaye, Catherine Bauer e da altri la Regional Planning Association of America (RPAA). Una nota sentenza del 1926 della corte suprema legittimò e promosse l’uso dello zoning. L’ACPI in quegli anni crebbe di importanza e di ruolo. I progressivi interventi dei pianificatori nelle città statunitensi portarono ad un rafforzamento dell’istituto alla cui appartenenza gli iscritti tendevano sempre più ad assegnare un valore di qualificazione


professionale. L’istituto prese contatto con le università per vedere garantiti nei programmi determinati standard educativi, un traguardo che raggiunse più tardi, rispetto all’ASLA, perché il primo corso di city planning si avviò ad Harvard solo nel 1929.

Figure 7 e 8. Lewis Mumford e Catherine Bauer

La depressione portò ad una riduzione delle commesse dei pianificatori urbani. Le città, presto in bancarotta per affrontare l’emergenza disoccupazione, tagliarono i contributi destinati alla redazione dei piani, considerati un lusso che le municipalità non potevano permettersi. Il New Deal roosveltiano diede però impulso ad un’altra stagione della pianificazione incentrata sul crescente ruolo delle istituzioni pubbliche e sulle grandi strategie regionali e nazionali. Dopo un acceso dibattito interno sulla proposta di cambiamento del nome dell’istituto in American Institute of City and Regional Planning, per adeguarlo all’ampliamento di interesse promosso dal New Deal, nel 1938 l’istituto assume il più generico nome di American Institute of Planners. Il decennio 1935-1945 è contraddistinto da una significativa crescita dei membri delle due principali associazioni e della pianificazione in generale. Le istanze delle due associazioni, per quanto divergenti, tendevano di fatto allo stesso obiettivo: l’ampliamento del ricorso alla pianificazione, un fine che, nell’epoca felice del New Deal, pareva potersi realizzare. La guerra limitò l’attività delle organizzazioni e solo nel 1944 l’AIP riprese la pubblicazione della rivista dell’associazione, da allora chiamata Journal of the American Institute of Planners. Un ennesimo periodo va dal dopoguerra al 1960 caratterizzato dalla “esplosione della pianificazione”. Il secondo dopoguerra è segnato, negli Stati Uniti, da profonde trasformazioni demografiche che incidono pesantemente sulle forme del territorio e delle città. Il quartiere suburbano diventa il modello urbanistico prevalente. Le occasioni di lavoro sia per i pianificatori professionisti che per i funzionari degli uffici urbanistici pubblici aumentano e di conseguenza si incrementa il numero dei soci e delle attività delle due principali organizzazioni. Il periodo successivo agli anni sessanta è quello che si conclude, nell’analisi di Eugenie Birch, con il 1978, l’anno della fusione delle due organizzazioni nell’American Planning Association. La crescita delle aree urbane e suburbane continua a caratterizzare questo periodo. Le conseguenze ambientali e sociali delle trasformazioni urbane e la più generale questione della qualità della vita emergono come temi rilevanti della pianificazione.

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RI-VISTA Ricerche per la progettazione del paesaggio Anno 1 - numero 1- 2004 Firenze University Press

IMMAGINE CONTRO NATURA* di Paolo D'Angelo**

ABSTRACT Qual è il rapporto tra immagine e natura nella cultura contemporanea? Poche vicende sono in grado di riassumere, in breve, la parabola percorsa nella modernità di questo rapporto come quella cui è andata incontro la parola panorama. Oggi, anche se molti continuano ad usare questo termine come equivalente di paesaggio, pochi sanno che il ‘panorama’ nacque, alla fine del Settecento, per indicare uno «spettacolo ottico» destinato a riscuotere grande successo lungo tutto il secolo seguente: il ‘panorama’ era, in origine, una grande tela dipinta, disposta a trecentosessanta gradi intorno a uno spettatore. Nel corso dell’Ottocento, le foto presero gradatamente il posto della pittura, nei panorami, fino a che, all’inizio del Novecento, le nuove forme di riproduzione dell’immagine, come il cinema, resero obsoleto questo tipo di spettacolo. Ma non la parola, che era già transitata a indicare la cosa naturale osservata e non più l’apparecchio destinato a riprodurla, la realtà e non la rappresentazione. Ed è proprio questo passaggio, per cui l’immagine soppianta la natura, la sostituisce, si pone al suo posto, ed impedisce un rapporto reale con la cosa rappresentata, ciò che si impone a chi prende a considerare il rapporto tra immagine e natura nel mondo contemporaneo. A partire dalla seconda metà del Novecento, molti artisti hanno cercato di dare attraverso le loro opere delle esperienze del nostro rapporto con la natura, o, per meglio dire, di trasformare in opera la propria esperienza della natura. Un tratto accomuna le esperienze dei land artist americani degli anni Sessanta con quelle dell’arte ambientale europea dei decenni successivi: il fatto che entrambe hanno compreso che il patto mimetico che legava l’arte alla natura è andato in pezzi e che nulla è più vano che cercare di ricomporlo, ragione per cui l’arte non potrà recuperare un legame con la natura riproducendola, ma solo operando all’interno di essa. Tuttavia, il necessario ricorso, da parte degli artisti, ai mezzi di comunicazione visiva, come fotografie e video, per documentare e divulgare le loro opere, spesso realizzate in luoghi sperduti ed inaccessibili ai più, ha determinato un vero e proprio paradosso: un’arte che era nata in antitesi all’immagine torna ad essere pura immagine. PAROLE CHIAVE Estetica della natura, land art, arte ambientale, panorama, immagine.

COME LE IMMAGINI HANNO UCCISO LA NATURA. Poche vicende sono in grado di riassumere in breve la parabola percorsa nella modernità dal rapporto tra immagine e natura come quella cui è andata incontro la parola panorama. Chi oggi la impiega intende per lo più riferirsi a un’ampia veduta di paesaggio, quale si può scorgere da un luogo rilevato, come una collina o un campanile. Le guide turistiche, almeno fino a qualche decennio fa, erano piene di indicazioni di luoghi dai quali si potevano scorgere dei bei panorami, anzi dei «bei pan.», secondo l’abbreviazione che tanto irritava Roberto Longhi, già abbastanza irritato dal fatto che una guida perdesse tempo a segnalare delle «bellezze naturali» e non

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artistiche.1 E ancora adesso il termine, nel linguaggio corrente, appare più usato di quanto lo siano, per esempio, «paesaggio», che si troverà in contesti più tecnici, come nel linguaggio di geografi, storici, ambientalisti, o veduta, che suona lievemente desueto. Ma quasi nessuno sa che il termine panorama nacque, alla fine del Settecento, per indicare uno «spettacolo ottico» destinato a riscuotere grande successo lungo tutto il secolo seguente. Il ‘panorama’ era, in origine, una grande tela dipinta, disposta a trecentosessanta gradi intorno a uno spettatore che la osservava da un punto centrale prestabilito, esposta in un edificio circolare spesso appositamente costruito, ed esibita a orari, come fosse uno spettacolo teatrale. Nel corso dell’Ottocento, le foto presero gradatamente il posto della pittura, nei panorami, fino a che, all’inizio del Novecento, le nuove forme di riproduzione dell’immagine, come il cinema, resero obsoleto questo tipo di spettacolo2. Ma non la parola, che era già transitata a indicare la cosa naturale osservata e non più l’apparecchio destinato a riprodurla, la realtà e non la rappresentazione. Ed è proprio questo passaggio, per cui l’immagine soppianta la natura, la sostituisce, si pone al suo posto, ed impedisce un rapporto reale con la cosa rappresentata, ciò che si impone a chi prende a considerare il rapporto tra immagine e natura nel mondo contemporaneo. Quel che dovrebbe mediare il contatto con la natura, si frappone tra essa e noi; quel che dovrebbe aiutarci a conoscerla, fa sì che non la conosciamo mai, e ne conosciamo soltanto i simulacri. Le immagini della natura hanno ucciso la natura, perché hanno reso impossibile, con la loro proliferazione e il loro scadimento, un’esperienza autentica del mondo naturale. Certo, si potrebbe osservare che la percezione della bellezza naturale è stata sempre accompagnata dalla produzione di immagini della natura, al punto che, anche se forse a torto, riteniamo che quelle civiltà che non presentano qualcosa di simile alla nostra ‘pittura di paesaggio’ siano società prive di una sensibilità specifica per il paesaggio stesso. 3 Ed è vero che il moderno sentimento della natura si è sempre nutrito di immagini, anche perché esso è cresciuto di pari passo con il distacco dalla natura di strati sempre più larghi della popolazione. Sono le società urbane e industriali ad avvertire la nostalgia per la bellezza della natura, e a cercare rifugio nelle rappresentazioni: la pittura di paesaggio nasce nelle città, e diventa il genere dominante nel secolo dell’industria, nell’Ottocento. Ma proprio a partire dall’Ottocento si assiste a una dilatazione inarrestabile di riproduzioni della natura: panorami, diorami, fotografie, cartoline illustrate, fino ad arrivare ai nostri giorni, in cui dépliants turistici, settimanali, televisione e cinema ci sommergono di immagini della natura, che sono però immagini stereotipe, patinate, incapaci di porci realmente in contatto con la natura stessa. La rappresentazione artistica della natura, cioè quella rappresentazione che produce non solo un’immagine, ma anche un’esperienza della natura rappresentata (di uno dei suoi paesaggi della montagna Saint-Victoire Cézanne disse che doveva rendere «le parfum de marbre lontain») scompare di fronte alla pura illustrazione dello spettacolo naturale, al luogo comune paesaggistico.4 Esemplare, in questo senso, è il destino della pittura di paesaggio, che da genere privilegiato quale era nel secolo scorso passa ai margini, sempre in sospetto di passatismo e di pittura della domenica, poco amata dai grandi pittori del Novecento (Bacon diceva che si ‘abbassava’ a dipingere paesaggi quando non gli venivano le figure; Picasso, straordinariamente dotato per qualsiasi genere di arte, solo al paesaggio sembra poco interessato). 1 ROBERTO LONGHI, Recensione alla Guida d’Italia del T.C.I., in «L’Arte», 1917, ora in ROBERTO LONGHI, Opere Complete, vol. I, Firenze 1961, pag. 392. 2 Sulla storia del Panorama sono usciti, in anni recenti, diversi studi, tra i quali segnaliamo S. OETTERMANN, Das Panorama. Die Geschichte eines Massenmediums, Frankfurt, Syndakat, 1980 e R. HYDE, Panoramania, London, Trefoil Publications, 1988. In italiano, oltre a S. BORDINI, Storia del panorama, Roma, Officina, 1984, si può vedere anche G.P. BRUNETTA, Il viaggio dell’icononauta, Venezia, Marsilio, 1997. 3 E’ una delle tesi portanti del volume di AUGUSTE BERQUE, Les raisons du paysage, Paris, Hazan, 1995. 4 Sulla rappresentazione stereotipa della natura si veda M. A. FUSCO, Il luogo comune paesaggistico nelle immagini di massa, in Storia d’Italia, Annali, V, Il Paesaggio, a cura di CESARE DE SETA, Torino, Einaudi, 1982, pagg. 753-801.

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Nel celebre volume di Kenneth Clarke, Il paesaggio nell’arte, il capitolo dedicato al Novecento è sostanzialmente il censimento di un’assenza, la storia dello svanire della pittura di paesaggio, della «renunciation of nature» consumata dall'arte più recente. Secondo Clarke ciò avviene perché l’arte si musealizza, cioè ha sempre più rapporti esclusivamente con altra arte, e perché la scienza produce un’immagine del mondo che non è più utilizzabile dall’arte. Ma la ragione più importante è un’altra, che, andando un po’ al di là di quello che Clarke dice, potremmo riformulare così: è stata l’Avanguardia a concepire sempre di più l’arte come anti-natura, a negare la possibilità di una rappresentazione artistica della natura. Molta arte moderna, così, ha voluto accentuare il proprio carattere di assoluta artificialità, è figlia del rifiuto sdegnoso opposto da Baudelaire a chi gli chiedeva «versi sulla natura» («ho sempre pensato che la natura che fiorisce abbia in sé qualcosa di impudente e di rivoltante»).5 Le prime avanguardie Novecentesche si costituiscono anche a partire da un gesto violentemente negatore della bellezza naturale, e le parole di Boccioni («non posso pensare senza disgusto e compassione che esistono società per la conservazione del paesaggio») trovano un’eco quasi letterale di quelle di Fernand Léger, che se la prende con «la stupefacente e ridicola società che si denomina pomposamente Société de protection de paysages».6 Il risultato di tutto ciò è che nel nostro rapporto con la natura l’arte ha rinunziato a farci da guida, e ci ha lasciato in balia di immagini che non ci fanno conoscere nulla, perché servono soltanto a confermare quel che già crediamo di sapere. Il turista che gira con l’occhio incollato alla videocamera, che non guarda ciò che ha davanti agli occhi, ma lo filma per rivederlo a casa propria (un comportamento sempre più diffuso che, se già è molto sciocco quando si rivolge a bellezze artistiche, diventa veramente insensato quando è rivolto al paesaggio) è la prova provata di come l’immagine serva, oggi, a non farci vedere la natura. Ha ragione Ian Hamilton Finlay quando, nei suoi Pensieri sparsi sul giardinaggio, scrive che «Nel diciottesimo secolo i dipinti trovavano il loro compimento come paesaggi reali; nel ventesimo secolo i paesaggi reali trovano un compimento come fotografie». NON IMMAGINI, MA ESPERIENZE DELLA NATURA. A questo stato di cose l’arte degli ultimi decenni ha reagito spostando completamente il piano del proprio confronto con la natura. Avendo compreso che la strada dell’immagine le era preclusa, perché non è più di immagini della natura che abbiamo bisogno, dato che ne abbiamo fin troppe, molti artisti hanno cercato di dare attraverso le loro opere piuttosto delle esperienze del nostro rapporto con la natura, o per meglio dire di trasformare in opera la propria esperienza della natura. Se c’è un tratto comune alle tendenze, per tutto il resto tra loro diversissime, quali la Land Art americana degli anni Sessanta, e l’arte ambientale europea dei decenni successivi7, esso è rappresentato dal fatto che entrambe hanno compreso che il patto mimetico che legava l’arte alla natura è andato in pezzi e che nulla è più vano che cercare di ricomporlo, ragione per cui l’arte non potrà recuperare un legame con la natura riproducendola, ma solo operando all’interno di essa. Di qui l’unica parola d’ordine comune a tutte le tendenze contemporanee di arte nella natura: uscire dall’atelier, abbandonare le gallerie, cioè lo spazio artificiale dell’immagine riprodotta della natura, per agire direttamente sul paesaggio (una esposizione di questi artisti ha 5 Su questo tema è importante il saggio di H.R. JAUSS Kunst als anti-Natur: zur ästhetischen Wende nach 1789, in Sudien zum Epochenwandel der ästhetischen Moderne , Frankfurt, Suhrkamp, 1989. 6 UMBERTO BOCCIONI, Contro il paesaggio e la vecchia estetica in Pittura Scultura futuriste, Milano, Edizioni Futuriste di 'Poesia', 1914; FERDINAND LÉGER, Les réalisations picturales actuelles, in Fonctions de la peinture, Paris, Denoël-Gonthier, 1975, pag. 21. 7 Land Art è spesso un termine-ombrello che ricopre esperienze artistiche molto varie, dalla Earth Art americana fino alle tendenze dell’Art in Nature degli ultimi anni. Così accade, ad esempio, nel volume importante e documentato di GILLES TIBERGHIEN, Land Art, Paris, Editions Carré, 1995.

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scelto di intitolarsi, significativamente, The unpainted landscape, il paesaggio non dipinto, intendendo con ciò che l’arte ambientale non produce immagini di paesaggio ma agisce nel paesaggio8); di qui il rifiuto di produrre dei simulacri della natura con mezzi illusivi, e la scelta di operare direttamente con i materiali naturali. In questa fuga dallo spazio museale della galleria giocano certamente molti fattori, come la contestazione del circuito mercantile dell’arte, il desiderio personale di allontanarsi dalla città, la passione ecologica; ma la ragione più profonda, non contingente, è appunto a coscienza della crisi irrevocabile dell’immagine della natura. Se la mimesis non è più possibile, bisognerà per forza abbandonare gli spazi chiusi dove possono trovare posto solo le rappresentazioni della natura, e non la natura stessa 9. Outdoors art è forse l’unico termine veramente capace di raccogliere sotto di sé, dando un’indicazione importante, tutte le tendenze recenti di arte nella natura. Dopo, però, le strade si dividono, e cominciano a emergere differenze sostanziali quanto, appunto, al tipo di esperienza della natura che l’artista vive e fa vivere a chi guarda la sua opera. I land artists americani (in particolare Michael Heizer, ma anche, almeno in alcune delle loro realizzazioni, Robert Smithson e Walter De Maria) concepiscono l’intervento nella natura come appropriazione del paesaggio attraverso gesti plateali, invasivi, violenti. Opere come Double Negative di Heizer (due enormi trincee larghe dieci metri e profonde diciassette si fronteggiano ai due lati di un vuoto) o come, ancora di Heizer, Complex I (un grande terrapieno di terra compattata, contenuto tra mura di cemento armato) sono state realizzate spostando enormi quantità di terra con caterpillar. L’artista, qui, non ha alcun contatto diretto con la materia, è piuttosto un progettista che disegna ciò che verrà tradotto in pratica dalle macchine. La misura del suo intervento è il colossale, ciò che si impone per via della sua scala, ed è visibile anche da grande distanza (il gigantismo è stato forse la malattia infantile dell’arte ambientale). L’opera del land artist «who bulldozes the ground» non suppone un rapporto precedentemente elaborato con il paesaggio in cui si inserisce, e spesso non cerca nemmeno questo inserimento. La Land Art ha scelto come proprio ambiente di elezione lo spazio vuoto dei deserti americani, un territorio estraneo e privo di connotazioni storiche, nel quale l’opera colossale dovrebbe svettare come una piramide, e di fatto Heizer si è più volte richiamato all’architettura egizia o a quella pre-colombiana. Ma proprio questo azzardato paragone illumina la discutibile ideologia che sta dietro le opere di molta Land Art americana: l’opera colossale arcaica è il monumento di tutto un popolo, la sfida portata con mezzi rudimentali alla estraneità naturale, il segno che conserva la memoria di uno sforzo e di una fatica pressoché inimmaginabili, laddove il colosso moderno, così facilmente eseguito con l’aiuto delle macchine, sfrutta la capacità, che queste ultime ci accordano, di ignorare i limiti corporei della nostra azione. Si tratta di marcare la terra, in modo da esibire l’indizio concreto che essa «ci appartiene». Da questo punto di vista, che l’opera sia concepita come effimera, o che invece aspiri a durare indefinitamente, può perfino rivelarsi qualcosa di secondario rispetto, appunto, al tipo di esperienza che essa propizia. Gran parte delle installazioni di Christo sono concepite come interventi transitori. Running fence, una cortina di Nylon bianco, alta cinque metri e mezzo, e stesa per ben quaranta chilometri attraverso il territorio della California, è rimasta in situ solo due settimane; Valley Courtain, un enorme sipario di tessuto appeso a un cavo d’acciaio, a chiudere un’intera vallata come una diga, approntato nel 1972, ha avuto una vita più lunga, ma comunque limitata; Surrounded islands, undici isolotti della Biscayne Bay nei pressi di Miami, circondati da tessuto di propilene rosa galleggiante sull’acqua,

8 The Unpainted Landscape, Coracle Press, Scottish Art Council, 1987. 9 Si veda C. GARRAUD, L’idée de nature dans l’art contemporaine, Paris, Flammarion, 1994, pagg. 8-13. Ma la Garraud inverte a nostro avviso l’ordine delle ragioni: non è che gli artisti ambientali facciano opere non mimetiche perché hanno scelto di operare nella natura; piuttosto, hanno scelto di operare nella natura quando hanno compreso che la via mimetica era definitivamente sbarrata.

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è stata visibile per meno di un mese10. Ma la durata limitata nel tempo non è di per se stessa garanzia di un rapporto corretto con la natura. Essa può certamente limitare i danni ambientali, sempre paventati dagli ecologisti in questi casi (Surrounded islands è stata violentemente contestata), ma non incide di per se stessa sulla qualità dell’esperienza che si produce. Da questo punto di vista, le installazioni di Christo sembrano ancora prigioniere di una logica dell’Avanguardia, non solo perché si presentano spesso come gesti che hanno lo scopo primario di stupire e spiazzare lo spettatore, ma anche perché riducono la natura a corpo vile, manipolabile, disponibile come si vuole all’invasione dell’artificiale: sono operazioni programmatiche di straniamento della nostra percezione della natura. E’ significativo che la pianificazione degli interventi di Christo non richieda tanto un coinvolgimento personale dell’autore con il luogo, quanto una laboriosa (e costosa) regia ingegneristica per la soluzione dei problemi tecnici. Nei lavori di molti esponenti dell’Art in Nature (soprattutto europei,11 che hanno operato in anni più recenti troviamo orientamenti molto diversi. Anche qui, ovviamente, interventi portati direttamente nell’ambiente naturale, e rinunzia ad ogni rappresentazione della natura; ma quanto alle dimensioni, ai mezzi, ai materiali e alla relazione con l’ambiente delle installazioni, ci si muove su presupposti sostanzialmente antitetici. Non opere smisurate, ma piccole tracce spesso non facilmente percepibili, frutto della presenza e del movimento del corpo stesso dell’artista all’interno di un ambiente naturale scelto, studiato e spesso abitato a lungo dall’esecutore. L’esempio che viene per primo alla mente è quello delle linee e dei cerchi di Richard Long (non a caso sempre molto critico nei confronti della Land Art americana). A line made by walking, una delle prime iniziative di Long, è una retta tracciata in un prato camminando ripetutamente in un senso e nell’altro, dunque semplicemente abbassando l’erba con il peso del corpo. Nessuno strumento si frappone tra l’artista e la natura; la traccia è una traccia del corpo; essa è così effimera che si può immaginarla sparita qualche ora dopo la performance. Al tempo stesso, però, la forma rigidamente geometrica, la rettilineità così rara in natura allo stato puro, indicano senza ombra di dubbio la presenza e l’iniziativa dell’uomo. Tracce dello stesso genere sono i cerchi di pietre o di rami con i quali Long segnalerà, successivamente, le proprie giornate di cammino in luoghi impervi o remoti, dall’Africa alle regioni artiche. Che nelle iniziative di Long l’esperienza compiuta dall’artista faccia completamente aggio sulla rappresentazione e l’immagine (persino su quella che ha completamente rinunziato a ogni intento imitativo) è dimostrato dal fatto che talora nessuna impronta visibile è lasciata sul luogo, e l’unica testimonianza è affidata al tracciato di una mappa, magari, come in A walk of four hours and four circles per segnalare la diversa velocità con la quale si è proceduto nel cammino. L’artista nel quale l’assenza di ogni descrizione o illustrazione del proprio operare nella natura è più completa, più rigorosamente priva di eccezioni, è comunque Hamish Fulton. Fulton non lascia segni visibili delle proprie giornate di cammino; spesso indica o riassume i propri trekking , nelle esposizioni che dovrebbero documentarli, con linee, segni astratti, pure marche senza relazione con l’attività compiuta. I suoi gesti nella natura sono così evanescenti (lanci di pietre nell’acqua, piume piantate nella sabbia) che sussistono quasi soltanto nella testimonianza che ne viene data. Non a torto Fulton è stato spesso avvicinato all’arte concettuale, perché certamente, al di là delle differenze, lo accomuna al concettuale la rinunzia ascetica al corpo fisico, sensibilmente percepibile dell’opera. L’esperienza della natura propiziata da Fulton ricade nell’orizzonte mentale, per esempio nella percezione del tempo trascorso tra due passeggiate, in stagioni diverse, attraverso la medesima strada. 10 Christo. Surrounded Islands, New York, Harry N. Abram, 1985. 11 Scegliamo il termine Art in Nature per indicare le tendenze di arte ambientale elaborate in Europa su sentieri diversi da quelli della land Art, ma sono possibili molte altre denominazioni. La locuzione Art in nature è stata usata da Vittorio Fagone nel suo volume Art in Nature, Milano, Mazzotta, 1996 con riferimento ad artisti quali Giuliano Mauri, Andy Goldsworthy, Nils-Udo, Alfio Bonanno eccetera.

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Il tempo e lo spazio, le categorie fondamentali della nostra percezione, sono naturalmente al centro della riflessione della nuova arte ambientale. Nella serie dei Sites/Non sites Robert Smithson provoca la nostra rappresentazione del luogo contrapponendo lo spazio reale, esterno, all’esposizione museale di oggetti in esso prelevato. I Buried Poems di Nancy Holt (testi di poesie sotterrati in contenitori destinati a proteggerli in luoghi isolati e difficili da raggiungere) presuppongono uno studio del territorio, sia da parte dell’autrice, che si sforza di trovare corrispondenze tra esso e la persona cui la poesia è indirizzata, sia soprattutto da parte del destinatario, che deve localizzarli seguendo indicazioni geografiche e punti di riferimento locali (alberi, rocce, fiumi). Il rapporto tra spazio terrestre e spazio celeste è evidentemente alla base di progetti come il Roden Crater di James Turrel, un percorso all’interno di un cono vulcanico che prevede dei punti di osservazione astronomica, o come i Sun Tunnels della Holt, tubi di cemento orientati rispetto alla posizione del sole e delle stelle. Le Perspective corrections di Jan Dibbets spingono a meditare sul rapporto tra spazio reale e rappresentazione geometrica. Infine la figura del labirinto, che tanta attrazione ha esercitato sull’arte ambientale (e uno splendido esempio lo abbiamo in Italia, con Arianna di Italo Lanfredini, alla Fiumara d’Arte in Sicilia), è anche un modo di esibire la relazione tra uno spazio fisico e uno spazio sacrale. Al labirinto, dal lato dello spazio, può corrispondere, da quello del tempo, l’Osservatorio, altro luogo di elezione per l’arte ambientale. Anche qui, infatti, dagli osservatori di Robert Morris a quelli di Charles Ross, è una dimensione strettamente umana del tempo a essere messa in rapporto con il tempo astronomico. Ma la nostra relazione col tempo è sollecitata anche da interventi come Annual Rings o Time Pocket di Dennis Oppenheim, che sfruttano l’interferenza tra quelle immaginarie e convenzionali ‘linee del tempo’ che sono i fusi orari e le linee effettivamente tracciate sul terreno o nella neve, per non dire di quegli interventi (alcuni dovuti ancora a Oppenheim) su campi di foraggi o di cereali, al momento della semina o della raccolta, così evidentemente connessi ai ritmi della maturazione stagionale. La medesima relazione con i tempi propri della natura traspare anche dagli interventi di artisti che operano esclusivamente con materiali trovati in situ, come le foglie che Andy Goldsworthy piega, intreccia, fissa con le spine, mentre gran parte del lavoro di Giuseppe Penone si basa sulla lavorazione del legno al fine di riportare alla luce la forma della pianta in un determinato stadio di accrescimento, seguendo la guida degli anelli annuali. In un’arte che rifiuta la mimesi, e in generale la produzione di immagini, poi, è giocoforza che venga in primo piano un rapporto potente, fisico e simbolico assieme, con le materie impiegate. Lo si vede bene in Joseph Beuys, uno dei primi artisti europei che abbia sviluppato le tematiche ecologiche, con la sua passione per materiali come il grasso o il feltro, ma altrettanto vale per un altro artista tedesco meno noto, Wolfgang Laib, che raccoglie il polline dai fiori e con questa sostanza preziosa e impalpabile disegna luminosissimi tappeti o allinea piccoli mucchietti, e che costruisce con pannelli di cera camere e passaggi in cui alla vicinanza con una materia viva e insolita in tale utilizzazione si aggiunge il sottile piacere di un profumo inebriante. Le Milchsteine di Laib, parallelepipedi di marmo bianco di Carrara lievemente incavati a mano dall’artista sulla faccia superiore, e riempiti quotidianamente di latte per ripristinare la volumetria originaria, possono quasi essere assunte a emblema di un’arte che affida il proprio messaggio a un’esperienza (la cura quotidiana per ripristinare il livello del latte abbassatosi per l’evaporazione, il rapporto tra il bianco del latte e quello del marmo, il contrasto tra la durevolezza di quest’ultimo e la deperibilità della materia organica) e non alla rappresentazione, e neppure all’immagine che essa produce.12 RITORNO ALL’IMMAGINE, OVVERO IL PARADOSSO DELL’ARTE AMBIENTALE. 12 Sulle tendenze artistiche cui si è accennato in questo paragrafo, oltre ai volumi di Gilles Tiberghien, C. Garraud e V. Fagone, già citati, si può vedere: JOHN BEARDSLEY, Earthworks and Beyond. Contemporary Art in the Landscape, New York, Abbeville, 1984; ALAN SONFIST, Art in the Land. A critical anthology of environmental art, New York, Dent Dutton, 1983.

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Abbiamo detto che l’unico tratto comune alla Land art americana degli anni Sessanta-Settanta e artisti come Long, Goldsworthy o Mauri è rappresentato dal fatto che in entrambi i casi si tratta di Outdoors Art, di arte dell’ambiente aperto e non da galleria. E tuttavia c’è un altro aspetto che le due tendenze, pur così diverse, continuano a condividere. Si tratta di un aspetto che i testi sull’arte ambientale raramente tematizzano, e che anzi, per ovvi motivi, tendono a tacere. Quel che unisce le opere gigantesche, invasive e irrispettose dell’ambiente di certa Land Art, e gli interventi minimi, attenti ed ecologicamente corretti di molta Art in Nature, è il fatto che tanto le prime che i secondi sono effettivamente visti da pochissime persone, cioè che quasi nessuno, anche fra coloro che ne parlano e se ne interessano (ed è una esigua minoranza all’interno del già non larghissimo pubblico dell’arte contemporanea), ha avuto realmente il modo di osservare queste opere direttamente. Le ragioni possono essere, nell’un caso e nell’altro, molto diverse. Per le grandi opere dei land artists, pesa il fatto che esse si trovano spesso in luoghi remoti, difficilmente accessibili (deserti, laghi salati, regioni montuose), e che esse, non ostante la loro monumentalità, possono avere vita breve per via di fenomeni naturali (la Spiral Jetty di Smithson è stata sommersa dalle acque, e non è più visibile se non, come ombra sotto la superficie liquida, da chi sorvoli la zona). Per le altre, conta soprattutto il fatto che esse vengono spesso concepite come effimere, sono fatte con materiali che il soffiare dei vento o il cadere della pioggia disperde e altera rapidamente, e poi naturalmente la loro ubicazione in zone non facili da raggiungere, la stessa tenuità della traccia che costituiscono, e che spesso è pensata fin dall’inizio come difficilmente distinguibile da una forma naturale e casuale. Non è, come ben si comprende, un problema di conservazione. Quando un artista come Nils-Udo mette dei fiori di campanula rovesciati su di una foglia, e li fa flottare in uno stagno, o quando Goldsworthy cuce delle foglie d’iris con delle spine e riempie gli spazi che così si formano con delle bacche rosse, facendo galleggiare il tutto sull’acqua, è chiaro che si tratta di ‘opere’ che può vedere solo chi assiste alla loro creazione da parte dell’artista: più che di ‘opere’, verrebbe da parlare di performances, se non fosse che esse non sono affatto concepite come tali, e per esempio non sono pensate per un pubblico. Per quanto quasi tutti gli artisti impegnati in questo genere di attività tendano a negarlo o a rimuoverlo, quest’arte vive e viene vista quasi soltanto in fotografia, ossia quasi soltanto attraverso riproduzioni. Torna ad essere, contro ogni intenzione, pura immagine, percepita senza alcun legame con l’ambiente in cui è nata e che spesso ha fornito i materiali con cui è fatta. Come si viene a conoscenza delle opere d’arte ambientale? Attraverso mostre in cui sono esibite, per lo più, le loro foto, oppure in cui esse (come i cerchi di pietre di Long) sono assemblate in uno spazio che è quanto di più lontano si possa immaginare da un ambiente naturale. Altre volte, attraverso video. Più spesso ancora, le vediamo nelle pagine di un libro, che non obbligatoriamente è un libro sull’arte ambientale, e può essere talvolta un libro di fotografie pensato dallo stesso artista. Christo fabbrica (e vende) modelli in scala ridotta delle installazioni gigantesche che progetta sul terreno. Un’arte che era nata in antitesi all’immagine torna ad essere pura immagine come tanta arte tradizionale, anzi persino più di essa, perché mentre per l’arte tradizionale, se anche è vero che essa viene molto spesso fruita in riproduzione, è sempre possibile il confronto diretto con l’opera, qui tale confronto è spessissimo o arduo o del tutto impossibile. Il paradosso è troppo palese perché, di tanto in tanto, qualcuno non lo noti. Solo che per lo più ci si limita a segnalare che, per una sorta di nemesi, un’arte che voleva uscire dalle gallerie, rifiutare lo spazio espositivo, proporsi in ambienti del tutto diversi da quelli tradizionali, torna in buon ordine nell’atelier, rientra nel circuito commerciale: si venderanno non le opere, che magari non ci sono più o non ci sono mai state (come nel caso di Hamish Fulton), ma le loro foto, o i loro modelli, o i loro progetti. E’ solo l’aspetto, diciamo così, sociale o politico della questione che viene preso in considerazione. Ma in questo modo non si vede, o si finge di non vedere, il dato veramente singolare, e cioé che un’arte che può concepirsi soltanto come esperienza, e non come immagine, può essere fruita esclusivamente come immagine, e non come esperienza. Gli autori, colti sul

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fatto, divagano. Michael Heizer, per esempio, riduce tutto a una questione di pigrizia dell’utente. «Molta gente -dice- si lamenta del fatto che nessuno verrà a vedere queste opere, perché si trovano in posti troppo remoti, eppure si danno da fare per andare in Europa ogni anno; voi non vi lamentate affatto e non dite che non andrete a vedere le Piramidi perché sono all’altro capo del mondo, al centro dell’Egitto: ci andate e basta». Dove è da notare non soltanto la modestia di chi avvicina opere tanto massicce quanto stupide come Complex I e Complex II alle Piramidi, o l’ignoranza vera o simulata di chi non sa che queste ultime non sono affatto inaccessibili in mezzo all’Egitto, ma stanno, almeno le più famose, alla periferia del Cairo, ma anche la pervicace volontà di negare uno stato di cose che, è lecito pensare, non potrà cambiare in futuro (probabilmente i già pochi curiosi che intraprendono il viaggio per vedere Complex City non sono destinati ad aumentare di molto nei prossimi anni). Una pervicacia del resto condivisa anche dall’altra parte (cioè da quella dell’arte ambientale più soft), se Richard Long ha detto «E’ falso pensare che le mie sculture di paesaggi non vengano mai viste. Sono viste talora dagli abitanti della regione, talvolta mentre le sto facendo, oppure sono scoperte per caso d persone che possono non riconoscerle per arte, ma che tuttavia le vedono». Qui c’è parecchia falsa coscienza: Long sa benissimo che le sue sculture sono ‘viste’ innanzi tutto dai frequentatori delle sue mostre, dagli acquirenti dei libri su di lui, ossia non sono ‘viste’ affatto, se non attraverso la mediazione fotografica. Walter De Maria scrive a proposito del suo ormai celebre Lightning Field che «nessuna fotografia, serie di fotografie o altro tipo di immagine registrata può rappresentare completamente Lightning Field», ma intanto non esiste forse opera di Land Art altrettanto fotografata, e con buone ragioni. Essa è infatti costituita da quattrocento sbarre di acciaio acuminate, disposte in un rettangolo di un chilometro per un chilometro e seicento metri, su di un terreno pianeggiante del Nuovo Messico. Le sbarre funzionano da parafulmine, e in caso di temporale dovrebbero attirare le folgori, offrendo uno spettacolo che ha fatto molto parlare di un «nuovo sublime». Ma poiché i temporali non ci sono tutti i giorni, il visitatore dovrebbe avere una buona dose di fortuna per vedere Lightning Field , per dir così, nel pieno esercizio delle sue funzioni. Ecco allora che quasi tutti i libri sulla Land Art offrono come pezzo forte, al loro interno, una bella foto dell’opera di De Maria col suo bel fulmine che si scarica a terra. Nancy Holt se la cava suggerendo che la riproduzione fotografica può essere uno stimolo a recarsi sul posto per vedere ‘dal vivo’ le opere, il che è sempre un sottovalutare il problema, perché suppone che, comunque, la riproduzione possa far sorgere la curiosità o l’interesse, e cioè renda in ogni caso giustizia all’opera, ciò che è ben lungi dall’essere vero. Assai più che nel caso di altri tipi di arte, la riproduzione può rivelarsi del tutto incapace di adempiere anche soltanto quell’opera di mediazione e di stimolo alla conoscenza diretta cui è chiamata. Le foto ingannano, presentano vedute parziali, non riescono (a meno che non siano, a loro volta, opere d’arte) a dirci veramente cosa sono i luoghi in cui le opere si inseriscono. Chi ha visto solo le foto di quell’intervento straordinario che è il grande cretto steso da Alberto Burri sui ruderi di Gibellina Vecchia, è del tutto legittimato a credere che si tratti di un’operazione cerebrale e falsa, il semplice trasporto su scala gigantesca di un modulo collaudato nelle opere museali di Burri. Bisogna essere stati a Gibellina Vecchia, aver percorso la strada dissestata che, transitando davanti al cimitero (l’unica cosa ancora viva della città completamente distrutta), attraversa i pochi ruderi spettrali ancora rimasti in piedi e conduce all’immenso sudario gettato da Burri sul terreno, bisogna aver percorso gli spazi tra i cretti, quei simulacri di strade completamente vuote e prive di funzione, bisogna aver visto il bianco abbacinante e luttuoso di quel cemento per sapere che cos’è il cretto di Burri. le foto non bastano, anzi tradiscono il vero aspetto delle cose. Così, chi non è mai stato dentro il Double Negative di Heizer (altra opera difficilissima da fotografare) non potrà mai decidere se le parole con le quali lo descrive Rosalind Krauss sono giustificate: «Benché l'opera sia simmetrica e dotata di un centro (il punto medio del burrone che separa le due incisioni) questo centro si sottrae e ci resta inaccessibile. Possiamo solo

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stare in uno degli scavi e considerare l'altro a partire da questa posizione. Meglio: è soltanto guardando l'altro spazio che ci formiamo un'immagine di quello in cui noi stiamo»13. Al massimo, quello che si troverà presso gli artisti ambientali è una riflessione sui limiti e le convenzioni della rappresentazione e dell’immagine. Ma quasi sempre tale riflessione sembra riguardare non il rapporto con la natura, non l’esperienza dell’ambiente, ma soltanto le convenzioni percettive, che possono costituire problema in qualsiasi rappresentazione. I lavori di Dibbets sulla prospettiva ne sono un esempio. Forse il solo ad avere avviato una ricerca veramente approfondita sul significato dell’immagine per un’arte dell’ambiente è stato Robert Smithson. I suoi Sites/Non sites sono anche, e forse soprattutto, una meditazione sulla impossibilità di rappresentare la natura, e sulla convenzionalità delle nostre immagini di essa. E non a caso proprio Smithson è arrivato alla conclusione che con la fotografia, la natura è diventata un concetto impossibile. Artisti come Richard Long, Hamish Fulton e Andy Goldsworthy hanno invece fatto di necessità virtù e hanno deciso di tener conto dell’intermediario fotografico attraverso il quale le loro opere saranno prevalentemente conosciute fino a far entrare la questione delle immagini fotografiche nella progettazione stessa dei loro interventi. Cosi, checché ne dicano gli interessati, le loro opere vengono realizzate soprattutto per essere fotografate. Questo è palese in Fulton, che non producendo nessuna trasformazione visibile nei luoghi che attraversa è sostanzialmente un fotografo del paesaggio, ma lo è anche negli altri due. Golsdworthy è un fotografo molto dotato, e ci si potrebbe chiedere se i suoi interventi avrebbero avuto altrettanta fortuna senza il supporto di fotografie vivaci e singolari. Così come ci si può chiedere cosa ne sarebbe delle linee prodotte da Long camminando nell’erba se non ci fossero le foto a immortalarle. Foto apparentemente dimesse e del tutto ordinarie, in realtà ben funzionali a una certa mistica del gesto ecologico e minimalista: chi le guarda vede più di quel che vede, perché vede quello che già sa, ossia il gesto nella natura selvaggia, il gesto di un uomo solo che segna la natura con le sole forze del suo corpo. Con ciò, però, siamo tornati pericolosamente vicino alla logica dell’immagine turistica della natura: perché non c’è più esperienza della natura, c’è soltanto la conferma del già saputo. Che questo già saputo sia nell’un caso lo stereotipo del bel paesaggio e nell’altro l’idea dell’ecologicamente corretto non fa troppa differenza, dal punto di vista di quel che giunge al fruitore. Il quale se ne sta a casa propria o in galleria, e guarda delle immagini che non possono comunicargli se non in minima parte l’esperienza compiuta effettivamente dall’artista. Se in ogni arte, forse, è presente uno iato tra quel che l’opera significa per chi la fa e quel che essa può dire a chi si limita a osservarla, qui lo iato si trasforma in insuperabile abisso. Da un lato abbiamo artisti che studiano gli ambienti, i materiali, i climi, vivono nella natura e agiscono all’interno di essa; dall’altro uno spettatore per il quale tutto questo è, ancora e sempre, solo una serie di immagini. E’ possibile, per un’arte che scelga di operare nella e con la natura, sfuggire a questi paradossi? Forse sì, a patto però che essa abbandoni alcune velleità, la mistica facile della natura lontana, incontaminata e selvaggia, e scelga di confrontarsi, più di quanto abbia fatto finora, con gli altri tipi di intervento artistico nello spazio naturale. E’ piuttosto sorprendente notare come architettura di paesaggio, giardinaggio e arte nella natura siano spesso tre mondi poco o nulla comunicanti, anche se il loro ufficio, a ben vedere, è singolarmente simile. E’ vero che alcuni land artists come Morris sono stati coinvolti in opere di Land reclamation, di recupero di aree ambientali degradate (cave, discariche etc.). C'è da dire però che questo potrebbe avvenire assai più di frequente, se solo molta arte ambientale lasciasse definitivamente da parte un certo atteggiamento che sembra ancora legarla, oltre ogni logica, all’Avanguardia. Pensiamo alla volontà di sorprendere lo spettatore, di presentargli qualcosa di straniante, che talvolta scade in prodotti puerili, subito risucchiati dal consumo. L’esempio della Harvest Art, i disegni prodotti nei campi raccogliendo erbe o cereali secondo uno schema, dovrebbe insegnare, se è vero che le 13 R. KRAUSS, Passaggi. Storia della Scultura da Rodin alla Land Art, Milano, Bruno Mondadori, 1998, pag. 290.

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immagini singolari che così si ottengono è ormai facile vederle impiegate nella pubblicità di prodotti agricoli o anche come sfondo di quella delle automobili. L’ arte ambientale dovrebbe sempre tenere a mente che il suo fine è permettere un’esperienza della natura, e se lo farà non dovrà più guardare con una certa condiscendenza, per esempio, l’allestimento del giardino o del parco. Un artista come Ian Hamilton Finlay, che ha creato in Scozia il giardino di Little Sparta come ambiente per le proprie opere, ha posto proprio l’idea di giardino al centro della sua teorizzazione14. Ma anche l’esperienza dei parchi-museo, in Italia e altrove, mostra che si può fare un’arte ambientale accessibile, che possa essere vista e che possa guidare i visitatori compiere un’esperienza non banale, non massificata, della natura circostante15. Nel volume a cura di S. Kemal e I. Gaskell Landscape, natural beauty and the art si può leggere un saggio, a firma di Stephanie Ross, nel quale si argomenta questa tesi curiosa: che l’arte dei giardini, fiorente nel diciottesimo secolo, è poi sfiorita perché non ha saputo diventare un’arte d’Avanguardia; oggi, la Land Art e gli Earthworks sarebbero proprio quell’Avanguardia che è sempre mancata all’arte del giardino. L’arte ambientale si candiderebbe cioè a soppiantare il giardinaggio, almeno quello inteso come arte. Ma forse è un po’ più vero il contrario, e cioè che l’arte ambientale avrebbe tutto da guadagnare se riuscisse a imparare dall’arte dei giardini. Se riuscisse, cioè, a renderci possibile una esperienza della natura, nella natura, senza bisogno di inseguire una natura lontana, o di sorprenderci con invenzioni stravaganti. Se riuscisse a riconciliarci con la natura, facendocela effettivamente conoscere meglio. Se riuscisse a farci davvero conoscere la natura, e non solo le sue immagini. * Testo fornito dall’autore in occasione del seminario del Dottorato in Progettazione Paesistica sul tema"Il significato estetico del paesaggio" del 30 maggio 2004 promosso da Anna Lambertini. ** Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Roma 3. Testo acquisito dalla redazione nel giugno 2004. Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

14 Su Ian Hamilton Finlay si veda ALBERT FINLAY (a cura di) Wood Notes Wild. Essays on the Poetry and Art of Ian Hamilton Finlay, Edinbourgh, Polygon, 1995. 15 Su questo argomento si può vedere I parchi museo di scultura in Italia, numero speciale della rivista “Arte e Critica”, Anno V, numero 14 (numero a cura di R. LAMBARELLI e D. BIGI).

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RI-VISTA Ricerche per la progettazione del paesaggio Anno 1 - numero 1- gennaio/giugno 2004 Firenze University Press

RIFLESSIONI

CON

MARIA GOULA

SULL’ARCHITETTURA DEL PAESAGGIO

EUROPEA Claudia Cassatella* e Francesca Torello** ABSTRACT Maria Goula, architetto, è Professore di Teoria del Paesaggio presso il Corso di Laurea Specialistica di Paesaggio, Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Barcellona (ETSAB), ed è membro del Comitato organizzatore della Biennale Europea di Paesaggio di Barcellona. Le autrici l’hanno incontrata in occasione della sua presenza a Torino per la rassegna internazionale Creare Paesaggi. Realizzazioni, teorie e progetti in Europa (luglio 2004), e le hanno chiesto una riflessione sull’architettura del paesaggio in Europa sui temi della terza edizione della biennale, “Only with nature”, e sulla situazione della professione e dell’insegnamento a Barcellona. PAROLE CHIAVE Maria Goula, Only with nature, Barcellona

Maria Goula, architetto, è Professore di Teoria del Paesaggio presso il Corso di Laurea Specialistica di Paesaggio, Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Barcellona (ETSAB), ed è membro del Comitato organizzatore della Biennale Europea di Paesaggio di Barcellona. In occasione della sua presenza a Torino per la rassegna internazionale Creare Paesaggi. Realizzazioni, teorie e progetti in Europa (luglio 2004), le abbiamo chiesto una difficile riflessione sull’architettura del paesaggio in Europa, a partire dall’osservatorio privilegiato di chi ha scorso e selezionato centinaia di progetti per ognuna delle tre edizioni della biennale; abbiamo discusso con lei sui temi della terza edizione, “Only with nature”, e sulla situazione della professione e dell’insegnamento a Barcellona. Nel novembre del 2003 si è svolta la terza edizione della Biennale Europea del Paesaggio di Barcellona, nell'ambito della quale viene assegnato il premio "Rosa Barba". In qualità di membro del comitato organizzatore, quali pensa che siano le idee guida, gli obiettivi, i risultati del concorso internazionale? La manifestazione è ormai giunta alla terza edizione. Ritiene che sia possibile identificare una cultura europea del progetto di paesaggio, che superi le singole tradizioni nazionali? Quali sono i caratteri che la contraddistinguono, permettendo di distinguerla dalla tradizione americana, o da quella orientale? La Biennale Europea del Paesaggio è stata in principio un'iniziativa accademica, i cui inizi coincisero con un momento di grande interesse per il paesaggio, con la maturità e l'apertura internazionale del Master di Architettura del Paesaggio e la creazione del primo corso di studi di paesaggio in Spagna, presso la Scuola di Architettura di Barcellona. L'iniziativa rispondeva alla necessità di vincolare l'esperienza accademica con la pratica professionale. In quel momento, sembrò molto importante che le relazioni con l'ambiente

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professionale fossero allargate anche al di fuori dell'ambito locale, con il quale veniva da sempre mantenuto un legame molto stretto, sia perchè la Scuola di Barcellona tradizionalmente affronta temi calati nella realtà e nell'attualità, sia perché vi insegnano noti professionisti. La decisione di fare riferimento ad un contesto europeo fu certamente ambiziosa, ma crediamo anche giusta, dal momento che si tratta di uno spazio vicino e di un punto di riferimento costante, che è necessario esplorare e mettere a frutto. Gli obiettivi della Biennale sono stati e continuano ad essere simili a quelli di un osservatorio: da un lato, inventariare, registrare, far emergere l'opera costruita in Europa durante gli ultimi quattro anni; dall'altro, provocare il dibattito a partire da un convegno e fare il punto con la pubblicazione di un catalogo. In parallelo, il premio europeo di paesaggio "Rosa Barba", che accompagna la Biennale a partire dalla scomparsa della sua fondatrice ed è dedicato alla sua memoria, ha l'obiettivo di promuovere la buona pratica, premiando opere eccezionali; in modo particolare, quelle che combinano la buona realizzazione con l'esplorazione e l'apertura di nuovi percorsi nel progetto ambientale. La Biennale di paesaggio per il momento è unica; questo succede non perché non ci siano altri tentativi di presentare e comunicare le opere contemporanee di paesaggio, la maggioranza dei quali sono di altissima qualità ed efficacia, anche se di minor portata, ma perché la biennale sta creando uno spazio di riferimento europeo, e dall'altro perché è aperta a tutti. Una delle scelte sempre difese da Jordi Bellmunt (membro fondatore del comitato organizzatore) è quella di limitare al minimo la selezione dei lavori: ovvero, escludere dalla partecipazione unicamente le opere che non corrispondono ai requisiti, o per le quali è stato inviato materiale di qualità molto scarsa. Crediamo che ciò sia molto importante, perché in questo modo esporre alla Biennale non costa nulla e dipende solamente dalla volontà dei professionisti. Dopo aver organizzato la manifestazione per tre edizioni consecutive, sappiamo che la creazione di questo spazio europeo è lenta. Tuttavia, ogni volta raggiungiamo più territori, più professionisti. La biennale come esposizione non pretende di essere esaustiva né rappresentativa, però, per la quantità dei progetti presentati possiamo affermare che ha il polso della professione in Europa. A proposito del tema della costruzione di una tradizione europea, vorrei far riferimento al fatto che l'identità, per fortuna, è un concetto che si modifica e, come ogni concetto astratto, dipende dalla distanza tra il punto di vista e l'oggetto osservato. Negli ultimi 10 anni noi membri del comitato organizzatore della Biennale, anche grazie ad accordi accademici e di ricerca, abbiamo avuto un duplice contatto con la disciplina in Europa: avvicinandoci alle realizzazioni concrete, ma anche seguendo e appoggiando altre iniziative accademiche. Questa esperienza ci convince che l'unica idea sensata è quella che esistono molte Europe, e che lo spazio europeo come spazio economico e politico, sociale e culturale, sia ancora in costruzione. Probabilmente saremo tutti d'accordo ad ammettere che per molto tempo siamo stati testimoni di prestiti, o direttamente dell'importazione di paradigmi disciplinari, scientifici o culturali dai centri dominanti della cultura, i quali, a loro volta, vengono rapidamente soppiantati. E che, ultimamente, gli scambi e le influenze sono, e saranno in futuro, sempre più intensi. Tuttavia esistono geografie occulte, vi sono frontiere e paradigmi locali da scoprire. Intuiamo che il paesaggio in Europa è un mosaico variabile ed eterogeneo ma, per il momento, non conosciamo questo mosaico nella sua totalità. I contatti che abbiamo instaurato e la conoscenza delle tradizioni locali danno origine ad una cartografia estremamente frammentaria. Nello stesso tempo, la ricorrente alternativa, tra mantenere la 2


tradizione e aumentare la libertà di invenzione, incide anche sulle tradizioni più forti, come quella francese, l'anglosassone o le germaniche e si incomincia a notare una ristrutturazione della disciplina. Credo che a partire dalla nostra esperienza si veda chiaramente come gli sguardi tra una cultura e l'altra siano sempre più diretti e sempre più reciproci. Mi riferisco, per esempio, al fatto che gli architetti di Barcellona coinvolti nella progettazione ambientale stiano esplorando i paesaggisti francesi, o le avanguardie in tema di gestione delle risorse di paesi come Olanda e Danimarca, come si fece a suo tempo con il paradigma ambientalista americano. Allo stesso tempo, tutti conosciamo l'interesse di questi stessi "centri" per lo spazio pubblico e l'urbanistica di Barcellona e sempre più anche per la sua recente esperienza di paesaggio. Per questo motivo credo che viviamo immersi in un processo in cui le cristallizzazioni culturali in ambito progettuale sono intense ma raramente danno forma ad una tradizione che sia principalmente di lunga durata e di spirito localista. Il tema di questa edizione è “Solo con la natura”. Il filosofo francese Alain Rogér ha denunciato con forza la tendenza a ecologizzare il paesaggio (ovvero, a ricondurre il paesaggio, un fenomeno estetico, a un fenomeno ecologico). Questa tendenza si osserva anche in Spagna? In realtà, la architettura del paesaggio spagnola che si può vedere sulle riviste sembra più "dura", fatta di materiali inerti, forme antiorganiche, completamente slegata dal desiderio di una "natura naturale". L'ecologia agisce forse su un piano diverso, che non si rappresenta esplicitamente, o si tratta di una differenza di tipi di intervento, di scala? Facciamo un esempio: il progetto per il Besós, un fiume, ma anche un contesto completamente urbano. Che tipo di intervento si attua in questo caso? Come si confrontano i progetti con ciascuno dei due aspetti? Il paesaggio, sebbene probabilmente susciti tanto interesse in quanto ultimo prodotto di consumo della natura, per noi, i progettisti, consente una nuova opportunità. Questa consiste nel poter concepire l'ambiente e il progetto ambientale a partire da una nuova convenzione, che pone in costante tensione e soprattutto destabilizza la dicotomia proposta dalla modernità, già dal XVIII secolo, tra il naturale e l'artificiale. Molte discipline si rifugiarono o basarono i propri paradigmi su questa dualità, in fondo tranquillizzante. Non credo che nessuno rinuncerebbe al richiamo verso approssimazioni olistiche o trasversali, in cui la conoscenza tra i rispettivi segmenti o punti di vista non è gerarchica e gli scambi di conoscenza scorrono in modo orizzontale, anche se a volte sembra che le inerzie della pratica lo smentiscano. Inoltre sono convinta che questa divergenza tra duro e morbido, tra naturale e artificiale si consideri a partire dall'apparenza. Credo che in questa sede due temi siano importanti: uno è il contesto in cui si realizza l'opera, le condizioni, le variabili del progetto nel senso più ampio del termine. L'altro è la prevalenza di criteri formali nella fase di valutazione dell'opera, ovvero l'apparente necessità che questa offra una immagine globale, sintetica e identificabile. A proposito del primo tema: è vero che il paesaggio realizzato nel Mediterraneo, e soprattutto in Spagna, dal momento che vi è una intensa attività anche attorno alla costruzione di opere pubbliche, potrebbe essere inteso come esplorazione, in alcuni casi straordinaria, dell'artificio. Non mi riferisco solo a progetti in cui la principale preoccupazione nasce dal progetto della pavimentazione, che di solito è un rivestimento duro. Nella Biennale in molti casi ci siamo resi conto che progetti realizzati in paesi 3


mediterranei, in cui il colore e l'aspetto della vegetazione non sono spettacolari, o anche progetti realizzati in paesi settentrionali, situati in delta, polder, dighe ecc. si percepiscono di solito come "duri" in confronto con altri paesaggi esuberanti; si arriva perfino a trasmettere una forte condizione di naturalità in progetti situati in ambienti considerati "naturali" per eccellenza, come l'alta montagna, anche qualora l'intervento di per sé, pur essendo intelligente e sensibile, e suscitando domande sulla valutazione e sulla percezione del paesaggio, sulle sue scale e sui suoi tempi, come nel caso del progetto di Paolo Bürgi nelle Alpi Svizzere, si muova essenzialmente nel territorio dell'artificiale. D'altra parte, per quanto riguarda la relazione con il contesto, i cataloghi della Biennale mostrano che la maggioranza dei progetti sono situati in contesti fortemente urbanizzati. E' un luogo comune che l'architettura del paesaggio, come paradigma o come disciplina, apporti per il momento più alla città e meno al territorio, nel quale la gestione della natura al massimo si situa tra l'apatia e il protezionismo di quei valori che l'ambientalismo come cultura ha ottenuto di divulgare. A proposito del secondo tema: i progetti pubblicati sulle riviste internazionali, in gran parte decisamente interessanti dal punto di vista concettuale e realizzati ad alto livello, come la maggioranza dei progetti che sono stati presentati nelle tre edizioni della Biennale di Paesaggio, sono materializzazioni di decisioni e di gestione di variabili complesse. Le risposte presentano di solito soluzioni che per la maggior parte creano una nuova immagine globale o parziale, con l'ambizione di arrivare ad essere una immagine nitida e facilmente riconoscibile. Di fatto molti progetti apprezzati in Europa, dal giardino di Telépolis di West 8, al giardino botanico di Barcellona, di Ferrater, Canosa e Figueras, al giardino botanico di Bordeaux di Catherine Mosbach, fino al progetto appena ultimato di Batlle i Roig per il recupero di una discarica nei dintorni di Barcelona , per fare riferimento ad alcuni ampiamente pubblicati, ottengono che il progetto abbia alla fine quest'immagine forte, vigorosa, direi gestaltica. In realtà, si tratta di come gestire le condizioni, alcune delle quali vive in processi complessi e frequentemente incontrollabili, attraverso l'artificio, e un artificio formalmente nitido, che introduca nuovi significati. Questa posizione è molto radicata nella cultura del progetto, al punto che direi che non abbiamo strumenti o valori per ciò che chiamiamo naturale, e che in linguaggio formale chiamiamo organico, per incorporarlo nei meccanismi del progetto, per poterlo capire, non da una posizione ideologica, ma invece come qualcosa di inerente ai materiali del progetto. La 3ª Biennale con il titolo “solo con la natura” ha voluto riscattare, rendere più visibili quegli interventi che alla fine abbiamo raggruppato sotto il titolo di "forze". Come questo indica, si tratta di interventi che hanno come tema principale il lavoro con la materia e le forze "vive". Ci siamo riproposti di focalizzare la discussione, in modo provocatorio, su progetti con una vocazione meno finalizzata e che lavorano con i processi, ma sempre partendo dalla convinzione che il naturale è semplicemente un altro filtro culturale che dirige e sistematizza la interpretazione della realtà che ci attornia e di cui facciamo parte. Nell'ultimo decennio l'attenzione internazionale si è focalizzata su Barcellona, specialmente per la realizzazione di spazi pubblici e aree verdi. Oggi Barcellona sembra alla ricerca di nuove occasioni per concentrare nuovamente su di sé l'attenzione internazionale, in modo particolare attraverso l'attività di riorganizzazione urbana e di preparazione mediatica del Forum delle Culture del 2004. Come giudica le realizzazioni passate e le attuali? Quali sono gli aspetti più interessanti degli interventi recenti? Come si percepiscono oggi le più famose architetture e le trasformazioni urbane del 1992, che compiono dieci anni di vita?

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La ricostruzione della città di Barcellona attraverso la trasformazione e l'invenzione dello spazio pubblico, principalmente dovuta al pretesto di un evento sportivo internazionale, come le Olimpiadi, fu il frutto della maturità della teoria urbanistica, e di una notevole sincronicità, sicuramente molto difficile da ottenere, tra partecipazione della popolazione con necessità di vero cambiamento, volontà politica di realizzarlo, e un'incredibile volontà di superarsi da parte di alcuni professionisti, per la maggior parte giovani e senza esperienza. Questo spazio pubblico, in realtà, non ha smesso di essere prodotto, dal momento che le Olimpiadi permisero la ristrutturazione di gran parte della città consolidata, però molto rimase da migliorare, la maggior parte dell'area metropolitana della città rimase in attesa di cambiamento. Recentemente si parla dello spazio pubblico di Barcellona dal punto di vista di una polarità tra il 1992 e il 2004, con il Forum delle Culture; in realtà, credo che ciò non corrisponda alla realtà, ma piuttosto rifletta una idea mediatica della città. Tale idea non è equivoca e nemmeno falsa, dal momento che Barcellona, o meglio, coloro che la gestiscono politicamente, seguono le basi del marketing turistico attuale. Pero, come sempre, la percezione dal punto di vista della città e le esposizioni di progetti i corso a Barcellona, confermano la coesistenza di molte esperienze in relazione con lo spazio aperto. Trovo particolarmente interessante una esperienza di creazione di spazio pubblico che si sta realizzando negli ultimi 15 anni nei comuni che costituiscono l'ara metropolitana di Barcellona. Con progettisti giovani, bassi investimenti e per iniziativa delle amministrazioni, si costruiscono parchi, piazze ecc. in modo modesto, nei confini di comuni periferici, ricucendo e migliorando infrastrutture e viabilità, su terreni agricoli, interstizi senza valore riconosciuto, dove si dimostra chiaramente, credo, un cambiamento di paradigma rispetto allo spazio pubblico dell'inizio degli anni '80, verso esplorazioni che ampliano il limite forzato che impone la dualità artificiale - naturale. Questo ribaltamento nel paradigma si deve principalmente ad un cambiamento dei luoghi del progetto, in cui il naturale, benché eroso e apparentemente senza forza, riprende un posto di primo piano; voglio però credere che in più, rifletta un cambiamento di attitudine. Penso che tra alcuni anni sapremo apprezzare questi apporti, ne quali l'ordinario, ciò che non ha un valore riconosciuto, si dispiega e costruisce una immagine mediterranea nella quale la vegetazione assume il ruolo di protagonista. A proposito del Forum: si tratta di un tema piuttosto complesso che ha suscitato polemiche, anche se non così tante come si sperava in ambiente professionale. A proposito dell'evento in sé, credo che sia un esempio di una certa autocompiacenza che caratterizza le culture dominanti in occidente quando avvicinano ciò che è alternativo, o si ispirano ad esso; da cui si crede che congressi o giornate di studio, se pure di altissimo livello, possano confondersi con la partecipazione della popolazione, o un ambiente gestito, controllato, in cui si entra a pagamento ed effimero (spero!) possa arrivare a essere una iniziativa effettiva a favore dell'integrazione delle culture. Tuttavia, a parte rispetto all'evento in sé, sebbene sia ad esso fortemente vincolata, è la questione urbanistica. Si tratta di una serie di azioni ugualmente ambiziose, dal momento che non si tratta semplicemente della sola area fieristica, ma di collegare e risvegliare i quartieri adiacenti - eterogenei, con destinazioni d'uso in conflitto tra loro - di offrire un fronte continuo dal lato del mare, tanto apprezzato da tutti in questi ultimi anni, come spazio per eccellenza di una città che aveva sempre vissuto volgendogli le spalle - e di "portare a compimento" in realtà, una zona molto centrale della città. E tutto ciò succede in un contesto di frontiera, ibrido, tra il mare e un delta esiguo, di un fiume contaminato per anni, che si cerca di recuperare, su un terreno confinato in cui la città ha riversato ogni tipo di infrastruttura indesiderabile.

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Se parlassimo del Forum non tanto come richiamo mediatico per Barcellona - in realtà non ha nemmeno funzionato tanto - ma invece come di uno spazio urbano, uno dei suoi componenti principali, sicuramente quello che doveva accettare una scommessa ben definita e veramente difficile, allora è stato premiato nella Biennale di Venezia ora in corso il progetto di piazza e placca fotovoltaica di Torres y Martínez LaPeña, che hanno saputo rispondere con l'intensità che li caratterizza abitualmente. Possiamo dire che si tratta di molti pezzi con obiettivi distinti, che non possono essere valutati immediatamente, perché ciò comporta una valutazione della strategia globale, e d'altro lato gli obiettivi specifici, con il risultato finale nel tempo. Tuttavia c'è un aspetto in generale che mi preoccupa molto. Si tratta della rinuncia al comfort, un aspetto basilare dell'architettura che invece manca alla quasi totalità degli spazi aperti del forum, e questo, proprio perché è una delle condizioni di base dell'architettura, non è un tema di cui si possa discutere partendo da luoghi comuni come spazio duro o morbido. Infine, a proposito del fatto di progettare la città ancora "non finita": per noi che esploriamo la città, ciò che non è completo, che è in attesa, mantiene ancora la forza del desiderio e della libertà. E' capace l'architettura, ma anche l'architettura del paesaggio attuale, di creare attività in questi luoghi, di dare agli utilizzatori, e non solo agli abitanti, condizioni di uguaglianza, di offrire il tanto richiesto comfort, senza che questa forza della libertà del vuoto si perda nella trama di una nuova vita progettata? O saremo capaci di inventare spazi che migliorano le condizioni dei luoghi senza cancellare i segni della vita esistente? Non sono molto ottimista e da questo punto di vista credo che i paradigmi attuali, per quanto sembri che siano ispirati o che si aprano a ciò che è altro - questo altro potrebbe essere la partecipazione, o la introduzione di processi naturali - ancora fanno un uso metonimico delle qualità di questo altro e sono anchilosati in espressioni convenzionali. Nonostante tutto, dal punto di vista di professionista attiva, ammiro le culture pragmatiche e attiviste come l'olandese o la catalana, per citarne alcune, che affrontano problemi reali e complessi con sforzo continuo. Ancora alcune domande sulla professione dell'architetto del paesaggio. In Spagna, o almeno a barcellona, sembra che una generazione di architetti del paesaggio si sia formata direttamente sul campo, grazie all'opportunità di realizzare i propri progetti. Quest'idea corrisponde alla realtà, o esisteva precedentemente una tradizione di architettura del paesaggio? Lei è attiva anche in ambito professionale. Quale ritiene che dovrebbe essere lo spazio dei concorsi? Nell'architettura del paesaggio, lo "star system" è più ristretto e debole che in architettura. A Barcellona sono attive alcune di queste "stelle", con uno stile riconoscibile. Secondo la sua opinione, l'architettura "dei grandi nomi" è più vendibile? Il pubblico si rende conto della differenza? Quali sono i problemi che questa situazione potrebbe creare? Lei insegna nell'ambito di un Master che forma studenti di tutto il mondo. Quali sono le sensazioni, o problemi, le riflessioni che questa esperienza le offre, a proposito del tema dell'insegnamento dell'architettura del paesaggio in un contesto internazionale? A proposito dell'esistenza di una tradizione di architettura del paesaggio precedente, mi piacerebbe dire che quando uno guarda l'introduzione dell'architettura del paesaggio nei paesi europei, sempre trova alle spalle di questa o un accademico entusiasmato dall'arte dei giardini, o un ingegnere forestale o agronomo che aveva capito la necessità di gestire le risorse del paese. Una volta di più incontriamo la presenza forte della dicotomia che caratterizza l'architettura del paesaggio come disciplina e che noi crediamo debba essere

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superata, perché è proprio questa condizione ibrida, quella di arte e tecnica, di naturale e artificio, che rende l'architettura del paesaggio così terribilmente interessante. A Barcellona non esisteva una grande tradizione, però nel corso del XX secolo ci furono diverse figure chiave che si dedicarono a questo tema. Anche così, fu l'urbanistica a Barcellona che si preoccupò di progettare la città e il suo spazio aperto, e in quei momenti la disponibilità di punti di riferimento locale fu piuttosto scarsa. Il Master di Architettura e Paesaggio e il Corso di Laurea in Paesaggio offrono al docente una esperienza molto gratificante per vari motivi, soprattutto per i professori che come me mantengono un livello di coinvolgimento alto e una certa costanza. A parte il livello altissimo di coinvolgimento degli studenti, per la maggior parte attivi nella professione, il motivo principale è che questi corsi rendono palese l'urgenza di fare ricerca in campi nuovi mediante lo scambio trasversale che si può mettere in pratica in situ, dal momento che ogni corso ha studenti con vari profili disciplinari. Questa necessità, che crediamo parte di una visione critica della cultura attuale del progetto, non si sviluppa dalla visione gerarchica alla quale siamo abituati come architetti, e che in realtà fomenta quello che chiamiamo "star system", promosso dai media specifici dell'architettura. I nostri studenti sono coscienti che mai ci sarà evoluzione nel paesaggio se non si produrrà questa trasversalità, questa conoscenza al di fuori di dicotomie e strutture verticali. Questo incredibile desiderio di lavorare nel paesaggio non è frustrato, sebbene nella maggior parte dei paesi, con poche eccezioni, dal momento che i nostri allievi vengono da tutto il mondo, è difficile che esercitino come paesaggisti, a causa del resistere di pregiudizi e ignoranza, che ne limitano molto il campo di azione. E' vero che perfino nei luoghi in cui i paesaggisti hanno un'attività definita essi si sono mantenuti, come gruppo, ai margini del dibattito pubblico, per motivi vari e con eccezioni importanti. Noi paesaggisti, e tutti quanti pensiamo che il paesaggio sia soprattutto un filtro culturale che apre percorsi nella progettazione dell'ambiente, abbiamo il dovere di smentire i luoghi comuni, di creare opinione pubblica, di generare un dibattito in cui le domande vengano riformulate da zero, da altre prospettive, senza perdere la fiducia nella tradizione e nell'elaborazione creativa, ma imparando di più di tutto.

*Dottore di ricerca in Progettazione Paesistica, assegnista di ricerca presso il Dipartimento Interateneo Territorio del Politecnico e dell’università di Torino. **Dottore di ricerca in Storia e Critica dei Beni Architettonici ed Ambientali, assegnista di ricerca presso il Dipartimento Casa Città del Politecnico di Torino. Traduzione di Francesca Torello. Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di settembre 2004. Copyright degli autori. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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RI-VISTA Ricerche per la progettazione del paesaggio Anno 1 - numero 1- 2004 Firenze University Press

GLI ECOMUSEI IN ITALIA E IN EUROPA TRA PAESAGGIO E FOLKLORE UNA RISORSA PER LA VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO Antonello Boatti*

ABSTRACT L’articolo tratta del concetto di ecomuseo come bene culturale, integrato nel territorio e impregnato con tutti i segni dell’attività dell’uomo e quindi in grado di costituire l’archetipo di una rinnovata progettualità che sappia fondere cultura, storia, territorio e paesaggio. Partendo dall’origine della parola, l’autore fa un excursus cronologico dello sviluppo di quest’idea attraverso l’analisi di alcuni esempi realizzati, trattando poi nello specifico le problematiche italiane ed europee e traendo alcune conclusioni sull’utilità ed il campo di applicazione degli ecomusei. PAROLE CHIAVE Ecomuseo, Le Creusot Montceau – Les Mines, Bergslagen, Bresse Bourguignonne

I valori paradigmatici insiti nel concetto stesso di ecomuseo e soprattutto le differenti realizzazioni concrete possono contribuire alla costruzione di una nuova idea di bene culturale, integrato nel territorio e impregnato con tutti i segni dell’attività dell’uomo e quindi in grado di costituire l’archetipo di una rinnovata progettualità che sappia fondere cultura, storia, territorio e paesaggio. Come si può intuire facilmente e come si vedrà di seguito tale formidabile obiettivo non è forse mai stato raggiunto (anzi in molti casi l’ecomuseo è scivolato lungo una deriva puramente folklorica), ma passi significativi ed esperienze belle e di grande interesse sono già stati compiuti. Le prime apparizioni consapevoli degli ecomusei si registrano in Francia a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta e il termine sta a rappresentare in sostanza a un nuovo tipo di museo legato alle comunità locali. Utile solo in parte la ricerca etimologica verificandosi in questo caso come spesso succede, un’affollarsi di significati altri, rispetto all’origine, che danno un nuovo senso complessivo al termine. Il prefisso eco nasce dal greco oikos, che significa “unità domestica/economia” o anche “casa nel proprio ambiente” ed evoca il modo in cui l’uomo si rapporta alla natura per sopravvivere nei secoli. Il significato più ricco e complessivo è quello invece di una sorta di vitale commemorazione delle funzioni specifiche del territorio e quindi una riproduzione autentica, ma artificiale, dell’esperienza delle cose, riproposta a una seconda vita, quella dei posteri, mantenendo la sensazione di un rapporto diretto fondato su quello che il grande storico Lucien Febvre1 definiva “lo spirito geografico”.

1 Nato a Nancy nel 1878 e morto nel 1956. Nel 1929 fonda a Strasburgo insieme all’amico Marc Bloch la rivista “Les annales d’histoire économique et sociale”

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GLI ECOMUSEI DELLA PRIMA GENERAZIONE Le Creusot Montceau – Les Mines, Francia Il primo ecomuseo è stato quello di Le Creusot Montceau – Les Mines in Borgogna (Francia), una regione con una forte produzione di ferro e acciaio seguita, dopo una profonda crisi economica, da uno stato di declino e disoccupazione.

Fig.1 Il circuito dell’ecomuseo Le Creusot Montceau – Les Mines

Elaborare l’idea dell’ecomuseo è stato, in quella regione, un modo per aumentare la consapevolezza storica della popolazione locale e per rivitalizzare il contesto socio – economico del luogo. Questo museo nasce da una filosofia nuova. Prima di essere chiamato ecomuseo, era conosciuto come musèe èclatè cioè un museo esploso. Un museo che ha bruciato i propri muri e che ha superato i limiti di un edificio: un’idea rivoluzionaria soprattutto rapportata all’epoca (metà degli anni Sessanta). La consapevolezza che non tutto poteva essere compresso in un museo crea nuovi baricentri nel territorio. Le fattorie, le piccole fabbriche, l’industria della ceramica entrano a pieno titolo nella struttura museale.

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La “ricetta” vincente è costituita da diversi contenuti fondamentali che si integrano tra di loro: alla base una forte memoria collettiva e la riproposizione di una identità locale non separata dal contesto della città contemporanea che vive. Un ulteriore elemento essenziale è costituito dalla responsabilità sociale e quasi ideologica degli ecomusei: essi enfatizzano il processo di consapevolezza storica, impegnano gli abitanti locali ed esprimono le identità locali e regionali. “Se un ecomuseo fallisce in questo compito fondamentale, morirà automaticamente. L’aspetto più importante è il ruolo attivo degli abitanti locali e il loro entusiasmo nel lavoro, a questo proposito la frase di Hugues de Varine2 è molto appropriata: un territorio, una popolazione, un patrimonio”.3 “Un museo vivente, strumento insieme ad altri dell’evoluzione della società, costituisce un atout nel quadro della politica di sviluppo globale dell’uomo e della comunità, il museo dovrebbe essere uno degli strumenti più perfezionati di cui si dota la società per preparare e accompagnare la trasformazione”.4 Un’altra caratteristica fondamentale è costituita dall’intrecciarsi della natura e di quello “spirito geografico che come storia e cultura può diventare parte anche della nostra etica civile quotidiana”5. In sintesi quindi da questo primo ecomuseo nascono riflessioni contemporanee sul paesaggio che mostra apertamente, e forse per la prima volta, il suo volto complesso come un “libro scritto da altre mani, altri occhi, altre ansie e desideri”6. Bergslagen, Svezia L’iniziativa per un ecomuseo nella zona centrale della Svezia chiamata Bergslagen si è ispirata alle esperienze degli ecomusei francesi e all’attenzione verso il patrimonio storico locale maturata in Svezia all’inizio del Novecento. L’area di Bergslagen comprende una regione molto vasta, più di 750 Kmq. Il sistema di trasporto dei prodotti del ferro dalle miniere del nord ai porti, per l’esportazione nel sud, collega le diverse parti della regione. La principale via di trasporto dei prodotti del ferro era in precedenza il canale del Stromsholm, che costituisce tuttora un’importante via di comunicazione tra le sette comunità della regione. Uno degli obiettivi principali della creazione di un ecomuseo in quest’area fu quello di contribuire ad un migliore sviluppo economico in una regione in cui la produzione del ferro, ricca di storia millenaria, era andata diminuendo nel corso degli anni, fino a terminare quasi completamente nel 1970, con la chiusura di sessanta miniere causando gravissimi fenomeni di disoccupazione. Sempre nell’arco delle esperienze di progettazione del paesaggio l’ecomuseo di Bergslagen avvia la riflessione sull’interpretazione e gestione del patrimonio industriale “il museo è venuto formandosi come un’istituzione con una specifica responsabilità nell’interpretare il patrimonio industriale nel territorio fisico e nel creare nuove forme di gestione di questo patrimonio”7

2 Laureato presso la Sorbonne di Parigi in storia e archeologia, Hugues de Varine continua i suoi studi specializzandosi in storia dell’arte e archeologia orientale presso le scuole del Louvre. Tra il 1964 e il 1974 è direttore del Conseil International des Musées e successivamente diventa presidente onorario dell’ecomuseo di Le Creusot. Oltre a varie pubblicazioni scrive molti articoli sui musei, lo sviluppo culturale, lo sviluppo locale e l’azione comunitaria. 3 Cinzia Caccia, Tra Morgex e La Salle: il Marais, tesi di laurea – Relatore Antonello Boatti, Politecnico di Milano, A.A. 2002-2003 4 André Desvallées, “Nouvelles Musèologies”, 1985 - prefazione di Hugues de Varine 5 Paola Tussi, Musei, ecomusei, educazione, verso una progettualità di sviluppo culturale, storico e territoriale, in Sussidiario.it 2004 6 Ibidem 7 Cinzia Caccia, Tra Morgex e ...

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Fig.2 Le miniere di Stromsholm

Fig.3 Ricostruzioni animate del lavoro in miniera e della vita da minatori

Bresse Bourguignonne, Francia La regione della Bresse si estende su tutta la parte orientale della Borgogna, tra i monti del Giura ad est e la Saona ad ovest. Un tempo regione di pluricoltura e di allevamento lattiero, caratterizzata da una moltitudine di piccole attivitĂ agricole frazionate, la Bresse, sebbene il

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peso delle tradizioni vi resti sempre forte, ha modificato ampiamente la propria fisionomia economica, sociale e del paesaggio durante gli ultimi 25 anni. L’esodo dei giovani, le difficoltà economiche, l’evoluzione del mercato agricolo l’hanno portata a cercare nuove attività e a cambiare il comportamento economico, senza tuttavia rinnegare la sua eredità culturale. E’ proprio questa eredità, sempre molto presente, a cui l’ecomuseo deve la sua esistenza. Oltre alle mostre permanenti presentate nel castello dipartimentale di Pierre-de-Bresse, sede dell’ecomuseo, sono distribuite in tutto il territorio “antenne” tematiche, stazioni della sua attività quali SaintMartin-en-Bresse con la Casa della foresta e del bosco, Verdun-sur-leDoubs con la Casa del formaggio blè e del pane, Saint-Germain-du-Bois, Rancy-Bantages con l’artigianato delle sedie e della paglia, Cuiseaux con le vigne e le cantine e Louhans con l’atelier d’un journal. La funzione paradigmatica dell’ecomuseo esplora qui il tema della trasformazione dei comprensori agrari e della valorizzazione delle risorse economiche, sociali e paesaggistiche residue e rinnovate.

LA DIFFUSIONE DEGLI ECOMUSEI IN EUROPA E IN ITALIA Dopo le prime esperienze pionieristiche negli ultimi venti anni del Novecento e all’inizio del nuovo millennio gli ecomusei si sono rapidamente diffusi in Europa ed in Italia assumendo le forme più disparate perdendo e ritrovando i valori del filone originario e distribuendosi in modo ineguale nel vecchio continente.

Fig.4 Le “antenne” tematiche

Numero dei principali ecomusei nei paesi europei e in Italia Francia 68

Svezia 9

Belgio 3

Germania 2

Rep. Ceca 1

Spagna 27

Regno Unito7

Norvegia 3

Austria 1

Svizzera 1

Portogallo 14

Danimarca 5

Finlandia 2

Polonia 1

Italia 75*

* I dati sull’Italia risultano sovradimensionati rispetto a quelli degli altri paesi in quanto la ricerca sul campo consente maggiori approfondimenti

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Alcune prime sommarie deduzioni dalle analisi quantitative possono indicare qualche tendenza significativa. Innanzitutto la Francia che ha inventato la formula degli ecomusei mantiene un sostanziale vantaggio quantitativo sugli altri paesi. In secondo luogo il mare sembra essere portatore di sensibilità alla scoperta degli spazi aperti, della natura, della storia, della cultura e dell’attenzione alle componenti etnico – storiche dei popoli. E il dato quantitativo che premia Francia, Spagna, Portogallo e Italia per il Mediterraneo e Svezia, Regno Unito e Danimarca per i mari del nord, sarà confermato anche dalle analisi sui contenuti degli ecomusei dove l’acqua, la sua presenza e la sua storia, costituiranno il filo conduttore di diverse esperienze.

I FILONI TEMATICI Gli ecomusei sono tutti caratterizzati da un insieme di diversi filoni tematici e principalmente: paesaggio, agricoltura e mondo rurale, acqua (mare, fiumi e risorsa idrica), fauna, storia, etnografia e folklore, miniere abbandonate, archeologia industriale e mulini. A questi temi bisogna aggiungere vere e proprie monografie dedicate ad esempio alle saline, alle attività casearie, alla pastorizia, alla pietra, alle viti, alle limonaie, alla vita contadina, ecc. Tuttavia è possibile per ciascun ecomuseo ricavare una prevalenza di interessi. All’interno delle diverse nazioni prevalgono alcuni temi, specchio delle diversità culturali, geografiche, storiche e della diversa sensibilità dei popoli.

Francia

Spagna

Portogall o Svezia

Regno Unito Danimarc a Belgio

Norvegia

Olanda

Germania

Finlandia

Polonia

Repubblic a Ceca Svizzera

GLI ECOMUSEI NEI PAESI EUROPEI

Monografi ci

1 6

3

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1

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1

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1

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Paesaggio

1 5 1 1

3

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3

1

3

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1

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1

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3

3

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6 5

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1 2

3

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1 3 4

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Etnografia e Folklore Agricoltura Mondo rurale Storia Archeologi a industriale Acqua Mulini Miniere abbandonat e Fauna

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Il quadro riassuntivo evidenzia da un lato il prevalere dei filoni monografici denunciando quindi quei limiti e rischi di deriva folklorica già citati precedentemente. Così mentre il prevalere dei temi monografici fa temere un dilagare dispersivo di piccole storie locali, rimane comunque una buona ossatura principale che fa riferimento agli ecomusei paesaggistici, etnografici, storici e della civiltà industriale. L’analisi per paese può mostrare invece specificità e sensibilità particolari; così in Francia se prevale l’attenzione all’episodio individuale, folkloristico ed etnografico si evidenzia tuttavia un forte interesse per il paesaggio e l’agricoltura, mentre l’acqua e l’archeologia industriale appaiono trascurati rispetto all’importanza che rivestono nella realtà territoriale del paese.

Fig.5 Ecomusée du Marais Salant (Ecomuseo monografico)

In Spagna invece sono le attività estrattive, con il mondo di storie politiche e umane che sono impresse nella memoria di ciascuno di noi a contendere il campo all’agricoltura, ai mulini oltre alla solita consistente percentuale dei temi individuali e monografici.

Fig.6 Ecomuseo de la Alcogida (Ecomuseo etnografico)

In Portogallo in un numero ancora consistente di ecomusei (considerando anche la popolazione assai inferiore rispetto ai casi precedenti) spicca sensibilmente il tema dell’acqua e dell’agricoltura, quasi a segnalare l’essenzialità di queste risorse. Nei paesi nordici diminuisce sensibilmente il numero di ecomusei. In particolare la Svezia mostra una sensibilità prevalente per il paesaggio e l’archeologia industriale, oltre che un certo interesse per la natura, la fauna e l’acqua. Nel Regno Unito dove è nata la rivoluzione industriale l’interesse per l’archeologia industriale è sostanzialmente esclusivo. Gli altri episodi sono molto legati a una visione molto ristretta dell’ecomuseo. In Danimarca e in Belgio l’interesse prevalente è per il paesaggio, mentre in Norvegia prevalgono i temi storici.

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Colpisce la scarsità di interesse per gli ecomusei in un paese come la Germania compensata tuttavia dall’esistenza di grandi aree assimilabili agli ecomusei come ad esempio gli interventi effettuati nel grande bacino minerario della Ruhr.

GLI ECOMUSEI IN ITALIA Come già evidenziato precedentemente la notevole quantità di ecomusei in Italia (75) si spiega con la ricchezza e le ampie possibilità di indagine sull’argomento (superiore a quella degli altri paesi europei) e anche da una certa “leggerezza” dei temi trattati (la castagna, il bitto, la pietra da cantoni, ecc) e quindi dallo scarso rilievo di molti ecomusei. Tuttavia sono presenti oltre a una grande quantità di esperienze monografiche o folkloriche alcuni rilevanti episodi a livello europeo.

Fig.7 Ecomuseo delle Valli d’Argenta (Ecomuseo del paesaggio), la mappa e il museo della bonifica

Veneto

Liguria

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Sardegna

Emilia Romagna Provincia di Trento Lombardia

Friuli Venezia Provincia di Bolzano Sicilia

Toscana

Monografi ci Paesaggio Etnografia e Folklore Agricoltura Mondo rurale Storia Archeologi

Piemonte

Tra questi si segnalano l’ecomuseo di Argenta (delta del Po), l’ecomuseo di Valsesia legato alle tradizioni walser, il museo Guatelli (attrezzi e realtà agricole e pre-industriali), l’ecomuseo della Montagna Pistoiese che collega il tema dell’acqua a quello della montagna e sugli stessi temi quello della Riserva Naturale di Zompo lo Schioppo in Abruzzo e il Fiordo di Furore in Campania. Infine ma non da ultimo va segnalato l’ecomuseo del Sulcis Iglesiente legato profondamente al destino post estrattivo del comprensorio minerario sardo.

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a industriale Acqua Mulini

1 2

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1 -

Nel quadro regionale spicca il ruolo del Piemonte nel quale traspare la lunga tradizione di rapporto culturale e comunanza ideale e persino linguistica con la Francia dalla quale sembra ereditare la passione per gli ecomusei. E la stessa tendenza accentuata ad esasperare l’aspetto monografico registrata in Francia si ripropone nel Piemonte con i temi dedicati ad esempio ai terrazzamenti della vite, alle pietre, alla castagna, alla segale, all’argilla, alla canapa, ecc con il rischio di un proliferare di piccoli e talvolta oleografici ecomusei. Tuttavia alcuni casi monografici sono assai interessanti come quello storico della Resistenza che mescola paesaggio e storia in modo inedito. Importante la presenza di episodi minerari e del paesaggio. La Toscana ha un numero inferiore di ecomusei, tutti però di rilievo con poche concessioni a una minuta visione monotematica e con importanti episodi riguardanti il paesaggio, la storia e l’archeologia industriale. In Emilia Romagna l’episodio più significativo e rilevante è quello dell’ecomuseo di Argenta, uno strumento multiforme ed unitario costruito attorno al delta del Po tra le valli del Casino di Campotto e i centri urbani. Di rilievo anche il museo Guatelli dal nome del fondatore che vede una raccolta eccezionale di strumenti e macchine agricole e pre-industriali. L’interesse prevalente degli ecomusei della Provincia di Trento è legato principalmente al tema della etnografia e del folclore, ma l’episodio più interessante è costituito dall’Ecomuseo “Dalle Dolomiti al Garda” ricco di riferimenti ed itinerari paesaggistici. La Lombardia appare più legata a episodi legati esclusivamente alla cultura materiale (per altro pochi), mentre il Veneto ha in corso solo progetti, alcuni assai interessanti come quello della Laguna di Venezia Tra Liguria, Lazio e Abruzzo gli episodi più interessanti si trovano in quest’ultima regione e soprattutto nella Riserva Naturale di Zompo lo Schioppo nel cui Ecomuseo il visitatore è guidato in itinerari di acqua e di paesaggio di eccezionale valore. Di rilievo in Liguria l’ecomuseo della via dell’Ardesia, mentre nel Lazio l’ecomuseo del Litorale Romano potrà avere sviluppi interessanti. L’etnografia e il folclore caratterizzano gli ecomusei del Friuli, della Provincia di Bolzano e della Sicilia, anche se nel Friuli l’esperienza più promettente è quella dell’ecomuseo delle acque, per la provincia di Bolzano Fig.8 Ecomuseo della Resistenza è il museo provinciale delle miniere e in Sicilia è il (Ecomuseo della storia), partigiano museo del sale.

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Fig.9 Ecomuseo delle terre di confine – sentiero dei contrabbandieri (Ecomuseo del paesaggio)

Fig.10 Ecomuseo della Riserva Naturale di Zompo lo Schioppo (Ecomuseo dell’acqua)

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Per quanto riguarda la Sardegna l’emorragia della chiusura delle miniere ha dato luogo nell’Iglesiente, anche con il contributo della Società Umanitaria di Milano, a un interessante esperienza costituita dal progetto in corso di realizzazione, che è l’ecomuseo del Sulcis. Valle d’Aosta, Umbria, Campania, Puglia, Calabria non hanno compiutamente ancora fatto proprio e utilizzato lo strumento dell’ecomuseo. Tuttavia di qualche interesse è l’ecomuseo delle ferriere e fonderie di Calabria e soprattutto l’ecomuseo del Fiordo di Furore in Campania, buon esempio quest’ultimo per come viene trattato il tema della risorsa idrica.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE La materia, come si può intuire dalla lettura del saggio, è quanto mai in formazione: non è quindi in alcun modo possibile trarre conclusioni definitive, ma solo spunti di approfondimento. Si può affermare che la cultura degli ecomusei proceda su un doppio binario: da un lato, in modo autonomo il processo di rinnovamento e di innovazione nella museografia che da tempo si dimostra sempre più insofferente della costrizione fisica rappresentata dall’edificio – museo, dall’altro uno spirito partecipativo e autogestionale delle comunità attente ai problemi dello sviluppo socio – economico che capovolge la logica museale di sempre distinguendo da un punto di vista teorico l’ecomuseo da un museo convenzionale “dal contrasto con il principio fondante la museologia tradizionale che sottrae i beni culturali ai luoghi in cui vengono prodotti per essere studiati in luoghi chiusi. L’ecomuseo si ripropone come riappropriazione del proprio patrimonio culturale da parte della collettività locale che ne diviene il soggetto gestore oltre che fautore”8 o come più volte ha scritto George Henri Rivière9 l’ecomuseo come specchio della comunità nella quale si sviluppo con l’intenzione di conoscere il passato per affrontare in modo giusto i problemi dell’oggi e del futuro. Il paesaggio attraverso l’avventura degli ecomusei può diventare soggetto autonomo per l’interpretazione di fenomeni complessi, storici, sociali, ambientali e culturali. In particolare sono i paesaggi a rischio come le memorie storiche dell’archeologia industriale, le vecchie pratiche dell’agricoltura, le forme ormai marginali della produzione o i luoghi delle tradizioni belle e abbandonate a trovare negli ecomusei una ragione nuova per vivere senza cadere nella riproposizione oleografica e stucchevole di rappresentazioni statiche e polverose. *Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI DESVALLEES ANDRE BARY MARIE ODILE DE WASSERMAN FRANÇOISE, , Vagues: une anthologie de la nouvelle muséologie I-II. Editions W, Macon 1992-1994 GAMBINO ROBERTO, Conservare, innovare: paesaggio, ambiente, territorio, Utet, 1997 GEORGES HENRI RIVIERE, Le musée de plein-air des landes de Gascogne, Ethnologie française, 1971, MAGGI MAURIZIO , V. FALLETTI, Gli ecomusei. Che cosa sono, che cosa possono diventare, Allemandi, 2001 MAGGI MAURIZIO, Ecomusei. Guida europea, Allemandi, 2002 8

Paola Tussi, Valenze didattiche degli ecomusei in Sussidiario.it 2004 9 George Henri Riviére nasce a Parigi il 5 giugno 1897. Studia musica fino al 1925 quando scopre la sua grande passione per i musei e frequenta per tre anni la scuola del Louvre. La sua prima esperienza museografica è la direzione del museo etnografico del Trocadero. Grande scopritore di talenti gioca un ruolo essenziale nella fondazione dell’ICOM e nell’invenzione del concetto di ecomuseo.

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RIVIÈRE GEORGES HENRI, The Ecomuseum - an evolutive definition, 1985 VARINE-BOHAN HUGUES DE, L'Ecomusée. p. 28-40, ill. Gazette; 11, 2 1978 VARINE-BOHAN HUGUES DE, L' Initiative communautaire: Recherche et expérimentation, Nacon, Ed. W; Savigny-le-Temple, MNES,1991 http://www.ecomusei.net http://www.interactions-online.comcx

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RI-VISTA del Dottorato di ricerca in Progettazione paesistica Anno 1 - numero 1- 2004 Firenze University Press

LO SPIRITO DORATO. SAN FRANCISCO E ASSOCIATES.

IL PARCO

CRISSY FIELD

DEGLI

HARGREAVES

Enrica Dall’Ara*

A BSTRACT : Nel saggio si presenta il progetto di riqualificazione degli Hargreaves Associates per il waterfront della costa nord di San Francisco, un’ area dimessa dall’aviazione ed appartenente al Golden Gate National Recreational Area denominata Crissy Field. Il progetto si presenta sia come risposta chiara a specifiche necessità ambientali che come espressione di volontà estetiche ben misurate e si basa su un principio di conservazione del genius loci della metropoli, confrontandosi con lo status di landmark nazionale attribuito all’area nel 1962. PAROLE CHIAVE : San Francisco, Hargreaves Associates, Crissy Field, paesaggi americani, waterfronts, riqualificazione ambientale e paesaggistica.

Figura 1. San Francisco: viste.

La maglia ortogonale delle strade di San Francisco (California) si sovrappone all’orografia assecondandone le altimetrie. Quando fu pianificata, in un qualche modo la razionalità e l’idealizzazione del pattern geometrico non sono state imposte alla fisicità naturale del territorio con l’affermazione di dominio che si associa genericamente alle azioni di conquista del West. La maglia ortogonale di fondazione sembra anzi contenere una reversibilità senza prospettarla, perché la città si rende di fatto irrinunciabile – apparendo allo sguardo non storicizzato uno strato di sola finitura e privo della hybris?di un’alterazione strutturale. Dentro questa maglia l’urbanizzazione cresce accattivante. I due livelli autonomi, reticolo delle strade e orografia, si sovrappongono generando combinazioni casuali di viste, creativamente, in misura delle possibilità di itinerari che si offrono ad ogni intersezione. L’effetto stregante consiste nella successione di prospettive dal basso, fra i quartieri interni, e

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di affacci dall’alto verso il mare e i land marks della città, visioni improntate dalla luce mutevole che è data dai diversi orientamenti dei lati della penisola. Il Golden Gate Bridge, il complesso di grattacieli del Financial District , la sagoma costiera dei moli di Fisherman’s Wharf, ci sono, scompaiono dal quadro, ritornano. Materializzano i valori urbani in dialettica con l’ambiente naturale costiero, orgogliosamente e docilmente: sta in questo, forse, l’idea che San Francisco offre di una sua probabile (astuta) innocenza. Scatola più piccola dentro la più grande, il parco nazionale Golden Gate National Recreational Area (GGNRA), creato nel 1972, tenta una forma similare di equilibrio fra soddisfacimento delle esigenze della città e rispetto degli scenari naturali, ponendosi il duplice obiettivo di tutelare il patrimonio storico e le aree naturali della baia e di costituire contemporaneamente un esteso parco pubblico urbano, propaggine all’aperto dei servizi cittadini che avanzano fino al fronte d’acqua. La GGNRA gestisce più di 75.000 acri di territorio, che si sviluppano, con fulcro nella costa urbana, a Nord e a Sud della baia Golden Gate e lungo i territori costieri e i promontori che si affacciano sull’Oceano Pacifico. Muovendo da Est verso Ovest, percorrendo l’area costiera della città da The Embarcadero, il paesaggio coriaceo dei quarantacinque moli – Piers – che tagliano l’acqua argentei di asfalti e cementi e dei mille specchi della città che arriva senza mediazione fin lì, cede la vista prima a Fhisherman’s Wharf, poi alla testa della GGNRA, ovvero al Maritime National Historical Park e a Fort Mason, avvolte dai prati, rispetto ai quali la città resta indietro e la strade si interrompono per l’inizio della Golden Gate Promenade, vietata al traffico veicolare. Fisherman’s Warf brulica turisticamente di tutto quanto è pittoresco per una località di mare e stringe la dimensione della sezione stradale su cui si affacciano ristoranti e negozi, occultando di frequente il mare. Su cui successivamente il Maritime National Historical Park e Fort Mason spalancano la vista. Quindi inizia la GGNRA con il Maritime Museum, la sede del GGNRA e l’Ostello della Gioventù sulla collina di Fort Mason, le sedi delle molteplici associazioni cittadine nelle exstrutture militari portuali. La natura da qui acquista sempre maggior terreno: fra il Marina Blvd e l’acqua si frappone un prato largo; poi sono la vasta area verde, debolmente urbanizzata, del Presidio, poi Lands End sull’Oceano Pacifico, poi Ocean Beach con spiagge ampissime a Sud e i parchi naturali immediatamente a Nord della baia Golden Gate, attrezzati per visite, escursioni, campeggio, raggiungibili in bicicletta dalla città. E’ lo spirito dorato – golden – della baia che sbatte di costa in costa, selvaggio, metropolitano, ludico e ammiccante; ha affezionato gli abitanti di San Francisco che sembrano sapere conservarlo e ricrearlo nelle loro Figura 2. Mappa delle aree gestite dalla Golden Gate azioni di intervento sul territorio. National Recreational Area (in grigio scuro)

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All’interno della GGNRA, la riqualificazione dell’area dismessa dell’aviazione militare sulla costa Nord della città chiamata Crissy Field, su progetto degli Hargreaves Associates , a sua volta crea lo spazio caratterizzandolo con una struttura duale: Crissy Field si pone come risposta chiara a necessità ambientali e come espressione di volontà estetiche ben misurate. La riqualificazione di Crissy Field dà ulteriore conferma che lo spirito della città conserva intatto il suo genoma per focalizzazioni di progressivo dettaglio. Il parco si allunga dai piedi del Golden Gate Bridge verso est e costituisce il waterfront del Presidio, area a presidio militare di San Francisco dall’epoca della sua fondazione (1776) fino al dopo seconda guerra mondiale. Nel 1962 l’intera area del Presidio, compresa Crissy Field, viene dichiarata landmark nazionale.

Figura 3. San Francisco: lungomare del quartiere Marina, ad Est di Crissy Field, su Marina Blvd.

Crissy Field è sempre stato un vasto spazio vuoto logistico: spazio libero a disposizione per l’espansione temporanea della città avvenuta in occasione della fiera internazionale PanamaPacific International Exposition del 1915 (per l’istallazione della quale furono bonificate vaste aree paludose che caratterizzavano l’area); successivamente spazio libero di base e manovra per le azioni dell’aviazione militare. La dismissione dell’attività ha lasciato tutto in stato di abbandono: precedentemente agli interventi di riqualificazione c’era un luogo di hangar in disuso, distese di asfalto e di rifiuti abbandonati. Il progetto di riqualificazione è stato sviluppato e promosso dal National Park Service con la collaborazione dell’organizzazione no-profit the Golden Gate National Park Association ed ha alla sua base il Presidio General Management Plan Amendament, piano adottato nel 1994 che comprende specifici indirizzi per la riqualificazione di Crissy Field.

Figura 4. Crissy Field (San Francisco– California- U.S.A.).

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Però chi non è stato nell’area prima che attuassero gli interventi difficilmente si accorge della pianificazione e non sospetta il progetto. C’è uno strada lungomare che fiancheggia il quartiere Marina, la Marina Blvd, distanziata dall’acqua da un prato molto ampio, oltre la quale gremiscono le imbarcazioni private. Ad ovest parte un percorso che fiancheggia la spiaggia. E’ l’inizio di Crissy Field. Si vede gente che corre, che si siede o porta a spasso il cane, e serfisti, una divaricazione liberatoria dello spazio, mentre la città resta indietro di pochi passi e sembra che non sia ancora finita mentre è già finita. Alla sinistra si apre un altro prato con pini adulti, ci sono camper parcheggiati lungo vie che avanzano nel prato verso il mare, ma si arrestano prima del percorso pedonale. Di fronte è il Golden Gate Bridge che è indubbio sia il genius loci, anche se inventato, perché riassume la città, la concentra sulla baia, la baia per il resto appare naturalmente intatta, di terra -orografica- vegetazione, acqua e luce di confine d’occidente. Successivamente si incontra un’area incolta delimitata da una recinzione di corda, con erbacee ed arbusti cresciuti fra la sabbia e un’area umida, una laguna attraversata da un ponte in legno che prosegue da una deviazione del percorso lungo mare puntando verso il Crissy Field Center, centro informazioni, di documentazione e formazione della Golden Gate National Park Association. Una targa informa che si tratta di un’area protetta lasciata a rinaturalizzazione spontanea, in cui sono stati piantati gli esemplari pionieri, di specie originarie della baia, dall’ente parco con la collaborazione di numerosissimi volontari. L’area umida (di 20 acri) è parte del medesimo progetto di riproposizione dell’ambiente e del paesaggio del waterfront precedenti alla bonifica realizzata per l’istallazione della PPIE del 1915. E’ stata progettata in base ad analisi specifiche sugli andamenti delle maree, direttamente collegata da un canale al mare e a deflusso naturale. Non è affatto casuale, ma appare tale: appare come una parte di spiaggia mangiata dalle maree e un ambiente costiero naturale con dune, meandri d’acqua salata, flora e fauna spontanee. L’area umida termina in un prato completamente libero, delimitato da un percorso che disegna una grande forma ovale e diventa l’unico elemento di misura dello spazio, disarmante per quanto semplice. Alcuni percorsi lo attraversano in diagonale. Rimane ad una quota appena più alta rispetto alla via lungo la linea di costa, ed il bordo a tratti è realizzato in cemento e offre la possibilità di sedersi. E’ l’historical airfield, riproposizione formale del campo dell’aviazione militare, un spazio esteso che permette di vedere senza la frapposizione di nulla il profilo della città - venendo dal Golden Gate Bridge - ed il Golden Gate Bridge - venendo da Marina . La sua dimensione è sufficiente per staccare fra di loro i due emblemi di San Francisco, ma è anche tale da tenerli calamitati: lo skyline e il Golden Gate Bridge sono le pareti di una gigantesca camera senza alcun mobilio d’arredamento. Queste pareti hanno l’aria di essere state calate su un luogo naturale per circoscriverlo e cambiare la destinazione d’uso della porzione di terreno che resta al loro interno, ovvero per darlo alla ricreazione all’aperto degli abitanti di San Francisco. Invece è esattamente il contrario: le pareti sono il substrato storic o e la naturalità del luogo è un progetto, un’antropizzazione, una mimesi della natura molto calibrata in grado di innescare poi determinati processi naturali. Gli elementi architettonici sono limitati: un ponte in legno che attraversa l’area umida, percorsi che si diramano da quello principale lungo costa per dare accesso a tavoli per il pic nic e gradinate per sedersi nell’area più vicine al Golden Gate Bridge, dune a fianco dell’area e filari di cipressi, qualche pietra a lato delle strade di accesso alla spiaggia, panche monolitiche lungo il litorale, il disegno degli esterni del Centro di Crissy Field. Nel complesso il paesaggio non è segnato, l’architettura è minima, non si legge uno stile, il progetto resta trasparente, non lo si vede se non con la malizia del progettista.

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Figura 5. Crissy Field (San Francisco, California, U.S.A.), area a rinaturazione spontanea e spiaggia.

Il progetto molto umilmente serve le funzioni che si vuole il luogo svolga. Ma con la realizzazione del progetto Crissy Field assume un elevato valore estetico per la semplicità che gli viene conferita, semplicità elegante, interna al rapporto di proporzione fra le parti in gioco e maturata dalla comprensione del valore, sia ecologico sia paesaggistico, della naturalità data e restaurata in luoghi comunque pensati per la fruizione dell’uomo contemporaneo. George Hargreaves afferma a presentazione di alcuni progetti del suo studio 1 : “Through a manipulation and amplification of environmental phenomena such as light, shadow, water, and topography and habitat, we strive to foster an awareness and understanding of the structural components of natural systems by direct interaction. 1

George Hargreaves presenta il Lousville Waterfront Master Plan (Louisville, Kentucky), il Candlestick Point Cultural Park (San Francisco, California), il Guadaupe River Park e il Guadalupe Gardens (San Jose, California), il Parque de Tejo e Trancio (Lisbon, Portugal) in GEORGE HARGREAVES, Furrows. The Shapes of recycled landscape, in “Quaderns”, n. 217, Land Arch, Barcelona 1997, pagg. 162-169.

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This direct interaction is in contrast to the insular experience of a replication or restoration of “nature”. The experience of this “built landscapes” may indeed be more real in their impact on people than landscapes of preservation or re-creation. In other istances, these landscapes may accentuate past, present and future fusions of culture and environment.”2 Si tratta di un’affermazione di poetica in cui emerge la consapevolezza del ruolo proprio del progetto – che si impone quale manipolazione ed amplificazione dei fenomeni ambientali – come cultura, come novità e come costruzione a partire dalla “natura”. Questa idea, alla base del fare progettuale degli Hargreaves, viene concretizzata anche a Crissy Field. Altrove Isotta Cortesi interpreta il metodo progettuale dello studio Hargreaves descrivendolo improntato dal binomio ecologia-arte e finalizzato al raggiungimento di un equilibrio fra sfruttamento e restauro. Scrive: “L’ecologia ambientale con le sue processualità e l’operare artistico sui vasti spazi nordamericani sono congiunti, e questa coesistenza costituisce il carattere distintivo delle opere di Hargreaves […]. Ma non solo, il progetto si impone come elemento di connessione tra la cultura locale e l’ambiente naturale, tra la gente e il luogo, cercando di ristabilire un equilibrio tra due opposti poli: quello di radicale sfruttamento e quello riconducibile ad un atteggiamento di restauro ecologista.”3 In molteplici occasioni gli Hargreaves Associates affrontano progettualmente il tema della riqualificazione di ambiti di margine fra città e acqua – waterfront, ambiti marittimi o fluviali. E si incontrano visibilmente delle costanti nel modo di pensare la trasformazione dei luoghi: innanzitutto il volano è la bonifica ambientale, che si impone quale necessità ma che è vissuta sempre anche quale “serbatoio” di forme a disposizione per la composizione architettonica; ricorre la forma dell’insenatura e il movimento in sezione basato sulle inondazioni legate alla marea, quali elementi di disegno e quali modi di avvicinamento dell’entroterra all’acqua; ricorrono dune artificiali per una nuova topografia evocativa e la presenza di grandissime aree a prato – il Great Lawn del Lousville Waterfront Master Plan (Louisville, Kentucky), il prato centrale sagomato dai canali inondabili del Candlestick Point Cultural Park (San Francisco, California), l’airfield a Crissy Field, per elencare alcuni esempi - vuote, riempibili di gente in caso di organizzazione di eventi, respiri molto ampi che anticipano la vastità d’acqua.

Figura 6. Crissy Field: planimetria di progetto. 2 3

GEORGE HARGREAVES, Ibidem, pag. 162. ISOTTA CORTESI, Il parco pubblico. Paesaggi 1985-2000, Federico Motta, Milano 2000, pag. 253.

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Figura 7. Paesaggi e architetture di Crissy Field: il ponte che attraversa l’area umida, le strade che avvicinano alla spiaggia e le dune, scalinate e radura.

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Ma Crissy Field ha una peculiarità. Se in altri progetti l’architettura, prevalentemente del suolo, informa il luogo (con forza barocca nel Guadalupe River Park e nel parque do Tejo e Trancão di Lisbona e al contrario con segni scarni, per una Land-Art, nel Candlestick Point Cultural Park), a Crissy Field l’architettura può dirsi inesistente. C’è di conseguenza meno espressività, non c’è una sola immagine, conferita dal progetto, a rendere il tutto perfettamente coeso. Il che significa che a differenza di quanto avviene per le altre realizzazioni che rimangono impresse per macro-temi - per il movimento topografico, per la marea, per il vento – e per segni artistici enfatici che li traducono sul suolo – archi, rettangoli, linee e poligoni spezzati – Crissy Field, che contiene tutti questi elementi in maniera paritetica e libera da formalismi, rimane in mente essenzialmente per essere la spiaggia del Golden Gate Bridge. L’immagine del luogo resta quella precedente il progetto, solo restituita al pubblico con una bellezza maggiore e arricchita del gusto della sua vivibilità.

*Dottore di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CORTESI ISOTTA, Il parco pubblico. Paesaggi 1985-2000, Federico Motta, Milano 2000. George Hargreaves. Crissy Field, “Lotus Navigator”, 2, I nuovi paesaggi, Electa, Milano 2001, pagg. 110-111. Golden Gate National Parks Association, “Crissy Field. A place trasformed”, Grand Opening Week, april 30, may 6, 2001, San Francisco (California, U.S.A.) Golden Gate National Parks Association, “Crissy Field. A Unique Urban National Park site on the Presidio Shoreline”, San Francisco (California, U.S.A.) 2001. HARGREAVES GEORGE, Furrows. The Shapes of recycled landscape, in “Quaderns”, 217, Land Arch, Barcelona 1997, pagg. 162-169. National Park Service and The Golden Gate National Parks Association, “Nature, History and Recreation: Fulfilling the Promise of Crissy Field”, San Francisco (California, U.S.A.) june 1996. National Recreational Area California, National Park Service U.S. Department of the Interior, “Golden Gate”. Renewing Crissy Field. News about the Crissy Field Restoration and Public Campaign, n. 3, National Park Service and The Golden Gate National Parks association, San Francisco (California, U.S.A.) Spring 2000. Renewing Crissy Field. News about the Crissy Field Restoration and Public Campaign, n. 4, National Park Service and The Golden Gate National Parks association, San Francisco (California, U.S.A.) winter 2000-2001.

THOMSON J. WILLIAM, Field of Vision, “Landscape Architecture”, 36, July 1997. Siti Web:

www.hargreaves.com www.crissyfield.org RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1, 3-5, 7: fotografie di Enrica Dall’Ara Figura 2: dalla brochure “Golden Gate” della Golden Gate National Parks Association e del National Park Service

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Figura 7: in www.crissyfield.org Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio anno 1- numero 1-gennaio-luglio 2004

LA PIANIFICAZIONE DEL PAESAGGIO: PRINCIPI INNOVATIVI ED ESPERIENZE APPLICATE. IL CASO STUDIO DELLA VALLE DEI TEMPLI DI AGRIGENTO Giuliana Campioni e Guido Ferrara

ABSTRACT La Convenzione Europea del Paesaggio, sottoscritta il 20 ottobre 2000 dagli Stati membri del Consiglio d’Europa, aggiorna il concetto stesso di paesaggio, direzionandolo verso lo sviluppo sostenibile. Il piano del paesaggio redatto per la Valle dei Templi di Agrigento, una fra le più importanti aree archeologiche protette della Sicilia, applica le nuove idee della Convenzione Europea, al fine di dimostrare che la conservazione, pianificazione e gestione effettiva di una eredità paesaggistica di questo tipo consiste in un processo di arricchimento e di crescita delle diversità e, soprattutto, nel provocare un’evoluzione e uno sviluppo equilibrati. D’altro canto, se il caso studio del paesaggio di Agrigento è essenzialmente riferito ad un patrimonio storico di eccezionale interesse, risultato di rilevanti diversità ambientali e culturali, bisogna anche ricordare che esso costituisce una risorsa economica da cui possono essere estratti particolari benefici, con particolare riferimento al turismo. PAROLE CHIAVE Convenzione Europea del Paesaggio, Valle dei Templi, Agrigento

1. I PRINCIPI INNOVATIVI Un significativo contributo al raggiungimento di uno degli obiettivi chiave dei prossimi decenni, quale è quello di preservare, recuperare e incrementare le qualità del paesaggio e allo stesso tempo generare condizioni di benessere sociale, reddito e lavoro, viene fornito dalla Convenzione Europea del Paesaggio, sottoscritta a Firenze il 20 ottobre del 2000 dagli Stati membri del Consiglio d’Europa, di cui si riportano di seguito alcuni stralci significativi. “Gli Stati membri del Consiglio d’Europa, firmatari della presente Convenzione, Desiderosi di pervenire a uno sviluppo sostenibile fondato su un rapporto equilibrato tra i bisogni sociali, l’attività economica e l’ambiente.[……]; Riconoscendo che il paesaggio è in ogni luogo un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni: nelle aree urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana; Osservando che le evoluzioni delle tecniche di produzione agricola, forestale, industriale e pianificazione mineraria e delle prassi in materia di pianificazione territoriale, urbanistica, trasporti, reti, turismo e svaghi e, più generalmente, i cambiamenti economici mondiali continuano, in molti casi, ad accelerare le trasformazioni dei paesaggi; Desiderando soddisfare gli auspici delle popolazioni di godere di un paesaggio di qualità e di svolgere un ruolo attivo nella sua trasformazione;

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Persuasi che il paesaggio rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e che la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione comportano diritti e responsabilità per ciascun individuo. […..] Definizioni Ai fini della presente Convenzione: a "Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni; b "Politica del paesaggio" designa la formulazione, da parte delle autorità pubbliche competenti, dei principi generali, delle strategie e degli orientamenti che consentano l'adozione di misure specifiche finalizzate a salvaguardare gestire e pianificare il paesaggio; c “Obiettivo di qualità paesaggistica” designa la formulazione da parte delle autorità pubbliche competenti, per un determinato paesaggio, delle aspirazioni delle popolazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita; d “Salvaguardia dei paesaggi” indica le azioni di conservazione e di mantenimento degli aspetti significativi o caratteristici di un paesaggio, giustificate dal suo valore di patrimonio derivante dalla sua configurazione naturale e/o dal tipo d’intervento umano; e “Gestione dei paesaggi” indica le azioni volte, in una prospettiva di sviluppo sostenibile, a garantire il governo del paesaggio al fine di orientare e di armonizzare le sue trasformazioni provocate dai processi di sviluppo sociali, economici ed ambientali; f “Pianificazione dei paesaggi” indica le azioni fortemente lungimiranti, volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi.”1 Queste note delineano un contesto culturale diverso ed evoluto rispetto al passato. Quello che può essere considerato il “primo codice internazionale” in materia paesistica prende infatti posizione quantomeno su due questioni di importanza strategica. In primo luogo assevera l’interpretazione del paesaggio come riflesso dell’identità dei luoghi capace di evocare effetti contemplativi ed estetici, ma ne mette anche in netta evidenza i legami con il concetto di sostenibilità. Ovvero, riconosce che il paesaggio svolge importanti funzioni sul piano culturale e ambientale e, insieme, costituisce una risorsa economica in grado di provocare duraturi benefici in particolare nel settore del turismo. In secondo luogo estende l’interesse dai “bei paesaggi” ai paesaggi del cambiamento e dell’abbandono, allargando la scala di interesse all’intero territorio e ampliando la gamma delle modalità di intervento sul paesaggio dalla sola tutela, o dal puro e semplice ripristino dello “status quo” a seguito del danno subito, alla creazione e alla gestione di nuovi scenari rispondenti alle aspirazioni della popolazione interessata. Più nel dettaglio, i punti della Convenzione validi come linee guida per rapportarsi al paesaggio con finalità, metodi e misure innovative sono così riassumibili: -

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apprezzamento della dimensione plurima del paesaggio in quanto sistema complesso soggetto a continua evoluzione nel tempo in funzione della dinamica interna e delle modifiche introdotte dalle azioni umane estensione a tutto il territorio del concetto di “paesaggio” inteso come bene collettivo le cui qualità specifiche vanno preservate e, ove possibile, recuperate e incrementate dilatazione degli interessi dai paesaggi eccellenti ai paesaggi ordinari e quotidiani del cambiamento e del degrado con azioni regolatrici mirate alla conservazione degli aspetti significativi (salvaguardia), all’armonizzazione delle trasformazioni (gestione), al ripristino o alla creazione di nuovi scenari (pianificazione) adozione di misure adatte a favorire la continuità ambientale come attributo strategico del territorio e il recupero del significato culturale dei paesaggi come fondamento di identità entro le diverse dinamiche territoriali

Convenzione Europea per il Paesaggio art.1, Firenze, ottobre 2000

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interdipendenza delle politiche del paesaggio con quelle dell’ambiente e del territorio e conseguente esigenza di raccordarle con quelle di settore ricomposizione delle pianificazioni che a diverso titolo incidono sullo stesso territorio, portatrici di interessi generali ugualmente legittimi, anche se spesso conflittualicooperazione istituzionale ai diversi livelli nella predisposizione di strumenti e nell’attivazione di interventi, con particolare riguardo alle aree da riqualificarecoinvolgimento della società civile in termini di cultura diffusa, ma anche operativamente, attraverso il ricorso, ove possibile ad investitori privati.

Nel loro insieme essi delineano una politica del paesaggio “riformata” rispetto al passato, capace di recepire l’esigenza che le azioni di tutela si integrino con gli interessi della comunità e che si pervenga ad una sintesi tra la salvaguardia dei valori paesaggistici e un rapporto corretto con i cittadini e quanti operano sul territorio senza cadere in uno sterile vincolismo. In particolare, l’estensione degli interessi alla totalità del paesaggio inteso come “mosaico” il cui carattere complesso deriva dalle modalità con cui i fattori naturali si sono interrelati in modo dinamico con i fattori umani, ha un’importante conseguenza. Comporta infatti l’assunzione di un atteggiamento diversificato - nella gamma che va dalla salvaguardia, alla riqualificazione, al nuovo assetto – in rapporto alle differenti situazioni, o condizioni di stato in cui si trova il paesaggio, e di conseguenza fornisce un significativo contributo alla definizione delle regole della compatibilità delle trasformazioni antropiche. Ci si propone di esemplificare come il Piano del Parco della Valle dei Templi di Agrigento abbia tradotto in misure e azioni il profilo culturale proposto dalla Convenzione secondo cui ricercare un buon equilibrio tra salvaguardia, pianificazione e gestione “non significa preservare o “congelare” dei paesaggi ad un determinato stadio della loro lunga evoluzione, ma accompagnare i cambiamenti futuri riconoscendo la diversità e la grande qualità dei paesaggi che abbiamo ereditato dal passato, sforzandoci di preservare, o ancor meglio, di arricchire tale diversità e tale qualità invece di lasciarla andare in rovina.”2

Figura 1. Vista della Valle dei Templi 2

Convenzione Europea artt.1, 42 Firenze, ottobre 2000

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2.-GLI INDIRIZZI DI METODO In coerenza con i dettati della Convenzione, le metodologie di pianificazione del paesaggio orientate alla sostenibilità dovranno comportare: - l’apertura di un processo conoscitivo e valutativo, comprensivo delle dinamiche di trasformazione, esteso all’intero territorio in modo da definirne specificità, vulnerabilità e rilevanza per ambiti omogenei; - l’articolazione dei regimi di intervento in tutela, riqualificazione e sviluppo, assumendo nelle differenti situazioni, obiettivi di qualità perseguiti con strumenti ed azioni differenti; - la creazione di un legame diretto tra contenuti propositivi e prescrittivi del piano, aspetti diagnostici, valutativi e dinamici del paesaggio finalizzandolo alla sostenibilità degli interventi, ovvero loro durata nel tempo e loro operabilità da parte di una società complessa. Si farà quindi ricorso alle discipline afferenti le componenti abiotiche, biotiche antropiche e culturali del paesaggio e a quelle attinenti il controllo dell’uso del territorio, considerate nella loro contiguità relazionale e nelle interazioni reciproche, per compiere e integrare in un unico scenario gli adempimenti di seguito elencati: 1. Individuazione delle Unità di paesaggio come unità pre-normative Le Udp costituiranno il risultato della lettura incrociata delle caratteristiche fisiografiche, naturalistiche, estetiche, storico-culturali del territorio considerato rapportata all’interpretazione del sistema insediativo e dell’armatura a rete in relazione ai piani e programmi vigenti e previsti. Così facendo gli aspetti sistemici del paesaggio verranno a trovare un raccordo diretto con quelli urbanistico-localizzativi e normativi. 2. Determinazione della fragilità e della rilevanza paesistica complessiva del territorio. Verrà avviato un processo valutativo della vulnerabilità, delle opportunità e dei rischi propri dei vari ambiti territoriali considerando le modalità di rapporto tra società e ambiente che caratterizzano l’area indagata e le potenziali ricadute sul paesaggio delle attività economiche in essere e previste. Il processo valutativo si articolerà nei seguenti punti: - Valutazione per contesti territoriali strutturalmente diversificati dei punti di forza, dei punti di debolezza e delle opportunità; - Valutazione della rilevanza paesistica e della vulnerabilità del territorio; - Valutazione delle potenzialità di riqualificazione ecologica e paesaggistica. 3. Definizione degli obiettivi di qualità paesistica Nella definizione degli obiettivi di qualità paesistica in funzione dei livelli di vulnerabilità e rilevanza riconosciuti ad ogni ambito territoriale verrà tenuto conto del fatto che, in molti casi, le condizioni di stato suggeriscono di attribuire a ciascun ambito non un solo obiettivo di qualità paesistica, ma più obiettivi da perseguire contemporaneamente. 4. Proposizione di politiche di intervento. Sistema dei requisiti di qualità Verranno suggerite specifiche politiche di intervento da intendersi come la determinazione dei principi e delle decisioni non negoziabili, insieme agli standard di qualità, tutela e trasformazione delle diverse parti. Le modalità con cui tali principi potranno essere tradotti in attività e iniziative, direttamente legate alle differenti destinazioni di zona e agli indirizzi normativi stabiliti dal Piano, costituiranno il sistema dei requisiti di qualità articolato nei seguenti regimi, comunque trasversali: - regime di conservazione e tutela

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seleziona le modalità attraverso le quali si può operare il mantenimento o il restauro/ripristino delle caratteristiche costitutive del sistema ambientale e insediativo; - regime di recupero - focalizza le modalità attraverso le quali si può operare la messa a norma delle parti degradate del territorio avendo come obiettivo la compatibilità della trasformazione; - regime di sviluppo e/o di nuovo impianto - determina le modalità attraverso le quali si possono prevedere ampliamenti e nuove parti dei sistemi insediativi e relazionali, previa verifica di compatibilità. Il percorso testè tracciato è sintetizzato nei diagrammi che seguono. Il primo, “Diagramma di flusso del processo di pianificazione del paesaggio”, propone un possibile modo di strutturare il percorso di pianificazione paesistica nell’ottica della sostenibilità nell’uso delle risorse. Il secondo, “Diagramma delle interdipendenze del Piano del Parco della Valle dei Templi”, tende a specificarne i contenuti per le problematiche e le finalità specifiche del tema in oggetto.

Figura 2. Diagramma di flusso del processo di pianificazione del paesaggio

Figura 3. Diagramma delle interdipendenze del Parco della Valle dei Templi

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3.- LE OPZIONI STRATEGICHE Gli indirizzi di metodo del precedente paragrafo, applicati nella redazione del Piano del Parco della Valle dei Templi di Agrigento, hanno consentito di affrontare le molteplici problematiche di un comprensorio noto a livello internazionale per il suo patrimonio archeologico, dove, tuttavia, il prevalere di una visione infrastrutturalista e commerciale del territorio e l’affermarsi di un turismo di tipo consumistico hanno prodotto un notevole impatto su giacimenti culturali di primaria importanza relegando il resto della Valle ad usi promiscui e spontanei o ad abbandono per cause opposte, ovvero per assenza di interesse e di investimenti. Solo pochi decenni or sono la Valle veniva descritta come un luogo di bellezza idillica segnato dalla storia, cui faceva da sfondo la città moderna “alta e bianca”. Oggi la sua struttura paesistica, e con essa le testimonianze che accoglie, appare mortificata dalla cortina dei grattacieli che le fanno da sfondo, banalizzata da intrusioni visive e detrattori, interrotta dalle infrastrutture viarie che la percorrono in ogni senso. Il regresso delle pratiche agricole, i diffusi fenomeni di franosità, i massicci rimboschimenti a eucalitti, contribuiscono al progressivo scadimento degli aspetti ecologici e percettivi. In altri termini, nonostante che sia territorio protetto da quasi quarant’anni da una legge speciale di tutela e dalle sue successive precisioni3, la Valle sta perdendo la sua essenziale caratteristica di sistema paesistico stabile e unitario per assumere quella di un luogo dove i processi spaziali producono trasformazioni profonde e continue del mosaico paesistico, con incremento dell'artificialità, perdita di funzioni ecologiche e di identità. E’ quindi d’obbligo riflettere sul fatto che un orientamento della strumentazione di piano in termini tradizionalmente cautelativi, ancorché non risolvere il dissidio in atto tra protezione (inefficace perché passiva) e trasformazione del paesaggio (effettiva perché connessa a dinamiche operanti sul piano ecologico e socio-economico), verrebbe ad accentuare la divaricazione del territorio in zone “privilegiate”, oggetto di controlli e divieti, e territorio “altro” da relegare agli usi più diversi e conflittuali. I principi e le regole per una tutela del paesaggio intesa come modalità di governo dei processi evolutivi delle sue molteplici dimensioni debbono quindi essere ricercati nel quadro di una conservazione innovativa, propositiva e condivisa, capace di garantire la coerenza delle proposte programmatiche con gli obiettivi di sostenibilità dello sviluppo. Queste considerazioni sono all’origine delle opzioni strategiche su cui è fondato il processo di Piano. La prima opzione strategica consiste nel passaggio dalla mera gestione dei vincoli alla gestione del patrimonio disponibile con modalità e da parte di soggetti diversificati, e alla produzione di nuovi valori attraverso un “disegno“ di paesaggio in grado di orientare e gestire i mutamenti che comunque, soprattutto in assenza di interventi, interferiscono con esso. La seconda opzione strategica consiste nel far leva sul carattere di “ruralità” della Valle, ancora ben percepibile, per conseguire due risultati parimenti essenziali e interdipendenti: -

riportare il territorio a un’identità unitaria incentivandone quella valenza di paesaggio culturale che contestualizza la stessa presenza dei Templi;

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puntare ad uno sviluppo più equilibrato e ad un territorio produttivo, vivo e dinamico, capace di proporre, in alternativa ai villaggi vacanze e alle seconde case, il complesso mosaico dei sistemi colturali, il quadro di vita, la salute, i prodotti, ecc. L'evoluzione dei modi di vivere ha infatti conferito ai territori che hanno conservato caratteristiche di “ruralità” la prerogativa di luoghi "diversi", potenzialmente spazi dinamici

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Legge 28.9.66 N.749; D.M. 16.5.68; D.M. 7.10.71; citata L.R: N.20 del 3.11.2000 della Regione Sicilia.

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e innovativi capaci di esercitare richiamo sui consumatori e le imprese, purché ne venga aumentata la capacità di attrazione per le persone e le attività economiche. A fronte di un “paesaggio culturale”di indubbia eccellenza che presenta tratti di “campagna vivente”, il Piano applica i principi della Convenzione Europea del Paesaggio per raggiungere un risultato preciso: ottimizzare il potenziale inespresso del territorio agricolo, non più mero luogo di produzione ma "area ecologica" ove affrontare l'impegno degli anni futuri: l'eco-efficienza dell'agire quotidiano e di tutti i manufatti. 4.- LE UNITÀ DI PAESAGGIO COME ENTITÀ PRENORMATIVE L’individuazione delle Unità di paesaggio è stata effettuata con le seguenti finalità: - identificare e valutare i connotati e le caratteristiche complessive del paesaggio della Valle dei Templi attraverso un’analisi mirata dell’ecomosaico; - verificare i possibili effetti negativi indotti sulle componenti del paesaggio dai processi in atto quali l’espansione dei sistemi insediativi e la conseguente deconnotazione tipologica e de-strutturazione funzionale; - fornire un contributo alla precisazione della disciplina normativa per le singole sottozone in cui dovrà essere articolato il territorio del Parco ai sensi della L.R. 20/2000, con particolare riferimento agli indirizzi necessari alla gestione dei soprassuoli in rapporto alle risorse ambientali esistenti e alla vulnerabilità ecologica dei diversi ambiti. Gli aspetti diagnostici sono stati sviluppati sulla base di sopraluoghi e verifiche sul campo, dell’interpretazione delle foto aeree e del confronto comparato dei parametri desumibili dalle conoscenze analitiche di base. La sintesi interpretativa delle conoscenze acquisite ha consentito di riconoscere insiemi interrelati di ambiti paesistici omogenei rispetto alle componenti fondamentali proprie dell'ecologia del paesaggio e alle matrici di origine antropica e di valutarne, sia pure in termini di inquadramento generale, le condizioni di qualità e di criticità e le potenzialità. Pure entro i limiti e le scadenze imposti dalla redazione del Piano, si è potuto riconoscere dove le varie "unità elementari", ove prevale un ecosistema dello stesso tipo, si ripetono in modo più o meno regolare, dando luogo alle unità di paesaggio, vere e proprie sub-aree su cui le politiche ambientali possono essere diversamente caratterizzate. Ogni sub-area risulta infatti abbastanza nota nel suo funzionamento ecologico complessivo, in quanto diversamente caratterizzata sotto il profilo ambientale, e ciò rende possibile, per ciascuna di esse, diagnosticare problemi e predisporre idonee strategie d'intervento. In termini operativi il risultato dei confronti incrociati su base cartografica ha prodotto l'individuazione di 56 aree trasferite in una tabella a matrice in modo che le specificità tipologiche che contraddistinguono ogni singola area possano essere rapportate alle opportunità che esse presentano, e quindi alle politiche più idonee ai fini di una corretta gestione del territorio.

Le Unità di paesaggio e le rispettive classi hanno costituito una base conoscitiva appropriata per: -

la definizione degli obiettivi di qualità paesistica, in funzione del governo degli ecosistemi rilevati, in coerenza con le azioni finalizzate allo sviluppo, improntate a criteri di sostenibilità; - l’azzonamento dell’area del Parco ai sensi della L.R. 20/2000, con la precisazione della disciplina normativa per le singole sottozone. Tali adempimenti sono stati effettuati tenendo conto delle interrelazioni diffuse sul territorio, in modo da affrontare il tema dell’ambiente e del paesaggio in tutta la sua complessità e specificità, con particolare riferimento agli indirizzi necessari alla gestione dei soprassuoli, in rapporto alle risorse ambientali esistenti.

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5.- GLI OBIETTIVI DI QUALITÀ PAESISTICA La crescente attenzione nei confronti del paesaggio è legata alla consapevolezza del ruolo fondamentale che esso può assumere anche in termini di sviluppo durevole. Tuttavia, per poter incrementare il ruolo di volano di uno sviluppo che componga le ragioni dell’ambiente con quelle dell’economia e della società, il patrimonio paesistico deve essere oggetto di innovazione, riqualificazione e manutenzione. E’ quindi necessario fare evolvere le tradizionali politiche di tutela in strategie di promozione della qualità diffusa del paesaggio, cogliendo, come fattore incentivante, le opportunità offerte da quelle iniziative capaci di garantire la fattibilità del recupero anche in termini di impresa.

Figura 4. Il tempio della Concordia

L’obiettivo di riportare il paesaggio a livelli ottimali su base durevole implica infatti la realizzazione di un sistema integrato di interventi, capace di utilizzare tutte le risorse disponibili, ivi compresi nuovi elementi di qualità appositamente ricostruiti, facendo leva sulla collaborazione dei vari attori coinvolti.

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Significativi indirizzi per perseguire la compatibilità tra le opzioni di sviluppo territoriale e quelle di salvaguardia ambientale e paesaggistica, vengono forniti dall’Accordo tra il Ministro per i Beni e le Attività Culturali e le Regioni sull’esercizio dei poteri in materia di paesaggio sottoscritto nel corso del 20014. di cui si riporta di seguito gli articoli introduttivi. Pianificazione paesistica Le regioni assicurano che i valori paesistici presenti nel territorio siano adeguatamente protetti e valorizzati. A tal fine le regioni sottopongono a specifica normativa d'uso e di valorizzazione ambientale il territorio, mediante la redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali aventi le medesime finalità di salvaguardia dei valori paesistici e ambientali e dotati di contenuto conoscitivo, prescrittivo e propositivo, attenendosi ai seguenti criteri e modalità: a) conoscenza dell'intero territorio da assoggettare al piano attraverso: l'analisi delle specifiche caratteristiche storico-culturali, naturalistiche, morfologiche ed estetico-percettive, delle loro correlazioni e integrazione; la definizione degli elementi e dei valori paesistici da tutelare, valorizzare e recuperare; b) analisi delle dinamiche di trasformazione anche attraverso l'individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio; la comparazione con gli altri atti di programmazione e pianificazione; c) individuazione degli ambiti di tutela e valorizzazione ai sensi dell'art. 3; d) definizione degli obiettivi di qualità paesistica indicati nell'art. 4; e) determinazione degli interventi di tutela e valorizzazione paesistica, da realizzarsi coerentemente con le azioni e gli investimenti finalizzati allo sviluppo economico e produttivo delle aree interessate; f) definizione di norme prescrittive per la tutela e l'uso del territorio ricadente negli ambiti individuati ai sensi dell'art. 3. Ambiti di tutela e valorizzazione La pianificazione paesistica regionale disciplina le forme di tutela, valorizzazione e riqualificazione del territorio in funzione dei livello di integrità e rilevanza dei valori paesistici. A tal fine la pianificazione individua i differenti ambiti territoriali, da quelli di elevato pregio paesistico fino a quelli compromessi o degradati.”5

Figura 5. Schema illustrativo degli obiettivi di qualità paesistica e azioni regolatrici prevalenti 4 5

Cfr. Gazzetta Ufficiale 18.5.2001 n. 114 Convenzione europea, artt. 2-3, Firenze, ottobre 2000

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L’Accordo, in adempimento di quanto previsto all’Art. 6 punto D) della Convenzione Europea del Paesaggio, è specificatamente volto a definire i fondamentali obiettivi di qualità paesistica, che dovranno tendere, volta a volta secondo prevalenza, - al “mantenimento delle caratteristiche, dei valori costitutivi e delle morfologie”; - alla “previsione di linee di sviluppo compatibili”; - alla “riqualificazione delle parti compromesse o degradate.” Anche in questo caso, come nella Convenzione, la prospettiva di uno sviluppo durevole del paesaggio è connessa alla possibilità di intervenire con misure diverse, articolate in protezione, gestione e riqualificazione, da privilegiare in funzione dei diversi livelli di valore previamente riconosciuti sulla base di parametri e indicatori convalidati. Come evidenziano gli schemi allegati, il Piano ha sperimentato questo percorso. Sulla base delle invarianti ambientali e paesistiche e dei valori e dei livelli di vulnerabilità riconosciuti, ha stabilitogli standard di tutela e trasformazione delle diverse parti del territorio. Successivamente ha definito gli ambiti di applicazione e le principali azioni regolative dei tre obiettivi di qualità paesistica, tutela / recupero / innovazione, da perseguire in modo integrato e trasversale. Infine ha subordinato l’efficacia, operabilità e durata nel tempo delle proposizioni avanzate ad un forte impegno progettuale e a un opera diversificata di gestione di cui rendere partecipe la collettività locale attraverso un “progetto di paesaggio” concepito per produrre benefici durevoli sulle seguenti componenti : Componente fisico-ambientale: Dalla prioritaria considerazione dei valori strutturali e non negoziabili del paesaggio derivano le scelte fondamentali del progetto, quali la messa in sicurezza del territorio e dei complessi archeologici facendo ricorso a tecniche “leggere”, la conservazione del capitale naturale costituito dalla macchia mediterranea e la gestione della vegetazione naturale e naturaliforme finalizzata a favorirne i processi di evoluzione naturale e la continuità ambientale. Componente economico-sociale: Il paesaggio è inteso come campagna vivente, sede di attività e di produzione con particolare riguardo al ruolo dell’agricoltura e al rapporto tra paesaggio e turismo. Di conseguenza il progetto propone la qualificazione della Valle come area esemplificativa di colture e sistemazioni agricole radicate nella tradizione locale e l’offerta di prodotti e di servizi di qualità con particolare riguardo all’ospitalità diffusa. Componente culturale L’interpretazione del paesaggio come “palinsesto territoriale” e “deposito” della memoria del territorio fornisce gli orientamenti per fare del Parco un luogo di conservazione di un’eredità storica unica ma anche un luogo di eventi da realizzare in ambienti diversi per persone ed esigenze diverse. Componente visuale semiotico-estetica La considerazione di questa essenziale componente del paesaggio comporta un orientamento a diversificare l’ambiente del Parco non solo sotto il profilo ecologico e prestazionale ma anche a implementarne la specificità di “spazio” dei segni con particolare riferimento alla valorizzazione delle “viste” isolate o in sequenza 6.- L’AZZONAMENTO COME SCENARIO COMPLESSO La Legge Regionale 20/2000 istitutiva del Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento all’Art. 2 stabilisce la suddivisione dell’area protetta in tre zone soggette a prescrizioni differenziate: zona I-archeologica, zona II-ambientale e paesaggistica, zona III-naturale attrezzata, e attribuisce al piano il compito di definirne i confini.

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Tale adempimento è stato compiuto nella considerazione del mosaico paesistico e riferito ad un modello d’uso dello spazio come variabile dipendente dalle condizioni ambientali e dalla loro dinamica, tenuto conto della sua operabilità sotto il profilo socio-economico e normativo. Ne è derivato uno scenario certamente più complesso rispetto alla suddivisione dell’area del Parco nelle sole tre zone previste dalla Legge istitutiva, ma in grado di ridurre i rischi di banalizzazione e semplificazione ed aumentare il livello di specificità sia delle modalità di gestione ambientale, che delle norme relative alla disciplina urbanistica. Secondo questa logica alla prima zona afferiscono i giacimenti culturali primari, le principali emergenze visive e antropiche e le colture più rappresentative della Valle. Nel momento in cui assume dimensioni più vaste e più articolate della semplice somma dei siti su cui insistono beni appartenenti al patrimonio archeologico, risulta suscettibile di una gestione ambientale omogenea ma articolata in strategie mirate a conservare, avvalorare e recuperare le caratteristiche plurime di “diversità” che ne costituiscono il vero patrimonio. Alla seconda zona afferisce invece la campagna produttiva in cui si esprimono i valori di permanenza e il significato di ruralità della Valle, da ottimizzare nelle differenti specificità di paesaggio culturale. Il complesso mosaico dei sistemi colturali, l’edilizia tradizionale, il quadro di vita, la salute e i prodotti, ne fanno un territorio vivo e dinamico in alternativa ai villaggi vacanze e alle seconde case. Anche in questo caso le diverse condizioni di stato suggeriscono previsioni di intervento differenziate in rapporto al carattere multifunzionale dell’agricoltura, non solo come attività produttiva, ma come struttura responsabile del quadro vivente del parco dei Templi. La terza zona, infine, comprende le residue aree naturali e le strutture vegetali a cui è legata la conservazione della diversità biologica di flora e fauna. Comprende altresì ambiti potenziali per il miglioramento della funzionalità ecosistemica e della qualità prestazionale del territorio. Anche in questo caso le diverse condizioni di stato suggeriscono previsioni di intervento differenziate in misura delle diverse possibilità di protezione dell’ambiente naturale, dai geotopi delle calcareniti o delle falesie, alle reti ecologiche dei fondovalle fluviali. Si sottolinea come le destinazioni d’uso del suolo si basino su criteri di trasversalità evitando il rischio di semplificazioni e rigidezze con ricadute negative sui disposti normativi. Un primo aspetto di trasversalità è connessa al fatto che all’interno di tutte e tre le grandi tipologie di zona sussistono ambiti oggetto della stessa azione regolatrice prevalente. Ovvero, l’azione conservazionale si esplica sulle quinte sceniche come sui corridoi ecologici primari quali i corsi d’acqua, sulle aree rappresentative di complessi archeologici emergenti come su quelle che ospitano i residui lembi di vegetazione naturale o a colture tradizionali e rappresentative come il bosco di mandorli e ulivi e il giardino di agrumi. A sua volta l’azione di promozione e sviluppo delle potenzialità latenti, con particolare riguardo al turismo sostenibile e alle attività all’aperto, afferisce sia il territorio agricolo produttivo e abitato sia la fascia costiera.

Figura 6. Foto panoramica della città di Agrigento

Infine l’opera di riqualificazione, da attuare a mezzo di Piani di recupero del paesaggio che perseguano nuove condizioni di equilibrio, si concentra su quelle aree interessate da

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insediamenti a carattere urbano costruiti successivamente all’emanazione del D.L.30 luglio 1966 dislocate a corona del perimetro del Parco. Un ulteriore aspetto di trasversalità è denunziato dal fatto che per una stessa sottozona, ove necessario, possono venire suggerite più azioni regolatrici subordinate e conseguenti. E’ il caso, ad esempio, di specifici ambiti fluviali e costieri, dove la irrefutabile azione conservazionale non può essere disgiunta dall’avvio di processi di restituzione delle caratteristiche di naturalità e di funzionalità ecologica.

Figura 7. Piano del Parco, destinazioni d’uso del suolo.

7.- DAL CONSUMO ALL’ESPLORAZIONE GUIDATA DELLE RISORSE Il modello predisposto dal piano per lo sviluppo di un turismo durevole è incentrato su tre livelli di intervento interrelati, con riferimento alla riqualificazione del sistema viario e di trasporto pubblico, all’offerta di nuove prestazioni e servizi, all’utilizzazione del patrimonio edilizio per la creazione di servizi e attrezzature. Considerato che la viabilità attuale, eccessivamente estesa e disarticolata, risulta incompatibile con le finalità dell’area protetta nonché inefficace ai fini della mobilità urbana e extraurbana, vengono individuate specifiche misure per migliorarne le caratteristiche generali di agibilità e sicurezza, contenere e ridurre i fenomeni di frammentazione paesistica, minimare l’impatto del traffico sulle parti più sensibili de territorio. Gli interventi proposti sono numerosi e di diversa portata, e tuttavia la riqualificazione della rete viaria e del sistema di trasporti è sostanzialmente legata alle seguenti proposizioni: - formazione di un grande anello viario di livello intercomunale realizzato tramite l’utilizzo della viabilità esistente e la creazione di brevi tratti di raccordo per lo scorrimento del traffico extraurbano e il collegamento città-mare;

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declassamento o demolizione di tracciati e svincoli non compatibili con il nuovo assetto con previsione delle opportune dislocazioni e interconnessioni funzionali - creazione di una zona a transito limitato d’accesso all’area archeologica e realizzazione in località esterne al Parco di quattro parcheggi scambiatori collegati ad un servizio di bus navette a circuito chiuso in modo da disincentivare l’uso dei mezzi privati. L’allontanamento del traffico dai principali monumenti e sedimi archeologici, lo spostamento delle direttrici di percorrenza ai margini del Parco, la creazione di un servizio pubblico di trasporto ad alta intensità e frequenza, oltre a contribuire in modo sostanziale a ricostituire l’integrità paesaggistica della Valle rendono possibile l’avvio di processi e iniziative volti allo sviluppo durevole del turismo. A questo scopo il Piano propone la diversificazione e la qualificazione dell’offerta culturale, ricreativa, escursionistica, il potenziamento dei servizi e delle attrezzature, la creazione di condizioni ottimali per la commercializzazione dei prodotti locali e l’organizzazione di spettacoli ed eventi. In altri termini, mette a punto un modello di sviluppo personalizzato e originale per la Valle dei Templi, legato al soddisfacimento delle aspettative dei visitatori del Parco, congruente con le finalità conservazionali di risorse uniche e capace di progettare nuovi motivi di interesse radicati nelle specificità locali in modo che il turismo possa avere il massimo ritorno in termini economici e socio-culturali sul maggior numero di attività. Per rendere esplicita la ricchezza delle risorse disponibili viene quindi ampliata, specializzata e qualificata l’offerta degli itinerari archeologici, creato un sistema di itinerari escursionistici e resi accessibili siti e località anche esterne al Parco diversamente orientati sulla base degli interessi dei visitatori. La previsione di percorsi pedonali e ciclabili affiancati da siepi e quinte arborate lungo le aste fluviali, oltre a costituire un’alternativa e un complemento d’area vasta degli itinerari archeologici ed escursionistici, consentirà la costituzione di green ways. Il Piano ha valutato il patrimonio edilizio esistente sulla base del valore intrinseco, dello stato di conservazione e degli usi in essere e, in relazione al quadro complessivo di assetto delineato, ha destinato a Servizi del Parco una serie edifici emergenti per caratteristiche tipologiche o per i rapporti che intrattengono con il paesaggio. Ha altresì definito modalità articolate di gestione, compresa la stipula di convenzioni tra pubblico e privato per tutte le tipologie di servizi stabilite sulla base delle seguenti finalità: -

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servizi per finalità ricreative e di accoglienza: svolgono il ruolo di punti di orientamento, informazione, documentazione, sosta, ristoro e mostra mercato (centri visitatori, centri esposizione e vendita prodotti tipici); servizi per finalità scientifiche e didattico-culturali: ospitano attività di conservazione, ricerca e divulgazione del patrimonio culturale e ambientale (musei, antiquarium, biblioteca unificata, centri didattico-informativi, laboratori artigianali, centri studi e sale convegni). servizi per finalità istituzionali e logistico-organizzative: forniscono supporto alla struttura organizzativa del Parco e ne ospitano le funzioni amministrative (sedi di uffici amministrativi del Parco, di associazioni culturali e di categoria).

8.- IL PROGETTO DI PAESAGGIO In una prospettiva di sviluppo ecosostenibile il Progetto di paesaggio intende costituire un’opportunità per l’incremento della naturalità diffusa e il miglioramento della qualità ecologica, produttiva e percettiva di un territorio che rischia di divenire sempre più ecologicamente povero ed artificializzato sia negli ambiti collinari che in quelli planiziali e costieri. Predispone quindi le condizioni per la salvaguardia rigorosa degli ecosistemi naturali relitti e recenti- tra cui la macchia mediterranea, la gariga, la vegetazione ripariale, la vegetazione

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delle dune e la vegetazione delle rupi calcarenitiche – e dei monumenti vegetali attraverso modalità che ne favoriscano il dinamismo e l’evoluzione specificate nella normativa e nel Regolamento del Parco. Ai fini della riabilitazione del paesaggio del Parco individua un punto di forza nella formazione di neo-ecosistemi paranaturali (tratti di corsi d’acqua rinaturati, siepi campestri, fasce vegetali a fianco di infrastrutture lineari, aree a verde pubblico con contenuti naturalistici, macchie boscate, ecc.) con l’innesco di processi in grado di consentire alle nuove unità ecosistemiche di evolvere secondo linee naturali . Il suggerimento dell’ utilizzo di specie autoctone nella gestione forestale dei boschi di eucalitto e della loro progressiva trasformazione a bosco-parco è connesso all’incremento del loro contenuto ecologico e del loro potenziale ricreazionale in funzione del nuovo ruolo di cintura verde tra il centro abitato e la sottostante vallata. Nei confronti dello spazio propriamente agricolo le opzioni avanzate sono sintetizzabili nei seguenti punti, tradotti in termini prescrittivi nell’articolato normativo: 1. progressivo contenimento di coltivazioni specializzate (monocoltura) e orientamento de soprassuoli a mantenere o riacquistare i caratteri dell’arboricoltura tradizionale (paesaggio policolturale), del vigneto, del prato e del prato arborato; 2. conservazione di ecosistemi specifici particolarmente ricchi, che sarebbero irrimediabilmente minacciati in caso di abbandono dell'agricoltura; che fa capo, sostanzialmente alle colture tradizionali del mandorlo associato all’ulivo e dell’agrumeto nella forma del giardino mediterraneo o “Jardinu” per le quali viene proposta una significativa estensione. 3. continuità di specifiche pratiche cui è legato il "disegno" storicizzato dei paesaggi stessi e la gestione di componenti che hanno una vocazione ricreativa in espansione (percorsi, sentieri, zone boscate, corsi d'acqua, ecc.). Per quanto attiene infine il patrimonio insediativo il Progetto individua la destinazione d’uso di tutti i manufatti esistenti e ne propone il restauro e l’adeguamento per finalità compatibili con l’area protetta, con riutilizzo dei materiali locali e applicazione dei criteri del restauro conservativo. Se si esclude gli edifici destinati a servizi del Parco la quota parte più significativa del patrimonio edilizio è confermata ad uso abitativo nelle tipologie di residenza rurale connessa ad aziende agricole, residenza rurale connessa alla conduzione di terreno agricolo in modo da conseguire il radicamento in loco della residenza stabile cui appoggiare la creazione di un sistema di ricettività turistica diffusa. L'evoluzione dei modi di vivere, delle aspettative, dei mezzi di comunicazione e delle tecnologie ha infatti conferito ai territori che hanno conservato caratteristiche di “ruralità” la prerogativa di luoghi "diversi", potenzialmente spazi dinamici e innovativi capaci di esercitare richiamo sui cittadini, i consumatori e le imprese, purché ne venga aumentata la capacità di attrazione per le persone e le attività economiche. Allo stesso tempo si è riconosciuto che l'agricoltura è e deve rimanere un tramite essenziale tra la popolazione e l'ambiente di cui gli agricoltori sono i custodi, e che pertanto deve interessare settori socioeconomici diversi ed essere armonizzata con una corretta gestione delle risorse naturali e dei paesaggi culturali. Il Progetto di paesaggio consiste quindi nel far leva sulle opportunità di riproduzione e di recupero offerte dallo spazio rurale, per riacquisire la Valle ad un’identità unitaria che contestualizzi la stessa presenza dei Templi, e, insieme, per puntare ad uno sviluppo più equilibrato e ad un territorio produttivo, vivo e dinamico che, in alternativa ai villaggi vacanze e alle seconde case, offra il complesso mosaico dei sistemi colturali, l’edilizia tradizionale, il quadro di vita, la salute, i prodotti, ecc. In sintesi, come esemplificato dagli schemi acclusi, il Progetto di paesaggio costituisce il sistema integrato delle iniziative e delle regole volte alla conservazione degli aspetti significativi e all’orientamento delle trasformazioni del paesaggio, nonché delle necessarie azioni “fortemente lungimiranti” volte al ripristino e all’innovazione paesistica, con

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riferimento ai contenuti delle politiche di salvaguardia, gestione e pianificazione stabiliti dalla Convenzione Europea del Paesaggio.

9.- LE DIECI

OPPORTUNITÀ DEL PIANO QUALE SISTEMA DEI REQUISITI DI QUALITÀ

1. Il Piano stabilisce la tutela dei monumenti e dei siti archeologici con modalità diversificate sulla base delle diverse situazioni e ne promuove la valorizzazione in funzione di forme di turismo sostenibile con la creazione di percorsi tematici e nuovi motivi di interesse e la realizzazione di idonee modalità di parcheggio, accesso e trasferimento anche con l’uso di mezzi alternativi (treno, bus elettrici, ecc.). 2. Dispone misure volte alla conservazione dei geositi, degli ambiti rupestri, fluviali e costieri di preminente interesse naturalistico e paesaggistico e della residua vegetazione delle rupi calcarenitiche, della vegetazione ripariale e della macchia. 3. Salvaguarda i popolamenti di origine artificiale in quanto risorsa ambientale e patrimonio forestale e ne prevede la progressiva naturalizzazione al fine di accrescere la continuità biotica del territorio e creare una cintura verde integrata al sistema degli spazi aperti urbani. 4. Promuove, come misura volta al contenimento degli effetti negativi della frammentazione ambientale e alla riabilitazione ecologica del territorio, la costruzione di macchie e corridoi verdi di vegetazione naturaliforme affiancati da percorsi pedonali, ciclabili ed equestri (green ways) per la connessione funzionale, paesaggistica e ricreativa tra costa, territorio agricolo e città. 5. Tutela l’ambiente costiero e l’area della foce e ne promuove la riqualificazione con individuazione, nel caso delle spiagge, dei tratti in cui poter applicare modelli di difesa “morbida” con prevalenza di ripascimenti e eliminazione delle scogliere parallele alla costa in favore della realizzazione di pennelli o isole. 6. Promuove il recupero urbanistico e ambientale della fascia litoranea, indicando gli interventi volti alla difesa ed alla ricostituzione dei requisiti ecologici degli habitat e una strategia unitaria di intervento nel campo dell’arredo urbano, parcheggi e spazi aperti attrezzati. 7. Pone le condizioni per il mantenimento di modelli colturali agricoli ed ogni tipo di manufatto tradizionale di pregio, e in particolare per la conservazione delle varietà colturali e delle tecniche agronomiche dell’arboricoltura asciutta e del giardino mediterraneo e fornisce sostegno ai processi di riconversione delle realtà produttive locali ai metodi dell’agricoltura biologica in termini di alto contenuto ambientale. 8. Prevede la conservazione attiva e la messa in valore del patrimonio edilizio abbandonato, sotto utilizzato o comunque disponibile e di interesse ai fini del Parco per la creazione di servizi e attrezzature culturali, espositive e didattico-informative e per ricettività extralberghiera. 9. Predispone un piano d’azione per l’ecoturismo componendo un’offerta integrata mare-fiume-monte di natura e arte che apre la Valle a nuove categorie di utenza, destagionalizzando i flussi turistici. 10. Avvalora la riabilitazione del territorio mediante interventi mirati al consolidamento dei versanti in pericolo di crollo e alla sistemazione idraulica delle pendici, il restauro dei siti sottoposti a stress e pressione antropica usuranti, la mitigazione dei detrattori nei confronti degli aspetti di inquinamento visivo, ecc.

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RI-VISTA Ricerche per la progettazione del paesaggio Anno 1 - numero 1- gennaio/giugno 2004 Firenze University Press

LA MOSTRA “PIETRO PORCINAI (1910-1986). IL LAVORO DI UN PAESAGGISTA ITALIANO NELLE IMMAGINI E NEI DISEGNI DELL’ARCHIVIO FIESOLANO” COLONIA. ISTITUTO ITALIANO DI CULTURA, 3 MARZO -13 APRILE 2004 COLONIA. KÖLNMESSE, 5-7 SETTEMBRE 2004 Tessa Matteini*

ABSTRACT La Mostra, inaugurata all’Istituto Italiano di Cultura a Colonia il 3 marzo 20041 e riproposta, nella stessa città, nel settembre successivo alla Kölnmesse, colma una lacuna importante per la conoscenza della figura e delle opere di uno dei maggiori paesaggisti del Novecento. La vicenda umana e professionale di Pietro Porcinai viene presentata per la prima volta al di fuori dei confini nazionali, attraverso i documenti e le immagini fotografiche conservati nell’Archivio di Villa Rondinelli a Fiesole, atelier del paesaggista, laboratorio culturale e centro operativo per lo studio e la creazione di giardini e paesaggi. L’esposizione, curata da Luigi Latini2 con la collaborazione di Tessa Matteini e Marco Cei, è suddivisa in tre parti. La prima si occupa di delineare la figura di Pietro Porcinai, analizzando la sua formazione ed il contesto culturale in cui si è mosso, tra tradizione e modernità; la seconda indaga sullo sviluppo della complessa macchina professionale che gli ha consentito l’invenzione di alcuni tra i più straordinari paesaggi italiani del dopoguerra; la terza infine é dedicata allo studio di cinque progetti esemplari, diversi per ubicazione, tematiche, cronologia, disegno e materia, ma uniti dall’intima ed etica coerenza che pervade tutto il lavoro di Porcinai. PAROLE CHIAVE Porcinai, Villa Rondinelli, Fiesole, Colonia

TRA TRADIZIONE E MODERNITÀ. IL CONTESTO CULTURALE E LA FORMAZIONE Pietro Porcinai nasce nel 1910 a Settignano, sulle colline fiorentine, in un’abitazione annessa alla Villa Gamberaia. Il padre Martino lavora in quegli anni come capogiardiniere per la proprietaria del celebre giardino, la Principessa Catherine Jeanne Ghyka3 che tra il 1898 ed il 1

In questa occasione è stato organizzato un seminario sul tema dei rapporti tra Porcinai e la Germania, a cui hanno partecipato Luigi Latini, curatore della Mostra, Luigi Zangheri dell’Università di Firenze, Michael Rohde dell’Università di Hannover ed Adelheid Schönborn, architetto paesaggista. 2 Luigi Latini, architetto paesaggista nato a San Miniato nel 1956. Ha conseguito il dottorato in progettazione paesistica presso l’Università di Firenze nel 2001. Autore tra l’altro di Cimiteri e Giardini. Città e paesaggi funerari d’Occidente, pubblicato a Firenze nel 1994 e curatore, con Domenico Luciani, del volume Scandinavia: luoghi, figure, gesti di una civiltà del paesaggio, pubblicato a Treviso nel 1998. Dal 1995 collabora con la Fondazione Benetton Studi e Ricerche nel settore paesaggio. 3 Sulla figura della Principessa Ghyka vedi LUIGI ZANGHERI, Pietro Porcinai e la Gamberaia, in MARIACHIARA POZZANA (a cura di), I giardini del XX secolo, l’opera di Pietro Porcinai, Alinea, Firenze 1998, pagg.131-132 e LUIGI ZANGHERI, The influence of Islam on European Garden Architecture as exemplified by

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1900 trasforma il parterre settecentesco di fronte alla villa in un inconsueto water garden, ripetutamente pubblicato come immagine rappresentativa del giardino formale italiano4 su testi e riviste dell’epoca specializzati nel settore. In questo periodo la Gamberaia diviene “uno dei fari, una delle soste magiche nella vita” per molti degli intellettuali che la frequentano come Bernard Berenson5. Ed è qui che Porcinai, ancora bambino, apprende i primi rudimenti dell’arte dei giardini, seguendo il lavoro del padre ed intrecciando lunghe conversazioni sull’argomento con la principessa rumena che lo segue con pazienza e affetto6. Nell’ambiente culturale fiorentino d’inizio secolo, caratterizzato dalla presenza di una rilevante colonia anglofona ed internazionale di artisti ed intellettuali, si assiste intanto alla trasformazione ed al rinnovamento dell’idea di giardino formale all’italiana, caduto in disgrazia agli inizi dell’Ottocento con la moda del parco romantico all’inglese7. Per una particolare combinazione di eventi saranno proprio i progettisti inglesi, come Cecil Pinsent8 e Geoffrey Scott9, a riportare in auge nella Toscana nei primi anni del Novecento, i modelli formali del giardino rinascimentale e barocco, attraverso il disegno e la realizzazione di numerose opere ispirate alle forme ed allo spirito del passato. Appartiene, significativamente, allo stesso periodo il pellegrinaggio culturale di intellettuali inglesi ed americani, in un nuovo Grand Tour che si svolge attraverso i maggiori giardini storici della Penisola, descritti dalla prosa elegante di Edith Wharton10 (Italian Villas and their Gardens, 1904) così come dai bozzetti acquerellati di John Shepherd e Geoffrey Jellicoe11 (Italian Gardens of the Renaissance, 1925). Nel 1924, a Milano, si pubblica la Storia del giardino italiano di Luigi Dami12, opera fondamentale per la creazione di una storiografia nazionale sul giardino, all’epoca

the Villa Gamberaia, in MICHAEL RHODE, RAINER SCHOMANN (a cura di), Historic garden today, Edition Leipzig, Leipzig 2004, pagg.52-57. 4 Vedi LUIGI ZANGHERI, I giardini di Pietro Porcinai, in LUIGI ZANGHERI, Storia del giardino e del paesaggio. Il verde nella cultura occidentale, Leo S.Olshki,, Firenze 2003, pag. 243. 5 Così Bernard Berenson nel suo diario, alla data del 5 marzo 1955: “50 anni fa avevo cominciato a frequentare quel paradiso che apparteneva allora ad una signora rumena narcisistica che viveva misteriosamente, innamorata forse di se stessa e certamente della propria creazione: il giardino della Gamberaia.(...) Comunque la Gamberaia è rimasta per me, fino agli anni ’10 di questo secolo, uno dei fari, una delle soste magiche nella vita.”, citato in LUIGI ZANGHERI, Pietro Porcinai e la Gamberaia, in MARIACHIARA POZZANA (a cura di), op.cit., pag.132. 6 Secondo la testimonianza della figlia del paesaggista, Anna Porcinai, che ringrazio ancora una volta per l’aiuto prezioso fornite nel corso della ricerca. 7 Così Pierre Grimal sull’avvento del giardino paesaggistico: “Alla simmetria, si dice, succede l’asimmetria sistematica, alle composizioni ordinate il disordine, alla tirannia delle potature severe la libertà, ai bacini e ai canali di forma geometrica i fiumi volutamente sinuosi, le serpentine...; alle terrazze e ai piani succedono pendenze capricciose, colline, roccaglie e non più i laboriosi ninfei all’italiana” in PIERRE GRIMAL, L’arte dei giardini, Ripostes, Salerno-Roma 1987, pag. 83. 8 Cecil Ross Pinsent (1884-1963), architetto e paesaggista inglese, autore tra l’altro del giardino della villa dei Tatti a Firenze (1909-1914) per Bernard Berenson, del Giardino di villa le Balze a Fiesole (1914) per il filosofo Charles Augustus Strong e delle sistemazioni paesaggistiche per la tenuta della Foce (1927-1938) a Chianciano per Iris Origo. Sull’attività di Pinsent in Toscana vedi MARCELLO FANTONI, HEIDI FLORES, JOHN PFORDRESHER (a cura di), Cecil Pinsent and his garden in Tuscany, Edifir, Firenze 1996. 9 Geoffrey Scott (1883-1929), scrittore e paesaggista, amico e collaboratore di Cecil Pinsent che affiancò in molte delle opere giovanili. Autore di Architecture of Humanism, pubblicato nel 1914. 10 Edith Wharton (1862- 1937), scrittrice americana di fama internazionale. Suoi The house of mirth (1905), Ethan Frome (1911) e The age of innocence (1920). 11 Geoffrey Alan Jellicoe (1900-1996), inglese, tra i maggiori paesaggisti del Novecento. Oltre alla fondamentale opera sul giardino rinascimentale italiano è autore di The landscape of man: shaping the environment from prehistory to the present day (1975) e, con Susan Jellicoe, Patrick Goode e Michael Lancaster, del dizionario Oxford Companion to Garden (1986). 12 Così Porcinai, nel 1942: “E’ forse più di un secolo che qui a Firenze non si parla dell’arte del giardino contemporaneo, mentre sui giardini del passato l’ indimenticabile Luigi Dami, appassionato e profondo, molto scrisse e parlò”, vedi PIETRO PORCINAI, Giardino e Paesaggio, in I GEORGOFILI, Atti della Regia Accademia, aprile–giugno, Sesta serie, volume VIII, 1942, riportato in “Architettura del Paesaggio Notiziario AIAP”Pietro Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio, Firenze, ottobre 1986, n.10, pag. 16.

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inesistente13, mentre a Firenze, in Palazzo Vecchio, viene allestita nel 1931 la Mostra del Giardino Italiano14. Come si evince dalla prefazione di Ugo Ojetti15, lo scopo della Mostra è quello di riaffermare l’eccellenza del giardino formale (e quindi italiano), nei confronti del giardino romantico o all’inglese. Tralasciando l’analisi delle ovvie implicazioni politiche di una simile affermazione, ben inquadrabile nella cultura autarchica del Ventennio, la Mostra fiorentina si propone, attraverso la presentazione di iconografia storica e di suggestive maquettes tipologiche dei giardini del passato, di stimolarne la conoscenza ed al tempo stesso promuovere un significativo rinnovamento nella progettazione degli spazi verdi. In realtà, al di là dell’importanza storiografica e divulgativa dell’evento, la Sezione della Mostra dedicata alle nuove proposte progettuali, corredata da un concorso vinto da un giovane Michelucci16, si presenta singolarmente povera di idee ed intuizioni originali17. In questo contesto, colmo di fermenti culturali, ma caratterizzato da realtà operative modeste, si svolge l’educazione del paesaggista che passa dai parterres della Gamberaia alle aule dell’Istituto di Agraria di Firenze. Nel 1928, dopo aver conseguito il diploma superiore, Porcinai decide di spostarsi all’estero per completare la sua formazione teorica con nozioni tecniche e pratiche; lavorerà inizialmente presso il vivaio Draps di Bruxelles, e poi in Germania, nel parco del castello di Fürsterstein, vicino a Breslavia18 dove verrà in contatto con la solida tradizione costruttiva e botanica dei paesi dell’ Europa centrale e con il “giardino ‘architettonico’ secondo Behrens, Olbrich, Muthesius o Maasz”19. Anche in seguito, per tutto il resto della sua esistenza, i rapporti con la realtà europea e gli scambi culturali con i colleghi del resto del mondo resteranno una costante nell’attività del paesaggista fiorentino20: i documenti dell’Archivio di Fiesole ci testimoniano una fitta corrispondenza epistolare e contatti continuativi con i maggiori progettisti dell’epoca21,

13 Non così negli altri paesi europei. Si può citare ad esempio Marie Louise Gothein ed il suo basilare Geschichte der Gartenkunst pubblicato a Jena nel 1914. 14 A questo proposito Pietro Porcinai : “Inoltre, sempre a Firenze, fu tenuta nel 1931 in Palazzo Vecchio la Mostra del giardino italiano che se fu lodevole iniziativa come rievocazione storica, fu però altrettanto sterile di risultati agli effetti pratici di una rinascita di quest’arte...”. da PIETRO PORCINAI, Giardino e Paesaggio, in I GEORGOFILI, Atti della Regia Accademia, aprile-giugno, Sesta serie, volume VIII, 1942, riportato in “Architettura del Paesaggio Notiziario AIAP”, Pietro Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio, Firenze, ottobre 1986, n. 10, pag. 16. Per la Mostra del ‘31, vedi MARIACHIARA POZZANA, La Mostra del 1931, in GIANNI PETTENA, PATRIZIA PIETROGRANDE, MARIACHIARA POZZANA, (a cura di), Giardini Parchi Paesaggi. L'avventura delle idee in Toscana dall'Ottocento a oggi, Le Lettere, Firenze 1998, pagg. 41-43. 15 UGO OJETTI, La Mostra del giardino italiano, prefazione al Catalogo della Mostra, stampato a Firenze nella Tipografia Ariani nell’aprile del 1931, pagg. 23-25. 16 Cfr. l’intervento di Luigi Zangheri all’International Interview about the history of attitudes towards the past in the garden conservation, svoltosi a Firenze il 5 e 6 dicembre 2003. Giovanni Michelucci (1891-1990), architetto pistoiese. Tra le sue opere maggiori, la Stazione di S.M. Novella a Firenze, progettata con il Gruppo Toscano (1932-’35), la Borsa Merci (1949-’50) e la Chiesa della Vergine (1957) a Pistoia e la Chiesa di San Giovanni Battista, lungo l’Autostrada del Sole tra Firenze e Prato (1961-’64). 17 Come commenterà nel 1937 Porcinai in un articolo pubblicato su “Domus” : “ Dopo il ‘700 l’Italia non ha più avuto un giardino degno della passata tradizione. Eccolo il giardino d’oggi, non se ne scappa: aiuole, aiuolette ovali, rotonde, e d’altre indescrivibili forme, divise da viali e vialetti tortuosi, capricciosamente serpeggianti. Si hanno anche giardini geometrici e regolari come gli antichi esistenti, ma mai di questi riescono a riprodurre lo spirito, l’atmosfera, il carattere.” “Domus” n. 118, dell’ottobre 1937, riportato in “Architettura del Paesaggio Notiziario AIAP”, Pietro Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio, Firenze, ottobre 1986, n. 10, pag. 14. 18 LUIGI ZANGHERI, I giardini di Pietro Porcinai, in LUIGI ZANGHERI, op. cit., pag. 243 19 JANA REVEDIN, Pietro Porcinai come progettista riformatore: la sua formazione nella Germania di inizio secolo, in MARIACHIARA POZZANA (a cura di), op. cit., pag. 44. 20 Nel 1948 Porcinai fa parte del gruppo internazionale di paesaggisti che, a Cambridge, fonda l’IFLA o International Federation of Landscape Architects. Cfr. MILENA MATTEINI, Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio , Electa , Milano 2004, pag.53 e pag.241, nota 59. 21 In particolare vedi la corrispondenza di Porcinai con i paesaggisti inglesi Geoffrey A. Jellicoe, Sylvia Crowe e Russell Page, con la tedesca Gerda Gollwitzer e lo svizzero Willi Neukom , con il belga René Pechère, con il danese Carl Theodor Sørensen, e con la svedese Ulla Bodorff, contenuta nel Faldone 313 dell’Archivio Porcinai, a Fiesole.

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mentre la considerazione ed il prestigio di cui Porcinai gode a livello internazionale22 gli varranno, nel giugno del 1979, il conferimento, da parte della Bayerische Akademie der schönen Kunste, dell’anello di von Sckell23, la massima onorificenza concessa ad un paesaggista in Germania.24 Di ritorno dai primi viaggi, Porcinai viene assunto come tecnico all’Istituto di Agraria, ma, nel 1932, la mancata aderenza al Partito Nazionale Fascista, lo costringe ad accettare una collaborazione come progettista interno nell’ufficio tecnico del vivaista Martino Bianchi di Pistoia, dove resterà per due anni, facendo pratica sul campo ed assimilando nozioni preziose sul funzionamento della produzione vivaistica e sul modus operandi delle aziende. Nei primi progetti autonomi per giardini privati di una certa rilevanza, come quelli redatti per la scomparsa villa Scarselli a Sesto Fiorentino (1932)25, per Il Quercione a Settignano (1937), o per villa La Striscia ad Arezzo (1937), Porcinai mantiene in planimetria un impianto di matrice classica e formale, in sintonia con la tradizione e con lo stile dell’epoca, ma lo studio attento dei bozzetti e di sezioni ed alzati progettuali, così come delle immagini fotografiche delle realizzazioni, trasmette una visione del giardino già moderna e libera da formalismi, attenta ai meccanismi dell’abitare e alle dinamiche di sviluppo della vegetazione. Cifre distintive della attività giovanile del progettista, sono l’uso prevalente di alberi ed arbusti sempreverdi26 e la ripetuta citazione del giardino della Gamberaia, evocato con le linee pure di esedre di cipresso tagliate in forma a chiudere, od a incorniciare il paesaggio circostante. Nel 1938, Porcinai, apre il primo studio sul Lungarno Corsini con gli architetti Nello Baroni27 e Maurizio Tempestini28, con l’intento di creare una società integrata di professionisti, pronti a far fronte ad ogni problema progettuale: Baroni si occuperà del progetto architettonico, Tempestini dell’arredamento e del design e Porcinai del disegno e realizzazione del giardino. L’accordo professionale tra i tre verrà formalizzato nel 1947, con la creazione della ‘OP’, “Organizzazione professionisti per la sintesi nel lavoro”. In questo modo nascono, tra gli altri, i progetti per villa Bona (1938-’41) e villa Maggia (1938-’43) a Torino, il progetto per ‘La Bussola’ alle Focette (Lucca) del 1947-‘48, quello per lo stabilimento balneare della ‘Canzone del Mare’ a Capri (1948) ed il progetto per il complesso delle Panteraie a Montecatini (1954-’56). 22 Così Geoffrey Jellicoe scrive su Porcinai: “Ci sorprese che in una terra famosa per i giardini classici, non esistesse, evidentemente, nessun altro professionista italiano del suo calibro. La sua particolare genialità consiste nell’aver riconosciuto e assorbito le qualità del mondo classico e, per loro tramite, di aver fatto irruzione nel mondo del XX secolo.”, cfr. la testimonianza di Jellicoe in MILENA MATTEINI, op. cit., pag. 283. 23 Friedrich Ludwig von Sckell (1750-1823), celebre paesaggista tedesco, autore del Beiträge zur Bildenden Gartenkunst, pubblicato nel 1818 e direttore dei giardini di corte a Monaco di Baviera dove progetta l’Englischer Garten . Vedi MILENA MATTEINI, op. cit., pag. 243, nota 128 e JANA REVEDIN, Pietro Porcinai come progettista riformatore: la sua formazione nella Germania di inizio secolo, in MARIACHIARA POZZANA (a cura di), op. cit., pag. 43. 24 Pietro Porcinai è l’unico italiano ad aver ricevuto l’anello di Sckell. La motivazione del conferimento fu nei “(...) suoi meriti straordinari nella progettazione e conservazione di giardini e paesaggi dei paesi del Mediterraneo nonchè nel far rivivere la natura distrutta al di fuori dell’Europa. Pietro Porcinai realizzò questi compiti in modo creativo e responsabile (...)”, riportato nella testimonianza di Gerda Gollwitzer in “Architettura del Paesaggio Notiziario AIAP”, Pietro Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio, Firenze, ottobre 1986, n. 10, pag. 125. 25 Purtroppo distrutto negli anni ’50 per i lavori di costruzione dell’Autostrada del Sole. Vedi MILENA MATTEINI, op. cit., pag. 22 e LUIGI ZANGHERI, I giardini di Pietro Porcinai, in LUIGI ZANGHERI, op. cit., pag. 245. 26 “Il giardino italiano infatti, per la maggiore intensità luminosa della nostra atmosfera, deve trovare la sua forma emotiva più nel giuoco chiaroscurale di luci e ombre delle diverse masse di verde che non sull’effetto coloristico...”, vedi Pietro Porcinai in “Domus” n. 118, ottobre 1937, riportato in “Architettura del Paesaggio Notiziario AIAP”, Pietro Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio, Firenze, ottobre 1986, n. 10, pag. 15. 27 Nello Baroni (1906-1958), architetto. Protagonista dell’architettura razionalista fiorentina degli anni ’30,’40 e ’50, ed autore tra l’altro del Teatro Rex (1936-’37), del restauro del Teatro Verdi (1951) in via Nazionale, del Cinema Capitol (1957), in piazza dei Castellani ed, insieme a Giovanni Michelucci ed al Gruppo Toscano, di cui faceva parte, della Stazione ferroviaria di Santa Maria Novella (1932-’35). 28 Maurizio Tempestini (1908-1960), architetto fiorentino, si occupa in prevalenza di arredamento e design.

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LA MACCHINA PROFESSIONALE ED IL TALENTO PROGETTUALE Nel 1957 Porcinai trasferisce il suo studio alla Villa Rondinelli, sulla via Vecchia Fiesolana, un tempo foresteria della vicina villa Medici. La malattia e la morte dei colleghi ed amici Baroni e Tempestini inducono il paesaggista all’abbandono del comune studio sul Lungarno, per creare un nuovo centro operativo in cui si svolgerà tutta l’attività professionale dei prossimi decenni, ricca e diversificata29. Il laboratorio di villa Rondinelli è una macchina complessa, suddivisa in numerose unità o settori30, ciascuno con una propria funzione definita, e concepita per rispondere nel modo migliore ad ogni incarico professionale, dalle sistemazioni paesaggistiche agli allestimenti temporanei. Esaminando le testimonianze dell’archivio, è possibile rintracciare compiutamente lo svolgimento delle varie fasi dell’iter programmato: i contatti preliminari con il possibile cliente, reperibili nella documentazione accurata della corrispondenza e dei contatti telefonici, il rilievo geometrico e vegetazionale, i ripetuti sopralluoghi, le campagne fotografiche accurate31, lo studio delle visuali e delle caratteristiche morfologiche, geologiche e pedologiche dell’area su cui intervenire. Per la fase successiva, quella progettuale ed operativa, l’Archivio fornisce, per ognuno dei lavori posteriori alla metà degli anni ‘40, una cospicua documentazione grafica e fotografica, a tutte le scale e su tutti i supporti, che testimonia un’attenzione costante al funzionamento generale del giardino, così come al dettaglio tecnico più minuto.

Figura 1: fotografia di Tessa Matteini. Il giardino della Villa del Castelluccio a S.Croce sull’Arno (1971-’80).

Ci sono poi i contatti con i fornitori e con le ditte coinvolte nella realizzazione; i vivaisti sono di volta in volta, i migliori sul mercato per le specie utilizzate: i due esemplari di Platanus già adulti, necessari per il giardino della villa Benelli a Pian dei Giullari vengono acquistati ad 29

L’Archivio di villa Rondinelli a Fiesole contiene oggi la documentazione di 1318 progetti. Sull’organizzazione dello Studio Porcinai vedi PIER CESARE BOZZALLA, L’organizzazione dello studio Porcinai, in MARIACHIARA POZZANA (a cura di), op.cit., pagg. 178-192. 31 Talvolta, per una migliore conoscenza del sito su cui intervenire, venivano commissionate dallo Studio Porcinai anche serie di fotografie aeree. 30

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esempio, dopo lunghe ricerche, presso un vivaio di fiducia di Amburgo32, in quanto al momento non reperibili sul mercato italiano. Fondamentale, nella progettazione e realizzazione di ogni giardino è il rapporto che Porcinai instaura con il cliente. Rapporti di fiducia, di rispetto, di scambi culturali, talvolta anche di affetto ed amicizia. Il committente è figura fondamentale per la comprensione dei lavori di Porcinai33: dall’interazione dialettica tra le due individualità distinte e complementari del progettista e del proprietario nasce infatti l’unicità dell’opera. La cura continua di una rete di contatti vasta e diversificata, nazionale ed internazionale, come testimoniato dal cospicuo ed ordinatissimo indirizzario dello studio, consente a Porcinai una continuità nell’operare rara tra i professionisti suoi contemporanei, spesso legati ad un orizzonte professionale provinciale e limitato. Dalla fine degli anni ’60, gli incarichi non riguardano più soltanto i giardini privati che rimarranno comunque uno degli ambiti privilegiati di Porcinai: il progettista inizia infatti, con competenza e passione, ad occuparsi anche di paesaggio, ecologia e recupero ambientale. Nell’Italia industrializzata del miracolo economico, si avvertono intanto le prime preoccupazioni per la salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio ed anche se ad interessarsene sono soltanto poche, illuminate, Cassandre, e Porcinai con loro, l’opinione pubblica comincia a prendere lentamente coscienza dei pericoli legati al boom industriale34. Il paesaggista aveva già da tempo avvertito l’urgenza del problema ed in più occasioni accortamente sottolineato l’importanza delle tematiche ecologiche nella progettazione, come ad esempio nella Memoria letta all’Adunanza dell’Accademia fiorentina dei Georgofili il 26 aprile del 1942:“(...) la Natura - da un pugno di terra, ad un prato, all’Universo intero - è sempre ed ovunque, un organismo vivo, inscindibile, non frazionabile, nel quale ogni parte, ogni aspetto ed ogni problema hanno la loro relazione di armonia con tutti gli altri, e di conseguenza, ogni azione dell’uomo che influenzi un elemento, porta le sue conseguenze anche su molti altri ad esso intimamente legati.”35 L’attenzione per le problematiche paesaggistiche ed ambientali conduce Porcinai ad occuparsi di temi come il recupero di aree di cava o la minimizzazione di impatto per gli stabilimenti industriali; nel 1979 a Sarche di Calavino, vicino a Trento, , redige un progetto dinamico che “precede, convive e segue l’attività di coltivazione della cava”36, mentre nel ’72 per lo stabilimento dell’Italsider a Taranto, costruisce una barriera in terra e vegetazione per l’allontanamento delle polveri di scorie residue dalle aree residenziali limitrofe37.

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I due Platanus x acerifolia di 7-8 m di altezza, 3 mt di chioma e 45 cm di circonferenza tronco, verranno acquistati dalla Ditta Lorenz von Ehren di Amburgo nel febbraio del 1964 per la cifra di 680 marchi tedeschi. Cfr. ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Faldone n. 373. 33 “Da Filarete a Wright, tutti hanno ammesso che per fare dell’architettura – e questo vale anche per il giardino, che è un’aspetto dell’architettura - occorrono tre elementi: il Committente, l’Architetto ed il Costruttore. Mancando uno dei tre non si possono eseguire buone e belle costruzioni. Se il Committente non ha passione per il giardino, mentre ne hanno l’Architetto e il Costruttore, il risultato non può essere buono. Lo stesso avviene se l’Architetto o il Costruttore non sono adeguatamente preparati.”, così Pietro Porcinai nell’introduzione al libro di RENZO BERETTA, Composizione e costruzione dei giardini, Edagricole, Bologna 1970. 34 “Dal 1950 al 1980 si verificarono mutamenti catastrofici nel paesaggio urbano e rurale della penisola; molti centri storici di città furono trasformati irreversibilmente, mentre i sobborghi crebbero come caotiche giungle di cemento. Migliaia di chilometri di costa furono rovinati per sempre da speculatori che si arricchirono nel soddisfare la domanda di alberghi e seconde case. Boschi , valli alpine, villaggi di pescatori, lagune e isole, furono inquinati, distrutti o resi irriconoscibili.” da PAUL GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino 1989, pag. 334. 35 Da Pietro Porcinai, Giardino e Paesaggio, in I GEORGOFILI, Atti della Regia Accademia, aprile-giugno, Sesta serie, volume VIII, 1942, riportato in “Architettura del Paesaggio Notiziario AIAP”, Pietro Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio, Firenze, ottobre 1986, n.10, pag. 29. 36 Vedi la scheda di MILENA MATTEINI , Progetto di recupero ambientale di una cava, in “Architettura del Paesaggio Notiziario AIAP”, Pietro Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio, Firenze, ottobre 1986, n. 10, pagg. 110-111. 37 “Si è pensato di riprodurre rapidamente ciò che la natura ha funzionalmente prodotto sulle coste sabbiose del mare, cioè le dune coperte di vegetazione (...) che deviando il vento proveniente dal mare verso l’alto e in pari tempo rompendolo e riducendone la velocità, impediscono alla salsedine di penetrare nell’entroterra (...), sistemi

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Nel 1965 Porcinai viene nominato consulente paesaggistico per l’Autostrada del Brennero e membro della Commissione di studio per i provvedimenti sulle strade alberate. Per documentarsi si reca negli Stati Uniti a studiare le Parkways38 e le Freeways, perfezionando così la sua formazione su un’argomento del quale aveva cominciato ad interessarsi negli anni’30. Risale al 1937 un suo articolo su “Domus”, intitolato Paesaggio stradale39, ed ancora anteriore è la documentazione accurata delle realizzazioni tedesche di Alwin Seifert40. Negli stessi anni Porcinai si confronta con la tematica della progettazione paesistica di siti archeologici41: nel 1963 l’Unesco lo invita, con il danese Hansen e l’olandese Klasens, a far parte della Commissione internazionale incaricata del progetto paesaggistico per il trasferimento dei templi di Abu Simbel, in seguito alla costruzione della diga di Assuan.

Figura 2. foto Mimmo Jodice. Stabilimento Olivetti a Pozzuoli (1951-’52).

Nel 1973 il paesaggista viene convocato dal Soprintendente alle Antichità della Sicilia, occidentale, Vincenzo Tusa, per la progettazione dell’intera area archeologica di Selinunte42 che intraprende con la consueta competenza professionale e capacità di interpretazione dei luoghi: esemplari il rispetto e la valorizzazione delle emergenze archeologiche, l’integrazione con l’ambiente e l’efficacia con cui tutte le funzioni del Parco vengono dislocate. Un’altra tematica che ricorre spesso negli incarichi affrontati nel Dopoguerra dallo Studio Porcinai è la progettazione del verde nei luoghi dedicati al lavoro ed alla produzione. Ne sono naturali che l’uomo ha spesso interrotto e distrutto, portando distruzione e morte nell’entroterra”, dalla Relazione di progetto, riportata in MILENA MATTEINI, op. cit., pag. 199. 38 Su Porcinai e le Parkways vedi GUIDO FERRARA, L’Architettura del paesaggio vive, in MARIACHIARA POZZANA (a cura di), op. cit., pag. 11. 39 Pubblicato su “Domus” n.115 del luglio 1937 e riportato in “Architettura del Paesaggio Notiziario AIAP”, Pietro Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio, Firenze, ottobre 1986, n. 10, pagg. 10-14. 40 Alwin Seifert (1890-1972), architetto paesaggista tedesco. Si occupò negli anni ’30 della progettazione dell’intero sistema autostradale tedesco, curandone con attenzione l’inserimento all’interno del paesaggio, anche agrario. Scrisse diversi testi sulla progettazione del verde, acquistati e consultati da Porcinai che lo conobbe nel 1938, a Berlino, al Congresso Internazionale di Ortoflorofrutticoltura. Cfr. MILENA MATTEINI, op. cit., pag. 28 e pag. 241, nn.34 e 37. 41 Nel 1948 Porcinai si era già occupato di questo tema, con la sistemazione a verde dell’area della Cupa, a Perugia, lungo la cinta muraria di epoca etrusca. Vedi MILENA MATTEINI, op. cit., pagg. 54-55. 42 Il progetto viene redatto con la collaborazione del professor Franco Minissi e dell’ingegner Matteo Arena. Vedi MILENA MATTEINI, op. cit., pagg. 208, 214 e ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Faldone 161.

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esempi straordinari i giardini per lo stabilimento Olivetti a Pozzuoli, progettato agli inizi degli anni ’50 da Luigi Cosenza43, le sistemazioni per il Lanificio Zegna a Trivero presso Vercelli (1961-’62) e lo splendido e sostenibile ‘parco ecologico’44 realizzato nel 1972 per la nuova sede della Mondadori a Segrate, progettata da Oscar Niemeyer45. Continuano intanto anche le commesse per i giardini privati, in alcuni casi autentici capolavori, ormai completamente affrancati dal formalismo degli esordi: le realizzazioni dagli anni ’50 fino agli ‘80 , mostrano un talento maturo e consapevole ed una perfezione nella esecuzione tecnica e nella scelta dei materiali e delle specie perseguita fino al minimo dettaglio, come nei giardini per la villa Riva ad Alpino (1951-‘52) e per la villa Fiorita a Saronno (1953-’58), realizzati in collaborazione con lo studio BBPR46, in quello della Villa Il Martello a Fiesole (1973), nella porzione di paesaggio creata intorno alla villa il Castelluccio a Ponte a Cappiano (1970-‘81), o nei giardini Farsetti a Marina di Pietrasanta. CINQUE GIARDINI La Terza ed ultima sezione della Mostra propone immagini e documenti per lo studio e la comprensione di cinque progetti esemplari tra i giardini di Porcinai, con l’intento di trasmettere il metodo rigoroso e la libertà creativa che sottendono alla costruzione di questi straordinari paesaggi contemporanei. Il primo progetto è quello per il giardino della villa dei Collazzi, un edificio cinquecentesco attribuito a Santi di Tito sulle colline a sud di Firenze, redatto tra il 1938 ed il ’41 per una committenza colta e raffinata47. L’esigenza di rendere praticabile la scarpata antistante ad uno dei lati corti della villa, in precedenza coltivata a vigneto, conduce Porcinai alla creazione di uno spazio pianeggiante dalle linee purissime, caratterizzato dal segno essenziale della piscina rettangolare48, inciso nell’ampia superficie uniforme del prato, e da un cerchio di cipressi che concludono la visuale, memoria e citazione della natia Gamberaia. Nelle diverse versioni successive del progetto, rintracciabili nei documenti esposti49 é possibile seguire l’evoluzione progressiva dell’idea iniziale, attraverso una graduale rarefazione e depurazione dei segni, in parte condizionata dai suggerimenti dei committenti50.

43 Luigi Cosenza(1905-1984), ingegnere napoletano, laureato in Ponti e Strade presso l’Università di Napoli nel 1928 e maestro del razionalismo partenopeo. Suoi il Piano Regionale per la Campania del 1943, il Piano Regolatore di Napoli (1945-’48), il Quartiere Sperimentale a Posillipo, realizzato nel corso degli anni ’40 e la nuova Facoltà di Ingegneria di Napoli, progettata negli anni ’50. 44 Il parco è concepito come un sistema ecologico funzionante, inserito nel paesaggio agricolo della pianura lombarda. Il grande bacino è anche riserva per l’irrigazione, l’antincendio ed il raffreddamento degli impianti. Cfr la scheda di MILENA MATTEINI, Parco ecologico nuova sede Mondadori in “Architettura del Paesaggio Notiziario AIAP”, Pietro Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio, Firenze, ottobre 1986, n.10, pag.103, e MILENA MATTEINI, op.cit.,pag.198. 45 Oscar Niemeyer, nato nel 1907 a Rio de Janeiro, uno dei maggiori architetti brasiliani. Tra le sue opere principali, molti degli edifici pubblici per la nuova capitale Brasilia, dal 1947, il Palazzo per le Nazioni Unite a New York (1947), la sede del Partito Comunista a Parigi tra il 1970 ed il ’72, il Museo di Arte Contemporanea a Niteroi (1994) ed il progetto per l’Auditorium di Ravello. 46 Gruppo di progettazione costituito nel 1932 a Milano da Gian Luigi Banfi, Ludovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers. Tra le opere principali il Piano regolatore della Val d’Aosta (1936’37), la Colonia Elioterapica di Legnano (1939) e nel dopoguerrra, dopo la scomparsa di Banfi, la Torre Velasca a Milano (1958). Sul rapporto tra Porcinai ed i BBPR, cfr. la testimonianza di Belgiojoso in MILENA MATTEINI, op.cit., pagg. 283-284. 47 Si tratta della famiglia Marchi. 48 La piscina viene realizzata nel 1939, rivestita in mosaico di quarzite gialla con cimasa grigia in pietra serena. Cfr. ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Faldone 507, lettera di Giulio Marchi a Pietro Porcinai, datata 12 febbraio 1941. 49 Vedi ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Disegni, I Collazzi. 50 Cfr. tutta la corrispondenza relativa al lavoro tra Porcinai e Giulio Marchi, in ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Faldone 507.

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Un documento di straordinario interesse é costituito da una lettera scritta nel ’43 da Gio Ponti51 a Pietro Porcinai52, all’interno della quale uno schizzo del designer delinea l’immagine essenziale ed icastica che caratterizza l’intero progetto. Il secondo progetto è quello per il giardino di villa il Roseto che il paesaggista progetta e realizza tra il ’60 ed il ’65 per la famiglia Benelli53 in una proprietà sulle colline fiorentine di Pian dei Giullari. L’iter progettuale per giungere alla complessa soluzione definitiva è lungo ed impegnativo, come ci testimoniano la serie progressiva dei disegni prodotti dallo Studio di Villa Rondinelli agli inizi degli anni ‘6054 e la fitta corrispondenza con i committenti e con le ditte incaricate delle forniture dei materiali55. L’intuizione originale che dà forma al giardino è la creazione di una piattaforma pensile, sopraelevata rispetto alla quota esistente, che trasforma completamente le proporzioni dell’edificio ed i suoi rapporti con il paesaggio circostante. Prima dell’intervento di Porcinai, il volume della villa emergeva visivamente rispetto al terreno circostante, cui si raccordava mediante due scalinate, mentre la costruzione della terrazza panoramica trasporta il giardino al livello dell’abitazione, alterando le relazioni prospettiche e percettive tra la casa ed il suo intorno.

Figura 3. fotografia di Luigi Latini. La terrazza pensile del Roseto (1960-’65).

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Gio Ponti (1891-1979), architetto milanese, laureato al Politecnico di Milano, fondatore nel 1928 della rivista “Domus” che dirige, salvo brevissime interruzioni fino alla morte. Tra i maggiori designer italiani, collabora con tutte le principali aziende nella produzione di oggetti d’uso. Come architetto, progetta, nel ’56 il Grattacielo Pirelli a Milano. Tra i suoi scritti, La casa all’italiana del 1933 ed Amate l’Architettura del ’57. 52 La lettera è datata Milano, 1 settembre del 1943 e conservata presso l’Archivio Porcinai, all’interno del faldone 507, relativo ai Collazzi. 53 Giorgio e Marisa Benelli, proprietari di altri due giardini progettati da Porcinai, quello di Villa Palmieri ed il piccolo giardino con piscina di villa la Palmierina (1970-’72).Sul giardino del Roseto vedi anche MILENA MATTEINI, op.cit., pagg. 138-139, BIAGIO GUCCIONE in MARIACHIARA POZZANA (a cura di), op.cit., pag.107. 54 ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Disegni, Benelli/Il Roseto. 55 ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Faldone n. 373.

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Al tempo stesso, il piano pensile costituisce la copertura di un ampio ambiente, decorato con raffinata eleganza56, che risponde a diverse funzioni: ingresso principale all’abitazione, garage con venti posti auto e salone per le feste57. La piattaforma panoramica soprastante che ‘proietta’ lo sguardo verso lo skyline lontano della città, in precedenza non visibile, è un giardino formale realizzato con i materiali e con le modalità colturali della tradizione58, ma caratterizzato da un disegno modernissimo ed astratto, costruito su ripetuti rimandi alla forma circolare. Il terzo progetto analizzato è quello per la proprietà dell’Apparita, nei dintorni di Siena, dove Porcinai, tra il 1966 ed il ’70 costruisce per Giovanni Guiso59, notaio senese appassionato di teatro, un giardino destinato a confrontarsi con l’elegante essenzialità di un edificio padronale attribuito a Baldassarre Peruzzi.

Figura 4: fotografia di Luigi Latini. L’Apparita, il teatro (1966-’70).

Il progetto per il giardino dell’Apparita costituisce un esercizio di ascolto del paesaggio circostante, riproposto artificialmente in chiave raffinata e sapientemente depurata dagli ‘accidenti’ che ne impediscono la completa godibilità . Per il resto, il giardino diventa una perfetta ‘macchina della visione’, studiata con l’intento di regolare con attenzione i rapporti visuali e percettivi con il paesaggio e l’abitazione.

56 Lo spazio, coperto da volte ribassate e sostenute da pilastri in cemento armato, è pavimentato da un imbrecciato di ciottoli bianchi e neri e decorato con graffiti a ‘pettine’, simili a quelli usati sui muri delle strade collinari nei dintorni di Firenze. 57 Infatti, proprio qui nel 1969, Porcinai progetta l’allestimento per una grande festa in onore del diciottesimo compleanno della figlia dei Benelli. Vedi la corrispondenza relativa in ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Faldone n. 373. 58 Pavimentazioni di pietra arenaria subbiata, pavet di ciottoli, superfici erbose e siepi disegnate con ars topiaria. 59 In una lettera del 10 febbraio del ’70 Guiso ringrazia Porcinai per la “sublime sistemazione del paesaggio, dovuta alla sua raffinata fantasia.”Vedi ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Faldone 346. Sull’Apparita vedi anche MILENA MATTEINI, op. cit., pagg.165-167, BIAGIO GUCCIONE in MARIACHIARA POZZANA (a cura di), op. cit., pag. 108.

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Porcinai trasforma l’intero spazio, creando un nuovo percorso di accesso alla casa, dal tracciato sinuoso risolto in trincea60, per consentire un avvicinamento graduale ed indiretto che valorizzi la ‘scoperta’ progressiva dell’architettura. Il gesto creativo che caratterizza il nuovo paesaggio è costituito dal segno forte della cavea del teatro, in terra ed erba, individuabile nei documenti progettuali come il nucleo vitale della composizione fin dai primi schizzi di studio61. Il quarto progetto esposto è quello riguardante un giardino, oggi scomparso, realizzato a Colonia tra il 1961 ed il ’64 per la famiglia Theobald. Pietro Porcinai e l‘ingegner Herbert Theobald si incontrano in Toscana, nel ’60, in occasione di una vacanza della famiglia tedesca all’Isola d’Elba. I Theobald conoscono ed apprezzano i lavori del paesaggista, pubblicati sulle riviste europee specializzate 62 e gli commissionano la sistemazione del giardino per la nuova casa di Colonia. La proposta stimola ed interessa Porcinai, ben disposto verso ogni tipo di sperimentazione professionale. La gestazione del progetto è lunga ed i contatti con i committenti, continui e cordiali63. Il progetto, inizialmente proposto in due versioni alternative, prevede un giardino suddiviso in ambiti separati, in ‘stanze’, dedicate a funzioni diverse. L’insieme tuttavia possiede una organicità ed una fluidità che lo rendono armoniosamente unitario e perfettamente integrato con l’abitazione. Il nucleo centrale del giardino è costituito da una grande piscina rettangolare, in cui la vasca natatoria è affiancata, secondo un uso più volte sperimentato da Porcinai64, da vasche laterali contenenti piante acquatiche. Il raffinato disegno delle pavimentazioni in teak ed in lastre di pietra, geometrico e disposto su quote leggermente sfalsate, è ammorbidito dalle masse organiche dei gruppi di arbusti fioriti e di alberature di dimensioni ridotte65. L’ultimo dei progetti esposti è quello del giardino realizzato per Giuseppe Recchi a Portofino, tra il 1966 ed il ’69, su un ripido versante della Riviera di Levante, sistemato con terrazzamenti olivati, a picco sul mare66. In questo caso, l’eccezionalità dell’ambiente spinge Porcinai ad un progettazione discreta e leggera, fatta in prevalenza di dettagli e preziosismi tecnici. L’intero giardino viene calibrato sul paesaggio circostante, attraverso il perfezionamento dei rapporti prospettici e percettivi, esaltati o aggiustati con lievità, e la creazione di percorsi diversificati per fruire lo spazio. La vegetazione, prevalentemente mediterranea, scelta fra specie autoctone e alloctone, con l’intento di fornire fioriture ed effetti ornamentali continui67, si inserisce con garbo tra gli olivi esistenti ed i pini d’Aleppo che costituiscono il nucleo originale dell’idea progettuale68. 60 Le scarpate così ottenute vengono consolidate con tecniche di ingegneria naturalistica ed un sistema di idrosemina su paglia e materiali bituminosi, consigliato dall’ingegner Schiechtl con il quale Porcinai ha collaborato nelle sistemazioni paesaggistiche per l’Autostrada del Brennero negli anni ’60. La semina con il metodo idrobituminoso ‘Schiechtl’ viene effettuata dalla Stabilimento di Orticoltura Francesco Van den Borre di Treviso. Vedi ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Faldone 419. 61 ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Disegni, Guiso/Apparita. 62 In particolare i committenti sono rimasti colpiti dalla splendida piscina della Villa La Terrazza, a Firenze, con le celebri ruote di marmo rosso, realizzata da Porcinai, negli anni ’50 per la famiglia Rangoni. Cfr. MILENA MATTEINI, op. cit., pag. 123. 63 Vedi ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Disegni, Theobald. e ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Faldone 382. 64 Vedi ad esempio le piscine di Villa La Terrazza a Firenze, quella di Villa Il Castelluccio a Ponte a Cappiano (1971-80), vicino a S. Croce sull’Arno e quella di Villa La Palmierina (1970-’72) a Firenze. 65 Tra gli arbusti, in particolare, vedi la ricca collezione di acidofile, con Rhododendron, Azalea ed Erica in varietà. Tra le alberature, Quercus coccinea, Catalpa bignonioides, Rhus typhina laciniata, Betula maximowicziana. 66 Cfr. MILENA MATTEINI, op.cit., pagg. 188-190. 67 La ricchezza delle specie utilizzata in questo caso è eccezionale. Tra le altre, Cistus incana, Arbutus unedo, Mirtus tarentina, Veronica andersonii, Teucrium fruticans, Rose ‘Chamois’, Olea ilicifolia, Camellia japonica, Azalea japonica e numerose piante da frutto. Vedi elenchi piante in ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Faldoni 434 e 187. 68 Cfr la lettera di Giuseppe Recchi a Pietro Porcinai, datata 3 dicembre 1969, in cui si parla dell’idea originale di Porcinai :“ dei pini che abbracciano il tutto”. ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Faldone 187.

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Figura 5: fotografia di Luigi Latini. Il Giardino Recchi a Portofino, la piscina (1966-’69).

Ancora una volta, il fulcro dell’opera è costituito dalle forme organiche della piscina, in cui uno stramazzo sfiorante rende impercettibile il bordo esterno che si confonde con la linea del mare all’orizzonte, integrando perfettamente giardino e paesaggio. BIBLIOGRAFIA Pietro Porcinai, Introduzione in BERETTA RENZO, Composizione e costruzione dei giardini, Edagricole, Bologna 1970, s.p.. FANTONI MARCELLO, FLORES HEIDI, PFORDRESHER JOHN (a cura di), Cecil Pinsent and his garden in Tuscany,

Edifir, Firenze 1996. GRIMAL PIERRE, L’arte dei giardini, Ripostes, Salerno-Roma 1987. LATINI LUIGI, Disegno del giardino e paesaggi italiani del Novecento. Note per una ricerca. in La cultura del

paesaggio, Atti del convegno di Studi, Centro italo-tedesco di Villa Vigoni, 2-3 novembre 2003, Olschki, Firenze 2004 (in corso di pubblicazione). MATTEINI MILENA, Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio , Electa , Milano 2004 PETTENA GIANNI, PIETROGRANDE PATRIZIA, POZZANA MARIACHIARA (a cura di), Giardini Parchi Paesaggi. L'avventura delle idee in Toscana dall'Ottocento a oggi, Le Lettere, Firenze 1998 PORCINAI PIETRO, MORDINI ATTILIO, Giardini d’Occidente e d’Oriente, F.lli Fabbri editori, Milano 1966. POZZANA MARIACHIARA (a cura di), I giardini del XX secolo, l’opera di Pietro Porcinai, Alinea, Firenze 1998.

In particolare i saggi: FERRARA GUIDO, L’Architettura del paesaggio vive, pp. 9-15. REVEDIN JANA, Pietro Porcinai come progettista riformatore: la sua formazione nella Germania di inizio secolo,

pp.43-54. ZANGHERI LUIGI, Pietro Porcinai e la Gamberaia, pp.131-138.

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BOZZALLA PIER CESARE, L’organizzazione dello studio Porcinai, pp.178-192. OJETTI UGO, prefazione al Catalogo della Mostra, La Mostra del giardino italiano, Ariani, Firenze 1931.

“Architettura del Paesaggio Notiziario AIAP”, Pietro Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio, ottobre 1986, n.10. ZANGHERI LUIGI, Storia del giardino e del paesaggio. Il verde nella cultura occidentale, Leo S.Olshki, Firenze

2003. ZANGHERI LUIGI, The influence of Islam on European Garden Architecture as exemplified by the Villa Gamberaia, in MICHAEL RHODE, RAINER SCHOMANN (a cura di), Historic garden today, Edition Leipzig, Leipzig 2004, pagg.52-57.

REGESTO DOCUMENTI D’ARCHIVIO CONSULTATI ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Firenze. Disegni: Rotolo I Collazzi Rotolo Il Roseto/Benelli Rotolo Apparita/Guiso Rotolo Theobald Rotolo Recchi/Portofino

Documenti Faldoni: 187, 313, 346, 373, 382, 419, 434, 507

*Dottorato di ricerca in progettazione paesistica Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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QUADERNI DELLA RI-VISTA del Dottorato di ricerca in Progettazione paesistica anno 1- numero 1 - gennaio-luglio 2004 Firenze University Press

CHAUMONT 2004: DISORDINE CAOS E L’ARTE DEI GIARDINI

APPARENTE, ORDINE REALE: LA TEORIA DEL

Claudia Maria Bucelli* “Nous assistons en cette fin de XXe siècle à un véritable bouleversement dans notre façon de concevoir le monde. Après avoir dominé la pensée occidentale pendant trois cents ans, la vision newtonienne d’un univers fragmenté, mécaniciste et déterministe a fait place à celle d’un monde holistique, indéterministe et exubérant de créativité.” Trinh Xuan Thuan, 1998

ABSTRACT: Nella sua tredicesima edizione il Festival Internazionale di Chaumont-sur-Loire propone uno dei temi di riflessione più avanzati della speculazione scientifica contemporanea, la Teoria del Caos. Chiamati a confrontarsi con un argomento già ampiamente oggetto di dibattiti scientifici e riflessioni filosofiche e artistiche, i 23 vincitori di quest’anno hanno allestito giardini sui quali si indaga sotto il profilo sia speculativo che intuitivamente creativo, ricercando una lettura trasversale, supportata dalle dirette testimonianze dei Concepteurs, delle complesse dinamiche teoriche e culturali alla base della contemporanea speculazione attorno al giardino .

PAROLE CHIAVE: Chaumont, Caos, Ordine e Disordine, Avanguardie, Arte dei Giardini, Sperimentazione, Festival.

Se sperimentazione ed interdisciplinarità alimentano da sempre quella ‘dimensione globale’1 nella quale la storia delle idee, della filosofia, del pensiero scientifico, artistico, letterario si intersecano, da sempre il giardino, dimensione antesignana e privilegiata di rappresentazione sperimentale ed interdisciplinare è, come affermava De Certau, “la carta del o di un mondo”, (...) dove “forme e segni normalmente dispersi” si raccolgono, (...) “riuniti in questa grande

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Cfr. FRANCO GIORGETTA, Il giardino selvaggio di Robinson e le rose della regina Alexandra, in ‘Il giardino europeo del novecento, 1900-1940’, Atti del III Colloquio Internazionale, Pietrasanta, 27-28 settembre 1991, Edifir, Firenze, 1993, p. 42.

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miniatura dell’universo”. E se è la “carta di un mondo”, di tale mondo è pure la narrazione, in cui “forme” e “segni” (...) divengono racconto.2 Proprio per questo la storia del giardino del XXI° secolo non potrà forse sottrarsi ad una lettura in funzione delle più moderne teorie sull’universo, ed il Festival des Jardins di Chaumont-sur-Loire, fedele alla propria vocazione creativa d’avanguardia, ricettacolo sperimentale di tutti quei movimenti di idee che trovano nel giardino un luogo privilegiato di espressione artistica e di riflessione creativa, si colloca nell’ardua prospettiva di una visione trasversale delle complesse dinamiche ideologiche che attraversano il nostro tempo. Nella sua tredicesima edizione3 propone infatti un tema che costituisce uno dei baluardi più avanzati della speculazione scientifica contemporanea: la Teoria del Caos. Chiamati a confrontarsi con un argomento tanto complesso quanto dibattuto, già ampliamente percorso da libere interpretazioni artistiche, architettoniche e letterarie, molti progettisti hanno allestito opere che, senza alcuna ambiguità, si riferiscono direttamente a teorie filosofiche e matematiche, dispiegando un linguaggio paesaggista che rielabora l’irregolare ed imprevedibile ricchezza sensoriale dell’ambiente naturale in un carattere di totalità. Spettacolo di complessità dinamica incredibilmente diversificata, le forme naturali sono la registrazione frattale delle forze dinamiche che vi regnano. Dietro apparenze complesse nascondono sorprendenti regolarità, tutte imputabili alla presenza di quell’ordine impredicibile, chiamato Caos, che sulla crosta terrestre scolpisce paesaggi ramificati, sovrapposti, ritorti, dove dettagli si annidano in altri dettagli, ed intervalli di disordine si succedono ad intervalli di ordine, manifestando alternativamente aspetti di semplicità e complessità. Fondandosi su forme organiche e reiterate, curve di ‘eterna infinità’ tratte dalla natura quali onde, torsioni, spirali, il tempo viene integrato nei progetti, lo spazio frammentato all’infinito, fluidificato, rassomigliato alle forme viventi. In questo modo i giardini, microcosmi dell’universo strutturati e coerenti, esplicitano una naturale capacità autorganizzativa che di per sé sola basta a conferire loro conformità, dignità, bellezza. Sul leggero pendio del parco disegnato dal belga Jacques Writz rami d’albero, i sentieri, terminano in foglie simili a fiori di tulipano, dai bordi incurvati e dagli angoli puntuti, spazi perimetrati da siepi di carpino e diversamente orientati, inclinati, ombreggiati, nei quali hanno preso forma, destinati a vivere da maggio a ottobre, gli allestimenti della mostra. Alcuni di questi, fra i quali emerge importante la componente italiana, si sono proposti in esplicito riferimento alla Teoria del Caos, che studia sistemi fisici complessi afferenti alla dinamica non lineare, cioè quelli naturali, presentando i propri progetti come ‘mondi’ di reiterazioni, retroazioni, moti all’infinito ed infinitamente ripetuti, sia in cinematismi spaziali che in puri effetti ottici. I sistemi fisici semplificati, situazioni caotiche lineari, la curva di Cock ne è un esempio, si ottengono attraverso condizioni successive di ripiegamento e frazionamento. Sembra essere questo il caso rappresentato da ‘Kaléidoscope’, dell’équipe italiana, (Gianluigi Cristiano, Maria Cucchi, Mario Cucchi, Chiara Vecchi, Massimiliano Roca) guidata da Filippo Pizzoni: uno strumento ottico che grazie a due specchi ad angolo acuto posizionati dentro un tubo replica le immagini reali moltiplicandole attraverso riflessioni multiple. E’ lo stesso processo creativo dell’immaginazione umana, che, anche e soprattutto nell’equilibrata logica formale di un giardino rigidamente ordinato, pone e dispone idee ed intuizioni in modo casuale, sempre differente, riproducendole indefessamente nell’incremento di una serie di 2

Cfr. PINA DE LUCA, Il giardino della sorella o del giardino della “dissonanza”, in ‘Il giardino europeo del novecento, 1900-1940’, atti del III Colloquio Internazionale, Pietrasanta, 27-28 settembre 1991, Edifir, Firenze, 1993, p. 115. 3 Il Conservatoire International des Parcs et Jardins et du Paysage (CIPJP) di Chaumont-sur-Loire (Loire et Chair) organizza annualmente, dal 1992, un concorso internazionale aperto ad architetti, paesaggisti, artisti, designers, chiamati a confrontarsi nella progettazione di giardini effimeri. La nutrita partecipazione di progettisti, la grande affluenza di pubblico e l’attenzione della critica hanno fatto di Chaumont, bramato appuntamento con l’arte ed i giardini, un palcoscenico privilegiato delle più avanguardistiche tendenze contemporanee ed un punto di congiunzione fra cultura e spettacolo.

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varianti infinita. La realtà non è mai percepita in modo univoco, si scompone e ricompone in mille apparenze a seconda del punto di vista, ma il tentativo di guardarla con occhi diversi può portare a sorprendenti intuizioni. Sedici fasce parallele, delle quali quattro calpestabili, colorate e fiorite, ognuna nella medesima cromia, di Ipomea ‘Batatas Ginger Eight’, Lotus ‘Red Falsh’, Origan gold, Oxalis vulneanicola, Salvia chamaedroides ‘Argentea’, Verbena tapiens, Zinnia angustiolia blanc e Zinnia interspécifique orange profusion, si alzano dal terreno in un ritmo di ondulazioni asincrone, infrangendo il proprio moto ad una estremità della parcella. Qui, in aree di sosta dove, come lungo i percorsi, sono disposti a diverse altezze piccoli caleidoscopi, è possibile soffermarsi ad ammirare queste bande colorate che l’occhio scopre essere trasformabili in una tavolozza disordinata di colori, caos di immagini che si compongono e scompongono nella multipla reciproca riflessione. La dinamica del Caos genera in natura un’infinità di paesaggi frammentati, ripiegati su se stessi, nei quali dettagli si nascondono gli uni negli altri, ed innumerevoli mondi si celano ripiegati fra le dimensioni. Tuttavia una profonda coerenza governa quello che appare un universo caotico, e motivi analoghi ne regolano ogni espressione vitale, esplicitandosi in un linguaggio formale apparentemente diversificato, realmente autosimigliante, nella cui limpidezza matematica caratteri similari e reiterati si snodano dal numerabile all’infinito, generando ordine e disordine. E’ questo il motivo ordinatore di ‘Babel’, simbolo dell’elevazione verso l’infinito della Torre di Babele e della trasformazione della materia nell’’Athanor’ del processo alchemico, progetto di Claudia Maria Bucelli, Brunella Lorenzi, Raffaella Rinaldini e Valentina Roselli, Italia, che adotta due identiche spirali auree, architettoniche e vegetali, una che scende, ordine, l’altra che sale, disordine, le quali si inviluppano e sviluppano attorno ad un asse centrale, tendendo al limite di un cerchio senza mai giungere ad intersecarlo. Emblema di una tensione verso l’ordine perfetto nella funzione finita della geometria euclidea e verso il disordine perfetto nel limite all’infinito (lim 8 ) della funzione frattale, questo sistema energetico di due figure, una speculare dell’altra, si sviluppa in perenne movimento verso e dal centro, dove gli opposti si incontrano. Nell’invilupparsi e svilupparsi, nel salire e nello scendere indefinitamente, si rassomiglia al moto delle nebulose, delle vorticose turbolenze dell’acqua, delle foglie trasportate dal vento, nonché dello sviluppo a spirale logaritmica geometrica del Convolvolus tricolor, rampicante presente nel giardino, che cresce seguendo la Successione di Fibonacci. La tensione dinamica, traduzione formale dell’equilibrio caotico fra l’ordine che regna nel disordine e la propulsione del disordine verso un nuovo ordine, si materializza nel progetto attorno ad uno spazio circolare centrale, pavimentato in lastre di pietra serena, a raggera dal centro, e tozzetti in marmo di Carrara, nel disegno di un tratto di spirale che da questo centro trae origine. Attorno si definisce una doppia struttura spiraliforme in muratura intonacata, con ampie gradonate in legno di quercia, abbracciata da griglie metalliche a formare due alti muri, verdi di rampicanti, che chiudono la vista all’intorno, immettendo il visitatore nel puro

Figure 1, 2, 3 – Progetti italiani: le onde multicolori di “Kalèidoscope”, il centro caotico delle spirali auree di “Babel”, le ali di farfalla di Butterfly ( figura 3 per gentile concessione di Ilaria Rossi Doria)

movimento della doppia spirale. A fianco di ciascuna delle due rampe, due sciabole di vegetazione, compatta e sempreverde di Taxus baccata, Buxus sempervirens per l’ordine,

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multiforme, fiorita e colorata di varie specie, fra cui Plumbago capensis, Punica granatum, Teucrium fruticans, Achillea philipendula e tomentosa, e varie specie di rose per il disordine. Oltre il limite esterno del cerchio, pavimentato in settori di pietra serena perimetrati da sestini in cotto dell’Impruneta, che chiude la struttura, esplode la ricchezza dei volumi e colori della poliedrica compagine della curva frattale, nelle varietà delle specie vegetali disposte a simulare la ramificazione e frammentazione dell’ ‘infinito in essere’, dell’infinità dei ‘mondi in mezzo fra le dimensioni’. Costruito secondo l’attrattore di Lorenz, ‘Butterfly’, di Ilaria Rossi Doria, Giorgia Biasini, Chiara Principe ed Eleonora Zilianti, si dispiega sulle ali della propria rappresentazione formale, la curva a farfalla, disegnando, a partire da quest’immagine evocativa che ne diviene il sistema ordinatore, una serie di traiettorie orbitali sul piano e nello spazio. Due curve, i cui periodi si caratterizzano per variazioni infinitesimali, si arrotolano ognuna attorno al proprio centro senza mai incrociarsi, generando una doppia spirale tridimensionale infinitamente complessa. Una passerella, invito all’entrata nel giardino, è l’inizio dell’immersione in nuova percezione dello spazio, articolato nella propria formalità geometrica in una moltitudine di piani diversi, definiti come sezioni di una traiettoria che non ricalca mai se stessa e che cresce ampliandosi. Plurime spirali di legno, sassi, vetro, materia vegetale, traducono tridimensionalmente la complessità dell’attrattore nel piccolo lago e nella collinetta coperta di Sedum ‘Autumn joy’, Santolina chamaecyparissus, Liriope spicata, Koeleria glauca, varie specie di Carex e festuche, su cui si innalza un’aerea struttura metallica a nastro, a forma di ali di farfalla, che continua idealmente nello spazio lo sviluppo di questa curva ininterrotta. Una intensa sensazione di dinamismo, che si stempera nell’area di sosta, piantumata di Buddleia alternifolia ‘Argentea’ richiamo per le farfalle, dove un doppio pendolo illustra un esempio di movimento caotico. Spagnolo di adozione, Anna Costa vive e lavora in Spagna, ma italiano per l’origine dei Figura 4 – I “semi del pensiero” de “La logique concepteurs, ‘La logique du Tournesol’ di du Tournesol Carlo Contesso e Anna Costa trova, all’interno della tradizione dei giardini iniziatici del rinascimento italiano, il proprio motivo ordinatore: il tema del percorso simbolico verso la conoscenza. Basato sulla reiterata forma della spirale aurea nella sequenza di Fibonacci, numeri apparentemente senza logica, ognuno uguale alla somma dei due precedenti, ma che illustrano matematicamente numerosi fenomeni naturali, il progetto segue formalmente la disposizione dei petali nei fiori e dei grani nel girasole. Tale è infatti nel giardino la collocazione dei ‘grani del pensiero’ che, nel significato dell’interconnessione delle idee nella mente del genio, appare caotica, essendo tuttavia profondamente e spesso incomprensibilmente ordinata. Alla complessità di questa cerebrale elaborazione, in equilibrio tra ingegnosità e poesia, corrisponde un tappeto di ‘semi’, forme ovoidali costituite da una struttura metallica in tondini di ferro a base esagonale, alte circa 80 cm, e disposte, secondo la celebre sequenza, a disegnare spirali di eguale dimensione che partono da un unico punto. All’ombra di sottili betulle, il tremulo moto delle cui foglie conferisce flebile sonorità al giardino, significando le distrazioni che attraversano la mente affollata di idee, i ‘grani del pensiero’ si serrano al centro nel loro avvicinarsi spaziale all’incontro delle spirali, e si

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distanziano allontanandosene. I pensieri profondi sono solidi e pieni, fioriti di Sempervivum la cui struttura riprende la famosa spirale, varie specie di Sedum e festuche, messi a dimora in tre strati di juta a trama larga, opportunamente cuciti e riempiti di terriccio, torba, e perlite. I pensieri vacui, instabili ed ondeggianti ad ogni alito di vento, sono vuoti, abitati da Phormium, graminacee ornamentali ed Hedera, altri ancora, i pensieri di geniale pazzia, simboleggiata dal colore giallo, emergeranno e scompariranno nel tempo al variare dei colori di alcuni Sedum, alcune graminacee, alcune edere. Genio e pazzia talvolta si alternano, altre si fondono, apparendo sia nella vacuità che nella profondità dell’intelletto in espressioni subitanee ed imprevedibili. Il visitatore in un primo momento percepisce il giardino, che può percorrere a piacimento, come un insieme caotico, tuttavia se decide di seguire la ‘linea del pensiero’, pletina di metallo dipinta di viola, il colore del più alto intelletto, e di intraprendere quell’altalenante percorso che discretamente si affaccia in sottili linee affioranti dal bianco ghiaino e di sostare su alcuni punti sopraelevati, può arrivare a quei ‘momenti illuminati’ grazie ai quali, nel disegno delle spirali che si appalesa, l’intero percorso appare coerente. Sul nastro della ‘linea del pensiero’ è ripetuto 21 volte, in 21 lingue diverse, un brano del poema di Metastasio ‘Mi lagnerò tacendo’, 4 a sua volta musicato 21 volte dal genio di Rossini (21 è uno dei numeri della serie di Fibonacci), una ‘guida ideale’ sopra questo percorso conoscitivo dalla follia alla geniale creatività, dall’ignoranza all’umana sapienza. La turbolenza è onnipresente attorno a noi, nel ruscello che precipita giù per un pendio montano, nel vortice delle foglie sollevate da una raffica di vento, nel suono che esce da un flauto. Valori di un’equazione che interagiscono ininterrottamente l’uno con l’altro, toccandosi, intrecciandosi, e moltiplicando piccole variazioni tanto rapidamente da rendere i risultati inimmaginabili, si mostrano particolarmente evidenti se applicati ai fluidi. ‘La fontaine turbulente’, opera di Olivier Dauchot, Francia, rientra nella grande tradizione dei giochi d’acqua applicati ai giardini, suggerendo contemporaneamente quale percorso concettuale, all’interno della teoria del Caos, ne regoli l’andamento. Un fluido posto fra due cilindri coassiali trasmette velocità al cilindro interno, facendolo ruotare. A basse velocità il flusso è regolare, e genera un motivo omogeneo di rotazione. Incrementando costantemente la velocità il trasferimento di energia dal cilindro interno a quello esterno inizia a creare perturbazioni, figure complesse di vortici locali che interagiscono diversamente fra loro e la cui configurazione è imprevedibile. Un getto d’acqua che cade nel laghetto centrale alla parcella rappresenta le caratteristiche di questo moto sempre più turbolento, che mano a mano che la velocità di rotazione aumenta, passa da un ritmo regolare a configurazioni imprevedibilmente complesse, nella tensione ad uno stato in cui sembra scomparire qualsivoglia organizzazione spazio-temporale. Dalle più antiche dimensioni cosmogonico-mistiche, dove Caos è sinonimo di principio, spazio vuoto e abisso profondo, disordine indistinto da cui si generano le forme dell’ordine, le divinità e l’universo intero, sembra trarre origine il giardino ‘Thouwabohu’, concepito dal Herbert Dreiseitl, Germania. Vuoto originario di un mondo appena nato, colto nel libero attimo del suo orientamento evolutivo, nascosto dietro un tunnel nero, si apre davanti al visitatore come un cratere di terra cruda, crettata, Figura 5 – Il cratere in evoluzione biotica di Herbert Dreiseitl 4

“Mi lagnerò tacendo della mia sorte amara, ma ch’io non t’ami, o cara, non lo sperar da me”.

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colonizzato da Equisetum hyemamis, una delle prime piante apparse sulla terra. Dal nulla emergono vapori acquei che alimentano un microclima favorevole alle specie vegetali ricolonizzatrici, trasportate in semi dal vento e poi germinate sulle ripide pareti vulcaniche, accelerando, parallelamente, l’erosione già in atto. Nei mesi della mostra questo ‘relitto del Cretaceo’ muterà, ineluttabilmente ed imprevedibilmente, in obbedienza al proprio destino evolutivo, quello stesso destino che, indipendentemente dalla volontà dell’uomo, traina il nostro mondo, e delle immagini fotografiche colte periodicamente ne testimonieranno la progressione temporale.

Figura 6, 7, 8 – Gli alberi bruciati di “Firestories”, l’anamorfosi del “Cercle d’Or” ed il risucchio del buco nero di “Green Carpet” (Figura 6 per gentile concessione di Brunella Lorenzi)

Una stessa sorte accompagnerà nella ripresa della vita il ‘Jardin de mousse’ di West 8, immagine del Caos naturale, di un mondo dopo un cataclisma, evento necessario al cambiamento ed alla ricostruzione di un nuovo microcosmo. In una landa desolata, con enormi tronchi gettati a terra dalla furia di una tempesta, si insedia un soffice muschio, verde e giallo, che tutto ricopre. E’ la quinta scenica di un paesaggio ai suoi albori, onirico e surreale, che lo spettatore, quasi capitato lì per caso, deve contemplare, così come si contempla un quadro, dall’esterno, un proscenio pavimentato in lucide scaglie di ardesia nera. Una radice analoga guida la nascita del ‘Jardin de Friche’ di Simone e Lucien Kroll, Belgio. Ricco di diverse varietà di erbacee, area di risulta nel caos dei degradati contesti metropolitani, questo giardino ‘semplicemente caotico’, si ricrea da solo, senza alcun intervento da parte dell’uomo. Partendo dalle condizioni pedologiche, climatiche, fitosociologiche esistenti, diviene, solo e semplicemente, quello che ‘potrà essere’. In una moderna discarica si raccolgono i materiali più diversi, macerie di edifici, legni decomposti, pietre, rottami arrugginiti, e su questi plurimi substrati si moltiplicano le forme naturali. Prima la colonizzazione di varie specie di piante ruderali che si adattano reciprocamente a creare una biodiversità, poi altre specie affini, fitosociologicamente compatibili, che danno origine ai biotopi sucessivi, poi l’evoluzione fino al climax...la natura si ricostruisce da sé, il paesaggio nasce e si evolve seguendo leggi proprie. Il progettista sacrifica la propria autorità formale accompagnando la ricchezza dell’ambiente nella ricostituzione della sua caotica complessità. ‘Fire stories’ dello studio australiano di architettura del paesaggio Taylor Cullity Lethlean condivide lo stesso motivo ispiratore, la necessità biologica dell’evoluzione ecosistemica, rapportando fra di loro vari elementi, ognuno dei quali dispiega un preciso racconto in relazione alla apparentemente caotica e distruttiva forza di un incendio. Scheletri di alti eucalipti bruciati, ai loro piedi vetrine interrate ed illuminate contenenti semi di varie piante autoctone australiane, sono contornati da un’ellisse di rami anch’essi bruciati. In un paese dal fragile ecosistema il fuoco è una delle forze in gioco nel disegno del paesaggio, distruttivo ma indispensabile, per la cenere che arricchisce il terreno, il fumo che aiuta la germinazione, la temperatura che sola può aprire i semi serrati, mentre tutt’attorno una proliferazione di

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piante dai colori gialli e cinerini, Anigozanthos ‘Orange Cross' (Kangaroo Paws), Bractheanta ‘Dreamtime Cooper’, Bracteantha ‘Dreamtime Jumboyellow’, Calocephalus brownie, Leucophhyta Brownnii, Helichrysum everlasting, nate dopo l’incendio, spiccano sulla terra ocra che ricopre la parcella. Anch’esso travolto da un turbine caotico ed abbandonato nella creativa casualità dell’ultima forma temporalmente assunta sembra essere il paesaggio ramificato che l’artista francese Jean-Pierre Brazs raccoglie dentro ad un’ellisse dalla quale irraggiano, seguendo angoli progressivi nella sucessione di Fibonacci, sette canali di argilla su sabbia rossa. Le vestigia dell’Arbre du monde, ora rami secchi su un tappeto di terra, foglie, carboni e ceneri, giacciono inerti, rivelando però tracce d’oro sui fusti, frammenti di un’immagine inghiottita da un vortice caotico che da un privilegiato punto di vista scoprono l’anamorfosi ricomponendosi in un ‘Cercle d’Or’, nuovamente sparpagliato in luminosità dorate ma formalmente incomprensibili non appena si volge lo sguardo. Simile la sorte di ‘Mikado’ dei belgi Caroline de Sauvage, Élodie Gourrier e Vincent Gillier. Questo gioco del caso e delle probabilità, che la mano di un gigante ha sparso nel giardino in una stasi accidentale di lunghe aste di bambù in equilibrio precario al di sopra delle teste dei visitatori potrebbe mantenersi, ma anche improvvisamente tracollare. Nell’incertezza che incombe si snoda liberamente un percorso interno, sentieri di Scisto a spacco di cava e ghiaino, fra una ricca varietà di specie vegetali, mentre l’ombra dei pali frammenta indefinitamente e mutevolmente lo spazio della parcella al volgere del giorno, creando sul terreno disegni di astrazioni geometriche, omaggio, assieme alle fasce di colori primari che li ornano, a Piet Mondrian. ‘Dés/Ordres’, di Cécile Commandré e Pavel Bolgarev è, ugualmente, un equilibrio precario, quello di tutti i sistemi complessi, che, dipendendo da numerosi parametri, sono estremamente sensibili alle condizioni iniziali ed evolvono imprevedibilmente nell’amplificazione esponenziale di piccoli fenomeni. Niente è aleatorio nella successione di condizioni di equilibrio dinamico che attraversano il giardino, la cui logica formale presenta tuttavia un sistema incomprensibile alle leggi della statica e della geometria euclidea. Non lo è nemmeno il crollo di solidi pilastri, colonnati di gabbioni metallici riempiti di pietre, che, apparentemente senza plausibili spiegazioni, perdono equilibrio e forma, frantumandosi e subendo l’invasione della vegetazione. Sono le onde di ordine e disordine che attraversano il giardino da un’estremità all’altra, passando indefinitamente dall’immobile equilibrio alla dispersione dinamica, che spiegano l’arcano: ordine e disordine, l’uno contenuto nell’altro, coesistono, legati in una libera successione temporale, nella dinamicità del Caos che entrambi li comprende. Lo stesso ciclo permanente di ondulazioni infinite, che si dipanano incessantemente dall’ordine al caos, dal caos all’ordine, passando per imprevedibili zone di confusione, alimenta ‘Ondulations’ di Ines Grundule e François Lassalle, Lituania. In una composizione ininterrotta di ritmi coesi e combinazioni di specie vegetali si succedono le tre fasi: il ‘caos’, piantato di arbusti, fra i quali Rhus typhinia ‘Lancinata’, i cui frutti caduti a terra sono simboleggiati dal Sempervivum ‘Rubin’, che scivola quasi impercettibilmente nella ‘confusione’ di piccole fasce di canne, una mobile bicromia di Phragmites variegata e Phragmites australis ‘Variegatus’, per procedere poi verso l’’ordine’, la superficie orizzontale circolare di un bacino d’acqua, in cui trovano posto pietre nere delle Dolomiti, simbolo delle potenti forze centrifughe che alimentano la perpetua trasformazione. Ancora una dicotomia tra ordine e disordine alimenta il tema di ‘Dispersion et mésure’ di Barthassart e Van Oordt, Svizzera. Un muro di cemento e rifiuti, rotto da un’unica lama di luce verticale, suggerisce la direzione est-ovest dividendo nettamente in due un giardino che accoglie il visitatore in uno spazio ‘tormentato’ di piante annuali e caotica pavimentazione di doghe di legno. Come in un percorso iniziatico, si cammina su stati d’animo ‘caotici’, ‘incertezza’, ‘caso’, ‘irregolarità’, descritti sui legni scomposti, fino a superare quell’apparentemente solido divisorio per scoprire il paesaggio di un mondo armonico fatto di Ipomea alba, Ipomea tricolor ‘Heavenly blue’ e Lavandula angustifolia ordinatamente

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allineata, uno specchio d’acqua e la gioiosa brillantezza di pezzi di vetro colorati sparpagliati al suolo, fra i quali occhieggiano altre doghe, questa volta di ‘armonia’, ‘misura’, ‘linearità’. Stelle di neutroni ruotano a ritmo frenetico, onde d’urto prodotte dall’esplosione di supernove provocano la nascita di nuove stelle, palle rotanti di turbolenze che rigurgitano tempeste magnetiche, forze caotiche agiscono nell’universo e sui pianeti del sistema solare, ed anche, invisibili ma non meno potenti, in un giardino. Risucchiato da sotto i piedi dei visitatori in un buco nero, ‘Green Carpet’, di Bernard Küedde, Germania, si presenta come un prato increspato in ondulazioni generate dal centro, dove un vortice caotico di energia sta aspirando un Ginko biloba ed una panchina che, in bilico precario, tentennano, nell’attimo prima di essere inghiottiti e di scomparire. Un similare tributo alle forze di una natura illusoriamente addomesticabile, in realtà incontrollabile, è presentato da ‘Le coin oublié’, rifacimento di un giardino precedente, dove la vegetazione, sfondata una griglia metallica, si appresta ad invadere, distruggendone a poco a poco la solidità geometrica, uno spazio interamente concepito in puri volumi di ardesia, e da ‘Métaphores’, allestito dall’ Istituto Quasar di Roma. Qui, in un esplicito contrasto fra il rigore formale di una sfera costituita da un nastro metallico che si avvolge a spirale e la potenza ‘disordinata’ della natura, che nei rami e nelle radici di un Populus alba si sottrae alla rigida geometria, si esplica il dualismo tra l’apparente disordine della geometria frattale, in realtà ordinata e coerente nella sua natura caotica, ed il rigido assetto della geometria eucliedea, inutile umano vincolo di pura astrazione logica. Una affine contrapposizione emerge nell’australiano ‘Termitaria’, realizzato dalla School of Horticulture: l’ordine insito nella natura traspare dal profondo equilibrio che permea i suoi ecosistemi, all’interno dei quali l’opera dell’uomo è spesso elemento di disordine e perturbazione. Termitai rosso ocra, riprodotti a grandezza naturale, esemplari di Triodia basedowii (Spinfex) di cui si nutrono le termiti Spinfex, ed il loro predatore, l’Echidna, costituiscono, nel deserto selvaggio ed improduttivo dell’Australia centrale, un ecosistema perfettamente equilibrato. L’arrivo della civiltà, con una strada a scorrimento veloce, scardina l’ordine e porta deforestazione, erosione, inquinamento, e, simboleggiata nella morte dell’Echidna travolto da un’automobile, l’estinzione delle specie endemiche. Luogo di ordine ed armonia, ‘Exercice d’école’ di Kinya Maruyama, Giappone, si presenta come il solido rifugio domestico contrapposto, nella tradizionalità costruttiva delle case di terra cruda, alla globalizzazione tecnologica. L’artista giapponese assembla, apparentemente a caso, volumi semplici, a ricreare quegli ambienti che la sua naturalità culturale lo incoraggia ad adottare. Ne risulta un magma, un caos apparentemente senza planimetria predefinita, un sistema ‘ad hoc’ dove sono utilizzati materiali di riciclo e tecniche popolari ed antiquate, se rapportate all’epoca contemporanea, ma opportunamente scelte e coerentemente eseguite. Per quest’anno la scuola scelta dall’artista per la realizzazione della sua opera è stata l’École d’Architecture de Nantes, i cui studenti, in soli cinque giorni di ininterrotto cantiere, hanno realizzato un progetto dove tutto trova dimora: il prato, il ruscello, l’orto, la pergola, il focolare domestico, luoghi di sosta e di passaggio. Muri di terra e paglia impastati assieme, elementi verticali di riciclo in griglie metalliche e ciottoli di fiume a formare sorta di muri a sacco, pali grezzi di legno sommariamente appuntiti e collegati fra loro, frammenti di ceramica, tondini in ferro e reticolati metallici, vuote lattine di birra, generano nel riciclo di materiali da discarica un ambiente domestico giapponese tradizionale e potenzialmente abitabile. ‘Tantale et la frustraction de l’attraction’, Greenwich University, Gran Bretagna, si presenta come uno spazio quadrangolare chiuso da porte, delle quali solo tre nascondono un passaggio. Congiunte una all’altra in un volume chiuso, si elevano da dietro una scacchiera ordinata di Populus balsamifera e Salix purpurea ‘Nancy Saunders’ a formare una quinta che nulla permette di intravedere ma che, nel simbolo della porta, passaggio ad altra realtà, nasconde una logica incomprensibile dall’esterno, non per questo però inafferrabile. Addentrarsi in questo labirinto significa sperare di scioglierne l’enigma, giungendo a scoprire il luogo segreto, il giardino, ma non ad entrarvi. Come Tantalo, condannato a vedere

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e non gustare, il visitatore potrà solo ammirare quello spazio privilegiato, quasi irreale, falsato in un sapiente gioco di specchi, senza goderne. Un tale destino sembra gravare sull’umanità offesa dall’ineluttabilità delle guerre ed in perenne ricerca di una impossibile pace, perché così, come un tempo gli dei dell’Olimpo, ha decretato la legge del Caos, sembra affermare Charles Jencks. ‘La malédiction d’Agamennon’ trae spunto da questa teoria matematica, acutamente reinterpretata nella visione di una realtà caotica che non persegue la finalità di un disegno immanente, ma vaga disordinatamente, rispondendo, in un infinito gioco di retroazioni che domina il comportamento caotico dei sistemi dinamici, alle sollecitazioni che le turbinano attorno. Water Garden interattivo, dominato da veri e propri ‘war games’ e specchi d’acqua, nonché dalla sinuosa curva frattale della passerella rosso sangue, sentiero di guerra che dirige l’inconsapevole visitatore in un ciclico gioco di attrazioni e repulsioni, il giardino si snoda come un percorso guidato da attrattori caotici attraverso continuate interazioni e reciprocità repulsive. Questa interminabile contrapposizione, che decreta lo stato di ‘Jardin à la guerre’, e la localizzazione de ‘La guerre au jardin’ sembra suggerire, come nello spazio dominato dal ‘caos deterministico’ del ‘Garden of the Cosmic Speculation’, Dumfriesshire, Scozia, la mancanza di qualsiasi finalità nell’evoluzione dell’universo, dominato da un processo casuale che progredisce o si stabilizza solo ed esclusivamente in funzione della contrapposizione delle forze che lo sollecitano. Attrattori caotici, figure geometriche complesse generate da forze contrapposte che costituiscono, nello spazio delle fasi, degli stati stabili verso cui tende modificandosi il sistema fisico descritto dall’attrattore stesso, sono qui significati da innumerevoli elementi, fra i quali vari canali affiancati sotto il pelo dell’acqua. La fluidità delle loro linee domina l’inquietante sistema caotico del giardino in contrapposizione all’evidenza ottica dell’attrattore principale, il sentiero di guerra, ponendosi tuttavia il meno possibile in evidenza. Vi nascono alghe, piante ed erbe acquatiche, Aponogeton distachyos, Azolla caroliniana, Nynphaesa, Trapa natans, e, in una potente caratterizzazione formale, vi si percepisce la presenza di onnipresenti quanto impercettibili forze che spingono alla guerra, visibili, ma spesso inavvertite, nell’immobilità del fluido. Una cisterna a V, simbolica fonte di abbondanza e controversia, molte guerre nascono per il possesso dell’acqua, è un altro attrattore caotico, spalleggiato, come gran parte del giardino, da coni di rete metallica con, dentro ed alla base, della Gunnera manicata a diversi stadi di sviluppo, dai teneri virgulti alle piante morte. Dai suoi bracci nascono due getti: uno cade su una ruota ad acqua montata eccentricamente rispetto al sostegno, così da produrre, in un moto caotico, pulsanti illusioni ottiche. L’altro cade in una sequenza di canalette basculanti in alluminio, che, ondeggiando aritmicamente quando il fluido le attraversa, producono una incessante e secca successione di rumori, simili, non a caso, alle sonorità sincopate del fuoco di artiglieria. Il percorso ruota attorno a due Waterpults, catapulte ad acqua costantemente riempite da una pompa, che si lanciano acqua reciprocamente in una contrapposizione senza fine, coinvolgendo incidentalmente e randomaticamente, bagnandole, alcune rocce porose ricoperte di muschio. Un tit for tat, letteralmente il ‘rendere pan per focaccia’ che sembra essere l’irragionevole atteggiamento dell’umanità intera, coinvolta in interminabili guerre senza più né offensori né offesi, né vincitori né vinti. Dirimpetto si apre un bacino d’acqua, un’area navigata da Living boats, piccoli battelli fioriti di Candelabra primulas, Dicentra spectabilis alba, Salvia patens, Salvia patens ‘Cambridge Blue’, condannati all’infinito ripetersi di movimenti senza scopo fra due forze contrapposte. Le rigide vele servono infatti ad aiutare i visitatori nel guidarli, attraverso getti d’acqua a pressione, verso la loro precisa collocazione, piccoli attracchi ai quali non è consentito però sostare, visto che una volta entrati un altro getto d’acqua li espellerà. Ogni apparentemente diversa realtà esprime la medesima contrapposizione di forze, una ‘nemica’ all’altra, che sola genera la stabilità dei sistemi complessi, ed ogni evento è incatenato ad una successione interattiva casuale, che tuttavia, muovendosi nell’attrattore, cambia formalmente ma non nella sostanza, sembra insegnare la realtà dei fatti. Tale,

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insegna l’umana esperienza, è, al di là di ogni effimera speranza, il destino che decreta l’eterna contrapposizione fra nazioni, razze, religioni, insensata consuetudine che ripete come una maledizione le stesse immutabili insensate violenze. La storia non ha nulla da insegnare. Al gusto delle ‘folies’ e delle rovine nei parchi del XVIII° secolo, e alla storia del giardino in senso più lato fanno riferimento alcune installazioni. ‘Stumpery’, allestito dal Conservatoire, è, nei parchi inglesi, il luogo dove si conservano le ceppaie. Omaggio alle sculture di ceppi d’albero, molto in voga nel XIX° secolo, che segnarono una parentesi importante nell’arte dei giardini, ed ora di nuovo in auge, le ceppaie, conseguenza delle Figura 9 – gli attrattori del Giardino in guerra di Charles Jenks tempeste e trombe d’aria che devastarono la Francia nel 1999, sono assemblate caoticamente, in un effetto drammatico e spettacolare. Nella tradizione della rappresentazione delle rovine, ‘Pour tous ceux qui rêvent encore’, dell’Agenzia ERTA, trae la propria ispirazione dai giardini Italiani, Bomarzo nella fattispecie, la cui casa pericolante qui è crollata, frantumandosi al suolo. Si scorge a malapena quello che rimane della facciata, e quello che resta di un giardino e di uno specchio d’acqua che invano cercano di resistere alla vegetazione colonizzatrice. E’ facile immaginare come, tempo addietro, queste rovine avessero tutt’altro aspetto, e come un paesaggio ordinato sussistesse là dove ora sembra essere passato un cataclisma, che ha tuttavia generato, nel mutamento e nell’assetto apparentemente caotico, un equilibrio diverso, pur sempre ordinato. Rinchiusi nel piccolo mondo nel quale corriamo il rischio di vivere e morire ignorando tutto quello che accade intorno, siamo talvolta costretti a risvegliarci bruscamente e ad adattarci alla metamorfosi del nostro universo, alle sue dinamiche instabili, perennemente in evoluzione. Un luogo geometrico immediatamente leggibile, nella più solida citazione storica del giardino rinascimentale, spazio regolare, centrale, dalle siepi di bosso e carpino perfettamente topiate e dai Taxus baccata potati a cono, arricchito da una fontana assiale con elemento colonnare centrale, è il punto di partenza di ‘Dé/calé’, intuitivo allestimento che trasforma ogni percezione attraverso una leggera rotazione del tracciato. Una minima manipolazione, una rivoluzione di soli 20°, rende aleatoria qualsiasi comprensione spaziale, e caotica la percezione della precedentemente limpida geometria del giardino, avvicinandola quasi ad un labirinto. L’insolita rivoluzione ne ha deposizionato tutti gli elementi, comprese le piastrelle in gres della fontana, che, ora insicure ed instabili, sembrano quasi impercettibilmente invilupparsi a spirale attorno alla colonna. ‘Dés/ordonnance’ propone ugualmente uno spazio che, come il giardino nel suo significato primigenio e nella sua reiterata riproposizione storica, nasce ordinato dall’uomo, geometrico, organizzato, comprensibile all’intelletto, separato dal disordine della natura che lo circonda. Tale è la rigida scacchiera metallica che occupa da protagonista uno spazio chiuso, elevandosi al di sopra del terreno, tuttavia niente potrebbe essere più incerto e mobile di questa struttura, in cui ogni cosa oscilla. Superfici basculanti,

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le lastre metalliche su cui poggiano vasi di cipressi colonnari e bossi potati a sfera, polemica alla spesso vuota crisalide della pratica dell’anastilosi, sono inclinate in tutte le direzioni, comunicando un disordine totale che il visitatore, in una azione/interazione continua quanto imprevedibile con il giardino, è chiamato a contrastare, riportandole con il proprio peso in orizzontale. L’ordine non regna nel giardino, trae invece origine da forze che gli sono estranee, ed è tanto più completo quanto più numerose ed in reciproca interazione sono tali forze, tuttavia può essere solo temporaneo e transitorio, poiché cessate che siano, tutto è destinato a ricadere nell’entropia imperante.

Figura 10 – La scacchiera del giardino interattivo di “Des/ordonnance” (per gentile concessione di Stèphane Bertrand)

ELENCO DELLE OPERE À Tous ceux qui rêvent encore- Charlotte Ruph e Marie Plessier, agence ERTA, France Babel – Claudia Maria Bucelli, Brunella Lorenzi, Raffaella Rinaldini, Valentina Roselli, Italia Butterfly – Ilaria Rossi Doria, Giorgia Biasini, Chiara Principe, Eleonora Zilianti, Italia Cercle d’Or – Jean-Pierre Brazs, France Dé/calé – BTS, Lycée de La Ciotat, Resp. Christian Lasserre, France Dés/ordonnance – Stéphane Bertrand, Jasmin Corbeil, Canada Dés/ordres – Cécile Commandré Pavel Bolgarev, France Dispersion et Mesure – Marcellin Barthassart, Anouk Van Oordt, Eric Van Oordt, Suisse Fire Stories – Kate Cullity, Perry Lethean, Kari Myer, Ryan Sims, Kevin Taylor, Paul Thompson, Australia La fontaine turbulente – Olivier Dauchot, France Le coin oublié – Frank Aracil, Xavier Clarke de Dromantin, Armelle Claude, Daniel Cotta, Michèle Stein, France Green Carpet – Bernhard Küdde, Deutschland Exercice d’école – Kinya Maruyama, Ecole d’architecture de Nantes Jardin de friche – Simone Kroll, Belgique Jardin de mousse – Adriaan Gueuze, Jerry Van Eyck, Eve-Barbara Robidoux, Juan Antonio Sanchez Munoz, Glenn Scott, Sébastien Penfornis, Needlands Kaléidoscope – Gianluigi Cristiano, Maria Cucchi, Mario Cucchi, Filippo Pizzoni, Chiara Vecchi e Massimiliano Roca, Italia La malédition d’Agamennon – Charles Jencks, Great Britain Logique du tournesol – Anna Costa, Carlo Contesso, España-Italia Métaphores – Istituto Quasar, Roma Resp. Maria Grazia Cianci, Susanna Greco, Italia Mikado – Caroline de Sauvage, Elodie Gourrie, Vincent Tillier, Belgique Ondulations – Inese Grundule, François Lassalle, Latvia

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Stumpery – Conservatoire de Chaumont-sur-Loire Tantale et la frustration de l’attraction – University of Greenwich, London, Kemal Mehdi, Great Britain Termitaria – School of Horticulture, Resp. Andrew Morrissey, Melissa Twyford, Ryde Tafe, Australia Tohuwabohu – Atelier Dreiseitl, Deutschland

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BRIGGS, JOHN, L’estetica del Caos, Red Edizioni, Como, 1993. MANDELBROT, BENOÎT B, La geometria della natura, Theoria, Milano, 1989. PIGEAT, JEAN-PAUL, Vive le Chaos! Ordre et Désordre au jardin, Conservatoire Intarnational des Parcs et Jardins et du Paysage, Chaumont-sur-Loire, 2004. TAGLIOLINI ALESSANDRO, Il giardino europeo del novecento, 1900-1940, atti del III Colloquio Internazionale, Pietrasanta, 27-28 settembre 1991 Edifir, Firenze, 1993. TRINH XUAN THUAN, Le Chaos et l’Harmonie, in ‘Le Temps des sciences’, Fayard, Paris, 1998.

*Dottorato di Ricerca in Progettazione Paesistica Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.

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