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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

PUBBLICA DISTRUZIONE

Numero 93 Marzo 2021


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Confini Web-magazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 93 - Marzo 2021 Anno XXIII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Gianni Falcone Roberta Forte Lino Lavorgna Sara Lodi Emilio Petruzzi Antonino Provenzano Angelo Romano Gianfredo Ruggiero Cristofaro Sola

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Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Sara Lodi e Gianni Falcone

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EDITORIALE

PER ASPERA AD ASTRA (ZENECA) Dalla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti incombono sull'Europa dei vinti impedendone la crescita politica, militare, scientifica. Certo meglio il loro tallone che quello sovietico, ma pur sempre di tallone si tratta, ancorché imbottito di "democrazia", "atlantismo", "autodeterminazione" e baggianate simili. L'ultima cocente "tallonata" si è avuta sui vaccini. Proibito acquistare quelli russi o cinesi e lasciar morire frotte di europei in attesa che il popolo americano (e quello inglese) sia stato compiutamente vaccinato. Pfizer e Moderna col contagocce, ma dosi più generose del pericoloso - ed a volte letale - Astra Zeneca perché anglo-svedese. La vicenda vaccini ha messo in triste evidenza l'insussistenza dell'Europa come potenza ed il suo nanismo scientifico, nonostante le promesse francesi (non mantenute) sulla rapida disponibilità del suo vaccino "Grandeur-Sanofy", che hanno contribuito ad ingarbugliare la questione. L'Unione Europea non è riuscita a spuntarla neanche sulla fabbricazione su licenza e, solo ora, sembra che alcuni Paesi (Spagna, Germania, Italia) si siano decisi, in autonomia, a patteggiare con la Federazione Russa per produrre il suo Sputnik che è un ottimo vaccino, sperimentato in molti paesi del mondo, checché ne dica l'Ema che, sul caso, ha eretto il solito muro burocratico anche se, per Astra Zeneca, il muro è stato molto più basso, quasi un marciapiedi. Fortuna che in Italia ci sono Giorgetti e lo "Spallanzani"... anche se nessuno potrà mai recuperare il tempo ed i morti perduti per l'insipienza del governo Conte e dei suoi plenipotenziari. Ma non vi sono altre fortune per il Belpaese ormai in agonia. Presto per dire se la cura "Draghi" avrà qualche effetto ma un certo continuismo alla Speranza, il deludente avvicendamento alla guida del PD, ancorché favorito e benedetto dall'onnipresente Colle, la "transizione escatologica" dei Cinque stelle, gli "arabeschi" di Renzi, non lasciano ben sperare. E non lascia ben sperare lo stato della Repubblica. Mostra tutti i segni dei suoi non facili settantaquattro anni di vita. Il senso di nazione si è fatto labile, quasi indefinito, salvo qualche rigurgito calcistico, il capitale sociale (nell'accezione di Fukuiama) che pur esisteva copioso agli albori della Repubblica (e non per meriti repubblicani) e che ha consentito la rinascita post-bellica ed il boom economico è stato dilapidato da politiche scellerate che mai hanno alimentato l'idea di nazione, di popolo unito in una comunità di destini, si è alimentato l'egoismo, lo particulare, il divisionismo, l'invidia


EDITORIALE

sociale e non la coesione, si sono fatte crescere caste su caste, privilegi su privilegi e mai la partecipazione e la solidarietà sociale, fino ad essere, ormai, un Paese senza popolo, un'Italia senza italiani ma piena di lombardi, di calabresi, di veneti, di laziali, di bianchi (fortuna loro) sardi e di immigrati... e neanche più una scuola che formi gli italiani. Angelo Romano

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PUBBLICA DISTRUZIONE Se c'è un'istituzione che ha attraversato i millenni indenne, concettualmente simile nei più disparati contesti culturali e religiosi, quella è la 'scuola'; una curiosa accezione che apparentemente contraddice il suo significato: infatti, schola, che sostanzialmente in latino significa 'tempo libero', ha assunto ben presto un significato più pregnante come 'luogo dove maggiormente spendere il tempo libero' cioè il luogo dove si tenevano discussioni filosofiche o scientifiche durante il tempo libero, fino a divenire 'il luogo d'istruzione per eccellenza’1. Tanto per limitarci al bacino del Mediterraneo, la rinveniamo tra i Sumeri sin dal IV millennio a.C. dove i reperti ci testimoniano che i percorsi formativi si articolavano in religione, grammatica, aritmetica, storia, geografia e contabilità: i dettami del buon cittadino, forte nelle sue radici, colto e intraprendente. È presente in Egitto da oltre 2.000 anni a.C., addirittura con corsi di lingua e letteratura straniera, con lo scopo di formare giovani da destinare alle funzioni amministrative dello Stato. Nell'antica Persia, invece, accoglieva il ragazzo a sette anni, affidato dallo Stato all'educazione di 'uomini gravi e irreprensibili' che fino ai 15 anni lo formavano sia sul piano fisico che culturale per passarlo, poi, a quattro illustri insegnanti chiamati rispettivamente il 'saggio', 'più giusto', 'più temperato' e 'coraggioso'. Un po' più a ridosso dell'era volgare, la scopriamo nell'antica Grecia, più limitata nell'età minoica e micenea e più articolata ed estesa in quella classica. E, poi, nell'antica Roma, a detta di Plutarco aperta nel III° sec. a.C. da un tal Spurio Carvilio, scandita nel tempo da corsi di lingua e la letteratura greca e latina, di storia, geografia, fisica e astronomia. Infine, è presente presso l'antico popolo ebraico a partire dal ritorno da Babilonia, su iniziativa di Esdra, con corsi di ebraico e caldeo, diritto civile e penale, scienza naturale, anatomia, medicina, geometria, astronomia. È significativo il fatto che in quest'ultimo contesto un insegnante provvedeva ad una classe con non più di venticinque discenti. Nel Medioevo, alla sua tenuta pubblica provvidero soprattutto le strutture religiose dove s'imparava intanto a leggere, a scrivere e a far di conto; successivamente fu strutturata in trivium e quadrivium, con approfondimenti in grammatica, retorica e logica, in piena analogia sin dall'XI° secolo col mondo islamico. È con l'avvio del II millennio, inoltre, che la vediamo dar vita agli studia, le attuali università, con applicazioni giurisprudenziali, teologiche e mediche. E solo nel '300 la ritroviamo nelle laiche mani delle municipalità con l'insegnamento di corrispondenza commerciale, contabilità e arte notaria inferiore: la contrattualistica. A quel momento, la scuola pubblica, sia in mani laiche che religiose, aveva attraversato più di


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cinque millenni con l'unico obiettivo, in ogni parte del mondo, di formare il cittadino del domani, acculturato a sufficienza per mantenere civili rapporti con i suoi simili e svolgere dignitosamente un'attività. E questo senza distinzione alcuna tra classi sociali. Del resto, i soggetti abbienti di solito fornivano ai propri figli un insegnamento privato. Ciò che ulteriormente spero emerga dalle scarne notazioni di cui sopra è l'autorevolezza generalmente goduta dall'istituzione e, con essa, dai suoi docenti: attraverso l'uso della parola, questi avevano il prezioso compito di trasmettere la conoscenza del passato con gli aggiornamenti di volta in volta necessari a chiarire le evoluzioni del presente. Eppure, sembrò che nel Rinascimento quel magico filo arrivasse a spezzarsi perché, quasi all'improvviso, l'insegnamento parve intridersi di quei riflessi religiosi che avevano già diviso credi e coscienze. Ma la 'statura' dei riformatori protestanti, da Hus a Zwingli, da Calvino a Lutero, indusse gli amministratori addirittura ad incentivare l'insegnamento pubblico con ampie campagne di sensibilizzazione. Peraltro, i Paesi luterani furono i primi ad introdurre l'obbligo scolastico mentre, a seguito dello scisma anglicano, in Inghilterra si diffusero le cosiddette public schools. La risposta dei Paesi cattolici alla pubblicizzazione scolastica non pervenne dalle municipalità bensì dagli Ordini ecclesiali: dapprima, la Confraternita degli orfani, detta dei Somaschi, seguita via via dagli Scolopi, dai Barnabiti, dagli Oratoriani, dai Litterati. Ma l'Ordine che più di tutti si adoperò in tal senso fu, indubitabilmente, quello dei Gesuiti che, addirittura, arrivarono a strutturare la Ratio Studiorum in classi, orari e programmi con la divisione in sei anni di studia inferiora e tre di studia superiora, nei quali apprendere grammatica, poesia, retorica e filosofia, divisa a sua volta in logica, fisica, etica, seguiti da un anno di metafisica, matematica superiore, psicologia e fisiologia. Il risultato fu che l'intensificazione complessiva dell'insegnamento pubblico da un lato ridusse fortemente l'analfabetismo e dall'altro produsse una messe di uomini di cultura e di scienziati eminenti a prescindere se appartenenti ad un Paese cattolico, protestante o anglicano; divisi dal credo religioso ma accomunati dalla scienza e dalla cultura. Così, ad esempio, pur se il teologo olandese Erasmo da Rotterdam, seguace della Devotio moderna, critica (impropriamente) il protestante tedesco Lutero proprio sulla qualità dell'insegnamento pubblico, la sua opera più grande, l'Elogio della Follia, dedicata all'inglese cattolico Thomas More, Tommaso Moro, sebbene inizialmente non destinata alle stampe, finì per avere innumerevoli edizioni nonché traduzioni in francese ma anche in tedesco e in inglese. In pratica, nonostante gli ardui scogli, la metodica dell'insegnamento non mutò: l'autorevole docente attraverso la parola passa a giovani menti cospicui bagagli esperienziali e del sapere. Ciò che semmai differì furono gli aggiornamenti a chiarimento dei rispettivi presenti. È da attribuire ad un tale atteggiamento, del resto, se l'istituzione fu in grado di superare le prove successive: il mondo si andava complicando. Da un lato inizia a differenziarsi parcellizzandosi mentre, dall'altro, mutano i punti di forza e cambiano le prospettive. I più disinvolti prosatori contemporanei hanno preso l'abitudine di attribuire delle aggettivazioni ad un arco temporale che formalmente s'identifica con un secolo fino a soppiantare il numerale:

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ad esempio, il XVIII° diviene il secolo delle rivoluzioni, intendendo con ciò non solo i due notissimi moti, uno americano e l'altro francese, ma anche la trasformazione radicale della produzione industriale e agricola. Eventi, quelli, che in uno col pensiero 'illuministico' hanno modificato profondamente tutti gli aspetti della vita sociale: dalla religione alla politica, dall'economia all'arte. A torto o a ragione, nell'immaginario settecentesco prende spazio il convincimento che la storia cammina con le gambe degli uomini verso un 'meglio' dove l'imprecisione della metà è mitigata da profonde certezze: la fisica di Newton ha definitivamente fatto dell'universo il risultato di un meccanismo regolato da leggi scientifiche rigorose, il viaggio e la ricerca dinamica assurgono ad esperienze fondamentali per la formazione dell'individuo, il miglioramento e l'innovazione dei modi di vivere si fonda sulla profonda conoscenza del passato. Una peggior destino, se così possiamo dire, tocca al secolo XIX°, al più definito da Léon Daudet 2 'stupido' : nel senso di disattento se non incosciente. Il romanticismo, il liberalismo, lo scientismo, il materialismo, il progressismo, la democrazia, tutti miti nati in quel secolo, passati al vaglio e 'distrutti' perché nelle loro magniloquenti vanaglorie hanno 'creato' i presupposti di orride devastazioni di Paesi e di coscienze. Forte dei binomi scienza/progresso e democrazia/pace, quel secolo non si è accorto dei risvolti, bellici del primo e nichilistici del secondo; in nome dell'egualitarismo, ha combattuto le monarchie per far posto alle dittature, ha minato le religioni in favore delle ideologie, ha compromesso la proprietà arrivando a definirla un furto ed ha asseverato che la verità è un'opinione. 3 Un secolo, quello di cui sopra, ulteriormente definito 'lungo' dallo storico Eric Hobsbawm in audacia temeraria igiene spirituale quanto datato praticamente dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale. E ciò, quasi in contrapposizione col secolo successivo, il XX°, definito dallo stesso storico 'breve'4, intercorrente appunto dalla prima guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino. Un secolo, quest'ultimo, che seppur nella sua 'brevità' è stato caratterizzato da tre eclatanti fasi che lo storico chiama, la prima, dal '14 al '45, l'Età della catastrofe; due guerre mondiali, la caduta di imperi, la rivoluzione russa, la nascita di dittature; la seconda, l'Età dell'Oro, fino al '73, dove cessa il colonialismo e cominciano a manifestarsi i prodromi della fine della guerra fredda, dove si assiste a mirabolanti scoperte in campo medico scientifico e tecnologico e ad una vigorosa crescita economica; la terza, la Frana, con il primo shock petrolifero, il dissolvimento dell'Unione sovietica, la crisi economica, il riacutizzarsi di nazionalismi e il riaffiorare di conflitti locali armati. È indicativa la fine dell'opera col capitolo XIX titolato: Verso il Terzo Millennio. Tre secoli, quelli passati, dove la scuola, convivendo con le profonde variazioni sociali, economiche, scientifiche, culturali e politiche, ne ha fatto tesoro fino ad arrivare al punto di tradurle in arricchimento del patrimonio esperienziale e sapienziale trasmesso; ne ha fatte persino opzioni di pensiero e di vita, forse con accenti magnificanti verso alcune e denigratori verso altre ma senza venir meno alla sua autorevolezza espressiva e al suo scopo di formare cittadini del domani. Se andassimo in cerca di esempi eclatanti potremmo considerare non tanto le differenziazioni del pensiero filosofico e politico quanto quegli avvenimenti rivoluzionari che,


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quasi di colpo, hanno mutato stili di vita e condizioni economico-sociali: pensiamo agli eventi del XVIII° secolo, nuovi se vogliamo nel sapere da trasfondere, insuperabili sul piano formativo (mancando un pregresso) senza dei presupposti culturali e dei sentiti risvolti di tutela sociale, per quanto rapportati all'epoca. E già che ci siamo, tanto per venire alle cose nostre, pensiamo alla gigantesca riconversione della nostra economia nel secondo dopoguerra, fino a proiettarci quale potenza industriale tra i Sette Grandi della Terra, dove la scuola, consapevole del suo ruolo, ha fornito i migliori ingegni in ambito tecnico-scientifico, economico e cultural-politico; una riconversione che ha cambiato radicalmente la composizione del PIL, inattuabile senza un bagaglio valoriale, trasmesso anche dall'istituzione scolastica, che onde evitare tragedie sociali stemperasse lo 'strappo' ammortizzandolo fino alla nuova, stabile condizione. Non sono certamente una 'nostalgica' delle baronie universitarie né, men che meno, sono una 'vogliosa' della formazione elitaria cattolica, due aspetti quantomeno discutibili, ma è indubbio che la scuola, soprattutto la nostra scuola, a cominciare proprio dalla fine del 'secolo breve' ha iniziato a mutare la sua connotazione e a smarrire il suo fine istituzionale. Dal 1992 ad oggi, senza tener conto dell'intervenuto snaturamento dello Stato e dell'impiego pubblico, le riforme subite dall'istituzione pubblica non si contano più senza che alcuna abbia prodotto un qualche apprezzabile risultato se non quello, tanto per ricalcare il tema del numero, della sua pubblica, sistematica distruzione. Onestamente, non so da dove iniziare per commentare le tessere dello 'sfascio' e dare loro una sequenza logica e cronologica; quindi, nello scusarmi anticipatamente se queste non avranno nell'elencazione una loro organicità, spero almeno di riuscire ad esternare compiutamente il mio pensiero. Ed al riguardo, come cennavo sopra, non posso che iniziare con lo smantellamento dello Stato. Come scrivevamo nel numero di dicembre-gennaio scorso, se per Stato, in diritto, intendiamo quell'istituzione di carattere politico, sociale e culturale che specificatamente esercita la propria sovranità ed è costituita da un territorio e da un popolo che lo occupa, nonché da un ordinamento giuridico formato da istituzioni e norme giuridiche, ebbene dobbiamo convenire che l'attuale connotazione dello Stato è tutto fuorché rispondente a tale definizione. Nemmeno più la cultura e le norme giuridiche servono all'aggancio in quanto la prima è stata stemperata nell'osannato melting pot e le seconde vengono bypassate da pronunciamenti delle Corti comunitarie. Quello che oggi abbiamo dinanzi è una parvenza di Stato i cui unici compiti ormai sono quelli di notaio, di gabelliere, di tipografo e di segretario: il travaso nell'ordinamento legislativo nazionale della legislazione comunitaria, l'annotazione dei nati (sempre meno) e dei morti, la registrazione dei rapporti civili, sociali ed economici, l'esazione fiscale il cui livello impositivo è deciso altrove, la stampa della moneta su disposizione della BCE, la predisposizione delle 'carte' per Bruxelles. Non funziona più nemmeno come amministratore di condominio visto l'ammaloramento dei beni ceduti in concessione a terzi. C'è un governo il cui unico compito, tuttavia, sarebbe emanare norme di carattere pratico ma, come purtroppo abbiamo visto in questi ultimi trent'anni,

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neppure quello sembra incontrare una qualche perizia. Siamo un po' alla riscoperta e all'adozione di quel falso Regolamento della Real Marina del Regno delle Due Sicilie spacciato alla conoscenza dei più col significativo incipit di Facite ammuina. Il rammarico è che tali carenze non siano state colmate dall'Unione Europea ma questo è un altro discorso: quello che ci riguarda, invece, è che un quadro del genere è emerso in tutta la sua evidenza proprio nel '94, l'anno di Maastricht, al seguito di due significativi passaggi interni: le cosiddette 'privatizzazioni' e la riforma giuridica dell'impiego pubblico. Dopo un martellante mantra 'privato è bello' accompagnato da enfatiche, quasi sdegnate asserzioni che 'lo Stato non può fare panettoni', eccoci alla grande svendita dei 'gioielli di famiglia'. Lo Stato, diciamolo, fino a quei momenti non aveva certo brillato per celerità ed efficienza e se ciò valeva per la sua macchina operativa, la Pubblica Amministrazione, la sua presenza diretta nell'economia non era da meno. Aveva, come suol dirsi, in 'pancia' anche delle aziende decotte e fuori mercato ma in mano pubblica c'erano anche 'gioielli' del valore di Telecom, Eni ed Enel. L'obiettivo ulteriormente dichiarato era 'fare cassa' e 'aggiustare' i conti per presentarsi più in ordine all'appuntamento con l'Euro. Ora, è curioso il fatto che fino al '91 i conti erano pressoché in pareggio e che in altri Paesi lo Stato, ai vari livelli istituzionali, ha sempre cercato o creato occasioni di business senza che ciò abbia mai incontrato perplessità: anzi, in altri Paesi le aziende a partecipazione pubblica sono le più efficienti e producono significativi utili a vantaggio delle comunità. Quindi, sarebbe stato comprensibile liberarsi dei 'pesi morti' ma non arrivare a cedere, nel caso delle utilities, sia la rete che il servizio di aziende strategiche che, peraltro, fino ad un attimo prima temeraria avevano agito in regime di monopolio; aziende, per giunta, passate a terzi audacia igiene spirituale potremmo dire 'sottocosto'. Infatti, il '92 fu l'anno della manovra economica di ben 93.000 miliardi, varata dal Governo Amato, accompagnata dal prelievo forzoso retroattivo del 6‰ sui conti bancari degli italiani, seguita da una svalutazione monetaria (l'ultima consentita) del 30%; a quel punto, senza una liberalizzazione preventiva, non ci furono dubbi che l'outlet Italia fosse alquanto conveniente per l'acquisto di beni per giunta agenti in via monopolistica. Naturalmente, i dibattiti successivi provarono a trovare una ragione in tutto ciò tirando in ballo persino le manovre di Soros e il 'bene' apportato al nostro export. Si potrebbe controbattere che gli ex 'proprietari' di quei beni, espropriati con un colpo di mano, furono costretti da quel momento a pagare conti salati per la fruizione di servizi la cui qualità, seppur in mano a privati, ha lasciato e lascia alquanto a desiderare. Ma tant'è. In ogni caso, resta comunque il fatto che lo Stato, cioè la comunità nazionale, era giunta nuda alla meta. L'ulteriore tassello da rimuovere nel quadro di uno Stato siffatto era la natura giuridica del rapporto di lavoro dei suoi dipendenti. Il giuramento di fedeltà, all'atto dell'assunzione, era già stato cancellato: rimaneva solo di passare le norme comportamentali ed economiche alla contrattualistica ordinaria e le controversie alla giurisdizione della analoga magistratura. Sempre nel '92, infatti, venne varata la norma che rendeva l'impiegato pubblico pari alla commessa della merceria, con tutto il rispetto per quest'ultima. Non sto a sottolineare le differenze (che


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dovrebbero esserci) in termini di responsabilità. Comunque, c'è da dire che in molti gioirono: è giusto che quei mangiapane a ufo si rendano conto di ciò che significa lavorare fu il commento più bonario. Quei molti, però, non ricordarono i vecchi adagi uno dei quali afferma che ' 'O pesce fète d' 'a capa' mentre l'altro conclude 'Nun sputa' 'ncielo ca 'nfaccia te torna'. Sempre nel '92, infine, l'esordio della cosiddetta 'concertazione' pose lo Stato sullo stesso piano delle associazioni private di categoria con le quali trattava cose, peraltro, di non poco conto: la cancellazione degli automatismi a difesa del potere d'acquisto delle retribuzioni, seguita di lì a breve dalla riforma della contrattualistica lasciando di fatto all'indeterminazione più assoluta il rinnovo dei contratti di lavoro. Il 'pannicello' caldo che per l'occasione venne confezionato fu quello dell'osservazione (attenta, ovviamente) dell'andamento delle 'tariffe' e dei prezzi così da colmare in termini 'mediati' le perdite immediate. Ora, al di là della nota ilare che le 'tariffe' sarebbero state determinate da quelle aziende un attimo prima pubbliche, nessuno successivamente si prese la briga di farlo. Qualcuno dotato di memoria ma scarsamente riflessivo potrebbe obiettare che la 'concertazione' del '92 e del '93 trovava precedenti riscontri nella 'codeterminazione' degli anni '70 e '80 ma la differenza, rispetto ai precedenti, è fondamentale: innanzi tutto, l'autorevolezza dell'arbitro, lo Stato. Non un primus inter pares tra i soggetti in lizza, non il capitano di una squadra in competizione, bensì un autorevole arbitro tra i contendenti. La società, tanto per scomodare il sociologo tedesco Teübner, avrà pure avviato in quei tempi una sua 'orizzontalizzazione' ma rimaneva (e rimane) comunque il fatto che il dialogo tra gli 'apici' avrebbe avuto (ed avrebbe) assoluto bisogno di un autorevole giudice-arbitro che, tra l'altro, non assumesse (non assuma) atteggiamenti ed intenti di parte. Ma l'autorevolezza in quei periodi lasciava a desiderare (ed oggi non è da meno): nello scorso numero di novembre dal sintomatico titolo di 'Paura', mi soffermavo sul quadro cultural-politico di quei tempi che ritengo valga la pena richiamare: … come in un disonesto incastro del caleidoscopico della vita, la lotta contro le mostruose aberrazioni del capitalismo ha finito per rendere 'mostri' i suoi dichiarati avversari nel momento stesso che veniva meno la oggettiva realizzazione della loro ideologia. Così, nella pianificata riconversione culturale, affetti già dal materialismo e dall'universalismo, sono arrivati a 'sposare', dopo tanta dogmaticità, il relativismo, ammantandolo di una farneticante concezione universalista di 'buonismo altruistico' e, paradossalmente, di ricorsi a sterili benchmark di pensiero liberal-capitalistico. Il dramma è stato che tali concezioni, …, elevate a sistema sono state tradotte in politiche che non hanno più incontrato un'opposizione culturale prima che operativa: il vento della 'moralità' aveva spazzato via liberali, democratici cristiani e socialisti facendo al tempo stesso disperdere secolari impianti intellettuali e formativi. … Mi sia consentito un inciso: il solito qualcuno potrebbe obiettare che rispetto alle attese della 'gioiosa macchina da guerra' occhettiana il vincitore delle elezioni del '94 fu il Cavaliere. In realtà, quella vittoria purtroppo non dimostrò alcunché se non la voglia popolare, ampiamente disattesa, allora ed in seguito, di una gestione dello Stato non da basso impero bensì

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estremamente attivo sul piano delle indispensabili riforme perché l'Italia, tra l'altro, potesse avventurarsi un po' più solida sul nuovo cammino europeo. La 'vera' vincitrice, invece, fu la 'sinistra' perché dopo la 'cancellazione' della politica della cosiddetta prima Repubblica e del bagaglio culturale, valoriale e ideale che la pervadeva, ciò che immise 'sul mercato' fu uno Stato 'materializzato' (dal quale il Cavaliere non si è mai sottratto); una parvenza di Stato, privatizzato, peraltro totalitario in quanto portatore del pensiero unico, cosa terza rispetto alla comunità che lo aveva generato; un soggetto al pari del bottegaio all'angolo che vende pane: un privato che a fronte di un servizio o di un bene chiede il corrispettivo; dal che, lo dico umoristicamente, l'esazione fiscale assomiglia al 'pizzo' della cosiddetta 'protezione' che, ovviamente, non include la manutenzione delle strade, la cura del territorio, trasporti efficienti, tutele sociali adeguate, formazione efficace. Ci sarebbe da farne una gag cabarettistica: al fine di nobilitare il prelievo per l'erogazione di servizi è stato aperto un concorso. I promotori degnissimi nelle figure dello Stato, delle Regioni e dei Comuni, hanno istituito delle graduatorie di reddito che sovvertono quelle del prelievo fiscale: un povero, nella diversa concezione, pagherà certamente meno di uno meno povero ma resta il fatto che comunque dovrà pagare, almeno grato di questa 'giustizia' sociale. Così come, con gli stessi 'umanitari' criteri, dovrà pagare per curarsi e per istruirsi. E tutti, sinistra e destra, felici e contenti. Detto ciò, chiudiamo il sipario sulla gag e torniamo a parlare di scuola. Da quanto sopra detto, le conclusioni in merito paiono scontate ma, sia pur sinteticamente, proviamo a percorrerle. Intanto, l'autorevolezza dell'istituzione: mancando quella del suo 'mentore' gliene tocca ben poca. Il disinteresse verso la scuola pubblica, del resto, è palesato dall'assenza di cura della relativa edilizia e arredi: soffitti che crollano, muri scrostati, strumenti estremamente carenti, spazi ridotti resi ancor più angusti dall'accatastarsi dei nuovi banchi antiCovid, rotti dopo pochi giorni d'uso. Non proviamo neppure a parlare dell'autorevolezza dei docenti: bene che vada, nell'odierno pensiero dei più, degli sfigati che non hanno trovato di meglio da fare nella vita. E guai se si dovessero azzardare a riprendere il pargolo per la sua esuberanza: come Montessori insegna, sostenuta da un'infinità di associazioni in difesa del fanciullo, non sia mai che lo traumatizzino. Ed è inutile che una fioca voce faccia presente che il giovin virgulto è spesso e volentieri lasciato solo per la doppia occupazione dei genitori che tra l'altro non sanno come educarlo e cosa trasmettergli, che passa ore davanti ad un monitor o uno schermo televisivo, senza alcun controllo, a seguire farneticanti siti che addirittura inducono al suicidio o trasmissioni trash. La fioca vocina verrà prontamente tacitata con l'asserzione ferma e lapidaria: si formerà crescendo e sceglierà quando sarà grande. Vacci a ragionare. Ma l'insegnante a questo punto si sente frustrata: mal pagata, costretta ad un lungo precariato, stressata dalle turbolenze della scolaresca, manderebbe volentieri a 'stendere' alunni e genitori ma non può: sul piano disciplinare il calvario che innescherebbe sarebbe il minimo mentre su quello massmediatico verrebbe 'fatta a pezzi'. E così passa i suoi giorni trascinandosi stancamente cercando di trasmettere rudimenti


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nozionistici senza tanto curarsi (mi perdonino gli insegnanti) se almeno quelli verranno recepiti. Ovviamente, un quadro del genere non si attaglia a tutti perché ci sono anche quelli che sentono ancora la 'mission' e a bambini della V elementare o a ragazzotti delle medie parlano con enfasi entusiastica delle gesta del Che o delle tesi di Proudhon che, pur essendo un moderato, non si esimette dal pubblicare Qu'est-ce que c'est la propriété? e si rispose che la propriété, c'est le vol. Mi chiedo, ammesso che importi, come potrebbe un giovinetto confutare simili tesi o convenire ovvero concordare con Daudet sulla stupidità del secolo XIX°? Oppure, data la propensione sempre più scarsa verso elaborati concettuali che implichino una base culturale, come pensare che possano aver frequentato un cinema d'essai e aver visto il grande Gian Maria Volontè ne La proprietà non è più un furto? Ma, ammesso per un attimo, che vi siano docenti (e, sicuramente vi sono) che, nonostante le tribolazioni subite, sentono integro l'impegno formativo verso le giovani leve mi chiedo ulteriormente quale fine ultimo riescano a confezionare nelle loro lezioni. L'educazione sulla civile convivenza è stata bandita dall'insegnamento: non entro nel merito degli effetti e non mi stupisco, a differenza di altri, se il giovane universitario non sia neppure a giorno del nome e del ruolo delle istituzioni del Paese nel quale vive. Pure puntare al 'cittadino del domani', a mio avviso, crea problemi: concesso che oggi abbia senso, del che dubito molto, sfuma la cittadinanza nazionale e si mantiene indeterminata quella comunitaria. Nemmeno più le discipline umanistiche trasmettono il concetto di ideale e di valore: mi è capitato recentemente di parlare con la figlia di una cara amica, laureanda in scienze politiche: la tesi concordata è sulle 'Limited edition' o, in altre parole, sulle tecniche di incentivazione alla vendita poste in essere dalle aziende. Non aggiungo altro. E, di rimando, a voler puntare sulla scienza e sulla tecnica, a favore di quale azienda in quale Stato, vista la sistematica fuga di 'cervelli? Fatto si è che oggi la scuola è più che mai un nozionificio, reso male in quella pubblica che ha preso a scimmiottare l'insegnamento privatistico americano senza averne né la cultura né il contesto, e un po' meglio in quella privata, in virtù di rette sostenute e di agganci significativi col mondo del lavoro. Dal che, lo snaturamento del principio costituzionale del diritto allo studio sancito dagli artt. 3, 33 e 34. Ma, tanto nessuno ha sollevato obiezioni. Quindi, per concludere, quale effetto si spera possa produrre la raffazzonata riforma di turno se non ulteriormente incasinare una situazione già di per sé caotica? Ci si è messo anche il Covid e la didattica a distanza: qualcuno mi sa dire come attivare on line il bonus di € 500 per l'acquisto di un computer se la famiglia in partenza ne è sprovvista? Forse, acquistandolo prima con la vincita della lotteria del cashback? E come mantenere la linea stabile visto che il cablaggio della fibra, nel migliore dei casi, arriva fino all'esterno del fabbricato? Non mi sembra ci sia un bonus per sostenere la spesa onde portarla nell'appartamento. Va be', alla fantasia non si può chiedere più di tanto e poi, ma sì, facite ammuina. La verità, in un'epoca dove ognuno ha la sua, è che i 'moralizzatori' della II Repubblica hanno portato l'Italia in mezzo al guado lasciandola da trent'anni lì ad aspettare un Godot, mitico artefice delle agognate riforme, intanto buone come

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spunto propagandistico in campagna elettorale. Ma, fortunatamente, e poi si dice lo 'stellone', di elezioni ce ne sono sempre meno. Un momento …. mi guardo attorno e vedo lo sconcerto stampato sul volto degli astanti. Invitata ad un circolo di signore benpensanti, visto che si parlava di scuola ho dato libero sfogo al mio pensiero e l'ho esternato con enfasi. Il personale di servizio non mi ha nemmeno capito mentre le dame incrilliccate valutano con fastidio le mie parole, giudicate con ogni evidenza troppo eccentriche: ma che vai a pensare? Su, su che dobbiamo dedicarci a cose serie: dopo il tè bisogna decidere sulle iniziative di beneficenza … Al che, taccio. Mi offende e penso di offendere se spiegassi a delle acculturate della I Repubblica la differenza tra carità e giustizia. Ma il tempo, si sa, è un gran dottore che sa anche usare gli oppiacei. Roberta Forte

Note: 1. Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana 2. Léon Daudet – Lo stupido XIX secolo - Oaks Editrice 2017 3. Eric Hobsbawm - Il Secolo breve - Rizzoli 2006 - p. 18 4. ibidem


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LA BUONA SCUOLA? INCIPIT "Si pagherà un caro prezzo per l'abolizione del maestro unico e prevedo un futuro oscuro per le nuove generazioni". (Giuseppina Federico, maestra elementare dal 1944). ELENCO MINISTRI DAL 1861 AL 2021 CON NOTE ESSENZIALI E VOTO (Metodologia analitica utilizzata ai fini delle valutazioni). La scala valoriale va da 0 a 10. È stato aggiunto un livello superiore solo per alcuni personaggi, convenzionalmente definiti "gloria nazionale", i quali, per il loro indiscusso valore, trascendono i limiti dell'eccellenza. Nella valutazione l'attività ministeriale ha pesato per il 30% e il curriculum personale per il 70%. Sono stati utilizzati complessi parametri in grado dì conferire alla comparazione quanta più "oggettività" possibile, sia pure nei limiti di una soggettività che nessun analista di fenomenologie sociali potrà mai annullare del tutto. Per il periodo 1861-1945 non si è dato alcun peso all'appartenenza politica, rappresentandone la componente ideologica un elemento fondamentale. Per il periodo 1946-1994, segnati dal dominio del cosiddetto "pentapartito", sono stati tolti tre punti in modo che il punteggio massimo fosse sette. Pur trovandoci in presenza di molti soggetti con brillante curriculum professionale e accademico, infatti, non sarebbe stato corretto metterli sullo stesso livello dei predecessori, non potendo ritenere che ignorassero le collusioni malavitose e le metodiche operative dei partiti di cui facevano parte, che tante sciagure hanno procurato al Paese, evidentemente tollerate per mero interesse personale. Per i ministri dei governi di Berlusconi sono stati tolti cinque punti, non potendo riconoscere alcuna buona fede nei soggetti che si siano resi complici dei suoi sporchi giochi. Per i ministri di sinistra dal 92 in poi sono stati tolti tre punti, eccezion fatta per Mussi che, pur operando in un contesto epocale fortemente deideologizzato, non può essere accusato di strumentalismo o mala fede nell'esercizio delle sue funzioni. Per l'unico ministro leghista presente nell'elenco e per i due ministri del M5S non sono state apposte contrazioni nella scala valoriale. Non è stata espressa alcuna valutazione per i ministri in carica. Alcuni ministri hanno retto più volte il dicastero e i vari periodi sono stati indicati con numero crescente accanto al nome.

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Omessi i nominativi dei ministri dell'università e della ricerca dal 1962 al 2001, avvicendatisi come ministri senza portafoglio fino all'istituzione del Ministero dell'università e della ricerca, nel 1988. Successivamente si sono avuti altri scorpori e accorpamenti in funzione di esigenze prettamente partitiche, senza alcun riguardo per la scuola e l'università, abbandonate in un baratro senza fondo nel quale continuano a precipitare.

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PROIEZIONE GRAFICA


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* TULLIO DE MAURO: Non si esprime il voto. Soggetto di altissimo profilo che non ha potuto fare nulla in un contesto sostanzialmente marcio. ** MIUR *** Il MIUR viene abolito da Prodi e ritorna il Ministero della PI con Mussi, PD, che si occupa di università e ricerca. **** Berlusconi ripristina il MIUR.

LE TAPPE DEL DECLINO Dai dati riportati nelle tabelle si evince la crescente disaffezione del potere politico nei confronti dell'istruzione. Sarebbe riduttivo e fuorviante, tuttavia, imputare alla sola politica la crisi della scuola, che invece è il risultato di fattori negativi convergenti, sviluppatisi decennio dopo decennio e sommatisi gli uni agli altri. In primis, pertanto, è opportuno inquadrare cronologicamente "ciò che è stato fatto e perché" e poi analizzare le effettive risultanze dei processi attuati, sia pure in questo contesto molto sinteticamente, essendo stata la materia ampiamente trattata in passato. Realizzata l'unità d'Italia, con le leggi Casati (1859-1861) e Coppino (1877) iniziò la lotta contro l'analfabetismo, che riguardava il 74% della popolazione. Nel 1888 si ebbe una prima significativa svolta con il pedagogista Aristide Gabelli, per il quale la scuola deve sì liberare l'individuo dall'ignoranza, ma soprattutto metterlo in grado di pensare autonomamente, sviluppando il senso critico, al fine di partecipare alla vita sociale e civile e contribuire allo sviluppo economico del Paese. Pensieri mutuati dal positivismo, di cui fu tra i principali promotori in Italia, dopo averlo bonificato con l'eliminazione della componente materialista e dell'anticlericalismo - concetti cari ai veri epigoni comtiani - ritenendo in tal modo di prendersi solo ciò che di buono la corrente filosofica offriva per lo sviluppo della società. Anche un positivismo annacquato, però, non poteva andare bene per un filosofo come Giovanni Gentile, che, nel 1923, portò a compimento la famosa riforma destinata a condizionare l'istruzione per molti anni. Anch'egli vede nel maestro la guida ideale per stimolare ragione e consapevolezza, ma vola più alto rispetto a Gabelli sul fronte della spiritualità, conferendo particolare importanza alla conquista di una "umanità" condizionata proprio dalla crescita interiore e non dalla fede, secondo dettami prettamente socratici. Dal punto di vista organizzativo l'obbligo di frequenza fu innalzato a quattordici anni e la scuola secondaria divisa in due settori: avviamento professionale e licei. L'accesso a tutti i corsi di laurea fu consentito solo a chi proveniva dal liceo classico; chi frequentava lo scientifico non poteva iscriversi a giurisprudenza, lettere e filosofia; niente università, invece, per chi conseguiva il diploma di avviamento professionale. Nel 1955, con la DC saldamente al potere, Giuseppe Ermini conferì ai programmi un'impronta fortemente ancorata all'umanesimo cristiano, supportandoli con una didattica mutuata dal pensiero dei pedagogisti John Dewey e Jean Piaget. L'intento era quello di coniugare le radici culturali con metodiche ritenute innovative ma che,

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soprattutto per quanto concerne la teoria dello sviluppo cognitivo elaborata da Piaget, evidenzieranno nel corso degli anni molte lacune, sistematicamente rilevate da altri insigni pedagogisti: eccessiva attenzione alla sfera emotiva (intuizione, fantasia, sentimento) a danno della componente cognitiva e razionale della personalità. A questi rilievi, di stampo prettamente scientifico, si aggiungevano anche quelli di natura ideologica, provenienti dagli ambienti di sinistra, che criticavano il maestro unico e l'impostazione filo-cattolica. Sia pure tra tanti crescenti problemi, comunque, fino all'inizio degli anni Settanta, nelle scuole primarie e secondarie si registrava un clima che consentiva, soprattutto a chi ne avesse avuto davvero voglia, di perfezionare il percorso formativo in modo decoroso e dignitoso. Anche nelle facoltà universitarie, nonostante il deprecabile operato dei "baroni", la percentuale degli studenti che conseguivano la laurea con preparazione adeguata a un onesto ingresso nel mondo del lavoro e delle professioni era di gran lunga superiore a quella che si sarebbe registrata nei decenni successivi. Le burrasche del 1968, infatti, avviarono un processo di continua disgregazione che trasformarono, con riforme e leggi varie, la "pubblica istruzione" in "distruzione della formazione scolastica e universitaria". Come anticipato, questo argomento è stato diffusamente trattato in tanti numeri tematici e pertanto è perfettamente inutile ribadire concetti ben consolidati nell'immaginario collettivo, quanto meno in quello delle persone sane ed equilibrate. Qui basterà dire che il radicale mutamento dei costumi, la crisi della famiglia, l'acuirsi dello scontro generazionale, il continuo e crescente declino di una classe politica pregna di tutti i difetti di quella precedente senza averne i pochi pregi, costituiscono la causa principale della disastrosa realtà attuale. Al di là di ciò che si evince dalla cronaca quotidiana, basta accedere alla piattaforma YouTube per visionare video scioccanti che ben evidenziano cosa accada nelle scuole italiane, perché molti alunni non solo si comportano in modo osceno ma si divertono a pubblicare in rete le loro oscenità. Non mancano, purtroppo, le testimonianze che evidenziano anche i limiti del corpo docente, sotto qualsivoglia punto di vista: scarsa o nulla capacità reattiva al comportamento violento degli alunni, inconsistente preparazione personale, debolezza di carattere, scarsa personalità, inadeguatezza al ruolo come nel caso di una docente che, circondata dagli allievi, continuò amorevolmente a discorrere con loro mentre alle sue spalle un alunno le infilava le mani nei pantaloni a bassa vita, dai quali fuoriusciva un sexy tanga, stimolandola sessualmente. Non occorre avere una laurea in psicologia per comprendere che la docente, non riuscendo a gestire i freni inibitori del subconscio, si fosse abbandonata a quell'estasi travolgente che le derivava dal piacere sessuale provocato dalle mani dell'alunno, in un contesto così coinvolgente come quello offerto dagli altri alunni che facevano da cornice. Peccato che queste gradevolissime sensazioni fossero state provate in un'aula scolastica, durante l'orario di lezione, con ragazzini di tredici anni.


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COME USCIRE DAL TUNNEL: IL CORAGGIO DELLE SCELTE DIFFICILI Non è argomento da trattare in un capitolo di un articolo ma in numero speciale del magazine. È solo possibile, pertanto, indicare delle linee guida. Una riforma del sistema scolastico è inutile senza un radicale cambio di rotta che consenta di recuperare quei valori soppiantati dai falsi miti del modernismo, a loro volta già obsoleti e pronti a cedere il passo a nuove forme di degenerazione sociale, ancora più pericolose e disgreganti. La problematica, esposta in questo modo, appare senza via di uscita, rimandando al famoso gatto che si morde la coda: occorre cambiare tutto, in ogni ambito, ma chi può effettuare questo cambiamento se quasi tutti, tra i quali coloro che detengono il potere, accettano lo status quo e le sue contraddizioni, ritenendo che si possa agire solo all'interno dell'attuale sistema senza metterlo in discussione? Il cambiamento è possibile, invece, se la minoranza qualificata dei cittadini - per intenderci: quella che concorda nel "cambiare tutto" - trovi il coraggio di proporre le scelte difficili, motivandole con argomenti seri e validi, tacitando con la propria autorevolezza l'autoritarismo maccheronico dei parvenù che si sono impossessati del Paese e fanno a gara a chi urla più forte per imporre baggianate alle quali sono i primi a non credere. Non è un compito facile, ma l'alternativa è continuare a vivacchiare in questo clima melmoso. A livello formativo bisogna partire dalle elementari, recuperando la figura del maestro unico, con la sola eccezione per le lingue straniere, il che implica un'adeguata preparazione del corpo docente. Va rielaborato il quadro orario, essendo quello attuale deficitario e mal strutturato. Tutto ciò che non possa essere insegnato dal "maestro", (cultura musicale, arte, tecnologia e informatica) deve configurarsi come attività di supporto, da espletarsi in fascia oraria pomeridiana. In pratica si tratta di strutturare dei veri e propri corsi tenuti da specialisti settoriali, che vanno ben distinti dalla figura del maestro, che deve ritornare a essere "il" punto di riferimento principale del fanciullo nella prima fase dell'apprendimento scolastico. Vanno smantellate, quindi, con forza, coraggio e determinazione, tutte le tesi e teorie sciorinate, con la ben nota saccente e vacua prosopopea, da pedagogisti avvelenati un po' da Durkeim e tanto dalla scuola di Francoforte, politicantucoli adusi a parlare su induzione senza avere alcuna cognizione delle tematiche discusse, filosofastri da quattro soldi e chi più ne abbia più ne metta, tese a trasformare la scuola elementare in una vera e propria baraonda. Occorre aggiungere una seconda lingua straniera e intensificare la preparazione in campo tecnologico affinché i bambini non diventino solo dei "mostri di bravura" nell'utilizzo dei programmi ma imparino a utilizzare il PC in modo "congruo", soprattutto per tutelarsi dalle intrusioni e dalle sollecitazioni malevole. Il PC è una casa: bisogna insegnare a difenderla né più né meno di come s'insegni a difendere, con opportuni accorgimenti, quella abitata. Di fondamentale importanza risulta l'educazione musicale, che deve fungere soprattutto da antidoto contro la spazzatura affermatasi negli ultimi decenni, che tanta presa ha sui fanciulli, rovinandoli in modo irrimediabile. Vanno rivisti, inoltre, i libri di testo e la didattica. Completamente da ridisegnare, manco a dirlo, i tre anni di scuola secondaria di primo grado,

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magari ripristinando il vecchio nome di "scuola media" non fosse altro perché è più corto, le scuole superiori e l'università, quest'ultima inquinata da corsi inutili, concepiti ad arte per favorire i protetti dei baroni, che dovrebbero essere considerati dei veri e propri criminali. LA SCUOLA IN TEMPO DI PANDEMIA Il rischio più grosso che stiamo correndo, tipico dei momenti tragici, è "l'assuefazione al peggio". La mente si rifiuta di percepire il pericolo e opera una sorta di rimozione che consente di convivere con l'orrore. Ciò è sbagliato, ma sbaglia anche chi, essendo immune da questa che è una vera e propria psicopatologia, reagisce con veemenza, non riuscendo a comprendere come sia possibile non rendersi conto di cose banali nella loro drammaticità: le scuole vanno chiuse senza porsi limiti temporali, perché il tenerle aperte significa solo allungare, e di molto, i tempi della pandemia. È una tragedia, il Covid-19, che non si sconfigge né ignorandola né con il muro contro muro. Con calma e pazienza, quindi, ma anche con tanta fermezza affinché non si parli al vento, occorre spiegare a chi non l'abbia ancora compreso che non è possibile conciliare l'inconciliabile, come del resto sta emergendo dai provvedimenti che si stanno emanando mentre va in stampa questo articolo. Tutto ciò, ovviamente, al netto dei mestatori, che non mancano mai e nelle tragedie ci sguazzano, volgendole a loro esclusivo vantaggio: con loro è inutile perdere tempo ed è preferibile ignorarli perché anche il rampognarli significa legittimare le loro farneticazioni. Non saranno i mesi di chiusura necessari a superare l'emergenza pandemica che determineranno l'ignoranza dei ragazzi, come qualcuno sostiene. A prescindere dalla didattica a distanza, che va mantenuta e possibilmente estesa, vi sono molte altre valide opzioni che consentono di fare di necessità virtù in un momento drammatico come questo. Agli studenti delle scuole medie e superiori, per esempio, si prescriva la lettura di un libro a settimana, alternando i romanzi ai saggi di carattere storico e scientifico. Per ogni libro letto dovranno redigere una recensione, che sarà vagliata dai docenti. Anno dopo anno si sta perdendo l'abitudine di imparare le poesie a memoria, pratica che sopravvive in qualche scuola media ed è del tutto scomparsa nelle scuole superiori. I succitati stupidi presupposti di modernismo, per lo più retaggio della sub-cultura sessantottina, considerano l'apprendimento mnemonico un portato d'altri tempi superato dalla naturale evoluzione della didattica. Quella naturale evoluzione, per esempio, che alle elementari non associa più il verbo "tremare" a "foglia" ma a "lavatrice" e consente agli studenti delle medie e delle superiori di spostare la scoperta dell'America nell'epoca moderna, la nomina di Hitler a cancelliere nel 1972, l'inizio della Seconda Guerra Mondiale nel 1789 e la fine nel 1965! Quanti ragazzi dai 12 ai 18 anni ascoltano musica classica? Se da qualche studio dovesse uscire una percentuale a una cifra non vi sarebbe da stupirsi. Come sarà un ragazzo che, alla ripresa delle lezioni in presenza, abbia letto almeno una quarantina di libri che non avrebbe mai letto, imparato un po' di poesie e ascoltato, dopo i necessari approfondimenti, una discreta messe di sinfonie e opere liriche?


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In Italia si organizzano ogni anno centinaia di concorsi di narrativa e poesia. Non tutti, è noto, sono da prendere in considerazione, ma qualsiasi docente dovrebbe essere in grado di selezionare quelli validi. Ogni scuola, pertanto, potrebbe chiedere ai rispettivi alunni di candidarsi al concorso scelto, offrendo loro una possibilità competitiva e comparativa comunque interessante, a prescindere dal risultato finale. Sono solo degli esempi e molto altro potrebbe essere aggiunto. Più di ogni altra cosa, però, si trovi il coraggio di spiegare bene ai ragazzi cosa stia accadendo a livello planetario, perché da quel che traspare dai social sono ben lontani dall'averlo compreso, alla pari di tanti adulti, purtroppo. Lino Lavorgna

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DISTRUZIONE O DESTRUTTURAZIONE? Come mi capita sovente di fare, prendo in mano il vocabolario e leggo : 1) "Distruggere = "Abbattere, guastare, disfare, per lo più con azione o con mezzi violenti, scomponendo le parti di un oggetto, dissolvendo, riducendo in rovina, in modo che la cosa sia resa definitivamente inutilizzabile … "; 2) "Destrutturare = "In genere, scomporre una struttura negli elementi che la costituiscono, sia al fine di smantellarla, sia per avviarne una riorganizzazione. Premesso quanto sopra, iniziamo a ragionare: che la scuola italiana (come forgia di futuri cittadini tramite esempio e cultura) sia, da almeno quarant'anni, in totale sfacelo è sotto gli occhi di tutti. E più il "Sistema" (niente paura, provvederò, più avanti, ad una sua opportuna definizione) infieriva senza pietà su di essa attraverso le erratiche forgie della politica, del sindacato, dell'amministrazione e delle cosiddette riforme epocali un tanto al kilo, tanto più il relativo, esiziale percolato sull'intera società veniva edulcorato a colpi di lenitivi aggettivi tipo buona (!) scuola "et similia". I resti mortali di quest'ultima (inumati infine con esequie officiate in simbiosi dall'improbabile MinistrA Azzolina e dal suo occasionale compagno di viaggio, il Covid19, entrambi danti causa della nefasta e definitiva Didattica a Distanza, D.A.D.) meritano, ad esequie ormai archiviate, una riflessione scevra da preconcetti, un'analisi oggettiva, senza paure ne rimpianti, senza "amarcord" di un irrealistico tempo che fu, ma con l'altrettanto lucido coraggio di guardare in faccia la realtà, senza se e senza ma. In una parola ammettere che, al giorno d'oggi, la scuola intesa come "Attività organizzata e metodica per l'insegnamento di una o più discipline" è definitivamente morta. Peggio: 1. ESSA, ORMAI, E' TECNICAMENTE INUTILE. 2. PER IL "FUTURIBILE" DEGLI ATTUALI GIOVANI, LA SCUOLA - TRANNE CHE PER IMPARARE A LEGGERE ED A SCRIVERE - E' QUASI IRRILEVANTE. PUNTO ! Esagero? Prego allora il mio solitario, monadico, ma fedele lettore di accompagnarmi in un ardito volo di fantasia: un salto all'indietro di almeno settant'anni in un piccolo e sperduto paesino della Sicilia centro-occidentale nell'immediato secondo dopoguerra del secolo scorso. Povertà assoluta, ma di tipo campagnolo e dunque molto più dignitosa della gemella di tipo cittadino. Ai tre giovani signorini di città, in annuale visita di una settimana al nonno materno nella grande casa di paese, veniva concesso di giocare nell'ampio giardino con i bambini coetanei del vicinato


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(sette/dieci anni d'età) tutti figli di contadini o braccianti agricoli; e ciò, benché non usuale nella mentalità cittadino-borghese dell'epoca, per il combinato disposto di una visione cattolico/egalitaria dell'esistenza da parte della loro giovane madre e dell'oggettiva mancanza di pericoli in quella isolata e minuscola comunità rurale. Poveri compagni di giochi quei bimbetti, dai piedi scalzi, dalle scure camicette lise, dalle braccia sottili ed i capelli arruffati, ma, al contempo, che piccoli esseri eccezionali! Occhi scuri, vispi, intelligenti, depositari del lascito di tremila anni di storia isolana e di stupende, ma prepotenti civiltà, pochi scarni kilogrammi di agilità, capaci di emettere, con due dita in bocca, fischi sibilanti che attraversavano l'intera vallata, di buttar giù dall'albero un passero con una sassata precisa, di intrecciare a mano con il fil di ferro improbabili, ma efficaci trappole per uccelli, insomma piccoli, ma perfetti chierici dello "here and now" e pur tuttavia del tutto analfabeti e conoscitori soltanto di quel monadico ambito che, per passato, presente e futuro, non travalicava, in esperienza ed informazione, lo stretto perimetro del loro minuscolo borgo. Ottimali "potenzialità" dunque da potersi forgiare in ogni forma e finalità del vivere umano. "E con ciò?" mi si potrebbe domandare da parte del predetto mio prezioso lettore "dove vorresti arrivare, mio caro Antonino, con questo ragionamento?" Rispondo con una provocatoria risposta per illustrare la quale debbo tuttavia chiedere venia di un gratuito, immaginifico ricorso ad un'ipotetica macchina del tempo che faccia di tali bambini i protagonisti di un fantasioso accadimento: il venir essi trasportati di peso, così per come si trovavano, dalla campagna siciliana di fine anni quaranta dello scorso '900 ad una ipotetica località del corrente 2021 del tutto isolata, ma accogliente, secondo gli attuali "standard", al fine di poter insegnar loro soltanto a leggere, scrivere e familiarizzare con le tecniche digitali di telefonini rispettivamente ricevuti in personale dotazione. In sostanza - al di fuori di quanto necessario ad un'armonica, seppur circoscritta, vita sociale di infanzia in crescita - soltanto poche parole di insegnamento ed un Android . Dopo di che, una volta raggiunta l'età puberale dei 13/14 anni far indossare loro la "divisa d'ordinanza" (jeans, felpetta con cappuccio e scarpe Nike) e catapultarli in un luogo di movida romana (è la mia città) un sabato sera di una qualsiasi settimana (di epoca pre-Covid, s'intende!). Divenuti nativi digitali, opportunamente rivestiti ed in gruppo, sarei pronto a sfidare chiunque a distinguerli dai circostanti coetanei con cui il linguaggio di relazione sarebbe naturalmente semplice, chiaro, immediato e scevro da qualunque possibile ostacolo costituito da ogni eventuale differenziazione di tipo, diciamo, scolastico/formativo. Infatti: Lo studio della Storia? Inutile! Essa si occupa soltanto di passato ed in "movida" sarebbe del tutto fuori luogo. I resti del vicino Ponte Rotto o del diroccato distributore AGIP sono entrambi equivalenti residui di una irrilevante casualità; La Filosofia? Essa travalica lo "here and now" e pertanto a cosa serve? Di quale utilità potranno mai essere fumosi personaggi come, chessò cito a casaccio, Platone, Kant, Nietzsche e tutti quanti coloro a cui è del tutto mancata la millenaristica esperienza di aver ordinato un nuovo tostapane su Amazon? Ma dai, non perdiamo tempo con cotante irrealtà!

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La matematica? Ma quale, diciamo, Signor Leibniz, potrebbe mai competere con il miracoloso scatolino a bottoni che tengo in mano ed a cui è per nulla estraneo qualsiasi calcolo matematico, nonostante il relativo reggitore si confonda nel contare in modo corretto fino a cinquanta? La letteratura? "Margaritas ante porcos" per chi essendo in larga parte analfabeta di ritorno ed abituato a compulsare soltanto i testi comparativi delle offerte in saldo della scarpe di Prada, rimarrebbe con interrogativa bocca aperta davanti a ri-chessò: "Quel ramo del lago di Como …" o, men che meno: "Nel mezzo del cammin di nostra vita ….". E le scienze? Sì, le scienze? Ma suvvia quale Archimede, Leonardo, Galilei, Newton, Marconi, Fermi, lo stesso Einstein ed infinita compagnia cantante e, per dirla proprio tutta, finanche un Pico della Mirandola, potrebbe mai competere in memoria tecnica con il predetto scatolino che a distanza di dito e non, ripeto non, di neurone mentale, racchiude in se tutto quanto lo scibile umano mai prodotto in ogni materia, in ogni arte, in ogni sublimità ed in ogni nefandezza? Mai e poi mai! Il miei "scugnizzetti" di Sicilia terrebbero dunque sul palmo della mano, senza alcun sforzo ed applicazione, la storia del mondo intero e tutto quanto il suo sapere. A che dunque i banchi di una scuola? Soltanto purtroppo a munirli di rotelle per giocarvi in auto-scontro (pardon, bancoscontro) in un'aula senza più maestri. A questo punto, il sullodato, mio unico lettore scossosi dal torpore che il mio disquisire gli avesse già procurato, potrebbe tuttavia saltar su ed obiettare: "Ma tutto quanto sopra esposto si limita soltanto, per quanto ampio, se non addirittura sconfinato esso possa essere, a ciò che concerne l'ambito della pura informazione, lasciando lontana le mille miglia qualsiasi riferimento alla cultura!" "Bravo, amico mio" risponderei "ben detto, ma è proprio qui che, come suole dirsi, casca l'asino!" La CULTURA appunto, cioè quella essenziale trama, ordito, tela al contempo sgombra da alcunché di preconcetto, ed altresì onnicomprensiva, su cui appuntare di volta in volta, ogni informazione, ogni notizia, qualsiasi tecnicità per poterla inquadrare in un contesto più ampio, ubicarla in un arco storico, darle un senso, un percorso una collocazione socio-temporale, seppur nel limite di inscrizione nella rispettiva, ineludibile ed epocale civiltà di appartenenza. E' qui sta il pericolo, il piano strategico di quel "Sistema" (eccoci arrivati finalmente al punto) senza nome, senza volto (se non che di qualche minore, seppur nei vari momenti significativo, rappresentante) che mira a destrutturare appunto l'attuale civiltà greco-romano-cristiana per far nascere un qualcos'altro, ancora non del tutto definito (caratteristica, peraltro, propria di tutti gli embrioni) ma le cui caratteristiche iniziali sono ormai ben evidenti. Destrutturare le scuola, stracciare l'ordito della Cultura - vera e propria cellula staminale di ogni civiltà e relativa società - allo scopo di lasciare l'informazione, nella sua pura essenza di elemento "spot" senza ancoraggio, libera di vagare al di fuori di qualsiasi ordito precostituito e tale da poter venir poi, vagante farfalla, catturata e, trafitta dal semplice spillo del "politicamente corretto", appuntata su qualsivoglia nuovo ordito di neo-creata cultura/civiltà.


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La SCUOLA vera dovrebbe fornire alimento alla critica intellettuale, chiavi di lettura mirate alla sintesi dei fenomeni e del loro relativo inquadramento in un più ampio contesto sia storico che di futuribile potenzialità. Puro veleno questo però per chi voglia invece destrutturare e ricreare l'esistente, per quei sacerdoti del "great reset" di cui tanto si parla e che in politica, economia, sociologia, cultura e religione conducono ormai l'orchestra dei tempi. La Cultura (storica, letteraria, artistica, filosofica, religiosa) millenario attrezzo di valutazione e di conseguente critica di tutto quanto circonda ogni umanità, è infatti il sommo avversario di quel patologico sentire sul quale si impernia oggi l'intero mercato planetario e secondo cui (tanto per fare il più banale degli esempi) il già titolare di un centinaio dei più svariati tipi di scarpe, sia indotto a sentirsi una nullità fuori contesto qualora non in grado di entrare in possesso di quell'aggiuntivo paio di "sneakers" bicolore maliziosamente ammiccanti da quella odierna "lampada di Aladino" (cioè : penso, sfioro con mano il cellulare, esaudisco) che risponde al nome di Amazon. Scuola, consapevolezza, senso critico? "Vade retro!", nefasti nemici del consumismo globale, al momento trionfante feticcio dei popoli, seppur acritico, stupido frustrante ed insoddisfacente! Ed ecco allora la sdoppiante immagine di una MinistrA Azzolina dal "titolo" formale di, si fa per dire, sommo responsabile della formazione culturale del popolo italiano collegato invece ad un "look" da giovane studentessa, plastico esempio dell'attuale intercambiabilità del ruolo docente/discente, nonché definitivo "de profundis" di quell'ineludibile differenziazione dei due ruoli, storica caratteristica, invece, del più alto concetto di "scuola". E sapete infine chi ha vinto trionfalmente proprio ieri sera il Festival di San Remo, ecclesia consacrante il sentire "pop" di buona partespirituale del popolo italiano? Proprio tre improbabili, ambigui audacia temeraria igiene ragazzotti che, ad applausi ancora scroscianti, si sono premurati di appalesare un "trascorso" scolastico perlomeno discutibile e costellato da svariate bocciature. Morale: cacciati dalla finestra della scuola, sono rientrati nella società, al grido di: "Siamo fuori di testa", attraverso lo spalancato portone di un'effimera, acritica e beota popolarità televisiva. C.V.D., ovvero, "Come Volevasi - ahimè! - Dimostrare". Antonino Provenzano Roma, 7 marzo 2021

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SCUOLE CHIUSE: LA GENERAZIONE PERDUTA Il Covid è un assassino che semina morte. C'è una vittima illustre, per salvare la quale non basteranno le buone intenzioni dei politici: il sistema educativo. La scuola è più di una sovrastruttura dell'organizzazione sociale: è un universo esistenziale compresso che contiene, sviluppa e prepara alla vita generazioni di giovani. Il fatto che da un anno sia stata paralizzata dallo stop and go delle chiusure e delle (false) ripartenze ha generato un gap formativo che non potrà essere colmato in futuro. Non si tratta soltanto di un generalizzato abbassamento del quoziente di trasferimento delle conoscenze: per un ragazzo o una ragazza vivere la scuola è altro. E la risposta più adeguata al blocco delle attività scolastiche in presenza non è stata la didattica a distanza (DaD) che, semmai, ha generato più guasti e problematiche di quanto ne abbia risolto. A confermarlo sono i coprotagonisti dell'azione educativa: i genitori. Uno studio condotto nel periodo di maggio-giugno 2020 dal Dipartimento di Scienze Umane "Riccardo Massa" dell'Università di Milano-Bicocca, ha dimostrato che "i due fattori che hanno compromesso maggiormente la partecipazione attiva dei figli (alla DaD ndr) sono rappresentati dalla scarsa motivazione e dal disagio emotivo, scaturiti per lo più da una difficoltà nella comunicazione a distanza e nel seguire le lezioni senza il sostegno di un adulto". L'interazione tra discente e insegnante, ma anche tra gli stessi ragazzi, non intermediata dalla tecnologia è un valore fondamentale nel percorso di maturazione caratteriale del minore. Il fatto che sia mancata ha prodotto nei giovani sentimenti di frustrazione, di solitudine e di rabbia che non sono stati metabolizzati. Da qui i comportamenti negativi registrati dai genitori: scarsa concentrazione, noia, cambi d'umore accompagnati da persistente malinconia e senso di solitudine. Ciò, evidentemente, non è attribuibile all'inefficienza del personale docente. Gli insegnanti, bisogna riconoscerlo, ce l'hanno messa tutta per tamponare la falla in un sistema che, già prima dell'abbattersi della pandemia, faceva acqua. INVALSIopen (Istituto Nazionale per la VALutazione del Sistema educativo di Istruzione e formazione) li ha intervistati a campione per fare un bilancio dell'anno scolastico 2019-2020. Loro non hanno nascosto le difficoltà: "La sfida più grande è stata affrontare il cambiamento nella relazione con gli studenti e tra gli studenti". Anche adeguarsi in fretta alle novità recate dall'utilizzo operativo degli strumenti digitali non è stata una passeggiata, ma l'hanno fatto. Una docente intervistata ha risposto: "È stato come un corso super-accelerato". Cosa chiedergli di più nella condizioni date? Lo studio dell'Università di Milano-Bicocca ha evidenziato che "gli studenti della scuola superiore hanno ricevuto più ore di DaD a settimana rispetto ai ragazzi della scuola secondaria di primo grado e ai bambini della


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scuola primaria". In dettaglio: mediamente nella scuola secondaria di secondo grado sono state erogate circa 18 ore settimanali di DaD; 15 ore nella secondaria di primo grado; 7,5 ore nella scuola primaria. Ma la ricerca rileva che circa la metà dei genitori dei bambini della scuola primaria intervistati (47%) ha dichiarato che il proprio figlio ha avuto da 1 a 5 ore di attività didattica a settimana mentre il 4,1% ha dichiarato invece che i figli non hanno ricevuto alcuna proposta di DaD. C'è stato un problema legato al digital divide che ha aumentato il fattore discriminante delle diseguaglianze socio-economiche presenti nella platea scolastica, nodo irrisolto del sistema educativo. Non tutti i ragazzi hanno avuto la possibilità di operare, a casa propria, in ambienti favorevoli alla didattica a distanza. Scarsa disponibilità di validi supporti tecnologici, carenze nella connessione alla rete, mancanza di sostegni familiari per compensare le difficoltà nell'apprendimento. Un'indagine tra i docenti del luglio 2020, realizzata dall'Indire (Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa), ha rilevato che le pratiche didattiche utilizzate durante il lockdown hanno riguardato principalmente le lezioni in videoconferenza e l'assegnazione di risorse per lo studio ed esercizi; in quota minore, attività di ricerca e laboratori on-line. Nei limiti del possibile si è tentata anche l'attività di contatto e di socializzazione. Ma per quanto si sperimentino vie sostitutive alla comunicazione interpersonale, nulla può appagare il bisogno di gestualità, contatto fisico e visivo con i ragazzi e tra i ragazzi. Tra non molto toccherà scoprire che l'interruzione della didattica in presenza avrà fatto esplodere un fenomeno endemico tra le fasce più disagiate della società, in particolare nelle periferie degradate delle grandi città del Mezzogiorno: la dispersione scolastica. Sarà una dolorosa conta che si dovrà fare quando saremo tornati alla normalità. Non saranno pochi i banchi lasciati vuoti dai minori che, deviati dall'ambiente in cui vivono (meglio sarebbe dire sopravvivono), preferiranno intraprendere altri percorsi di vita ritendendo inutile proseguire quello scolastico. Prepariamoci a vedere lievitare il dato, già allarmante prima del Covid, dei sottoccupati e degli inattivi: il popolo dei Neet (Neither in Employment or in Education or Training), quelli che non studiano e non lavorano. Di loro chi si farà carico? Il solito welfare familiare che sopperisce all'impossibilità dello Stato di allargare a dismisura la spesa sociale? Non dimentichiamo che, anche con la pandemia, c'è un settore "produttivo" in crescita costante che ha intensificato la domanda di manodopera a basso costo: la criminalità organizzata. Il dramma della scuola chiusa pesa sull'oggi ma è soprattutto un problema per il domani. La didattica a distanza non è in grado di fornire il necessario orientamento per indirizzare al meglio i giovani su percorsi formativi aderenti alle proprie aspettative occupazionali e professionali. Lo dicono i genitori intervistati: la valutazione sulla DaD è negativa perché la didattica a distanza non è scuola (Fonte: InvalsiOpen). Tuttavia, è fin troppo facile appellarsi all'intervento dello Stato per riavviare subito l'attività scolastica in presenza. Bisogna fare i conti con la realtà. Ieri l'altro, il matematico Giovanni Sebastiani, primo ricercatore dell'Istituto per le applicazioni del calcolo "Mauro Picone" del Cnr, ospite di 'L'Italia s'è desta' su Radio Cusano Campus, ha detto: "E' stato un grosso errore riaprire le scuole sia a ottobre sia adesso. Aumentano gli studi che mostrano il nesso causale tra l'attività didattica in presenza e l'aumento della diffusione del virus. L'indice Rt

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diminuisce del 35% quando si passa dalla didattica in presenza a quella a distanza. Le misure restrittive del periodo natalizio ci hanno permesso di passare dal 13% dei positivi all'8%, lasciando chiuse le scuole saremmo arrivati al 3%". E così che funziona: con le zone rosse si chiude tutto, scuole comprese. Occorrerebbe una diversa politica, più coraggiosa e lungimirante nel cercare soluzioni alternative per salvaguardare la tenuta dei presìdi educativi. Ma di questa politica, Mario Draghi o non Mario Draghi, non v'è traccia. Con la chiusura prolungata sulla gran parte del territorio nazionale, il Ministero della Pubblica Istruzione dovrebbe considerare seriamente la possibilità di organizzare sportelli telematici di consulenza da affidare a esperti in Bilancio di competenze per aiutare gli studenti prossimi al termine del percorso scolastico a redigere il portfolio individuale di conoscenze-competenze-abilità acquisite e a orientarsi al mondo del lavoro o sulle scelte curriculari per l'accesso agli studi universitari. Abbiamo, nostro malgrado, rovinato il presente a una generazione di giovani. Almeno non distruggiamogli il futuro. Cristofaro Sola


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SKUOLA: TESI ED ANTITESI La Skuola ai tempi del covid…. Quali possibilità, quali opportunità? L'anno orribile della scuola italiana si celebra nel 2020 quando, a causa di un evento di cui i media hanno celebrato in lungo e largo, in basso ed in alto, la italica incapacità di affrontare, efficacemente, i problemi anche grazie ad una classe politica approssimativa e soprattutto usa e getta; vengono alla luce tutte le contraddizioni della società italiana in cui l'antitesi parrebbe la regola e la sintesi, virtù e consuetudine consolidata. Vi è stato uno stravolgimento dei dati valoriali e dove innovazione coincide, necessariamente, come cancellazione della memoria secolare con la sepoltura culturale dei De Amicis, Montessori, ed i grandi della cultura scolastica italiana riconosciuti nei secoli e giustamente evangelizzati. L'apoteosi di un ministro che con una squadra di governo alla sua altezza e commissari nazionali che hanno dato il colpo di grazia ad una scuola sgangherata da tempo, quando assecondano bonus monopattini anziché copertura internet, bonus vacanze anziché p.c. per famiglie in difficoltà economiche, costosissimi banchi a rotelle, desolatamente accatastati ed inutilizzati in angoli nascosti dei plessi scolastici anziché implementare la logica della inclusione anche a distanza, affidando allo spirito di servizio degli insegnanti che dedicano sette giorni su sette alle attività didattica e soprattutto a quella paradidattica, costretti, loro malgrado a dare interpretazioni alle ordinanze, decreti ed ordini dei sindaci, ministri, sottosegretari, commissari, presidenti di regione e di provincie in un dedalo inestricabile di contraddizioni normative che sconvolgerebbero anche la mente di raffinati giuristi, figuriamoci di chi, alla alterazione di un mondo fatto di contatti e rapporti umani come per gli insegnanti, si trova a competere con quel mostro chiamato burocrazia. Nel variopinto panorama italico ed in particolare nelle regioni rosse (non per tendenza politica ma per condizione pandemica), la didattica a distanza non vale per tutti ma solo per i discenti che non abbiano abilità speciali o siano in bes; un limite siffatto, consente ai genitori di optare per la didattica c.d. "in presenza" e quella da remoto. La logica della inclusione scolastica posta alla base della giusta integrazione degli alunni diversamente abili, in questo caso, a parere di chi scrive, rappresenta una evidente stortura ed ennesima mazzata alla logica della inclusione in quanto, quegli alunni che quotidianamente devono affrontare la propria disabilità, si trovano isolati in un contesto scolastico tutto proiettato nella gestione della didattica a distanza, rimanendo esclusi, sostanzialmente, dalla didattica ed in particolare coloro che non hanno la copertura integrale dell'orario scolastico stesso e tanto più rispetto alla cronica

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carenza di personale docente abilitato (frutto e conseguenza di politiche del passato fortemente limitanti in relazione all'accesso ai corsi abilitanti). La scuola diviene un'area di parcheggio dove gli insegnanti sono costretti a seguire la dad e la presenza contemporaneamente; la conseguenza inevitabile è rappresentata dalla esclusione degli alunni che andrebbero tutelati con maggior vigore, frutto di un pasticcio all'italiana che peraltro, impone alle scuole di rimanere aperte, con costi economici e soprattutto sociali, inenarrabili. La dad può essere una risorsa per lo stato attuale delle cose e può rappresentare un approccio alla digitalizzazione che accorcia le distanze e che non le acuisce, divenendo uno strumento utile per consentire a tutti le medesime opportunità e soprattutto, tracciare, evidentemente, alcuni rapporti che altrimenti albergherebbero nelle zone "grigie" della società. La digitalizzazione seria della pubblica amministrazione, tanto declamata dagli alfieri della rete, dovrebbe essere ragionata e soprattutto applicata a settori nevralgici della nostra società per accorciare i tempi di risposta della p.a. e soprattutto, stante il vizio italico delle raccomandazioni, garantire una inclusione reale che vada oltre la scuola e che si insinui, come un farmaco efficace, negli angoli più remoti della pubblica amministrazione. Dalla certificazione online agli accessi agli atti online, stante la posta e le firme certificate, può rappresentare una risposta reale, impedendo, semplicemente e significativamente alle sacche di resistenza della corruttela, di continuare nel suo cammino indisturbato….ma questa è un'altra storia. Invitiamo questo nuovo governo che parrebbe più concreto e decisamente meno mediatico del precedente, a rivedere la logica della inclusione scolastica attraverso un approccio filosofico differente che possa rappresentare la start up per i diversi settori della p.a. Pensare ad una didattica a distanza fornendo un pc per ogni alunno bisognoso ed una rete internet, non rappresenta un costo inaccettabile rispetto ad un bonus vacanze che si è rivelato un flop clamoroso o ad un bonus monopattino, specie dopo le inchieste giornalistiche che hanno scoperchiato un mondo sconosciuto come ha evidenziato la trasmissione Report dopo il servizio "il Mago di Helbiz" Emilio Petruzzi


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L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ENRICO L'approdo di Enrico Letta al Nazareno sembra che porti bene al Partito Democratico. Stando al sondaggio sulle intenzioni di voto, realizzato da Swg per il Tg de "La 7" di Enrico Mentana, l'elezione alla segreteria dell'allievo favoloso di Beniamino Andreatta ha recato in dono al partito un +0,8 in percentuale di consensi. Basterà a fermare l'emorragia di elettori, in atto dalla nascita del Governo di Mario Draghi e, ancor più, dalla decisione di Giuseppe Conte di porsi alla guida del Movimento Cinque Stelle, rinunciando al ruolo di federatore super partes del ricostituendo centrosinistra allargato ai grillini? Non è con quei centesimi di gradimento che il Pd uscirà dalla crisi profonda in cui è precipitato. Servono, tuttavia, a offrire un gancio ai pessimisti della ragione a cui appendere, in mancanza d'altro supporto, l'ottimismo della volontà. Se sta bene a loro, quelli del popolo della sinistra, perché disilluderli? In fondo, anche Giuseppe Ungaretti vedeva qualcosa di allegro nella tragedia di un naufragio. Ma avanziamo un sospetto: non è che quella impercettibile inversione di trend sia un'illusione ottica? Una pulsione esclusivamente umorale scatenata dal ritorno in campo del novello Edmond Dantès (il Conte di Montecristo del romanzo di Alexandre Dumas)? Se così fosse, per il Pd la presa di beneficio nei sondaggi sarebbe del tipo di quello che nella lingua del trade, che si parla a Wall Street e nelle Borse di tutto il mondo, viene definito il rimbalzo del gatto morto. Tecnicamente, un'espressione idiomatica che indica la temporanea risalita di valore di un titolo finanziario in una fase prolungata di mercato discendente a cui fa seguito la ripresa del declino. Non vi sembra la foto di famiglia del carrozzone "dem"? E perché Letta dovrebbe riuscire da solo a riscrivere la trama di una storia declinante? Che il novello Dantès possa essere un'opportunità per la soluzione dei problemi interni è comprensibile che lo pensino dalle parti della sinistra, ma a voler essere oggettivi il vecchio "giovane" politico si è mostrato subito inattuale, nella forma e nel merito. Si è presentato all'Assemblea nazionale del partito che lo ha eletto segretario con lo sguardo rivolto all'indietro. D'accordo per la battuta a effetto, ma quell'avvertire il peso di chiamarsi Enrico, che renderebbe più impegnativo il compito di guidare il partito, con evidente riferimento a un altro Enrico (Berlinguer), un gigante del comunismo occidentale dello scorso secolo, è l'operazione "nostalgia", il Come eravamo che fa a pugni con la necessità di ripensare l'identità, le ragioni ideali e i ruoli del socialismo nel mondo globalizzato. La sinistra del Terzo millennio è chiamata a misurarsi sulle opportunità e sulle insidie dell'intelligenza artificiale, come i comunisti dello scorso secolo si misuravano con le strategie della lotta di classe. E poi, quella borraccia

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rossa con la scritta "Bella ciao" lasciata in bella mostra sul leggio. Siamo ancora a questo? Con un Paese in guerra contro il Covid e con le sue devastanti conseguenze economiche e sociali, con un mondo della produzione che promette di bruciare nei prossimi venti anni molti dei lavori e dei profili professionali oggi conosciuti per sostituirli (in parte) con nuove skill e nuove tecnologie, sconosciute a gran parte dell'odierna forza-lavoro, Enrico Letta ammicca al frusto luogo comune dell'antifascismo. Se il subliminale è una minestra riscaldata, non è che il progetto politico messo in chiaro sia uno sballo. La ricetta che propone al suo popolo per ripartire ha due ingredienti: lo ius soli e il voto ai sedicenni. Si vede che l'ex enfant prodige sia vissuto lontano dall'Italia per molto tempo, forse troppo. Davvero Letta pensa di riconquistare la fiducia della maggioranza degli italiani puntando su queste battaglie? Ha ragione Giovanni Orsina che su "La Stampa" ha sentenziato: "A giudicare dal discorso che Enrico Letta ha pronunciato, Matteo Salvini e Giorgia Meloni possono dormire sonni tranquilli". La rotta tracciata dal neo-segretario "dem" va verso il ripescaggio di una sinistra vintage che, in assenza di risposte convincenti alle istanze economiche delle nuove classi lavoratrici e del ceto medio produttivo, si rifugia nella riserva indiana dei diritti sociali allargati. L'intento è da "abc" della politica politicante: ribaltare la condizione di forza minoritaria nel Paese, contando sul consenso degli adolescenti e degli immigrati ai quali verrà concessa la cittadinanza. Marco Follini, democristiano di lungo corso, lo ha descritto come un misto di Beniamino Andreatta, Giulio Andreotti e Gianni Letta, lo zio. Ora, non è credibile che proprio lui pensi che la mission impossible di risalita nel consenso degli italiani possa essere affidata alla battaglia su due temi che i dirigenti comunisti di un tempo avrebbero definito velleitari. Verosimilmente, averli indicati è servito a delimitare il perimetro del campo nel quale intende muoversi, che è il progressismo multiculturalista con accenti pacifisti e terzomondisti. Se così fosse, sarebbe un gran bene perché vorrebbe dire che nella previsione lettiana c'è il ritorno alla logica delle coalizioni contrapposte: da una parte la sinistra, dall'altra la destra. Ciò manderebbe definitivamente in archivio le infatuazioni proporzionaliste di cui il partito zingarettiano è stato preda nel tentativo autolesionista di inseguire l'alleanza organica con i Cinque Stelle. Letta è l'uomo dell'Ulivo prodiano. È presumibile che i suoi prossimi passi da segretario andranno nel senso di aprire il dialogo con tutte le forze della galassia del centrosinistra, per giungere alla composizione di un fronte largo progressista di matrice cattocomunista, animato da un afflato ecumenico che "passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa passando da Malcolm X attraverso Gandhi e San Patrignano" (per dirla sulle note di "Penso positivo" di Jovanotti), che sfidi quello liberal-conservatore della destra. In questa cornice rivisitata della vocazione maggioritaria del Partito Democratico, ci sta che Letta si sia dichiarato favorevole a un ritorno del "Mattarellum" in sostituzione della vigente legge elettorale. La destra plurale dovrebbe favorire la possibile svolta, non fosse altro per il fatto che si eviterebbe di finire nell'abisso dell'ingovernabilità permanente a cui una legge elettorale di tipo proporzionale inevitabilmente condannerebbe il Paese. Al momento per Letta è stato facile


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parlarne a un partito in stato confusionale, annichilito all'idea di dover rinunciare alla presa sul potere che tiene stretto da almeno dieci anni pur non avendo ricevuto il mandato in tal senso dalla maggioranza degli italiani. Il problema più grosso sarà convincere i potenziali alleati. A partire dai Cinque Stelle, che dall'avvento di Mario Draghi non battono chiodo. Con un Movimento sull'orlo di una crisi di nervi da scissione, con un Davide Casaleggio che ha varato le navi per traghettare verso nuovi lidi della politica una ristretta pattuglia di fedelissimi, è pensabile che Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Beppe Grillo si dicano disponibili a buttare alle ortiche la riforma in senso proporzionale del sistema elettorale e con essa l'ultima bandiera della specificità grillina, fondata sul principio inderogabile di non apparentarsi con alcun partito politico in forma permanente e non congiunturale? Cristofaro Sola

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IMMIGRAZIONE: UNA SOLUZIONE “LATERALE” La pandemia ha relegato in secondo piano l'attenzione sui flussi migratori, già preda di una sorta di oblio mediatico insorto dopo l'addio di Salvini al Viminale, essendo italica consolidata abitudine conferire un livello di gravità ai vari problemi a seconda delle persone intente a risolverlo: se queste ultime, ancorché inefficienti, sono gradite alle classi dominanti, palesi e occulte, il problema magicamente sparisce nonostante la crescita esponenziale dovuta proprio all'inconsistenza dei risolutori. Di fatto, limitandoci al solo 2020, i dati che emergono lasciano chiaramente intendere il disfacimento dello Stato al cospetto dell'annoso fenomeno: 19.194 i clandestini sbarcati fino al 30 agosto e circa trentamila in totale nel corso dell'anno. Per lo più i clandestini provengono da Tunisia, Algeria, Marocco, Bangladesh, Costa d'Avorio, Pakistan, Sudan: non fuggono da guerre o carestie, pertanto, e pur nella considerazione del legittimo desiderio di costruirsi un futuro migliore, non avrebbero diritto, a norma di legge, a nessun trattamento diverso dal respingimento o dall'espulsione immediata. I flussi hanno fatto inevitabilmente registrare un'ampia presenza di soggetti positivi al Covid-19, anche se i dati certi mancano per volontà omertosa da parte delle autorità, aggravata dalla complicità dei media che tendono a eludere il problema o addirittura a gestirlo in modo mistificatorio al fine di mitigarne la portata. Delle possibili azioni di contrasto, logiche ed efficaci, se ne discute da sempre e non mancano le proposte sensate che, se attuate, potrebbero contenere sensibilmente il problema o risolverlo in toto. Parimenti non sono pochi coloro che hanno indagato sulle ONG mettendone in luce gravi distonie operative configurabili come veri e propri reati: favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e collusione con i trafficanti di esseri umani che operano dalla Libia. Denunce e inchieste, però, sono rimaste lettera morta e persiste quell'atteggiamento di falso buonismo deleterio soprattutto per i diretti interessati, i cui sogni s'infrangono su una triste realtà che li trasforma in emarginati, in schiavi, in mano d'opera per la criminalità e in manna dal cielo per i cinici speculatori che speculano sulle loro vite. È perfettamente inutile, quindi, continuare a battere su questo tasto perché è come parlare al vento. Si può fare ricorso, pertanto, anche se a titolo provocatorio, al cosiddetto "pensiero laterale", che consente di individuare la risoluzione di un problema partendo da una prospettiva che escluda il tradizionale metodo logico, istintivamente da ciascuno utilizzato, che magari ne offre molteplici, senza però che nessuna di essa abbia effettiva possibilità attuativa per i più svariati motivi.


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I Paesi europei, come noto, hanno lasciato praticamente da sola l'Italia nel fronteggiare i flussi provenienti via mare, comportandosi in modo vergognoso. Se si riuscisse, pertanto, a trovare il modo di metterli con le spalle al muro, si otterrebbe un risultato che potrebbe sorprendere per efficacia e tempistica. L'isola di Lampedusa, primario e martoriato approdo dei barconi che trasportano i migranti irregolari, ha una superficie di 20,2 Km2 (il doppio di Capri, poco meno della metà di Ischia, per un raffronto) e circa seimila abitanti. L'idea "indecente" è la seguente: suddividere l'isola in due entità territoriali separate da una linea di confine che, partendo da Capo Ponente e terminando a Cala Creta (poco meno di otto chilometri in linea d'aria), consenta di definire una superficie identica tra la parte Nord e quella Sud. Le due entità territoriali, quindi, dovrebbero essere vendute a Francia e Germania. I residenti potrebbero scegliere tra tre opzioni: restare nell'isola, acquisendo la nuova cittadinanza; accettare un trasferimento in un comune del territorio nazionale con forte sussidio dello Stato e mantenimento dell'eventuale impiego pubblico; restare nell'isola mantenendo la cittadinanza italiana, come qualsiasi lavoratore che risieda in un Paese dell'Unione. Dopo tutto si tratta di poche miglia di persone ed è lecito ritenere che in maggioranza deciderebbero di restare nell'isola. Lo stato che acquisti la zona Nord potrà realizzare un secondo porto e magari anche un secondo aeroporto, fatta salva la possibilità di trovare un accordo per suddividersi quello già attivo. La presenza "attiva" dei due Paesi nel Mediterraneo, con dislocazione di un contingente delle rispettive forze armate, sicuramente creerebbe le premesse per un blocco delle partenze e un sostanziale cambio di rotta della politica comunitaria in tema di gestione dell'immigrazione illegale! Francia e Germania potrebbero rifiutare la proposta, ovviamente, e in questo caso, volendo essere ancora più "provocatori", il pensiero laterale suggerisce una soluzione addirittura più efficace: vendere l'isola agli Stati Uniti d'America, che di certo non si farebbero pregare due volte per mettere piede nel Mediterraneo senza essere "ospiti" dei Paesi alleati e per giunta senza alcuna necessità di deturpare il territorio costruendo un secondo porto e un secondo aeroporto! Vi è qualcuno, ammesso che ciò fosse possibile, capace di dubitare che nel giro di un paio di mesi di barconi alla deriva e di ONG in cerca di "porti sicuri" non si sentirebbe più parlare? Lino Lavorgna

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SULL’ATTUALE PONTEFICE ROMANO Da laico, ma dalla radicata cultura cattolica (sia per educazione familiare che per formazione scolastica presso - per dirla con Franco Battiato - padri gesuiti "euclidei"), ho sempre seguito da vicino le evoluzioni della mia Chiesa di appartenenza, da Pio XII (regnante alla mia nascita) all'attuale Francesco. La contemporanea osservazione sia della cronaca laica, che sotto i miei occhi andava lentamente dipanandosi in Storia, che dell'evolvere di uno spirituale cattolicesimo in costante inseguimento di "tempi" profani in ormai parossistica accelerazione economica, sociale e culturale, mi ha sempre affascinato, talvolta preoccupato e spesso sconcertato. E ciò in particolare per quell'irrisolto rapporto tra modernità e tradizione nella misura in cui tale dicotomia impattava sulla vita del sottoscritto, al contempo, cittadino nel mondo e fedele nella sua chiesa. Non mi auto-attribuisco certamente alcuna "autorevolezza" in qualsivoglia ambito dello scibile umano, pur tuttavia di uno specifico settore, diciamo, dell'esistente, sento di avere piena competenza ed ineguagliabile esperienza, di costituire al riguardo una vera e propria "autorità planetaria"! Di cosa mai? Ma di null'altro se non che di "me medesimo", sia come persona che come esperienza vissuta. E cioè di tutti quegli infiniti modi con cui mi sono rapportato con l'esistente, con tutte quelle molteplici realtà che hanno accompagnato la mia vita impattando con il mio più intimo essere e - a seconda dei casi - condizionandolo, insegnandogli qualcosa, raramente entusiasmandolo, spesso deludendolo. In una parola, il tesoro di tutto quanto il mio vissuto e di ciò che tale vissuto mi abbia poi, con gli anni, fatto diventare. E di tale mia essenza (che si confronta costantemente con tutto quanto possa definirsi"altro" ) io sono unico officiante, nonché settantenne custode. Di conseguenza la "lettura" di quanto mi circonda non può fare a meno di tale mio occhiale da vista (correttivo? deformante? Onestamente non saprei) filtrante comunque ogni mia percezione del reale. Carattere, cultura, educazione, insegnamenti, esperienze, tutto concorre in me (come naturalmente in ciascuno di noi) a valutare, interpretare, giudicare il mondo circostante; e ciò tanto più quanto qualsiasi fenomeno sotto osservazione si trovi collegato ad esperienze pregnanti, momenti topici di vita vissuta e relativi "imprinting" caratteriali. La cultura cattolica (elemento che non confondo mai con l'eventuale, relativa fede) è stata dunque per me un qualcosa che ha condizionato nel bene, e suvvia diciamolo! anche nel male, molti aspetti della mia esistenza accompagnandosi per sette decenni ai vari momenti del mio stare a questo mondo.


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La mia lettura critica dell'attuale papato non poteva tuttavia che generare in me riflessioni/esternazioni di tipo molto "semplice", data la mia oggettiva incompetenza su una materia di cui mi sono avventurato a discettare sostenuto soltanto: 1) da quella citata, diciamo, " autoreferenziale autorevolezza " da comune cittadino cattolico che non può che svilupparsi se non che nell'ambito di un sentire del tutto personale, e 2) dalla benevolenza del caro Direttore di CONFINI, l'amico Angelo Romano, che ha consentito a tale mio elucubrato di trasformarsi in contributo alla nostra amata Rivista. Le mie personali riflessioni sull'attuale papato "bergogliano" hanno infatti goduto dell'ospitalità di CONFINI, rispettivamente, nel: n°57 del settembre 2017, con il titolo : "La crisi dell'Occidente"; n° 78 del settembre 2019, con i titoli : "Santo Padre, ma cosa mi combina?" e : "Ma cosa ci sta a fare un cattolico d'antan nella chiesa di Bergoglio?"; n° 80 del novembre 2019, con il titolo : "Senza Titolo", ed infine n° 90 del novembre 2020, con il titolo : "Bye bye, Santo Padre!". Tutti quante riflessioni, lo ripeto, condizionate soltanto da un mio personale modo di affrontare l'argomento, osservarlo e giudicarlo. Nulla di più. Tutto ciò però fino ad appena qualche giorno fa. Cioè fino a quando i miei occhi si sono posati su un articolo di Aldo Maria Valli del 20 febbraio u.s. (blog di Andrea Cionci pubblicato su "RADIO ROMA LIBERA") intitolato : "Roma è senza papa" davanti al cui lineare, direi appunto euclideo, argomentare, io non posso che ritirarmi in buon ordine e rivolgere soltanto, a deferente testimonianza di personale apprezzamento, accorata preghiera all'amico Direttore di CONFINI di accogliere, qui di seguito, la riproduzione integrale delle "definitive" considerazioni di Valli. E ciò a conclusione di ogni mia eventuale, futura velleità di continuare a discettare sull'attuale gestione della romana Cattedra di Pietro da parte di Papa Francesco: Afferma dunque Valli: "Roma è senza papa. La tesi che intendo sostenere si riassume in queste quattro parole. Quando dico Roma non mi riferisco solo alla città di cui il papa è vescovo. Dico Roma per dire mondo, per dire realtà attuale. Il papa, pur essendoci fisicamente, in realtà non c'è perché non fa il papa. C'è, ma non svolge il suo compito di successore di Pietro e vicario di Cristo. C'è Jorge Mario Bergoglio, non c'è Pietro." La mia radicata convinzione che noi, cattolici "d'antan" ci si trovi a vagare da qualche anno in un deserto di tipo dottrinario è confermata da Valli che si interroga : "Chi è il papa? Le definizioni, a seconda che si voglia privilegiare l'aspetto storico, teologico o pastorale, possono essere diverse. Ma, essenzialmente, il papa è il successore di Pietro. E quali furono i compiti assegnati da Gesù all'apostolo Pietro? Da un lato, "pasci le mie pecorelle" (Gv 21:17); dall'altro, "tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli" (Mt 16:19). Ecco che cosa deve fare il papa. Ma oggi non c'è nessuno che svolga questo compito. "E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli nella fede"

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(Lc 22:32). Così dice Gesù a Pietro. Ma oggi Pietro non pasce le sue pecorelle e non le conferma nella fede. Perché? Qualcuno risponde: perché Bergoglio non parla di Dio, ma solo di migranti, ecologia, economia, questioni sociali. Non è così. In realtà Bergoglio parla anche di Dio, ma dall'insieme della sua predicazione esce un Dio che non è il Dio della Bibbia, ma un Dio adulterato, un Dio, direi, depotenziato o, meglio ancora, adattato. A che cosa? All'uomo e alla sua pretesa di essere giustificato nel vivere come se il peccato non esistesse." C'è da domandarsi: "la Chiesa cattolica si è dunque trasformata in una sorta di planetaria ONG a servizio soltanto delle esigenze di tipo meramente esistenziali di questa umanità pellegrina sulla terra? Secondo Valli: "Bergoglio ha certamente messo al centro del suo insegnamento i temi sociali e, tranne sporadiche eccezioni, appare in preda alle stesse ossessioni della cultura dominata dal politicamente corretto, ma ritengo che non sia questo il motivo profondo per cui Roma è senza papa. Anche volendo privilegiare i temi sociali, si può comunque avere una prospettiva autenticamente cristiana e cattolica. La questione, con Bergoglio, è un'altra, e cioè che la prospettiva teologica è deviata. E per un motivo ben preciso: perché il Dio di cui ci parla Bergoglio è orientato non a perdonare, ma a discolpare. In Amoris laetitia si legge che la "Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili". Mi spiace, ma non è così. La Chiesa deve convertire i peccatori. Sempre in Amoris laetitia si legge che "la Chiesa non manca di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio". Mi spiace, ma sono parole ambigue. Nelle situazioni che non corrispondono al suo insegnamento ci saranno pure "elementi costruttivi" (ma, poi, in che senso?), tuttavia la Chiesa non ha il compito di valorizzare tali elementi, bensì di convertire all'amore divino al quale si aderisce osservando i comandamenti " Il Dio della tradizione bi-millenaria dove è stato dunque relegato? Prosegue Valli: " In Amoris laetitia leggiamo anche che la coscienza delle persone "può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l'ideale oggettivo". Di nuovo l'ambiguità. Primo: non c'è una "proposta generale" del Vangelo, alla quale si può aderire più o meno. C'è il Vangelo con i suoi contenuti ben precisi, ci sono i comandamenti con la loro cogenza. Secondo: Dio mai e poi mai può chiedere di vivere nel peccato. Terzo: nessuno può rivendicare di possedere "una certa sicurezza morale" circa ciò che Dio "sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti". Queste espressioni fumose hanno un solo significato: legittimare il relativismo morale e prendersi gioco dei comandamenti divini.


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Questo Dio impegnato più che altro a scagionare l'uomo, questo Dio alla ricerca di attenuanti, questo Dio che si astiene dal comandare e preferisce comprendere, questo Dio che "ci è vicino come una mamma che canta la ninna nanna", questo Dio che non è giudice ma è "vicinanza", questo Dio che parla di "fragilità" umane e non di peccato, questo Dio piegato alla logica dell'"accompagnamento pastorale" è una caricatura del Dio della Bibbia. Perché Dio, il Dio della Bibbia, è sì paziente, ma non lassista; è sì amorevole, ma non permissivo; è sì premuroso, ma non accomodante. In una parola, è padre nel senso più pieno e autentico del termine. La prospettiva assunta da Bergoglio appare invece quella del mondo: che spesso non rifiuta del tutto l'idea di Dio, ma ne rifiuta i tratti meno in sintonia con il permissivismo dilagante. Il mondo non vuole un vero padre, amorevole nella misura in cui è anche giudicante, ma un amicone; anzi, meglio ancora, un compagno di strada che lascia fare e dice "chi sono io per giudicare? ". Allora, nell'attuale mondo "laico" fatto di soli DIRITTI, dove sono andati a finire i rispettivi DOVERI? Dove è, soprattutto, andata a nascondersi la millenaria figura del PADRE? Afferma Valli: "Ho scritto altre volte che, con Bergoglio, trionfa una visione che ribalta quella reale: è la visione secondo cui Dio non ha diritti, ma solo doveri. Non ha il diritto di ricevere un culto degno, né di non essere irriso. Però ha il dovere di perdonare. Al contrario, secondo questa visione, l'uomo non ha doveri, ma solo diritti. Ha il diritto di essere perdonato, ma non il dovere di convertirsi. Come se potesse esistere un dovere di Dio a perdonare e un diritto dell'uomo a essere perdonato. Ecco perché Bergoglio, dipinto come il papa della misericordia, mi sembra il papa meno misericordioso che si possa immaginare. Trascura infatti la prima e fondamentale forma di misericordia che compete proprio a lui e a lui solo: predicare la legge divina e, così facendo, indicare alle creature umane, dall'alto dell'autorità suprema, la strada per la salvezza e la vita eterna. Se Bergoglio ha concepito un "dio" di questo genere - che volutamente indico con la minuscola, poiché non è il Dio Uno e Trino che adoriamo - è perché per Bergoglio non vi è alcuna colpa di cui l'uomo debba chiedere perdono, né personale né collettiva, né originale né attuale. Ma se non vi è colpa, non vi è nemmeno Redenzione; e senza necessità di Redenzione non ha senso l'Incarnazione, e tantomeno l'opera salvifica dell'unica Arca di salvezza che è la Santa Chiesa. Vien da chiedersi se quel "dio" non sia piuttosto la simia Dei, Satana, che ci spinge verso la dannazione proprio nel momento in cui egli nega che i peccati e i vizi con i quali ci tenta possano uccidere la nostra anima e condannarci all'eterna perdita del Sommo Bene. Roma è dunque senza papa. Ma se nella distopia vaticana di Guido Morselli (il romanzo intitolato appunto Roma senza papa) lo era fisicamente, perché quel papa immaginario se n'era andato a vivere a Zagarolo, oggi Roma è senza papa in un modo ben più profondo e radicale. Avverto già l'obiezione: ma come puoi dire che Roma è senza papa quando Francesco è ovunque? È in tv e nei giornali. È stato sulle copertine di Time, Newsweek, Rolling Stones, perfino di Forbes e Vanity Fair. È nei siti e in un'infinità di libri. È intervistato da tutti, addirittura dalla Gazzetta dello

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sport. Forse mai un papa è stato così presente e così popolare. Rispondo: tutto vero, ma è Bergoglio, non è Pietro. Che il vicario di Cristo si occupi delle cose del mondo non è certo vietato, anzi. Quella cristiana è fede incarnata e il Dio dei cristiani è Dio che si fa uomo, che si fa storia, dunque il cristianesimo rifugge dagli eccessi di spiritualismo. Ma una cosa è essere nel mondo e un'altra è diventare come il mondo. Parlando come parla il mondo, e ragionando come ragiona il mondo, Bergoglio ha fatto svaporare Pietro e ha messo se stesso in primo piano. Ripeto: il mondo, il nostro mondo nato dalla rivoluzione del Sessantotto, non vuole un vero padre. Il mondo preferisce il compagno. L'insegnamento del padre, se è vero padre, è faticoso, perché indica la strada della libertà nella responsabilità. Molto più comodo è avere accanto qualcuno che si limita a farti compagnia, senza indicare nulla. E Bergoglio fa proprio questo: mostra un Dio non padre, ma compagno. Non a caso alla "chiesa in uscita" di Bergoglio, come a tutto il modernismo, piace il verbo "accompagnare". È una chiesa compagna di strada, che tutto giustifica (attraverso un concetto distorto di discernimento) e tutto, alla fine, relativizza. La riprova sta nel successo che Bergoglio riscuote tra i lontani, i quali si sentono confermati nella loro lontananza, mentre i vicini, disorientati e perplessi, non si sentono affatto confermati nella fede. Gesù in materia è piuttosto esplicito. "Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi" (Lc 6, 26). "Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell'uomo" (Lc 6, 22). Ogni tanto torna alla ribalta una voce secondo cui anche Bergoglio, come Benedetto XVI, penserebbe di dimettersi. Io credo che non abbia in programma nulla di simile, ma il problema è ben altro. Il problema è che Bergoglio si è reso protagonista, di fatto, di un processo di dismissione dai compiti di Pietro ". Mi ero permesso, a suo tempo, di ipotizzare provocatoriamente come il Vaticano di Bergoglio avrebbe dovuto ormai lasciare Roma e trasferirsi, più opportunamente, all'indirizzo di "760 United Nations Plaza, New York, NY 10017, USA", sede della Nazioni Unite. Valli conferma : "Ho già scritto altrove che Bergoglio è ormai diventato il cappellano delle Nazioni Unite, e ritengo che questa scelta sia di una gravità inaudita. Tuttavia, ancora più grave della sua adesione all'agenda dell'Onu e al politicamente corretto è che abbia rinunciato a parlarci del Dio della Bibbia e che il Dio al centro della sua predicazione sia un Dio che discolpa, non che perdona. La crisi della figura paterna e la crisi del papato vanno di pari passo. Così come il padre, rifiutato e smantellato, è stato trasformato in un generico accompagnatore privo di qualsiasi pretesa di indicare una strada, allo stesso modo il papa ha smesso di farsi portatore e interprete dell'oggettiva legge divina ed ha preferito diventare un semplice compagno. Pietro, così, è svaporato proprio quando avevamo più bisogno che ci mostrasse Dio in quanto padre a tutto tondo: padre amorevole non perché neutrale, ma perché giudicante;


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misericordioso non perché permissivo, ma perché impegnato a mostrare la strada del vero bene; pietoso non perché relativista, ma perché desideroso di indicare la via della salvezza. Osservo che il protagonismo nel quale indulge l'ego bergogliano non è una novità, ma risale in buona parte alla nuova impostazione conciliare, antropocentrica, a partire dalla quale papi, vescovi e chierici hanno anteposto se stessi al loro sacro ministero, la propria volontà a quella della Chiesa, le proprie opinioni all'ortodossia cattolica, le proprie stravaganze liturgiche alla sacralità del rito. Questa personalizzazione del papato è diventata esplicita da quando il Vicario di Cristo, volendo presentarsi come "uno come noi", ha rinunciato al plurale humilitatis con il quale dimostrava di parlare non a titolo personale, ma assieme a tutti i suoi predecessori e allo stesso Spirito Santo. Pensiamoci: quel Noi sacro, che faceva tremare Pio IX nel proclamare il dogma dell'Immacolata Concezione e san Pio X nel condannare il modernismo, non avrebbe mai potuto essere usato per sostenere il culto idolatrico della pachamama, né per formulare le ambiguità di Amoris laetitia o l'indifferentismo di Fratelli tutti. Circa il processo di personalizzazione del papato (al quale l'avvento e lo sviluppo dei mass media hanno dato un importante contributo), occorre ricordare che vi fu un tempo in cui, almeno fino a Pio XII incluso, ai fedeli non importava chi fosse il papa, perché comunque essi sapevano che, chiunque fosse, avrebbe sempre insegnato la stessa dottrina e condannato gli stessi errori. Nell'applaudire il papa essi applaudivano non tanto colui che in quel momento era sul santo soglio, ma il papato, la regalità sacra del Vicario di Cristo, la voce del Supremo Pastore, Gesù Cristo. Bergoglio, che non gradisce presentarsi come successore del principe degli apostoli e, sull'Annuario pontificio, ha fatto mettere in secondo piano l'appellativo di vicario di Cristo, implicitamente si separa dall'autorità che Nostro Signore ha conferito a Pietro e ai suoi successori. E questa non è una mera questione canonica. È una realtà le cui conseguenze sono gravissime per il papato. Quando tornerà Pietro? Quanto a lungo Roma resterà senza papa? Inutile interrogarci. I disegni di Dio sono misteriosi. Possiamo solo pregare il Padre celeste dicendo: "Sia fatta la tua volontà, non la nostra. Ed abbi pietà di noi peccatori ". A questo punto non mi resta, da pecorella smarrita e confusa del gregge cattolico quale io al momento mi ritrovo ad essere, che ringraziare il Padre Eterno per aver potuto godere dell'improvviso dono della lucidità espositiva dell'ottimo Aldo Maria Valli e sperare che chi abbia orecchie per intendere …. intenda. Antonino Provenzano Roma, 1 marzo 2021

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SANREMO 2021: O TEMPORA O MORES Ogni epoca ha le sue canzoni e i confronti sono inutili, si dice, perché "l'evoluzione della specie" porta a radicali mutazioni in ogni campo, modificando la percezione di tutto ciò che venga creato dagli esseri umani. Ma è poi vero, questo assioma? Sostanzialmente sì, se si sostituisce "evoluzione della specie" con "fluire del tempo". La prima definizione, infatti, implica un processo, graduale e continuo, in virtù del quale una data realtà passa da uno stato all'altro, l'ultimo del quale è generalmente inteso come superamento e perfezionamento del precedente. Il concetto, di fatto, indurrebbe a ritenere che il genere umano migliori generazione dopo generazione, evolvendosi in una crescente spirale tesa a un continuo perfezionamento. Che bufala! In realtà il progresso tecnologico e scientifico, raffigurabile con una retta che tende verso l'alto, non marcia alla stessa velocità di quello umano, la cui progressione disegna una sinusoide che evidenzia gli alti e i bassi registrati nel corso dei secoli. Se così non fosse, in campo filosofico, artistico, letterario, avremmo geni ben più grandi di quelli del passato e non avrebbe senso studiare la filosofia antica, leggere i classici della letteratura e restare estasiati ammirando i quadri dei grandi pittori rinascimentali e non solo. È lecito sostenere, invece, che mai come nella società attuale si registra una grave "regressione culturale", che porta il genere umano a degradarsi in pascoli intrisi di cattivo gusto, banalità, superficialità, effimero, scialbo. Si registra, insomma, il trionfo di sub-culture che impediscono alle menti, soprattutto a quelle più fragili, di "migliorarsi". Più che di evoluzione della specie, quindi, si può parlare dell'esatto opposto. Da ciò ne consegue che il confronto epocale, di stampo sociologico, non solo sia lecito ma risulta quanto mai opportuno per comprendere le dinamiche sociali alla base di determinati fenomeni. Le diverse percezioni in ambito musicale tra giovanissimi e meno giovani, per esempio, non si possono configurare come mera "questione generazionale", espressione un po' subdola che di fatto non significa nulla e giustifica tanto. La realtà è molto più complessa, nella sua drammatica semplicità: esiste il bello e il brutto, il talento e l'incapacità, il sublime e l'infimo e da qui non si scappa. Poi, va da sé, il genere umano ha bisogno di guardare avanti senza restare prigioniero di filosofi che hanno detto tutto quello che vi era da dire oltre duemila anni fa e di scienziati, artisti, letterati che ci hanno lasciato in eredità il loro genio, sublimato da inarrivabile talento, e le loro opere, intrise di ineguagliabile bellezza. E per andare avanti, per trovare un alibi alla propria esistenza, in una società che tecnologicamente si evolve alla velocità della luce, generando ansia in miliardi di persone che non riescono a stare al passo, si può solo attuare quel processo che, per


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certi versi, rimanda alla trasvalutazione dei valori di nicciana memoria. È tutto un vuoto pazzesco, ma che importa? È importante ciò che si percepisce non ciò che "è". Ecco quindi che il brutto diventa bello; l'incapacità si ammanta di talento grazie al "sostegno" di altri incapaci che diventano "critici" e, con una saccenteria più ridicola che patetica, parlano insulsamente di cose che non solo non sanno fare ma delle quali non conoscono nemmeno le fasi realizzative, spesso davvero difficili, complesse, faticose; l'infimo diventa sublime e assurge a moda grazie alle correnti avanguardistiche e trans-avanguardistiche che producono spazzatura, la spacciano per oro, la immettono sul mercato e trovano anche tanti babbei pronti a pagare il salato prezzo che serve per sentirsi à la page, protagonisti del sistema e parte integrante del giocattolo esistenziale. Per cantare una canzone, magari con la pretesa di conferirle un certo successo, occorrono tre cose: una buona voce, un bel testo e una composizione musicale adeguata. Non serve altro. In mancanza, ossia con una voce quequera, associata a una dizione più fastidiosa dello stridio provocato da un chiodo su una lastra di ferro e a note che ballano a casaccio sul pentagramma, si deve necessariamente indossare una maschera, magari un costume pittoresco con maxi copricapo di piume rosa un po' faraonico, associato a un trucco osceno e disgustoso che, sostituendo il tutto, s'imponga in modo subliminale sulle menti fragili, rendendo la schifosa insalata una pietanza prelibata. Di facile presa anche la rabbia per un mondo alla deriva urlata con un profluvio di parolacce che giovanissimi ancora più arrabbiati recepiscono come alto messaggio culturale sul quale costruire il loro quotidiano vivere, fatto di emulazioni spacciate per azioni, tutte dirette verso il vuoto assoluto. È così in ogni campo ed è inutile tentare di invertire la rotta: non si ferma un'alluvione e bisogna attendere che le acque si ritirino da sole. In altro articolo si è parlato di un lavoro di formazione che deve necessariamente partire in tenera età, ma con questi chiari di luna, prima che si creino i giusti presupposti per un radicale cambio di rotta, coloro che non fossero capaci di tutelarsi adeguatamente, scindendo bene il grano dal loglio e nutrendosi solo del primo, dovranno ancora nuotare a lungo con l'acqua melmosa alla gola. Lino Lavorgna

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UN SAGGIO DI GIANFREDO RUGGIERO In questi mesi è in corso la più grande vaccinazione di massa che la storia della medicina ricordi, e il dibattito tra sostenitori e contrari s'infiamma. Da una parte abbiamo chi crede fermamente nella scienza, dall'altra chi nutre dubbi sulla sicurezza ed efficacia dei nuovi vaccini anti Covid. A sostegno del fronte vaccinista abbiamo la scienza ufficiale e le assicurazioni delle case farmaceutiche che però non convincono del tutto. A non convincere sono innanzitutto i tempi. Il vaccino anti Covid che ci prestiamo ad assumere è un vaccino doppiamente sperimentale. Nuovo è il virus da combattere e nuova è la tecnica a base genetica utilizzata. Questi due fattori avrebbero dovuto indurre le industrie del farmaco e gli Enti di controllo ad agire con estrema cautela. Invece, spinti dall'emergenza e pressati dai governi sull'onda emotiva amplificata dai mezzi d'informazione, hanno preferito correre e bruciare le tappe. Nel dibattito in corso è emersa la figura del negazionista, cui si contrappone quella del vaccinista. Negazionista è chi nega la gravità del virus (è solo un'influenza un po' più aggressiva afferma di sovente,i numeri della pandemia sono gonfiati, ecc.) e rigetta con forza le misure governative di contenimento ritenendo le mascherine inutili e le restrizioni lesive delle libertà individuali. Il vaccinista è invece chi crede in maniera acritica alle affermazioni degli scienziati televisivi e prende per oro colato tutto ciò che ci propinano giornali e tivù. E' uno strenuo assertore della validità dei vaccini che ritiene siano la panacea dei mali del mondo e che, se fosse possibile, prenderebbe anche a colazione. Vive d'incrollabili certezze, elaborate da altri. Sono due posizioni estreme che hanno tuttavia una cosa in comune: l'ignoranza, intesa come mancanza di conoscenza scientifica che si associa al fanatismo e alla pigrizia mentale. La foga con cui queste due categorie di persone si confrontano sui social a suon d'insulti, è la stessa dei tifosi del lunedì che s'improvvisano calciatori, arbitri e commissari tecnici. La differenza è che non stiamo parlando di partite di calcio, ma di una partita per la vita. Nell'ultimo lavoro di Gianfredo Ruggiero sono ripercorse le più grandi pandemie della storia e spiegato come sono state sconfitte, alcune in modo naturale e altre grazie alla scienza: dalla Peste Nera del 1300 che uccise un terzo della popolazione europea, all'Influenza Spagnola del 1918 che fece più morti della prima guerra mondiale; parleremo della nascita del primo vaccino che permise di sconfiggere il morbo del Vaiolo. Nella seconda parte Si entra nel vivo del vaccino anti-Covid a base genetica spiegando con parole


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semplici e comprensibili, anche a chi non ha nozioni di biologia, il suo meccanismo di funzionamento e le nostre riserve al riguardo. Parleremo anche di come il Covid, da problema serio che andava affrontato con equilibrio e senso di responsabilità, è stato invece trasformato in tragedia. Nelle pagine di approfondimento, si parla delle malefatte dei ricercatori scientifici che per favorire i colossi farmaceutici sminuiscono gli effetti benefici delle sostanze naturali e come negli anni venti/trenta il governo italiano debellò la piaga della Tubercolosi senza mascherine e distanziamento sociale: costruendo gli ospedali e curando gli ammalati. Gianfredo Ruggiero

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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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