Confini 90

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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

PAURA!

Numero 90 Novembre 2020


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Confini Web-magazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 90 - Novembre 2020 Anno XXIII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Francesco Diacceto Gianni Falcone Roberta Forte Lino Lavorgna Pietro Lignola Sara Lodi Emilio Petruzzi Antonino Provenzano Pino Rauti Angelo Romano Cristofaro Sola +

Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone e Sara Lodi

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EDITORIALE

IL SEME DELLA PAURA Guardarsi dall'altro. Sia esso conosciuto o sconosciuto, sia esso un figlio, un fratello, una zia, un nipote, un amico o un'amica. E' questo il seme della paura? Un virus, dagli occhietti a mandorla, che ci trasforma - violando la natura umana - da animali sociali in guardinghi esseri antisociali. In ciascuno, a parte gli incoscienti e i negazionisti che non mancano mai, aumenta la voglia di autotutela, cresce il livello di attenzione e gli sguardi in cagnesco verso quanti sembra non rispettino gli standard che ciascuno crede di essersi dato. Siamo, al solito, un popolo di santi, poeti, navigatori e virologi. E’ questo uno degli aspetti più oscuri ed “estranianti” della pandemia in atto: la messa “in dubbio” dei legami più profondi, dei più semplici e consolidati gesti d’affetto: una carezza, un abbraccio, un bacio, una stretta di mano. I nuovi monatti sono quelli che fanno del divertimento e dello sballo la loro sola ragione di vita, anzi di “movida”. A proposito di occhietti a mandorla: i cinesi residenti in Italia come mai non si vedono negli ospedali? Sono immuni o hanno una loro rete sanitaria alternativa e occulta? Nessun dato ufficiale ci dice se tra i morti ci sono anche stranieri e se tra questi c'è qualche cinese. Che ricevano uno speciale vaccino dalla madrepatria? Eppure i cinesi regolari presenti in Italia erano oltre 310.000 nel 2018. Per stare in media ci dovrebbero essere non meno di 52.000 positivi tra i cinesi. In Toscana, che ospita a Prato e dintorni una delle più numerose comunità cinesi in Italia, si è registrato, nella prima fase pandemica, un solo caso di contagio sui 347 che hanno coinvolto cittadini stranieri di ben 64 diverse etnie (fonteToscananotizie.it). Secondo il professor Galli del Sacco di Milano avrebbero migliori difese. Se così fosse dovremmo importare sangue cinese per le trasfusioni. O sarà perché i cinesi non si mischiano e non si immischiano, perché vivono in un perpetuo lockdown comunitario... Tornando all'Italia, alla distanza, dalle statistiche emerge che le vittime, almeno in Italia, sono, quasi esclusivamente, gli anziani. In particolare quelli con qualche acciacco più degli altri. Dai dati sugli anziani al pensiero di quanto pesante sia diventato tutelare anche i vecchi il passo è breve. Rinchiudere solo loro e lasciare tutti gli altri alle loro occupazioni e alle loro libertà? Già in qualche ospedale al collasso si è cominciato a decidere chi vive e chi muore... Ogni giorno, ormai da molti mesi, i mezzi di informazione sgranano le cifre della pandemia: tamponi, contagiati, ricoverati, morti e guariti... senza che mai nessuno spieghi l'abissale differenza tra contagiati e guariti.


EDITORIALE

Se i contagiati sono, mettiamo, un milione e i guariti trecentomila, i settecentomila di differenza che sono? Tutti malati in terapia? Misteri della comunicazione pubblica, mai chiara quanto dovrebbe essere, comunque sempre piÚ chiara dei decreti di Conte, delle leggi che sforna il Parlamento, delle decisioni assunte agli Stati generali dei 5stelle. Guardinghi si è detto all'inizio, impauriti e sempre piÚ poveri e, quindi, incazzati. La paura, a ben guardare, dovrebbero averla gli inquilini - ormai abusivi - dei Palazzi. Angelo Romano

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SCENARI

PAURA! Devo dire che, pur essendomi trovata in situazioni di pericolo, non mi sono mai arresa al solo stato emotivo di repulsione e di apprensione. E non perché abbia un cuore di leone ma più semplicemente perché non ho mai conosciuto non la paura bensì la drammaticità del suo portato: quello stato che arriva ad annichilire, che stimola una sudorazione fredda e chiude lo stomaco come se una impietosa mano lo stringesse, mentre gli occhi guizzano in cerca di un improbabile scampo, il diapason celebrale si arresta, le lacrime testimoniano la confusione della psiche e gli sfinteri sono prossimi al collasso. Il quadro della paura non è bello a vedersi perché non ci sono parole da dire né atteggiamenti da tenere e le uniche cose che verrebbe voglia di fare sono da un lato coccolare il 'colpito', rassicurarlo con toni suadenti e con le carezze più che con le parole. E, dall'altro, coprirlo agli occhi di terzi, quasi per un senso di pudicizia. L'ho scampata e ringrazio Iddio perché non c'è terapia contro la paura. L'unico filosofo a confezionarla come un prodotto galenico fu Epicuro col suo 'quadrifarmaco' utile, secondo lui, per liberarsi dalla paura intanto degli dei e della morte nonché del dolore. Il quarto 'farmaco' era la facilità nel raggiungere il piacere. Ma i fatti della vita sono stati sempre puntuali a dissentire sui suoi rimedi. Primum vivere, deinde philosophari, come idealmente gli ricorderanno, nello scorrere dei secoli, Hegel, Kierkegaard e Schopenhauer. Hobbes, invece, arriverà a fare della paura addirittura la 'sorella gemella': la madre l'aveva partorito in anticipo, terrorizzata dalle notizie sull'arrivo dell'Armada spagnola. Vico si spingerà fino a vederla come una molla dell'agire umano mentre Nietzsche la legherà alla 'volontà di verità' fondata, appunto, nella paura dell'instabilità. Freud, poi, la teorizzerà nella paura della castrazione da parte del bambino alla vista della 'fessurina' della sorellina e, infine, Heidegger la connetterà al tempo 'autentico' dell'essere, contrapposto a quello 'inautentico' dove alberga l'angoscia. La paura, perciò fa parte della vita dell'essere umano ma, fortunatamente, penso che non tutti, al pari di me, l'abbiano veramente conosciuta al punto da misurarsi con essa. Certo, il timore è sempre in agguato, insieme alla preoccupazione e alla trepidazione ma questi stati d'animo sono, tutto sommato, correntemente gestibili e non ottundono la mente; semmai, denotano un eccesso di razionalità a fronte dei noti pericoli della vita verso i quali, ad esempio, può essere esposta una persona cara. Perciò, credo che quella 'vera', quella che comporta il confronto serrato con sé stessi nel quale soccombere o vincere abbia colpito pochi. Ed è proprio in quel confronto che è insita la 'vera' cura: il coraggio, l'unica forza d'animo connaturata, o stimolata


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dall'esempio altrui, che permette di affrontare con la piena consapevolezza situazioni scabrose e persino la morte. Detto questo, potrei concludere lo scritto sulla paura, consapevole di averne fatto una sorta di sinteticissima dissertazione para-filosofica e para-psicologa senza possedere, peraltro, le necessarie competenze. Credo, tuttavia, che se lo facessi non rispetterei la tradizionale ampiezza dei focus della 'nostra' rivista; un'ampiezza che, nel caso di specie, ingloba a mio avviso uno stato che sebbene la vulgata lo associ alla paura ne è invece molto lontano: l'angoscia che, a differenza della prima, opprime fino a sopprimere lo spirito. Ci ha provato Kierkegaard a definire la differenza tra paura e angoscia e, tutto sommato (a parte la presunzione) posso dire di essere sufficientemente d'accordo con lui: nel senso che la paura attiene al rapporto dell'uomo con sé stesso mentre l'angoscia riguarda la relazione dello stesso uomo col mondo. E se volessimo ancor più banalizzare potremmo dire che la paura sollecita l'uomo a cercare dentro di sé il coraggio per accettare il pericolo e confrontarcisi mentre l'angoscia è la consapevolezza dell'inutilità delle proprie forze perché la soluzione del problema risiede ben al di là della portata del singolo. E, insieme alla paura, anch'essa ha accompagnato l'essere umano sin dai primordi. Immaginiamo i nostri antichi avi alle prese con gli animali carnivori che li trasformavano da cacciatori in prede; ebbene, quel pericolo li indusse ad affinare le tecniche di caccia, a perfezionare l'offesa delle loro armi e a cercare ripari migliori. Una paura, quindi, per un che di visibile che li stimolò a rispondere in modo sempre più confacente e coraggioso al pericolo. Ma ciò che li lasciò atterriti, invece, fu la morte che sopravveniva per terremoti, eruzioni, tempeste, siccità, carestie, malattie, ecc... Così, nacque la percezione emotiva di un Predatore invisibile del quale gli eventi catastrofici rappresentavano una manifestazione; un Predatore che successivamente si evolverà nell'idea di uno Spirito della morte e che sfocerà nel concetto del dio che pretende vite umane ed al quale, per liberarsi dall'angoscia, offrire vittime per placarne l'aggressività. Col passare dei secoli, la costante osservazione prima e i prodromi della scienza poi, forniranno tutte le spiegazioni del caso liberando così l'uomo da quell'angoscia e inducendolo funzionalmente a trasformare il trascendente in uno Spirito dapprima indifferente e poi dal volto 'buono' che lo aiutasse nelle traversie della vita e lo proteggesse dagli eventi della Natura. Una deità alla quale, in presenza dell'angoscia, consegnare il gravame dei problemi. Ed è singolare il fatto che il binomio paura/coraggio e angoscia/Deità abbia attraversato intatto tanti millenni mentre la società umana progrediva attraverso l'evoluzione e la specializzazione del pensiero, i progressi incessanti della scienza e i 'miracoli' della tecnica. Un'evoluzione che non ha certamente liberato l'uomo dalle sue paure, ma lo ha tuttavia rassicurato nell'angoscia con la presenza di un Dio misericordioso. Un'evoluzione che, peraltro, ha lasciato intatto il gusto della vita, a prescindere dalla presenza o meno di una fede: non l'istinto di conservazione che è connaturato all'essere bensì la capacità di apprezzare le manifestazioni felicitanti della vita stessa: gli affetti, il bello, i colori, i sapori, gli odori, il sesso.

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Ma … Ecco. La congiunzione avversativa che ha la capacità di mandare a ramengo tutto quanto detto fino ad un attimo prima. Un 'ma' che nel caso di specie è rappresentato da ciò che è avvenuto negli ultimi trent'anni che ha annullato millenni di storia di progresso dell'essere umano per riproiettarlo in un baratro di angoscia. Un 'ma' mosso dall'ignavia di molti, dall'ottusità e dalla cecità di altri nonché dal bieco opportunismo di altri ancora. Non credo al complotto mondialista da parte di forze demoplutocratiche e massoniche di vecchia memoria che anima i social forum e sono fortemente perplesso circa la fondatezza della denuncia del cardinale Viganò rivolta nientepopodimeno che al presidente Trump; certo è, però, che il regresso del genere umano allocato in Occidente, soprattutto nella vecchia cara Europa e particolarmente in Italia, è visibile e palpabile. Un regresso che ha cancellato ogni atto di coraggio che la società, di fronte a oggettive paure, aveva posto in essere per tutelarsi. Lo so, mi ripeto da qualche mese a questa parte ma resta il fatto che non c'è più certezza di alcunché: il lavoro, necessario per raggiungere una dignità di vita, è divenuto talmente precario da sconfinare nel caporalato; la tutela sanitaria pubblica, concepita come gratuita e universalistica, oggi compete con quella privata in quanto a costi mentre la tutela previdenziale è arrivata a rappresentare un concetto puramente aleatorio. E così è stato per quei sistemi di ripartizione della ricchezza, quali gli automatismi e i contratti di lavoro, finiti nel vocabolario come 'dannosi'; il sistema fiscale, poi, oneroso all'eccesso, è divenuto solo mero strumento di sostegno dell'apparato burocratico-amministrativo pressoché autoreferenziale in costante dilatazione: non c'è più un servizio che sia gratuito mentre la spesa pubblica si polverizza perdendosi tra comitati tecnici, consulenti, comitati scientifici, società partecipate fornitrici di audacia temeraria igiene spirituale sedicenti servizi, autority, salvataggi di aziende decotte ed enti inutili. E nel mentre crollavano i puntelli di tutela della società, venivano parimenti meno i pilastri interni sui quali poggiava: la scuola pubblica, divenuta onerosa anch'essa, si è persa frantumandosi in fantomatiche dissertazioni di qualificazione competitiva scimmiottando inutilmente la concezione della scuola americana privata. La famiglia è stata smembrata al punto da imporre per la mera sopravvivenza la necessità del doppio lavoro senza che questo sia esimente dell'ingresso nella fascia di povertà. E la forsennata corsa senza una meta ha spazzato via l'educazione dei figli e la cura degli anziani, supplendo al senso di colpa verso i primi con deliranti ed evanescenti colloqui genitori/insegnanti e, verso i secondi, con lager di riposo a basso costo, ameni solo nel titolo. Il diritto, poi, è divenuto talmente elastico da sfilacciarsi e la giustizia, infine, si è resa effettivamente cieca. La 'nostra' rivista, soprattutto negli ultimi tempi, ha toccato varie volte tali aspetti e ne ha tratto (parlo per me) una tela da additare all'attenzione per le sue pecche economiche e sociali ma se proviamo in via amatoriale ad abbozzare un'analisi psicologica e sociologica non possiamo non vedere che i componenti dell'attuale società non hanno paura: sono molto più semplicemente angosciati perché, consapevolmente o meno, avvertono che, in questo clima di massima indeterminazione e di grave compromissione del futuro, non bastano le proprie forze per uscirne; non c'è atto di coraggio che tenga a fugarlo. Siamo tornati al Predatore Invisibile, al dio


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iroso da rabbonire, dal tronfio quanto sfuggente nome di Mercato Finanziario, al quale si debbono inginocchiare governati e governanti in un salmodiare che, senza offesa per il dio egizio, ricorda l'incipit dell'inno ad Amon-Ra, il Nascosto: "Signore di ciò che è, permanente in 1 tutte le cose, /unico in sua natura come il Seme degli dei […] capo di tutti gli dei. […]" . Dopo millenni di progresso dell'Uomo, ci siamo nuovamente (e assurdamente) ritrovati succubi di una deità che non ha una connotazione ma è additato dai 'santoni' come il Dio Supremo da ingraziarsi con copiose offerte che gli officianti della cd. politica puntualmente confezionano, nel silenzio spaventato degli astanti, mandando così al macero quella forma di governo dall'altisonante quanto ormai insignificante nome di 'democrazia'. E nel perverso gioco dell'ipocrisia imperante abbiamo assistito inani e inermi ad un insensato ribaltamento nell'opposto di concezione freudiana; da popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori a ignavi esosi. Da lavoratori laboriosi capaci di un miracolo economico a pelandroni evasori. Tragicamente, a lenire le sofferenze dell'angoscia non c'è più un Dio misericordioso al quale rimettere le nostre pene. Quasi centoquarant'anni fa, Friedrich Nietzsche nel suo 'Al di là del bene e del male' ebbe a scrivere che: "Chi lotta con i mostri deve guardarsi dal non diventare con ciò un mostro. E se guarderai a lungo in un abisso anche l'abisso guarderà in te."2. Ebbene, come in un disonesto incastro del caleidoscopico della vita, la lotta contro le mostruose aberrazioni del capitalismo ha finito per rendere 'mostri' i suoi dichiarati avversari nel momento stesso che veniva meno la oggettiva realizzazione della loro ideologia. Così, nella pianificata riconversione culturale, affetti già dal materialismo e dall'universalismo, sono arrivati a 'sposare', dopo tanta dogmaticità, il relativismo, ammantandolo di una farneticante concezione universalista di 'buonismo altruistico' e, paradossalmente, di ricorsi a sterili benchmark di pensiero liberalcapitalistico. Il dramma è stato che tali concezioni, con le quali empiricamente flirtavano fino a poco prima solo alcuni liberali casarecci, elevate a sistema sono state tradotte in politiche che non hanno più incontrato un'opposizione culturale prima che operativa: il vento della 'moralità' aveva spazzato via liberali, democratici cristiani e socialisti facendo al tempo stesso disperdere secolari impianti intellettuali e formativi. Gli unici rimasti per un po' sul campo a contrastare la 'gioiosa macchina da guerra' sono stati dei clown col cimiero ai quali, poco dopo, ha persino cominciato a scrostarsi il cerone. Con tutto il rispetto, anche la Chiesa ha fatto la sua parte: già contaminata dagli effetti, per quanto indesiderati, del Concilio ecumenico Vaticano II, non più monolitica come lo era stata nei due millenni precedenti, si è sostanzialmente divisa tra 'conservatori' e 'progressisti' avallando formalmente il fatto che 'cattolici' si può essere a prescindere dall'appartenenza partitica e con ciò privando di quell'egida qualificante qualsivoglia azione oppositiva. In sostanza, ogni impianto culturale attraversato dal trascendente è stato sostituito con il solo falso demiurgo della tecnica e dell'edonismo competitivo. E con tali connotazioni è stato trasferito sul piano formativo, lasciando al palo la spiritualità fatta anche di valori e di ideali. Una costruzione di sistema,

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peraltro, dove soltanto chi è perfettamente integrato può agire; altrimenti, bene che vada, si è negletti incapaci, quando non egoisti, razzisti e xenofobi. Oggi, la scienza e la tecnica sono divenute le sole salvatrici della specie umana; ovviamente a pagamento. La sofisticazione delle macchine e la tecnica risolvono certo i problemi, ma solo in senso materiale; non hanno nulla 'da dire' sui fini; non sono neppure 'interessate a capire' in quale direzione si stia andando. Eppure, gli uomini 'moderni' sono stati resi prigionieri di un meccanismo: quello del fare, nel quale il continuo progresso tecnologico accelera sempre più il movimento, senza che s'intravveda il senso, il risultato né, tanto meno, la meta. Ma non è il solo aspetto degno di nota. Umberto Eco fa ruotare la vicenda de 'Il nome della rosa' attorno a oscure trame di alcuni monaci che arrivano a compiere efferati delitti pur di nascondere un libro, la Poetica di Aristotele nella quale il grande filosofo afferma, tra l'altro, che ridere non è peccato. Quindi, nella mente di quei monaci, col ridere si perdeva il timor di Dio. Ebbene, nella loro magnanimità, la scienza e la tecnica, passate attraverso la raggiera mercantilistica dal marketing hanno avuto la capacità di far 'ridere' anche i diseredati, gli esclusi, i poveri che, attraverso la prostituzione rateizzata, hanno la loro parte di 'ilarità' fatta di griffe da emporio, di tablet, di smartphone, di low cost, assurti a grotteschi simboli di 'inclusione'. Le amicizie e gli affetti che attraverso il calore umano e la 'parola', al pari della confessione, alleggerivano l'animo, sono stati sostituiti dalle 'connessioni' che, tuttavia, non riparano dall'angoscia; anzi, l'accrescono con la solitudine, virtualmente lenita dalle amicizie virtuali elevate a obiettivo di vita. Non parliamo poi temeraria di manifestazioni felicitanti della vita: le grandi catene americane e le audacia igiene spirituale omologhe nostrane hanno egregiamente surclassato nei giovani ogni tradizione culturale nel mangiare e nel bere, il 'bello' è stato oggetto di colpevolizzazione, dall'evasione fiscale al classismo, tritato dalla standardizzazione e comunque ufficialmente riservato ad una ristretta cerchia di eoni mentre il sesso si è schiantato sul viagra e similia somministrato persino a venticinquenni. Perciò, 'divertiti' come criceti nella forsennata e solitaria corsa sulla ruota, sempre più sospinti a guardare nell'abisso del nulla, alla fine il nulla ha guardato in noi. E nel 'nulla', privo di ogni anelito di spiritualità, non c'è posto per un Dio che, tra l'altro, è stato disattento quando l'omologazione al peggio era in atto, quando la dignità veniva calpestata o, ancora, quando i suoi stessi ministri ignoravano il mandato divino per divenire i peggiori profani. E, per inciso, non credo che per rianimarlo e rievocarlo servano i sali del recente richiamo alla generale fratellanza la quale, come ben si sa, non si sostiene se mancano le necessarie concomitanze con l'uguaglianza e con la libertà. In ogni caso, mancando un dio misericordioso, non c'è cura per l'angoscia. Detto questo, siccome non sono una persona che si arrende facilmente e rifiutandomi di cadere nel delirio paranoico che vede come 'colpevoli' il vicino, l'emigrato, il pubblico dipendente, l'insegnante e quant'altro, pur non essendo una psicoanalista mi sono confezionata un 'mio' rimedio che consiste nell'essere più consapevole possibile dei 'fatti' e nell'incazzarmi.


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Si potrà dire che queste condizioni non servono a combattere la causa dell'angoscia ma, almeno, attestano che si è 'vivi e pensanti'. Il che, dati i tempi che corrono, non mi sembra poco. Devo anche dire che a darmi motivi incentivanti a percorrere la via scelta e a fornirmi le istruzioni d'uso, è stato l'agire del nostro attuale governo. Non voglio tornare sui tanti argomenti toccati al riguardo nei precedenti numeri che comunque già dovrebbero suscitare l'indignazione perché contrari di ogni razionalità, tipo il reddito di cittadinanza, totalmente infecondo, preferito ad investimenti per l'ampliamento delle opportunità di lavoro, specie al Sud. Voglio invece soffermarmi sulla gestione della pandemia e, particolarmente, della cosiddetta seconda ondata di questa. Già di per sé, la rinnovata proliferazione del virus crea apprensione generalizzata, persino superiore a quella della prima 'ondata'; un'apprensione che, anziché essere incanalata solo nella pratica di norme precauzionali e igieniche, al pari della prima 'ondata' viene ingigantita a dismisura dai massmedia attraverso deliranti servizi e bollettini di guerra. Gira su WhatsApp di recente una vignetta, un po' volgare in verità ma nell'ormai smitizzazione dei termini rende l'idea: due uomini, evidentemente amici, s'incontrano e uno fa all'altro: "Ma sai che ho letto che il Coronav …". Non fa in tempo a finire perché l'altro lo blocca: "Senti … per mezz'ora soltanto … parliamo di figa?". Questo a dire che non ci sono comunicazioni dei sistemi d'informazione che non saturino l'ascolto col Covid (l'unica recente eccezione è rappresentata dalle elezioni americane) come non c'è argomento di dialogo che non investa la pandemia. Ma nessuno, sottolineo nessuno, fa riferimento al quadro post-Covid quando, finita l'emergenza e le onerosissime ubriacature degli aiuti a tutti e delle promozioni improbabili, resteranno le disastrate condizioni economiche e sociali del Paese. Certo, ci è stato 'concesso' lo sforamento dai parametri di Maastricht e, sostanzialmente, abbiamo la garanzia che le nostre emissioni a dritta o a manca vengano acquistate ma ciò significa che il nostro debito sta lievitando a dismisura in totale disinteresse della differenza che esiste tra 'debito buono', quello cioè che crea i presupposti e le condizioni per la ripresa e quello inutile. Una lievitazione che, comunque, comporterà un enorme 'prezzo' da pagare; e già si intravedono i soggetti alla cassa. Mi viene in mente l'Atene del IV° secolo a.C. dove arrivò al potere una classe politica rozza e ignorante; un evento che Platone ricorda nella sua Repubblica3 attraverso le espressioni dell'aristocratico Crizia, capo dei Trenta Tiranni, al quale fa dire, senza perifrasi, che per ridurre ad ordine la natura umana occorre l'inganno sostenuto dalla punizione e dalla paura. Quindi, mi chiedo perché la 'seconda ondata', dopo essere stata annunciata ai quattro venti con la sollecitazione di fine primavera a non cantar vittoria, stia creando così vasto allarme, specie nelle strutture sanitarie. Perché, nelle more, non siano stati assunti (a debito) medici e infermieri nel numero confacente. Perché (a debito) non sia stato minimamente invertito quel dissennato trend che in dieci anni ha visto la chiusura di oltre 200 presidi ospedalieri, la cancellazione di oltre 25.000 posti letto e la esposizione di carenze per centinaia di migliaia di unità tra medici e paramedici.

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Una chiusura, una cancellazione e una carenza che, peraltro, non hanno impedito negli anni la costante lievitazione della spesa sanitaria ordinaria. Fatto si è che siamo nuovamente nell'impossibilità di ricoverare un malato non affetto da Covid perché un'intera struttura ospedaliera è dedicata ai contagiati dal virus. Un posto letto, per quest'ultimi, che si afferma costi (a debito) alle casse pubbliche ben duemila euro al giorno: senza voler pensare male a tutti i costi, mi sembra un notevole incentivo per una ASL che da struttura pubblica è stata trasformata in Azienda con propria autonomia addirittura imprenditoriale; una struttura che comunque, secondo i massmedia, vede occupati i posti delle sue terapie intensive sotto il 20% del numero complessivo. Per cui, verrebbe inutilmente da chiedersi quale sia la gravosità del quadro clinico degli altri al punto da saturare ogni posto disponibile. E, a fianco di ciò, mi chiedo perché non vi sia cenno alcuno sulla prossima disarticolazione della struttura sanitaria di base dove gli operatori medici in termini di anzianità di servizio sono attorno ai trent'anni e, perciò, prossimi al ritiro. E ancora. Per quanto mi sforzi di cercarlo, non vedo un piano articolato e prospettico per la 'ripresa' (a debito). Non c'è traccia di presupposti, di linee guida, di punti di forza e di obiettivi. Gli unici a provare a dettarne le linee finora sono, paradossalmente, nuovi fondi d'investimento (ecologia, robotica, acqua, automazione, ecc.) che promettono mirabilie. Ciò che invece si ascolta dai reggitori della cosa pubblica sono solo parole occasionali dal significato nominalistico per il futuro, accompagnate da un turbinio di cifre di un presunto dare e di dilazioni di presunti 'avere' che continuano a riguardare solo e soltanto i cosiddetti 'aiuti'. Un tutto, perciò, sempre e soltanto fondato (si fa per dire) sulla pandemia. Forse, al termine di questa, qualche fedele di Santa Pupa, la protettrice dei bambini, confiderà nel 'rimbalzo'. Ma la gestione delle 'onde' sta facendo spanciare i 'nuotatori'. Il terziario, che poi è l'asse portante sia in termini economici che occupazionali, massacrato dalla prima 'ondata', anomala nella sua astrusa durata, vede disperdere persino i suoi relitti dalla seconda 'ondata' in nome di cervellotiche, eterogenee, precauzioni. In conseguenza, finito l'intontimento dei promessi aiuti (a debito), mi chiedo, sia ai fini del gettito fiscale e contributivo che riguardo all'occupazione, come si pensi di sanare l'emorragia delle decine di migliaia di imprese già chiuse o in procinto di chiudere. E, quale ulteriore conseguenza, mi domando quale potrà mai essere il futuro per quei lavoratori che, terminati i sostegni (a debito) per il blocco dei licenziamenti, si ritroveranno senza lavoro, peraltro in assenza di un sistema di riqualificazione. Di contro, mi interrogo sulla liceità di impiegare centinaia di milioni (a debito) per incentivi all'acquisto di monopattini e biciclette, in nome di un 'trasporto' alternativo ed ecologico, in concomitanza peraltro con l'approssimarsi della stagione invernale e con la necessaria accortezza di non ammalarsi per non incappare nella macchina farneticante del Covid. A latere, una riflessione a proposito dell'intervento del Presidente Mattarella alla recente Giornata Mondiale del Risparmio e in riferimento ai 'debitori finali'. Con tutto il rispetto, va detto che il Suo monito: '…che il risparmio aiuti la ripresa' ha un che di vago. Spero che nella mente del Primo Cittadino non s'intenda quello a fatica accantonato dagli italiani in un deposito di c/c e in


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una casa; un risparmio che sta consentendo ai lavoratori di sfangare alla meno peggio questi bui periodi, in attesa di un po' di luce che tarda a venire. Sarebbe davvero irragionevole che sopra il classico 'cotto', fatto di oppressivi prelievi fiscali e di penalizzanti politiche sociali e del lavoro, si versasse la caustica 'acqua bollente' della patrimoniale. E ciò a prescindere da ogni progetto di ripresa nel quale confidare che, ad oggi, come detto latita. A meno che per 'risparmio' non s'intenda l'immane consistenza di liquidità, 'risparmiata' dagli Istituti di credito, finora non impiegata neppure a sostegno ordinario dell'economia. Chiusa la riflessione, l'altro aspetto sul quale m'interrogo riguarda l'abulia, quella accezione foriera di un quadro desolante al pari della paura e dell'angoscia. Perché non c'è dubbio che diversi soggetti ne siano stati colpiti e ciò è altresì preoccupante. Recentemente, a differenza delle tante manifestazioni tenute all'estero passate sotto silenzio nonostante la partecipazione di decine di migliaia quando non di centinaia di migliaia di persone 'razionali', abbiamo assistito in Italia a delle manifestazioni spontanee da parte di cittadini, forse esercenti, scesi in piazza per esternare il loro dissenso; manifestazioni che, a detta dei massmedia, hanno registrato delle 'presenze sgradite' quali quelle della malavita organizzata e dell'estrema destra; presenze che, opportunamente sottolineate, hanno finito per svilire fino ad annullare il coraggioso gesto dei manifestanti. Ed è qui che l'abulia manifesta tutto il suo vasto e preoccupante effetto perché in quelle manifestazioni nostrane non è stata registrata la presenza di un solo politico dell'opposizione né di un solo esponente delle associazioni categoriali che desse segno e significato e che annullasse l'infiltrazione' indesiderata. Come, del resto, da parte di quei soggetti non è stata finora registrata alcuna vera autonoma presa di posizione. Né, tantomeno, vedo una precisa posizione dei sindacati dei lavoratori che vada al di là delle precauzioni anti-contagio e della somministrazione degli aiuti. Forse, da realisti, temono tutti di essere associati ai negazionisti e bollati ignominiosamente come tali. Stavo per dire 'li capisco' perché non è facile fare breccia nel perverso 'gioco al massacro' dell'avversario al quale ormai siamo abituati ma mi sono subito ricreduta perché dai loro ruoli ci si dovrebbe attendere almeno un segno di vitalità e non battute buttate in un microfono. Quindi, no, non li capisco né, tantomeno li giustifico. A questo punto, qualcuno potrebbe idealmente dirmi che l'ultima parte, quella inerente all'azione del governo, riguarda la 'paura' e non l'angoscia, vista la 'conoscenza' del pericolo: ecco, appunto, e la sola risposta omnicomprensiva e universale, a tutti e a ciascuno, è e resta il 'coraggio'. E l'angoscia? In assenza di un Dio misericordioso, resta il Fato, al quale persino i Predatori Invisibili devono sottostare. L'importante è stare in piedi. Lucidi, consapevoli e razionali. Roberta Forte Note: 1. Papiro Boulaq 17 2. Ed. tascabili Newton – Parte quarta – Aforismi e intermezzi - Aforisma 146 – p. 103 3. VIII Tetralogia

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PAURA, RIMOZIONE, MASSE E POTERE IN TEMPO DI PANDEMIA INCIPIT "Ritirarsi non è scappare, e restare non è un'azione saggia, quando c'è più ragione di temere che di sperare. Non c'è saggezza nell'attesa quando il pericolo è più grande della speranza ed è compito del saggio conservare le proprie forze per il domani e non rischiare tutto in un giorno". (Miguel De Cervantes) "L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza." (Giovanni Falcone) "È normale che esista la paura, in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti". (Paolo Borsellino) "Quel che temiamo più di ogni cosa, ha una proterva tendenza a succedere realmente". (Theodor Adorno) "Conoscere le nostre paure è il miglior metodo per occuparsi delle paure degli altri". (Carl Gustav Jung) "La paura ha creato gli dei". (Lucrezio) "La folla: quella mostruosità molteplice che, presa un pezzo alla volta, sembra composta da uomini, ragionevoli creature di Dio, e che, confusa insieme, diviene una sola grande belva, un mostro più tremendo dell'Idra". (Thomas Browne) "In ogni campo e per ogni oggetto sono sempre le minoranze, i pochi, i rarissimi, i singoli quelli che sanno: la folla è ignorante". (Søren Kierkegaard) "Se deve scegliere chi deve essere crocifisso, la folla salverà sempre i Barabba". (Jean Cocteau) "È una battaglia vecchia come il tempo - il ruggito della folla da un lato e la voce della tua coscienza dall'altro". (Douglas Macarthur) "Colui che segue la folla non andrà mai più lontano della folla". (Albert Einstein) "La massa ha scarsissima capacità di giudizio e assai poca memoria". (Arthur Schopenhauer) "Vi sono persone messe al mondo solo per far folla". (Honoré de Balzac) "Dove vi è dominio, esistono masse; dove vi sono masse, vi è il bisogno della schiavitù. Dove vi è schiavitù, gli individui sono pochi, e hanno contro di loro gli istinti del gregge". (Friedrich Nietzsche) "È più facile trarre in inganno una moltitudine che un uomo solo". (Erodoto) "Le folle non hanno mai provato il desiderio della verità. Chiedono solo illusioni, delle quali non possono fare a meno. Danno sempre la preferenza al surreale rispetto al reale; l'irreale agisce su di esse con la stessa forza che il reale. Hanno un'evidente tendenza a non distinguere l'uno dall'altro". (S. Freud) "Le folle non accumulano l'intelligenza, ma la mediocrità". (Gustave Le Bon)


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PROLOGO "Fino ad oggi (attenzione: "oggi", in questa nota, vuol dire 1895, N.d.r.), il compito più evidente assunto dalle folle si è relegato al superamento e alla distruzione della civiltà in cui operano. La storia testimonia che, quando le forze morali, fondamenta su cui poggia ogni società civile, perdono la loro efficacia, la dissoluzione di una civiltà è condotta da moltitudini incoscienti e brutali, qualificate barbare. Le società civili sono state fino a questo momento generate e guidate da una esigua aristocrazia, mai da moltitudini. Queste altro non hanno che la forza di distruggere. Il loro predominio segna sempre una fase di disordine. Una civiltà implica e richiede regole, disciplina, il predominio del razionale su ciò che è istintivo, una certa previdenza dell'avvenire, un grado elevato di cultura, tutte condizioni precluse alle folle lasciate a sé stesse. Queste ultime, in virtù della loro caratteristica unicamente distruttiva, operano come quei microbi che favoriscono e intervengono nella dissoluzione di un corpo debilitato o di un cadavere. Quando l'edificio di una civiltà è infestato dai vermi, le folle compiono opera di distruzione". (Gustave Le Bon, "Psicologia delle folle", 1895. Edizioni Clandestine, 2013). ANAMNESI DELLA PAURA La paura è un'emozione, comune a tutti gli esseri umani, che insorge in concomitanza di eventi pericolosi, assumendo diversa intensità in funzione della gravità del pericolo percepito. Thomas Hobbes diceva che, il giorno in cui nacque, sua madre diede alla luce due gemelli: lui e la sua paura. Come la febbre essa fa parte del nostro repertorio difensivo e, quando possibile, ci aiuta a tenere lontane le minacce della vita, presunte e reali: chiunque può decidere, saggiamente, di non concedersi una gita in barca con mare forza sette o, un po' scioccamente, di non prendere un aereo se abbia paura di volare, optando per un comodo treno, pur essendo consapevole che un aereo di esso è molto più sicuro; un militare non può decidere di tornarsene a casa se scoppia una guerra e avverta forte lo sgomento per l'impegno in prima linea. La paura, se non giustificata da fatti contingenti, può diventare una vera psico-patologia in grado di produrre danni più o meno gravi e purtroppo anche irreversibili. Tra i suoi molteplici e significativi aspetti vi è la "rimozione", ossia il processo mentale che tende a disconoscere l'entità del pericolo, consentendo di annullare gli effetti deleteri dello stress e dell'ansia, producendo, però guasti ben peggiori: l'annullamento mentale del rischio, infatti, non solo non lo elimina ma ne aumenta la pericolosità. La pandemia ha fatto emergere tutti gli aspetti mentali succitati, sconvolgendo l'esistenza di milioni di persone. Il nemico invisibile genera attacchi di panico in chi non riesce a reggere il prolungato stress, alla pari del bombardamento mediatico, dal quale ben traspare la debolezza di un sistema sanitario volenteroso, ma fortemente penalizzato dalla malapolitica. Paura e rimozione si alternano alimentando feroci dibattiti nei social e nei salotti televisivi, dove tesi e antitesi sviscerate oggi e smentite domani contribuiscono solo a innescare una spirale di confusione e caos che disorienta e spaventa ancor più i cittadini. Il supporto psicologico, in momenti come questi, risulterebbe fondamentale, ma in Italia la

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maggioranza delle persone corre dal medico anche per una lieve martellata sul dito, ritenendo, invece, di poter fare a meno dello psicologo. Per quanto concerne la fallacia delle strutture sanitarie, è possibile solo ribadire concetti già più volte espressi, sperando che questa tragica esperienza insegni a meglio scegliere i soggetti cui delegare il potere politico affinché si cancelli lo scempio del fallimentare regionalismo, utile solo a far diventare "qualcuno" degli autentici signor "nessuno" e ad assicurare stipendi assistenziali a una buona fetta di nullafacenti. Nota: È senz'altro vero che la scelta dei rappresentanti politici assomiglia a quella della frutta in cesti di mele, pere e agrumi marci, ma questo, lungi dal costituire un'attenuante, amplifica la colpa di chi paga quotidianamente la propria incapacità nell'incidere radicalmente su un sistema alla deriva. Solo una spinta che parta dal basso può creare i presupposti per una vera riforma federale dello Stato, ancorata a un pieno recupero della centralità che, necessariamente, deve prevedere: elezione diretta del Presidente della Repubblica; abolizione del senato e delle amministrazioni provinciali e regionali; accorpamento dei comuni affinché il più piccolo abbia almeno quindicimila abitanti. Sessanta milioni di cittadini sono pochi anche per l'istituzione di tre o quattro macroregioni rette da un governatore, più o meno con le stesse caratteristiche legislative presenti negli USA, figuriamoci se ne servono venti, cinque delle quali addirittura a statuto speciale, con la Sicilia che ha più guardie forestali di quante non ve ne siano in Canada.

ANAMNESI DEL NEGAZIONISTA La negazione di un fatto acclarato e inconfutabile manifesta sempre un disturbo mentale del soggetto agente, sia pure con caratterizzazioni diverse a seconda del ruolo esercitato nella società, del livello culturale, delle esperienze di vita, in particolare quelle negative e frustranti. Non vi è ambito storico e scientifico immune dal negazionismo e sulla materia sono stati scritti molti saggi, anche se per lo più ancorati a denunciare il negazionismo di matrice nazista. Nota: In Italia si verifica un doppio vulnus in campo storiografico: è scarsa e lacunosa la saggistica sugli orrori del comunismo; è del tutto assente quella che confuti le mistificazioni perpetrate da coloro che degli orrori non vogliono parlare. In Francia, invece, si presta molta attenzione a questo importante aspetto, che serve a penetrare in modo più veritiero nei meandri della storia. A parte l'eccelso lavoro compiuto da Alain De Benoist e dagli intellettuali del GRECE, sono molti gli studiosi che trattano le atrocità dittatoriali e il negazionismo, senza eccezioni. Purtroppo i loro testi trovano scarsa eco in Italia ed è emblematico il caso dello storico Thierry Wolton, autore di pregevoli saggi sul comunismo mai tradotti in italiano, eccezion fatta per un testo del 1987, scritto con André Glucksmann, che parla delle responsabilità dell'Occidente nel coprire gli scandali e i crimini dei comunisti in Etiopia, il che la dice lunga sulla volontà di tenere ben celata la parte più consistente del marcio. Nella sua opera più recente, "Le négationnisme de gauche", Paris, Grasset, 2019", spiega come la sinistra cerchi di minimizzare, relativizzare o persino negare la natura totalitaria e criminale dei regimi comunisti e quanto siffatta propensione possa influire sulle questioni del nostro tempo, come il terrorismo islamico, il ritorno dell'antisemitismo o l'ascesa di movimenti populisti e nazionalisti.


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Sorvolando per amor di sintesi sui negazionisti di particolari eventi storici (in Turchia si rischia la galera solo se si parla del genocidio armeno), terrapiattisti, frequentatori di alieni che negano la conquista della luna e complottisti vari pronti a giurare che Tizio è pronto a dominare il mondo, salvo poi sostituirlo con Caio quando Tizio inforca le pantofole e si ritira a vita privata, soffermiamoci sul problema contingente determinato da quella insostenibile leggerezza dell'essere che aleggia intorno alla pandemia. Settantacinque anni di relativa "pace", dopo gli sconvolgimenti provocati dalle due guerre mondiali, sommati all'incontenibile progresso tecnologico, hanno creato una netta dicotomia generazionale, con crescenti connotazioni a partire dagli anni sessanta del secolo scorso. Di fatto, i trentenni e i quarantenni di oggi, pur avendo ancora in massima parte il piacere di godersi i genitori o addirittura qualche nonno, da loro sono distanti anni luce per usi, costumi e pensiero. Una lontananza che si dipana su due fronti, generando un groviglio di incomunicabilità: il gap con i figli "millenials", infatti, è ancora più ampio di quello con i genitori e i nonni. Fino al ventesimo secolo il processo di evoluzione generazionale era molto più lento e, pertanto, tre generazioni conviventi riuscivano a "parlare la stessa lingua", che in massima parte non era dissimile da quella di tre o addirittura più generazioni precedenti. Questo distinguo è fondamentale per inquadrare in una corretta ottica quanto stia emergendo in virtù della pandemia. La reazione emotiva al Covid-19, non suffragata quindi da alcun substrato scientifico, si differenzia in quattro primari processi mentali: 1 Acquisizione e accettazione della gravità della pandemia, resa evidente dai numeri e dalle dichiarazioni di autorevoli scienziati; 2 Accettazione parziale della gravità: il problema esiste ma non è così grave come lo dipingono. Si tenderebbe a esagerarne la portata per ragioni subdole connesse alla volontà di controllare i cittadini, di favorire il crollo economico, di creare il panico per distrarre le masse dai problemi reali; 3 Il problema non esiste: è una pura invenzione dei poteri occulti che vogliono governare il mondo. 4 Per la maggioranza dei giovani la pandemia è un fastidio che incide sui loro ritmi di vita; vogliono divertirsi e non intendono privarsi nemmeno per un giorno della libertà di movimento, estrinsecata in quel becero rito della movida, ritenuto più essenziale dell'acqua che disseta il viandante nel deserto. Non accettano restrizioni; contestano l'efficienza della mascherina e sono disposti a rischiare perché ritengono il virus non letale per loro. "Dopo tutto è solo una febbre come tante", ripetono con malcelato e sciocco cinismo, ignorando completamente i dati statistici e rifiutando ogni serio approfondimento della materia. A latere dei ceppi primari convivono, poi, una miriade di sottogruppi che propongono delle teorie complottistiche di così scarsa consistenza qualitativa da risultare addirittura subordinate a quella descritta al punto tre, già abbastanza ridicola: virus creato in laboratorio dalla Cina per colpire gli USA; virus creato dagli USA per punire i suoi tre principali avversari: Cina, Iran e Italia

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(la Cina a causa della guerra sui dazi combattuta dai due Stati; l'Iran a causa dell'annosa rivalità tra i due paesi; l'Italia a causa della visita del ministro Di Maio in Cina con l'intento di stringere accordi commerciali, che però sarebbe servita anche ad allontanare l'Italia da mamma USA e favorire la penetrazione cinese in Europa e in Africa!); volontà di sterminare gli anziani per risparmiare sulle pensioni e ridurre la popolazione mondiale; virus che non esiste e funge solo da copertura architettata per coprire i danni del 5G; virus creato da Bill Gates per lucrare sui vaccini prodotti dalle case farmaceutiche da lui finanziate. Ciascuna delle succitate reazioni emotive determina quelle azioni conseguenziali che danno vita ai forti contrasti quotidianamente registrati. Bisogna fare molta attenzione, pertanto, perché la propensione a fare di ogni erba un fascio, se è sempre negativa e ingiusta, in momenti come questi può essere molto pericolosa. Non vi può essere alcuna comprensione per i negazionisti con ingenti risorse economiche e importanti ruoli di potere, che possono permettersi di fronteggiare adeguatamente la pandemia; ben diversa, però, è la condizione di chi si sia visto crollare il mondo addosso dalla sera alla mattina e non sappia dove sbattere la testa, con attività ferma da dieci mesi, zero prospettive per il futuro e debiti che crescono a dismisura. La loro sottovalutazione del pericolo scaturisce da un processo mentale che stabilisce delle priorità a livello subliminale: queste persone vanno comprese e aiutate, possibilmente senza strumentalizzarle per meri fini politici, come purtroppo accade sistematicamente. GENESI E DINAMICHE DEI PROCESSI MENTALI Quali sono i fattori che spingono le persone, in qualsiasi circostanza, a comportarsi in un modo anziché in un altro? Soprattutto: quali sono i fattori che condizionano le decisioni in momenti particolarmente stressanti come quelli che stiamo vivendo? In psicologia esiste una precisa classificazione del comportamento umano, suddiviso in quattro gruppi: sfera cognitiva, conoscenza, sfera affettiva, sfera volitiva. Gli elementi primari della sfera cognitiva sono l'intelligenza e il pensiero. In linea di massima si può dire che quanto più alto sia il quoziente intellettivo più facilmente si riesce a interagire con il prossimo e con gli eventi, anche se l'intelligenza, da sola, non basta ad assicurare equilibrio e ragionevolezza. Il pensiero scaturisce dal proprio credo ideologico, politico, religioso, dai condizionamenti ambientali. L'insieme di questi fattori, quindi, determina le idee di ciascun individuo su qualsiasi cosa. Le idee possono avere il sopravvento sul potere condizionante dell'intelligenza e della conoscenza, piegando questi due elementi alla loro volontà di azione. Per questo aspetto dell'essere ancora oggi è ben netta la dicotomia tra le varie scuole filosofiche e psicologiche. Cartesio sosteneva che alcune idee fossero innate, mentre Hobbes e Locke vedevano nella sola esperienza l'unico processo in grado di sviluppare e organizzare la mente umana. Col passare dei secoli la dottrina innatista è stata progressivamente ridimensionata, lasciando lo spazio a scuole di pensiero che, sia pure con metodi diversi, danno ampio risalto, quando non esclusivo, al condizionamento ambientale. Non esiste, di fatto, una tesi univoca e forse, come per tante cose, ciascuna di esse contiene un pizzico


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di verità, contribuendo a crearne una ancora più empirica che, seppure non tributaria di alcun riconoscimento specifico (eccezion fatta per quello che proviene dall'autore dell'articolo, che vale quanto il due di spada a briscola, quando il seme di briscola è bastoni), ha buone probabilità di essere la più realistica: l'individuo porta nel suo DNA non solo i fattori ereditari scientificamente conclamati ma anche una sorta di influsso caratteriale, ossia il retaggio ancestrale determinato dalle radici più remote, che però non si manifesta in modo uniforme per tutti e risente, con percentuali molto variabili, di vari condizionamenti: intelligenza, ambiente, livello culturale, condizioni di vita e altro ancora. Gustave Le Bon, comunque, sosteneva qualcosa non molto dissimile da questo assunto, anche se tra i fattori alla base del comportamento includeva la razza, non essendosi ancora pienamente sviluppato, durante il suo arco esistenziale, il presupposto della razza umana come univoca specie biologica. La distinzione tra fattori lontani e fattori immediati è davvero interessante e, non essendo qui possibile esporla compiutamente, si consiglia senz'altro la lettura del suo prezioso saggio citato nell'incipit. Nella conoscenza confluiscono tutte le informazioni che consentono all'individuo di operare delle scelte. Intelligenza e conoscenza, se non condizionate da altri fattori, interagiscono e suggeriscono le decisioni di volta in volta assunte. Alla sfera affettiva afferiscono l'umore, i sentimenti, le emozioni e qualsivoglia elemento positivo o negativo, piacevole o spiacevole, generato da un evento, dalle relazioni sociali, dagli stati d'animo, dagli stimoli esterni. La sfera volitiva, a sua volta, riguarda le azioni compiute per il raggiungimento di determinati fini e, come facilmente verificabile anche da chi non abbia competenze specifiche, la sua fragilità è ben evidente dalla quantità abnorme di azioni insulse effettuate da chi non riesca a gestirla in modo razionale. PROCESSI MENTALI E PANDEMIA Alla luce di quanto sopra esposto è possibile inquadrare razionalmente il variegato comportamento degli individui in questi terribili mesi che stanno sconvolgendo il Pianeta. Il primo dato che emerge è rappresentato dal livello culturale delle singole persone che, se caratterizzato da un alto profilo, indipendentemente dal credo politico, manifesta forte stabilità emotiva e grande capacità di discernimento. Di converso, relativamente ai soggetti che per ruolo sociale conquistano quotidianamente la ribalta della cronaca, quanto più è basso il loro profilo culturale tanto più scende la stabilità emotiva e la capacità di discernimento. Il concetto è antico e più volte ribadito in queste colonne: la cultura dovrebbe costituire l'elemento primario per qualsiasi persona insignita di potere in grado di condizionare la vita altrui. Il basso profilo culturale determina anche quei comportamenti solitamente definiti vergognosi e, in momenti come questi, privi di aggettivi consoni a una corretta definizione. Basti pensare, per esempio, a coloro che passano le giornate a criticare l'operato di chi abbia responsabilità decisionali, senza proporre alternative valide o magari suggerendone alcune irrealizzabili e quindi sciorinate per fini meramente strumentali, tra i quali quello di lisciare il pelo alle classi sociali che costituiscono il bacino elettorale di riferimento. A livello economico è inutile ribadire la cinica protervia e l'abilità maligna di chi viva osservando il motto "mors tua vita mea". Lo squallido balletto

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sull'imminenza di un vaccino, artatamente orchestrato dalle case farmaceutiche con il supporto dei rispettivi sodali politici e mediatici, alimentando speranze illusorie se rapportate ai tempi brevissimi, consente forti speculazioni in borsa soprattutto a coloro che, essendo i registi del balletto, possono addirittura beneficiare "legalmente" di una pratica illegale come l'insider trading. Restando nei confini di casa nostra si può solo stendere un velo pietoso sui bisticci da bar che coinvolgono tutti gli esponenti politici, indecorosamente incapaci di mantenere un contegno in linea con il proprio ruolo e ridotti alla stregua dei capponi di Renzo, che "s'ingegnavano a beccarsi l'uno con l'altro, come accade troppo sovente ai compagni di sventura". I loro processi mentali rendono manifesta più di quanto non fosse accaduto in passato l'inconsistenza qualitativa, essendo le loro azioni avulse da ogni logica di bene comune e ancorate esclusivamente a presupposti di autotutela. Come sempre accade nei momenti di massima tensione, però, viene meno la lucidità razionale che di solito accompagna le azioni, anche quelle più criminali, nei momenti di calma piatta, e si agisce in modo grottesco, tirandosi la zappa sui piedi. La vicenda del generale responsabile del piano Covid in Calabria, divenuto una macchietta televisiva quando scopre in diretta le mansioni del suo ruolo, sostituito con un altro personaggio da avanspettacolo che ha fatto subito pensare anche alla sua rimozione, la dice lunga sullo stato confusionale che aleggia nelle stanze del potere e anche sulla consistenza qualitativa delle "seconde file", ossia quella pletora di dirigenti che, di fatto, costituisce il motore del Paese. Un motore da rottamare insieme con i meccanici che lo hanno montato. GIOVANI ALLO SBANDO Se volessimo rappresentare cinematograficamente ciò che traspare dalla cronaca quotidiana, lo slogan più appropriato per pubblicizzare il film sarebbe: "Il male oscuro di una società schizoide". Non si potrebbe spiegare altrimenti, infatti, la fila di ambulanze all'esterno degli ospedali e la folla serena e tranquilla che si trastulla nei corsi principali delle città, sul lungomare e nei luoghi classici della famigerata movida. Marino Niola, ordinario di Antropologia culturale all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, intervistato da un giornalista de "Il Mattino", non usa mezzi termini nel definire ciò che è sotto gli occhi di tutti: "Siamo già oltre le sequenze del Titanic, con l'orchestra che continua a suonare mentre il transatlantico sta sbattendo contro l'iceberg: qui c'è l'espressione di un senso di irresponsabilità sconvolgente che sa di irrazionalismo negazionista". I giovani sono i principali responsabili di siffatti comportamenti, che però si riscontrano anche in altre fasce di età. Da dove nasce tanta irresponsabilità? Ci tocca ripetere, esasperandoli, concetti già espressi. Giovani iper coccolati, avvezzi a considerare il divertimento come scopo primario della loro esistenza, capaci di giungere a trenta anni senza aver mai letto un classico della letteratura, senza aver mai imparato una poesia a memoria, senza aver mai ascoltato un brano di musica classica e per giunta con preparazione scolastica posticcia e largamente fallace, come possono fronteggiare adeguatamente un evento di questa portata? Semplicemente non possono. Non possono e non vogliono modificare nemmeno parzialmente stili di vita recepiti come una vera droga, capaci di esorcizzare la paura con le classiche suggestioni fasulle che "Es"


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(la parte oscura della mente, il serbatoio dell'energia vitale, l'insieme caotico e turbolento delle pulsioni) produce quando si "rende necessario" sottomettere "Io", (la coscienza mediatrice che agisce tra l'incudine di Es e il martello del SuperIo) e "SuperIo", (l'insieme dei divieti sociali sentiti dalla psiche come costrizione e impedimento alla soddisfazione del piacere). "Spinto così dall'Es, stretto dal SuperIo, respinto dalla realtà, l'Io lotta per venire a capo del suo compito economico di stabilire l'armonia tra le forze e gli impulsi che agiscono in lui e su di lui; e noi comprendiamo perché tanto spesso non ci è possibile reprimere l'esclamazione: la vita non è facile!". Così spiega Freud, nella sua "Introduzione alla psicanalisi", la difficoltà oggettiva dell'Io di farsi strada quando i disequilibri dell'essere e gli sconvolgimenti sociali alimentano in modo irresistibile i suoi contraltari, dando loro forza sufficiente a sconvolgere l'equilibrio mentale. Se scoppiasse una guerra i giovani sarebbero chiamati alle armi: si troverebbero senz'altro in mille difficoltà, ma sarebbero comunque costretti a modificare radicalmente modo di pensare e di agire grazie al rigore del regime militare. La pandemia imporrebbe pari rigore o addirittura superiore, ma non vi è nessun sergente di ferro che lo imponga; una società civile può solo chiedere senso di responsabilità. I necessari provvedimenti restrittivi resi possibili dalle norme costituzionali, senza quel senso di responsabilità, perdono una consistente fetta di efficacia. È quello che sta accadendo, con gli effetti devastanti che sgomentano. Tutti i nodi, prima o poi, vengono al pettine, come ampiamente previsto da Le Bon, per esempio, il quale nell'opera citata descrive in modo magistrale i limiti dell'istruzione scolastica, concludendo che già quelli del suo tempo giustificano le più tristi previsioni: "La scuola, oggi, forma degli infelici, degli anarchici e prepara, per i popoli latini, epoche di decadenza". Mai previsione fu più azzeccata e, purtroppo, a distanza di oltre un secolo si deve registrare addirittura un sensibile peggioramento dell'istruzione giovanile, che risente ancora di tutte le lacune individuate dal filosofo francese. Ma ora, onestamente, non è proprio il caso di perdere tempo in analisi sociologiche protese a comprendere le cause remote delle distonie giovanili: basta e avanza il tanto già scritto. Ora è tempo di agire per fermare la deriva. Questa è una guerra: facciamo scendere in campo i sergenti di ferro. Il PIANETA ALLO SBANDO E LA PANDEMIA COME TERMOMETRO PER MISURARNE LA FEBBRE Alle ore 22 del quattordici novembre il Covid-19 registra i seguenti dati: 53.164.803 contagiati; 1.300.576 morti. L'Italia è al decimo posto per numero di contagiati, dopo USA, India, Brasile, Russia, Francia, Spagna, Regno Unito, Argentina e Colombia; al sesto posto per numero di morti, dopo USA, Brasile, India, Messico e Regno Unito. (Il Messico, all'undicesimo posto per numero di contagiati, registra oltre 50mila decessi in più rispetto al nostro Paese). I dati riportati dalle statistiche ufficiali, comunque, ancorché significativi e spaventosi, vanno presi con le molle e considerati sottostimati, soprattutto per molti paesi non muniti di efficaci strumenti di rilievo. La pandemia genera angoscia, paura (con annessa rimozione in taluni casi), senso di

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smarrimento e di impotenza. Il tutto, però, viene amplificato da una evidenza non meno terribile: un pianeta che registra, quasi dappertutto, profonde distonie sociali, diffuso malessere, un profondo gap tra minoranze ricche e popoli che vivono sotto la soglia di povertà, classi dominanti di pessima qualità. Non solo: il paradosso regna sovrano, generando maggiore sconcerto. In Occidente non ci stanchiamo mai di celebrare il mito della democrazia rappresentativa e poi vediamo che paesi in cui essa sia una pia illusione riescono meglio di tutti gli altri a gestire la pandemia, magari dopo essere stati i responsabili della loro diffusione. Per la Corea del Nord è davvero difficile credere alla bufala "zero contagi", ma in ogni caso non devono essere molti, per essere così abilmente occultati. L'Occidente scricchiola sotto i colpi inferti da un liberal-capitalismo in discesa libera verso derive incontrollate, grazie anche al sostegno assicurato da milioni di persone abbagliate dai falsi miti del consumismo e in marcia inconsapevole verso il precipizio, come se fossero zombi incapaci di vedere cosa si dipani sul loro barcollante cammino. Il declino degli USA sembra irreversibile e, se da un lato si è rivelata davvero insopportabile la pantomima relativa alle ultime elezioni presidenziali, con il presidente uscente sempre più somigliante a un comico da circo equestre e un mediocre subentrante che dovrà rassegnarsi a fungere da ennesimo pupazzo nelle mani delle lobby, dall'altro atterrisce e sgomenta vedere ben settanta milioni di statunitensi capaci di votare per la macchietta e due improbabili contendenti in competizione, come se in USA mancassero delle persone con i numeri giusti per sedersi nella stanza ovale. Nota: Al Gore, per esempio, ignominiosamente "fatto fuori" nel 2000 con gli imbrogli elettorali in Florida orchestrati dal fratello di Bush Jr., governatore in carica, sarebbe ancora spendibile, considerato che è più giovane di entrambi. Il suo accantonamento la dice lunga su come i democratici, tutto sommato, su certi temi scottanti come lotta alle armi, ambiente, assistenza sanitaria, non siano molto dissimili dai loro avversari repubblicani. Una pochezza che traspare anche nella scelta dei candidati al congresso: in New Mexico, per esempio, era candidata la brillante Valerie Plame, ex agente CIA che aveva scoperto la bufala delle armi di distruzione di massa in Iraq, ma è stata sconfitta alle primarie - e quindi dagli elettori del suo partito - a vantaggio di un candidato qualitativamente meno rappresentativo. (Vedere "CONFINI" nr. 40, gennaio 2016, "Venti di guerra, pag. 4).

L'America Latina continua a essere preda di bande delinquenziali capaci di proiettare i propri affiliati ai vertici delle istituzioni, si può ben immaginare con quali risultati per la stabilità politica, economica e sociale. Lo stesso dicasi per l'Africa, da sempre preda prediletta per bande interne e predoni esterni. Il Medio Oriente è una continua polveriera che non trova pace e proprio in questo periodo dobbiamo registrare l'ennesima ignominiosa aggressione al meraviglioso popolo armeno, costretto a cedere parte del suo territorio dall'Azerbaigian nell'indifferenza assoluta dell'Occidente, che ha preferito girare la faccia dall'altra parte per timore dello scomodo alleato turco, sostenitore degli azeri nella facile guerra di conquista contro un popolo virtuoso ma non certo bellicoso e per giunta privo di mezzi.


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Quali sono i paesi europei che possano vantare una classe politica rispettabile? Serve riportare per l'ennesima volta la radiografia politica dell'Europa? Non serve. In Italia, dove evidentemente un paradosso è poca cosa, ne dobbiamo registrare almeno due: non si riesce a mettere nell'angolo la sinistra nemmeno quando gli elettori la bocciano elettoralmente e in questo periodo dobbiamo anche ringraziare Dio, per chi ci crede, o il solido binomio tra caso e necessità, sancito nel celebre saggio di Jacque Monod, per non dover patire la presenza nel governo di soggetti che avrebbero reso la pandemia ancora più drammatica di quanto non lo fosse per sua natura e per i limiti di chi la stia gestendo, a livello centrale e periferico. PROSPETTIVE PER UN NUOVO ORDINE MONDIALE Un nuovo ordine mondiale si rende necessario e anche in fretta. Il Pianeta non può attendere. Ma è davvero possibile, anche in tempi medio-lunghi, realizzare un radicale processo di cambiamento che, sfruttando gli insegnamenti del passato, consenta agli esseri umani di costruire un futuro migliore? E soprattutto: a chi toccherebbe farsi carico di una rivoluzione epocale di siffatta portata? Apparentemente sembra di entrare nell'insolvibile dilemma del gatto che si morde la coda: i popoli si sforzano, generazione dopo generazione, di delegare il potere a soggetti che, in linea di massima, disattendono le aspettative e vengono sostituiti da altri soggetti che si comportano allo stesso modo, o addirittura peggio, soprattutto quando, tramutatisi in uomini forti, trasformano la democrazia rappresentativa in un simulacro di libertà o in un'ancora più confortevole (per loro) dittatura. L'immarcescibile e caustico Gustav le Bon ha le idee chiare in merito: "È ancora diffusa l'idea che le istituzioni possano rimediare ai difetti della società, che il progresso dei popoli sia il risultato dei loro governi e che i cambiamenti sociali si possano operare a furia di decreti. […]Le esperienze accumulate non sono valse a rinnegare questa utopia. Invano i filosofi e storici hanno cercato di dimostrarne l'assurdità (in particolare Tocqueville e Rousseau, oltre Max Weber, che però non può essere incluso tra coloro cui faccia riferimento, per motivi anagrafici; per quanto riguarda gli storici di sicuro si riferisce a Ernest Lavisse e Hippolyte Taine e forse ad altri che il modesto autore di questo articolo non riesce a individuare. N.d.r.). Tuttavia, non è stato difficile per loro provare che le istituzioni sono figlie delle idee, dei sentimenti e dei costumi e che non si possono mutare idee, sentimenti, costumi, riscrivendo i codici. Un popolo non sceglie le istituzioni che gli aggradano, come non sceglie il colore dei suoi occhi e dei suoi capelli. Le istituzioni e i governi rappresentano il prodotto della razza". Sostituendo il termine "razza" con uno più appropriato, sia esso "cittadini" o "popoli", possiamo comparare il profondo assunto analitico a quello semplicistico, ma efficace, dei giorni nostri: la classe politica riflette nel bene e nel male (più nel male) la natura di chi la elegge. Come uscirne? È una domanda per ora destinata a restare senza risposta, anche perché l'unica che affiora istintivamente è così brutta da venire automaticamente cancellata dalla mente: prima o poi si verificheranno eventi così drammatici da indurre l'umanità, per lo spirito di sopravvivenza, a dare realmente vita a un nuovo ordine mondiale.

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Nei primi mesi di pandemia non sono mancate le asserzioni di eccelsi intellettuali sulla possibilità di un radicale cambiamento, in positivo, quando tutto sarà finito. Di fatto la pandemia costituirebbe quell'evento drammatico in grado di generare un nuovo ordine mondiale. Oggi, però, già si assiste a un sensibile affievolimento di questo convincimento, alla luce dei tanti comportamenti insulsi che si registrano in ogni strato sociale. Qualcosa di più sconvolgente, quindi, deve accadere, affinché le masse trovino il giusto stimolo per un chiaro cambio di rotta. Nell'attesa non ci resta che continuare a denunciare fino alla noia i mali del mondo, anche se la narrazione progressivamente assume le sembianze di quei vecchi ritornelli che nessuno canta più. Lino Lavorgna


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DI TRE, ALMENO UNO Non nego di aver avuto una qualche titubanza dell'affrontare l'argomento di questo mese ma è innegabile che la mente mi spingesse verso la pandemia in atto. E, in effetti, non nego altresì che, soprattutto nella fase iniziale, quella in coincidenza con l'avvio del cosiddetto lockdown, un qualche paura mi prese. La natura indeterminata del virus e i suoi effetti, i sintomi addirittura invalidanti, la durata notevole della degenza e, tra le possibili evoluzioni, la morte non furono aspetti che impattarono su me in modo razionale: una situazione emotiva, quella di allora, che mi creò tutta una serie di gravosi pensieri tra i quali non ultimi il timore di una possibile sofferenza personale e di quella per i miei cari. Ebbene, sì. Ho vissuto grosso modo un mese nel classico 'pallone'. Non mancava giorno che non mi aggiornassi sull'evoluzione della pandemia, in Italia e all'estero, sui pareri degli esperti, sui consigli per contenerla, sui rimedi per allontanarla, sui succedanei per combatterla. E più leggevo e più mi documentavo e più il gravame psicologico aumentava perché deducevo che la 'malattia' non aveva precedenti per cui ogni cura appariva improbabile, che era talmente infida da confondere persino i virologi più accreditati e che, nella sua bizzarria, poteva presentarsi come un comune raffreddore o come una polmonite fulminante. Il fatto, poi, di correre il rischio di non respirare arrivava a terrorizzarmi, ad impedirmi di dormire, a provare a trattenere il fiato fino ad un minuto per misurare empiricamente la mia capacità polmonare, a misurarmi almeno una volta al giorno la temperatura. Certo, una forma di psicosi che si tradusse in quella che successivamente venne chiamata la 'sindrome della capanna': e le uscite, limitate allo stretto indispensabile, erano funzionali alla sopravvivenza (alimentare e farmacologica), facendo bene attenzione, munito di doppia mascherina, a non toccare a mani nude carrelli, prodotti e quant'altro, e disinfettandomi le mani guantate, prima e dopo gli acquisti. E, una volta tornato a casa e gettati i guanti, lavarmi le mani almeno per un minuto con abbondante saponata. Non parliamo, poi, di rapporti con altre persone: al massimo, un saluto da lontano. Col passare del tempo, tuttavia, cominciai a notare delle incongruenze: intanto, una gestione che non trovo altro aggettivo per qualificare se non 'confusa': certo la sconoscenza del virus ma l'atteggiamento di risposta mi pareva giusto che fosse univoco. Partito il 'circo' con il primo DPCM del 31 gennaio scorso con il quale veniva dichiarata l'emergenza, è stato un susseguirsi di atteggiamenti contrastanti tra governo e regioni, ognuno di questi munito di soggetti validi, pensavo. Per cui, cominciò a farsi strada in me l'idea che qualcosa

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non andasse, a finire tra le varie possibilità che fosse la gestione a non andare o che non andassero i gestori. Non voglio citare la 'farsa' delle mascherine né menzionare i vari testi di autocertificazione che, alla fine, ebbero la capacità di farmi prorompere in un sonoro, sentito invito a terzi interessati ad andare ubi oportet, avrebbero detto i nostri antichi padri; certo è che quella fu la goccia che fece traboccare il vaso delle perplessità prima e del dubbio poi. Né desidero soffermarmi sulle affermazioni di acclamati virologi che, a distanza di un breve lasso di tempo, mutarono il contenuto del loro parere addirittura di 180 gradi. L'aspetto che, comunque, mi lasciò basito fu quello di non effettuare autopsie sui dichiarati deceduti per Covid. Appresa questa decisione, non so bene da chi assunta, mi chiesi da totale ignorante della medicina come potesse essere possibile combattere un male senza indagare sugli effetti che questo produceva in un corpo fino a condurlo a morte. E, a lato, forte delle letture di tanti libri di narrativa, mi domandai perché non potesse essere usato il sangue dei contagiati sopravvissuti quale 'vaccino'. Fatto si è che da quel momento i dubbi si sono susseguiti a ritmo serrato con la sarabanda delle posizioni istituzionali centrali e periferiche dissimili, i pareri contrastanti, le cure discrepanti fino ad arrivare ad un fatidico giorno dei primi di maggio dove dalla lettura casuale di un quotidiano appresi che da un'autopsia, forse fatta di straforo, tra gli effetti più devastanti del virus sembra non ci sia quella dichiarata infiammazione degli interstizi polmonari bensì una tromboembolia venosa generalizzata; al che mi venne da pensare a quali effetti avessero prodotto le intubazioni con la ventilazione forzata in polmoni che comunque non 'respiravano' per la presenza di bolle d'aria. Lì, la mia indignazione solitaria raggiunse un livello tale che ritenevo di aver toccato l'acme ma, siccome al peggio non c'è mai fine, lessi appena qualche giorno dopo che in strutture sanitarie non ricordo se di Mantova o di Pavia, addirittura sottobanco per non incappare in qualche ira, si praticava con successo il plasmaferesi: il sangue dei contagiati guariti iniettato nei contagiati. Là, lo sdegno esplose a livelli finora sconosciuti. E, nelle mie manifestazioni di sdegno, quasi come in una sorta di catarsi, imprecai per le passate personali paure, per gli affanni nella compilazione delle sempre difformi autocertificazioni, per la ricerca demenziale delle mascherine, per la durata della 'chiusura' generalizzata totalmente diversa anche in durata da quella effettuata in altri Stati, per le destabilizzanti posizioni istituzionali diverse per livello, per i guasti che questa improvvida gestione avrebbe procurato alla nostra economia, in nulla rincuorato dalla ridda di assicurazioni di aiuti e di sostegni che, come volevasi dimostrare, hanno impiegato mesi per giungere a destinazione. L'unico periodo che ebbe la capacità di suscitarmi delle risa, sebbene di scherno, fu quello della contrattazione con l'Unione Europea. Non ho, in verità, dedicato molta attenzione a quelle vicende dopo aver visto lo stocastico andazzo delle trattative ma, comunque, pensare che la cara vecchia Europa potrà intervenire non prima dell'autunno del prossimo anno è un fatto che, sarcasticamente, mi rincuora molto. E, in quel periodo, alla mia indignazione si aggiunse la nausea: pensare che vi potessero essere dei soggetti pubblici, con passati e presenti incarichi, che, stante ai massmedia, avessero non


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dico 'approfittato' ma quantomeno non prestato la massima attenzione nelle forniture del materiale medicale in un momento del genere, mi dava il voltastomaco e la misura di quale livello avesse raggiunto questo Paese sia in termini di moralità che di qualità degli amministratori. In ogni caso, dopo l'esplosione liberatoria del mio sdegno, cominciò per me un periodo quasi serafico: ascoltavo i bollettini con orecchio disattento, mi spingevo persino ad abbracciare (con mascherina) amici e parenti, mi recavo a visitare frequentemente i miei cari, dispiaciuto di averli trascurati nei mesi precedenti. Anche l'approssimarsi del periodo estivo e la fine del lockdown ebbero i loro positivi effetti: l'estate sembrava aver fugato il 'buio' del trimestre appena trascorso, gli ospedali si vuotavano, i guariti crescevano di numero, la ricerca dei vaccini era in corso, gli esercizi riaprivano, la gente tornava a sorridere. A dire il vero, gli avvertimenti che di lì a breve iniziarono sull'attesa della seconda ondata in autunno, non produssero in me particolari apprensioni: pensavo che, ormai, il morbo era conosciuto, che le morti ad esso attribuite erano per l'aggravarsi di importanti patologie al seguito, che le strutture sanitarie erano state potenziate e che la seconda ondata, qualora ci fosse stata, sarebbe stata gestita con razionalità e capacità, non foss'altro che per l'esperienza maturata. Ma ancora una volta ho dovuto ricredermi. Siamo in piena seconda ondata e sembra di assistere all'improvvisazione del mese di marzo, alle correzioni continue della rotta tra un susseguirsi di DPCM, alle diatribe tra poteri istituzionali, alla crisi degli ospedali evidentemente non potenziati, alla disperazione dei sanitari chiaramente non ampliati come numero, alle chiusure a macchia di leopardo in base a criteri a dir poco astrusi. Un inciso.audacia Mi ritengotemeraria una personaigiene in gradospirituale di capire intanto l'italiano e, in conseguenza, il senso di ciò che leggo. Ebbene, per masochistica curiosità sono andato a cercarmi i tanto sottolineati 21 punti in base ai quali la cabina di regia composta da rappresentanti del Ministero della Salute, dell'ISS, e di tre Regioni, hanno stabilito i noti colori di classificazione delle Regioni e i relativi livelli di restrizioni. Ebbene, per un giudizio di merito li trascrivo di seguito: I 21 indicatori sono divisi in 3 'capitoli'. Il primo è sulla capacità di monitoraggio, e considera: 1.1 Numero di casi sintomatici notificati per mese in cui è indicata la data inizio sintomi e totale di casi sintomatici notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo. 1.2 Numero di casi notificati per mese con storia di ricovero in ospedale (in reparti ordinari) in cui è indicata la data di ricovero e totale di casi con storia di ricovero in ospedale notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo. 1.3 Numero di casi notificati per mese con storia di trasferimento/ricovero in reparto di terapia intensiva in cui è indicata la data di trasferimento o ricovero in Tl e totale di casi con storia di trasferimento/ricovero in terapia intensiva notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo. 1.4 Numero di casi notificati per mese in cui è riportato il comune di domicilio o residenza/totale di casi notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo.

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1.5 Numero di checklist somministrate settimanalmente a strutture residenziali sociosanitarie (opzionale). 1.6 Numero di strutture residenziali sociosanitarie rispondenti alla checklist settimanalmente con almeno una criticità riscontrata (opzionale). Il secondo riguarda invece la capacità di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti: 2.1 Percentuale di tamponi positivi escludendo per quanto possibile tutte le attività di screening e il "re-testing" degli stessi soggetti, complessivamente e per macro-setting (territoriale, PS/Ospedale, altro) per mese. 2.2 Tempo tra data inizio sintomi e data di diagnosi. 2.3 Tempo tra data inizio sintomi e data di isolamento (opzionale). 2.4 Numero, tipologia di figure professionali e tempo/persona dedicate in ciascun servizio territoriale al contact-tracing. 2.5 Numero, tipologia di figure professionali e tempo/persona dedicate in ciascun servizio territoriale alle attività di prelievo/invio ai laboratori di riferimento e monitoraggio dei contatti stretti e dei casi posti rispettivamente in quarantena e isolamento. 2.6 Numero di casi confermati di infezione nella regione per cui sia stata effettuata ima regolare indagine epidemiologica con ricerca dei contatti stretti/totale di nuovi casi di infezione confermati. Infine, il terzo capitolo riguarda i dati più concreti, ossia la stabilità della trasmissione e la tenuta dei servizi sanitari: 3.1 Numero di casi riportati alla Protezione civile negli ultimi 14 giorni. 3.2 Rt calcolato sulla base della sorveglianza integrata ISS (si utilizzeranno due indicatori, basati su data inizio sintomi e data di ospedalizzazione). 3.3 Numero di casi riportati alla sorveglianza sentinella COVID-net per settimana (opzionale). 3.4 Numero di casi per data diagnosi e per data inizio sintomi riportati alla sorveglianza integrata COVID-19 per giorno. 3.5 Numero di nuovi focolai di trasmissione (2 o più casi epidemiologicamente collegati tra loro o un aumento inatteso nel numero di casi in un tempo e luogo definito). 3.6 Numero di nuovi casi di infezione confermata da SARS-CoV-2 per Regione non associati a catene di trasmissione note. 3.7 Numero di accessi al PS con classificazione ICD-9 compatibile con quadri sindromici riconducibili a COVID-19 (opzionale). 3.8 Tasso di occupazione dei posti letto totali di Terapia Intensiva (codice 49) per pazienti COVID19. 3.9 Tasso di occupazione dei posti letto totali di Area Medica per pazienti COVID-19.1 Temo che per rispondere in modo adeguato al suddetto 'questionario' vada costituito in ogni Regione un apposito nucleo amministrativo sottoponendolo prima a corsi biennali di semantica


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su accezioni da pandemia e poi dotandolo almeno di un altro biennio di tempo per l'indagine. Comunque, se fosse possibile, oserei dire che la gestione della seconda ondata è peggiore della prima. Dal che, è cominciata a nascere in me una nuova paura: non quella suscitata dalla pandemia bensì quella nascente dalla convinzione che i nostri governanti siano non all'altezza dei loro compiti e che la loro azione sia foriera di ben altri gravosi problemi economici e sociali per il Paese. Un timore che ha iniziato a serpeggiare in me sin dalle prime avvisaglie della seconda ondata per divenire ad oggi un fiume in piena di paure che, per scaramanzia, non voglio neppure elencare. Una piccola parte della mia mente, comunque, si rifiutava fino a poco tempo fa di arrendersi a quella mia calamitosa diagnosi: forse esageravo, forse non consideravo, forse non valutavo e non ritenevo. E avrei proseguito cullando nella mia mente quella piccola scintilla di speranza se non mi fosse capitata tra le mani una pubblicazione che mi ha molto incuriosito, prima, e reso ancor più terrificato dopo. La pubblicazione in questione è un libro dal titolo e sottotitolo piuttosto esplicito, 'Scimmie al volante - L'inchiesta definitiva sulla classe politica che non ha saputo gestire 2 la crisi del Covid 19', scritto da Marco Mensurati e da Fabio Tonacci . Insieme all'esplicito titolo, ciò che colpisce è la professione e il datore di lavoro dei citati autori: il primo, Marco Mensurati, dal 1998 è un dipendente di Repubblica, un cronista. Il secondo, invece, è un 'inviato' sempre di Repubblica. Ora, se tanto mi dà tanto, non credo che ci sia da stare molto allegri. E la paura totale, sia pur di diversa causa rispetto a prima, è tornata imperiosa. Quale accidenti di futuro ci è riservato? È un pensiero che mi attanaglia e, per dirla tutta, non so a chi rivolgermi per fugarlo: tra le tante 'persone informate dei fatti' non ce n'è alcuna alla quale dare credito e nella quale confidare. Nemmeno l'opposizione che, di questi tempi, sembra partecipare al ballo delle debuttanti tra gesti di disappunto con le gote imporporate e occhiate languide, mentre il carnet si riempie. Per giunta, sono un fedele poco 'fedele', un cattolico per convenzione più che per convinzione. Comunque, a prescindere dal Covid che è divenuto ormai solo una 'fastidioso intermezzo', in qualcosa credo e per certi versi nel quale confido; un qualcosa che si dimena, tra io speriamo che me la cavo di d'ortiana memoria, un gesto apotropaico che mette in atto il classico terque quaterque palleggiatoque augello et detracto pilo usque ad sanguinem di goliardica impronta, fino a rivolgere una prece ad una Entità superiore (che comunque ci deve essere) con il più antico appello: Libera nos a malo, domine. Uno dei tre speriamo funzioni. Francesco Diacceto

Note: 1. AGI – Paolo Piergiorgi – 5 novembre 2020 2. Edizioni BUR Rizzoli settembre 2020

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HO PAGURA IO! Ho pagura io! Era questo il grido, quasi scanzonato, di un bimbo dai riccioli biondi e gli occhi chiari. Un bimbo di tre anni che sbucava all'improvviso da una stanza buia urlando "ho pagura io". Il bambino urlava, nella consapevolezza che sarebbe stato ascoltato dai presenti, attratti, inevitabilmente, dalle sue urla. I suoi genitori, per una paura ancestrale, avevano indotto il piccolo ad avere paura del buio, come accadeva a loro da bambini e prima ancora ai loro genitori. La paura del buio era uno strumento utile per evitare l'ignoto rappresentato dall'oscurità. Atteggiamento comprensibile perché, magari, nell'oscurità si celava un lupo. Ricordo con un sorriso quelle scene, ripetute mille volte, nelle quali tutti erano compiaciuti dalla reazione del bimbo, nonostante fosse inizialmente atterrito, stato lenito solo dal rassicurante sorriso dei genitori. Memore di questa esperienza mi sono fermamente opposto a coloro che tentavano di inoculare le stesse paure alla mia unica figlia, tanto da imporle il nome Libera; la paura è strumento molto utile sotto il profilo pedagogico ma, nel contempo, una sottile forma di violenza in quanto induce un bambino al timore verso tutto quello che è sconosciuto in antitesi al naturale istinto della conoscenza. Magari utile per evitare che un figlio si allontani risparmiando ai genitori una faticosa quanto angosciante ricerca, per il che parrebbe, prevalentemente, uno strumento di comodo. La paura ed il terrore, da sempre, hanno rappresentato nella società strumenti efficaci per condizionare le masse sia attraverso le coercizioni che attraverso punizioni esemplari con le quali i potenti potevano imporre la propria volontà. Il timore per una punizione divina, piuttosto che una presunta volontà popolare hanno generato veri e propri regimi del terrore anche attraverso strumenti coercitivi che portavano, sinanche, alle più estreme conseguenze; basta immaginare la caccia alle streghe, la santa inquisizione per arrivare, in epoca più recente alle urla generate dal regime del terrore in Francia. Durante il periodo della Rivoluzione francese che va dall'espulsione dei Girondini dalla Convenzione del 2 giugno 1793 alla caduta del capo del partito giacobino de Robespierre (27 luglio 1794), il potere fu dispoticamente nelle mani di Robespierre e dei suoi più stretti collaboratori, come Saint-Just e venne esercitato mediante il ricorso alla violenza sistematica contro i nemici; venne sospesa l'applicazione della Costituzione del 1793 ed il regime fu retto dal c.d. comitato di salute pubblica che si occupava praticamente, di tutto dalla diplomazia, la guerra sino alla vita economica, nonché dal Comitato di sicurezza generale che applicava le nuove leggi sui sospettati regolando l'attività dei tribunali straordinari. Venne abolita ogni attività istruttoria nonché la funzione degli avvocati difensori, attribuendo ai giurati


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una funzione apparentemente decisoria in quanto il loro voto doveva essere palese con una efficienza giudiziaria mai registrata nel diritto processuale (possiamo solo immaginare le conseguenze per quei giurati che palesemente avessero votato contro la pena capitale), introducendo il c.d. terrore giudiziario stante l'elevatissimo numero delle condanne capitali, con processi apparentemente regolari ma che rappresentavano l'antitesi del diritto processuale penale come oggi lo conosciamo. Con la restaurazione nel 1815 ci fu il c.d. terrore bianco che nei primi cento giorni si distinse per la violenza ed i giudizi si rivelarono, oltremodo, sommari frutto della vendetta con vilipendio ulteriore dello strumento giudiziario, ormai lontano parente della Giustizia. Allora la paura è strumento per giungere alla dittatura, a prescindere da qualunque imprimatur politico?….no è strumento utile di apparenti regimi democratici per sfruttare le debolezze dell'individuo a favore delle lobby e potentati economici. Oggi la paura è inoculata attraverso gli strumenti di informazione che sono controllati dai regimi democratici…basta accendere la tv e guardare le prime immagini rendendosi conto del significato di tali affermazioni. Prima dell'era covid la paura erano i nazisti, i fascisti, i negazionisti, i sovranisti e chi più ne ha più ne metta. La paura dell'oggi che si riflette nel domani, è ancora meno tangibile (in passato per ipotizzare la riorganizzazione del partito fascista bastava fare una retata nel garage di qualche nostalgico fessacchiotto per gridare al terrore), oggi è divenuta più sottile la linea tra il noto e l'ignoto laddove è sufficiente sbattere il virus in prima pagina ogni giorno per cento giorni che il gioco è fatto. Certamente il virus esiste ed è una triste verità (il numero dei decessi, specie in occasione della prima ondata, ne testimonia gli effetti devastanti) ma quanto incide sulla paura della gente, quanto piega, ancor prima delle ginocchia, le coscienze e soprattutto, quanto stato di necessità genera? La paura genera due effetti: da una parte consente alle lobby di arricchirsi a dismisura, concentrando le ricchezze in una direzione, dall'altra piega le sacche della resistenza democratica, appiattendo la società ed azzerando le differenze, eliminando un ceto medio che fungeva da cuscinetto tra il proletariato di un tempo e la nobiltà di regime, generando un sistema oligarchico e perfezionando la democratizzazione massificante che non tollera più differenze fra i ceti in una società, per far posto ai soldatini consumatori tutti uguali che consentono alle lobby di massificare i prodotti ottimizzando i profitti. E quando un popolo come il nostro, piegato dalla fame e dalla sete, incapace di fare sinanche una rivoluzione di velluto (in quanto il ricorso ad ogni e qualsivoglia forma di violenza va sempre condannato), cosa fa?.....china il capo e prono, si rivolge al potente democratico di turno porgendo umilmente la mano in attesa della prebenda! Emilio Petruzzi

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PAURA? RIMEDIO? UN CINCINNATO! Coloro che onorano di un'occhiata le mie riflessioni su CONFINI noteranno come io non tratti di politica, cioè di analisi o valutazioni delle cronache dei "palazzi", ma che di essa faccio occasionale menzione soltanto in fattispecie di incidenza antropologica o sociologica. E questo per una semplice ragione: attribuisco al concetto di "politica" significato e respiro della più elevata caratura che però molto spesso mal si concilia, ahimè, con il livello del dibattito nelle varie assemblee di democrazia parlamentare (dalla Camera dei deputati a qualsiasi assemblea consiliare di paese, tanto per intenderci). Non quindi una aspirazione verso condivise mete per un ottimale destino della nazione - in un contesto comunque di concretezza non disgiunta tuttavia da tensioni futuristiche - quanto piuttosto un costante florilegio di compromessi al ribasso in ossequio di un'"arte del possibile" alquanto deprimente. Stanze dunque per una sorta di "compensazione" attuata non per mezzo di valutazioni oggettive di buona volontà, quanto piuttosto di sfoggio di ipertrofici ego appena dissimulante interessi di parte e personali ambizioni. E tramite una tale alchimia, lasciare intendere di mirare unicamente ad un presunto "bene supremo" dell'intero paese. Oggi però credo che sia giunto il momento emergenziale per parlare di POLITICA e cioè di vera e propria gestione della cosa pubblica mirata ad un autentico bene comune che abbia, come sbocco virtuoso, non il trionfo di parte e l'affermazione della propria visione di schieramento nei confronti della diretta controparte dialettica, quanto una vera e propria profilassi di terapia sociale. Unico obiettivo? Null'altro se non che il trionfo sul male incombente (pandemia Covid 19) e salvaguardia della salute (spirituale, fisica ed economica) del paese intero. In caso negativo, i cittadini sarebbero allora - questa volta si! - più che legittimati a lasciarsi sopraffare dalla PAURA nei confronti di un futuro oscuro ed indecifrabile se non altro per il fatto che, per l'uomo della strada, la sua caratura percettiva della pandemia è, purtroppo, monopolio esclusivo dei "mass media". DICTATOR (e naturalmente "absit iniuria verbis !") Gli inventori del diritto, i convertitori della legge naturale di "homo homini lupus" nel concetto opposto della difesa del diritto del debole come precipuo interesse della collettività intera (e per dirla con il motto della nostra Polizia di Stato: "sub lege libertas"), i geniali fondatori della "Res publica Populi Romani" nonché nostri illustri, seppur dimenticati, predecessori avevano concepito appunto la figura del "Dictator" cioè di colui che, quando il nemico premeva alle porte e lo Stato correva un grave pericolo, era (secondo il Dizionario di Storia Treccani):


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"Un Magistrato straordinario, fornito di imperium maius, cioè della pienezza dei poteri civili e militari. Poteva sospendere tutti gli altri magistrati. Non poteva durare in carica oltre sei mesi. Era nominato, su richiesta del Senato, dai Consoli e, più tardi, eletto dai comizi. Premetto di non essere così ingenuo dal non sapere che la traslitterazione del termine "dictator", in tutti gli idiomi del mondo contemporaneo, nella parola "dittatore" è giustamente motivo di costernazione per tutte le persone di buon senso che abitano questo nostro complesso, articolato e variegato mondo, ritenendo esse, giustamente, che la gestione dell'attuale presente (nelle sue poliedriche sfaccettature politiche, sociali, economiche e culturali) non possa essere ricondotto - pena gravi pericoli, peraltro già sperimentati in ogni tempo e latitudine - alla decisione e gestione da parte di una singola persona. Oggettivamente, sarebbe molto pericoloso. Ma desidero rassicurare il mio gentile lettore: non era affatto questo il concetto di dictator latino che si colloca infatti lontano le mille miglia da qualsiasi, duce, fuhrer, caudillo, conducator di storica memoria. Niente di tutto ciò, naturalmente. Il "dictator" romano era soltanto il temporaneo salvatore della patria, chiamato ad uno specifico compito temporale e che, a risultato raggiunto, si ritirava a vita privata e nulla di più. Fantapolitica questa nell'anno domini 2020 ? Forse si; o forse no? Cerchiamo di ragionare : - Sono stato sempre convinto che la "politica" contemporanea basata su sistemi costituzionali di generica democrazia parlamentare si occupi sostanzialmente di gestire percezioni piuttosto che fatti. E ciò indipendentemente dal fatto che tale "amministrazione" di tipo "percettivo" preceda o segua fatti reali e pertanto misurabili in concreto. Un esempio significativo? L'epidemia di Covid, per l'appunto: Flash: a) quanti sono i deceduti per infezione Covid-19, nel mondo, nel corso del corrente 2020 ? 1.200.000 persone; Flash b) quanti sono i deceduti per incidenti automobilistici, nel mondo, nel corso dell'intero 2019 ? 1.200.000 persone. Pari e patta. Ma allora - e credo sia domanda legittima per un infimo cultore di logica cartesiana quale io mi considero - perché correre a nominare (come qui da noi in Italia, per esempio) un commissario straordinario per il "Covid" e non analogo, straordinario demiurgo per l'"automobile"? Semplice: perché il pericolo "automobile" non viene percepito come il pericolo "Covid", considerato, sebbene a parità di impatto numerico, molto più minaccioso. Nello scenario di cui sopra (ed in particolare per quanto concerne la nostra Italia) "mala tempora currunt", sia per il governo Conte che per l'Opposizione di centro-destra. Entrambi si trovano infatti inseriti in quel gioco perverso denominato, nel mondo di lingua inglese, "catch-22", ovvero "circolo vizioso" che dir si voglia, per la serie: "come si fa, si sbaglia!". Perché mai? Analizziamo: - Il governo si trova a fronteggiare una situazione oggettivamente complessa sia per un'inedita ignoranza del fenomeno nelle sue molteplici implicazioni, sia per le sue ancora ignote ripercussioni a lungo termine in campo sanitario ed economico-sociale, mancando un possibile

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raffronto con precedenti epidemie in qualche modo comparabili. Quesiti drammatici: "nei settori portanti del fenomeno e cioè sanità, economia e socialità bisognerebbe puntare su generiche azioni frenanti (come il governo italiano sta al momento ponendo in essere) o piuttosto su altrettanto generiche accelerazioni ed, in entrambi i casi, cosa sarebbe più opportuno fare? Quale delle due alternative sarebbe, se non la migliore, almeno la meno pericolosa? Appunto, non si è sicuri. Le possibilità di indovinare o sbagliare sono, in entrambi i casi, praticamente al 50%. Troppo rischioso: un governo ed una maggioranza basati soltanto sul "consenso" ed anche, ahimè, sui sondaggi quotidiani, non possono giocarsi la propria sopravvivenza politica con passi irreversibili che, qualora errati, non consentirebbero alcun "dietro front". Certo sarebbe molto bello potersi intestare, alla fine di tutto, un bel successo di archiviazione della tragedia Covid. Ma se così non dovesse poi essere e si dovessero invece registrare soltanto disastri su tutta la linea, la morte politica degli attuali "timonieri" del paese sarebbe cosa elettoralmente certa. E quand'anche, ammesso e non concesso, i detti timonieri riuscissero a traghettare in qualche modo il paese fuori dalla crisi, non sarebbe prudente (con l'inevitabile cambiamento dei tempi che ne deriverebbe, cioè il passaggio dalla sofferenza alla gioia) sperare di puntare su una inesistente "riconoscenza" dei popoli verso i condottieri di trascorsi tempi perigliosi. La sconfitta elettorale del Churchill dell'immediato dopo guerra ne è una testimonianza eloquente. Trovarsi al governo del paese nel corso del prossimo inverno 2020/21 è dunque qualcosa che il medico della politica sconsiglierebbe vivamente. Pericolosissimo! - L'Opposizione, per parte sua, naviga anch'essa in acque perigliose. Trovasi infatti tra la Scilla dell'autodistruttivo, costante denigrare il lavoro altrui, opera sterile ed in parte gratuita in quanto ad impatto zero sull'evolvere della situazione (soltanto il governo occupa la decisiva stanza dei bottoni) e la Cariddi dell'inelegante esercizio di sparare sulla Croce Rossa governativa nel momento in cui essa è impegnata affannosamente nel tentativo di portare in salvo questo nostro disastrato paese. Alla fine della fiera ci sarà per essa ben poco di cui potersi gloriare mentre tutti quanti noi si lacrima sulle rovine della patria. Anch'essa dunque, come il governo, è costretta a sedersi allo sterile tavolo di gioco del "Catch-22". A questo punto alcune consequenziali domande: non converrebbe forse a governo ed opposizione alzarsi proprio ora da tale tavolo da gioco ed abbandonare subito una partita che si mostra evidentemente invincibile se non che a costo di un'imprevedibile, ma certamente elevato, rischio politico per entrambe le parti? Non sarebbe opportuno per entrambi riprendere la contesa politica a Covid archiviato, cioè per le elezioni politiche generali del 2022? Non sarebbe forse utile azzerare ora l'aperto confronto senza vincitori ne vinti, ma con le forze in campo ancora vive e vitali per future contese? Direi di si, ma come fare? Risposta: - Con un Governo di salute pubblica che veda insieme centro destra e centrosinistra ed in cui, comunque vadano le cose, nessuna della parti in causa potrebbe né intestarsi vittorie, né accollarsi sconfitte, in attesa appunto di tempi migliori. Nel frattempo, si vincerebbe o si perderebbe, in termini politici, tutti quanti insieme: zero medaglie, questo e vero, ma anche zero


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ferite. In sostanza nessuno pagherebbe pegno alle urne, né la politica né l'inevitabile premier, designato per la bisogna, purché egli sia scelto con oculata attenzione. E poi, Dio solo sa in quale sorta di futuro parlamento ci si troverà poi a doversi ricollocare. E dunque? - Quale Premier, allora, per un tale esecutivo di "salute pubblica"? Un colui che nella attuale stagione del politicamente "super corretto" vada preso con le ferree cautele di un planetario apprezzamento in modo di neutralizzare ogni, seppur impalpabile, sentore di attentato alla democrazia. Un individuo che vada bene per la maggioranza e l'opposizione, per la destra e per la sinistra, per il colto e per l'inclita e non tanto per sue oggettive qualità intrinseche, quanto piuttosto perche incarnazione di percepite virtù taumaturgiche o almeno condivise da tutti come tali. Posso azzardarmi a buttarla lì? Un "Dictator" del tipo "Made in Respublica Romana", un Cincinnato dei nostri giorni (ovvero Riserva della Repubblica che dir si voglia) a cui poi suvvia, i tempi sono mutati! - riservare, in segno di successiva gratitudine, non certamente aratro ed orticello, ma una ben più decorosa residenza in panoramico colle della città eterna. L'onnipresente genietto del "politicamente corretto" mi sussurra però all'orecchio la seguente domanda: "potrebbe un tale Dictator Romanus essere sintonico con i ferrei postulati della democrazia, con le colonne portanti della contemporanea correttezza politica, con il comune sentire di un popolo "sovrano" ma che, in tempo di crisi, riterrebbe opportuno che si metta un po' di sordina allo scomposto e disarticolato cicaleccio dei propri rappresentanti riuniti in assemblea legislativa?" Sarei propenso a rispondere affermativamente, anche alla luce di non lontani esempi in cui paesi di granitica solidità democratica non hanno disdegnato, in momenti perigliosi per la patria, il prevalere di una personalità (ferrata in sintesi politica ed in indirizzo programmatico) da ergere a referente, sia simbolico che operativo, per tirar fuori il paese dalle secche della Storia. Dicono qualcosa, ad esempio, i nomi di Roosevelt, Churchill, De Gaulle, Thatcher ed avvenimenti storici come guerra mondiale, sollevamento coloniale, disordini sociali, crisi energetica, conflitto d'oltremare, in cui è stato necessario stiracchiare appena qualche dettato costituzionale per superare le crisi e, subito dopo aver salvato il paese, rientrare nei ranghi della più assoluta ortodossia senza alcuna velleità personale di protrarre il gioco all'infinito restituendo ai cittadini una democrazia, per dirla alla Petrolini, "più bella e più forte che pria"? A questo punto esco allo scoperto e mi azzardo a gettare là un nome: Mario Draghi, e lo faccio alla luce di una personale linea di pensiero che, qui di seguito, mi permetto di illustrare: Premessa n° 1: Non ho mai incontrato l'ex presidente della BCE e so di lui soltanto quello che ho potuto apprendere dai giornali; Premessa n° 2: Con obiettività, e per quanto io possa essere a conoscenza dei fatti soltanto attraverso i "mass media", non mi sottraggo dall'inquadrare la sua prestigiosa vita pubblica nei due estremi di un pendolo oscillante tra un opaco coinvolgimento (crociera sul "Britannia" di inizi anni '90?) in eventi economici nazionali non del tutto forieri di chiari vantaggi per il nostro paese e, dall'altro invece, la positiva gestione di quel "quantitative easing", da parte dell'istituzione

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bancaria di Francoforte, di cui l'Italia ha certamente beneficiato in un momento di particolare difficoltà economico-finanziaria. Alle premesse di cui sopra, seguono le seguenti quattro considerazioni : Considerazione n°1 : Dato il prestigio internazionale di cui la persona gode, ritengo sia impensabile che Mario Draghi possa considerare la guida di un governo dell'Italia che non sia sostenuto da un granitico accordo di legislatura (o di quel che ne resta) da parte di tutto l'arco parlamentare, nessuno escluso (un fenomeno tipo l'erratico Scilipoti sarebbe, in tal caso, del tutto inconcepibile). Il patto politico avrebbe, la seguente, semplice caratteristica: discorso programmatico: "io, Mario Draghi, vi tolgo ogni rogna di tipo politico, economico e sociale derivante dal Covid e dalle sue nefaste ripercussioni in termini di generale tenuta del paese e conseguente impatto alle urne e così voi, Deputati e Senatori, non sarete più né governo, né opposizione, ma condividerete, nel bene e nel male tutte le conseguenze della pandemia, come qualsiasi altro "gruppo" di cittadini. Ma, al contempo, voi, Parlamento, seguirete tutte le mie indicazioni". Considerazione n° 2: Possibile discorso di presentazione del proprio governo alle Camere: "Dato inoltre che voi tutti, Deputati e Senatori, non sareste mai in grado di accordarvi su alcun piano decente di proposte concrete per l'utilizzo dei finanziamenti del "Recovery fund", soltanto io, Mario Draghi appunto, potrei essere l'efficace cinghia di raccordo tra Roma e Bruxelles (che conosco peraltro molto bene!). Potrei svolgere infatti il ruolo chiave di competente suggeritore, in Italia, ed efficace mediatore, in Europa, per garantire credibilità ai proposti programmi di spesa per la ricostruzione post-pandemica assicurandone il relativo finanziamento comunitario. Temo infatti che, in caso contrario, detto finanziamento verrebbe a concretizzarsi in un lungo, defatigante balletto di proposte, obiezioni e controproposte tra l'Italia e l'Europa. Considerazione n° 3: E' evidente, peraltro, che un tale eventuale ruolo nazionale italiano dell'ex presidente della Banca Centrale Europea non potrebbe non considerare un'adeguata contropartita. E cosa potrebbe esserci in Italia di sommamente appetibile se non che il mitico colle del Quirinale per una persona le cui possibili aspirazioni in ambito internazionale potrebbero ancora essere, al momento, quasi illimitate? Il Quirinale è forse il più bel palazzo del mondo, il settennato è blindato, i corazzieri sono elegantissimi, le migliaia di dipendenti in servizio sono a disposizione e dopotutto, terminato l'impegno ad appena ottant'anni d'età, vi sarebbe ancora, per un personaggio di tal caratura, un'ampia prateria di opportunità internazionali. Al riguardo, non va neanche tralasciata la seguente considerazione: nel 2022 l'attuale parlamento sarà in grado di eleggere il nuovo Capo dello Stato soltanto a seguito di una significativa convergenza (non facile, ma i numeri, purtroppo, sono quelli) tra maggioranza ed opposizione. Un presidente Draghi eletto in modo compatto a seguito di un precedente accordo politico, libererebbe, con benefico anticipo rispetto a detta ineludibile scadenza, il campo anche da una tale potenziale impasse.


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Considerazione n° 4 : Dato infine che il prossimo parlamento nazionale sarà anche figlio dello sciagurato referendum sulla riduzione dei membri di Camera e Senato, un nuovo ed inedito Presidente - svincolato dalle precedenti Repubbliche (prima, seconda oppure terza che sia) e cesoia tra vecchia e nuova leadership dell'universo politico-istituzionale del paese - potrebbe essere un vantaggio per il consolidamento di nuovi amalgami di legislatura. P.S. (…… dopo di che, come paese sovrano, saremmo naturalmente finiti, ma questa, comunque, …. è un'altra storia …. !) Antonino Provenzano Roma 05/11/2020

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COSA CI DICE IL VOTO AMERICANO La corsa per la presidenza degli Stati Uniti è stata vinta da Joe Biden. Forse. Già, perché a una settimana dalla chiusura delle urne non si ha l'assoluta certezza del risultato. Il candidato dei democratici parla da presidente. Donald Trump, il potenziale sconfitto, promette battaglia legale perché, stando alle sue fonti sul campo, la vittoria di Biden sarebbe frutto di una truffa elettorale. Sul banco degli imputati è stata messa la modalità del voto postale che configura scenari opachi, se non inquietanti. C'è un paradosso che mina la solidità del sistema democratico americano: nelle urne avrebbe prevalso Trump ma il voto postale ha ribaltato il risultato. Chiunque si trovasse al posto del presidente in carica avrebbe di che negare la vittoria all'avversario. Spetterà alle corti di giustizia, fino alla massima istanza della Corte Suprema, dipanare la matassa. La questione potrebbe non avere peso sostanziale se non fosse per un aspetto di fondo balzato in drammatica evidenza: la crisi del sistema democratico fondato sulla sovranità popolare. La vittima non è l'uno o l'atro candidato ma un'idea che ha retto nell'emisfero occidentale nell'ultimo secolo, almeno dalla fine del Secondo conflitto mondiale. Giusto o sbagliato che fosse, in particolare nell'Europa devastata dalle conseguenze dei totalitarismi del primo Novecento, si era affermato il mito democratico, portato sulla punta della baionette degli eserciti alleati, ad eccezione di quelle sovietiche, secondo il quale il benessere, la pace, lo sviluppo, il progresso, avrebbero preso piede nelle società capitaliste moderne mediante il consolidamento della sovranità popolare, esercitata nelle forme prescritte da impianti costituzionali di ispirazione liberale. I cittadini avrebbero espresso il proprio volere sovrano attraverso il voto, in tal modo partecipando attivamente a determinare i destini della comunità nazionale di appartenenza. La procedura elettorale sarebbe stata il momento sacrale di quella speciale liturgia laica che materializza il supremo concetto di libertà. Gli italiani tale concetto lo ritrovano scolpito nella Carta costituzionale che, all'articolo 48, annovera l'esercizio del voto tra i doveri civici del cittadino. Proprio per la loro centralità nella vita di una struttura complessa qual è uno Stato nazionale, le procedure elettorali sarebbero state estremamente rigorose nel certificare l'effettiva volontà degli elettori. Per estensione, finora si è ritenuto che il medesimo principio valesse in tutte le altre democrazie, in particolare in quella del Paese guida dell'Occidente. Oggi scopriamo che non è così. Quanto meno, che non lo è più. Il sistema elettorale negli Stati Uniti può essere manipolato per rispondere a istanze eterodosse rispetto al primario dovere di garantire trasparenza e legalità all'espressione della volontà popolare.


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Intendiamoci, non vogliamo insinuare che negli Stati Uniti il voto sia stato truccato, perché non abbiamo elementi fattuali per asserirlo. Tuttavia, la sola possibilità che il risultato finale possa essere inquinato dal conteggio di schede elettorali pervenute ai seggi dopo la chiusura degli stessi; che il voto per posta non assicuri la necessaria tutela della libertà e della segretezza della pronuncia dell'elettore; che non si abbia alcuna certezza sull'identità delle persone che hanno spedito le buste contenenti le schede; che in alcune realtà, come lo Stato-chiave della Pennsylvania, si siano accettate schede prive del timbro postale, getta un'ombra sinistra sull'esito finale. Nel sistema elettorale statunitense la modalità del voto postale è stata pensata per consentire ai suoi tanti cittadini impegnati all'estero per scopi diplomatici, militari o commerciali di esercitare il diritto di voto. Tuttavia, in questa tornata si è davvero esagerato se si considera la mole impressionante di buste arrivate via posta. La giustificazione è che il Covid avrebbe tenuto la gente lontana dai seggi. Ma il pretesto non regge alla verifica del buon senso, soprattutto se si considera che la distorsione del principio derogatorio è stata tale da consegnare alla storia il candidato democratico Joe Biden come il più votato di tutti i tempi, nonostante la sua personalità poco carismatica. Poi, ci sono i paradossi che lasciano sgomenti come nel caso del Wisconsin, analizzato da Federico Punzi su "Atlantico". Scrive Punzi:" C'è un'altra anomalia riscontrata nel voto in Wisconsin. Su 3.684.726 di registrati al 1 novembre, i voti contati sono stati 3.288.771, un'affluenza strabiliante dell'89 per cento, anormale sia rispetto agli stati vicini sia rispetto allo storico del Wisconsin, anche considerando la specificità di questa elezione. A Milwaukee, in 7 seggi, l'affluenza sui registrati (sempre al 1 novembre) ha superato il 100 per cento, e in 2 seggi il 200 per cento. Ma in Wisconsin ci si registra anche il giorno del voto, quindi i registrati potrebbero essere molti di più rispetto al 1 novembre, il che porterebbe l'affluenza a livelli più realistici". In Italia un'anomalia del genere avrebbe fatto gridare al golpe. Alla fine, Biden la spunterà per ragioni di opportunità politica che esulano dalla logica del conteggio aritmetico delle preferenze ma la sua presidenza sarà da subito una "anatra zoppa", non soltanto perché, dopo gli esiti del ballottaggio in gennaio in Georgia per la designazione di due senatori, potrebbe avere contro il Senato, altra stranezza, a maggioranza repubblicana e una Corte Suprema con un orientamento fortemente conservatore, ma perché sul suo mandato aleggerà lo spettro dell'usurpazione. E il sospetto sarà nutrito e crescerà in quella metà della popolazione che ha votato per Trump, che esprime una vena sovranista radicata nella società americana e che non si rassegnerà a vedersi defraudata della vittoria. Di fronte a un pasticcio di tali proporzioni chiediamoci: a chi gioverà un esito così dubbio? Evidentemente a tutti quei potentati economici e sociali che si sono prefissi un unico obiettivo: cacciare Trump dalla Casa Bianca, nella fallace illusione che ciò sarebbe bastato per estirpare il trumpismo dal cuore pulsante dell'America profonda. Basta leggere i commenti encomiastici dei media americani, che sono stati in blocco la prima linea d'attacco al male assoluto impersonato dal "sovranista" Trump, per farsi un'idea del clima in una nazione che si è consegnata alla difesa degli interessi non dei più deboli ma dei più forti.

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Di rimando, anche nella vecchia Europa ha ripreso fiato la narrazione vomitevole dell'esercito del "bene" al quale ogni mezzo è consentito per colpire il "male". Qui sta il punto di rottura del sistema democratico: la volontà popolare può essere ignorata, come avviene in Italia, o pervertita, come probabilmente si dimostrerà essere accaduto negli States, se si persegue un fine giudicato eticamente superiore? E chi lo decide chi sia moralmente accettabile e chi no? È in corso nelle società capitalistiche un processo di sostituzione della volontà popolare con una nuova forma di aggregazione del consenso che emargina il cittadino a vantaggio degli interessi di gruppi di potere egemoni, che siano economico-finanziari, mediatici o d'opinione, all'interno delle dinamiche sociali. La sovranità popolare è degradata a simulacro di una concezione di democrazia che affida il diritto di scelta del decisore politico non già alla somma delle volontà espresse dai singoli cittadini ma al peso sociale d'insiemi complessi di poteri stratificati. La vicenda elettorale americana ci proietta in uno scenario, al momento non chiaramente definito e ancor meno codificato, nel quale il voto si pesa e non si conta. Dovremo cominciare a pensare che, a distanza di trent'anni dal crollo del comunismo, sia giunta l'ora che il ciclo democratico stia tramontando nelle sue architetture tradizionali. D'altro canto, nelle nuove forme con le quali si rappresenta, l'idea stessa di democrazia esce sfigurata. Sarà un cambiamento che a qualcuno potrà piacere. Non siamo tra quelli. Cristofaro Sola


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UN’ELEZIONE SUL DESTINO DEL MONDO Cari amici lettori, è arrivato il momento di parlare delle elezioni americane, un evento che potrebbe segnare la fine della democrazia e della civiltà occidentale oppure arrestare questo declino. In verità, anche se i media di qua e di là dall'oceano plaudono al trionfo di Biden, l'ultima parola non è ancora detta. Altre volte in passato ci sono stati ricontrolli delle schede scrutinate, ma nessuno se n'è indignato, perché a chiederli era il candidato democratico. Con la differenza, non del tutto irrilevante, che in passato non c'era mai stata una così forte puzza di brogli. Io spero che, grazie alla Corte Suprema, si cercherà di far luce su quel che accaduto e spero, anche se non ne sono convinto, che il Tycoon resti alla Casa Bianca. Voi potreste chiedermi perché e la risposta è semplice: perché Trump non ha fatto guerre. Vi par poco, considerato che Biden è il vice di quell'Obama (vergognosamente impegnatosi nella campagna elettorale) che ebbe, a priori e prescindere, il Nobel per la pace e poi fece guerre a gogò. Ma in gioco c'è molto di più: in pericolo non è solo la pace, ma la civiltà e persino l'umanità. Biden è più vecchio di quanto sia Trump adesso e ancor più vecchio di Trump quando fu eletto. Biden è un personaggio sbiadito, del quale si sa assai poco. Biden ha ripetuto il leit motiv presidenziale del "Presidente di tutti gli americani", cosa piuttosto umoristica dopo i quattro anni che la guerra dei democratici al presidente in carica ha esasperato gli animi e prodotto una spaccatura non troppo distante da una guerra civile. Biden non rappresenta l'America profonda, che ha votato in massa per Trump, il quale ha avuto quattro milioni di voti (puliti) in più rispetto a quattro anni fa. Davvero incredibile, se si rammentano le profezie del media di qua e di là dall'oceano che, fino al giorno delle votazioni, hanno immaginato un crollo del presidente in carica, abbandonato dai suoi elettori delusi. Chi rappresenta allora Baden? Certamente le masse metropolitane degli elettori democratici, certamente i ceti più elevati, i privilegiati; ma, soprattutto, la Silicon Valley. Ci torneremo; ma intanto mi chiedo e vi chiedo se, come assume la vulgata, Trump sia un bieco reazionario di destra, nemico del popolo, e Biden un esponente della sinistra vicina ai lavoratori. Silicon Valley. E qui entra in gioco il covid, che secondo la vulgata avrebbe danneggiato Trump, e l'atteso vaccino, che tanto interessa i signori della vallata. Voi, amici lettori, sapete cosa pensi del famoso vaccino obbligatorio per tutti e come nei miei incubi notturni tornino il "Mondo nuovo", il brevetto di Bill Gates e l'Apocalisse di San Giovanni

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Apostolo. Trump era un ostacolo su questa strada e gli è andata bene che non ha fatto la fine di Kennedy, altro presidente sgradito ai potenti. Voi sapete bene come si sono comportati i padroni della Cnn, di Twitter e di Facebook, sempre pronti a inventare bugie contro il presidente e a nascondere le sue esternazioni. Sapete anche che questo mostro mediatico è espressione dei miliardi che i signori della Silicon Valley e dei vaccini guadagnano sulle spalle dei cittadini comuni, ridotti ad automi del consumo e sempre più espropriati delle libertà individuali. Vi siete domandati come il vaccino, atteso per un futuro non troppo vicino, sia improvvisamente comparso subito dopo la presunta vittoria di Biden? E, trovandoci in argomento, quel novanta per cento dei casi in cui il vaccino sarebbe efficace non coinciderà con la massa sterminata degli asintomatici, ossia di quelli che NON sono malati? Il covid, il vaccino, il lockdown, il mondo nuovo, i governi non eletti e quelli imposti con i brogli sono espressione di un'unica realtà che porta avanti Biden e vuole eliminare Trump. È questa la ragione per cui l'America profonda, quella della gente che ancora vuol vivere in maniera normale, ha votato Trump ancor più di quattro anni fa. Questo è il motivo per cui spero nella Corte Suprema. Questo è il motivo che la maggioranza della gente, quella incapace di pensare da sola, non capisce o non vuole capire. Pietro Lignola


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BYE BYE SANTO PADRE Si può considerare, nell'ordinamento della nostra Chiesa (Una, Santa, Cattolica, Apostolica, Romana) l'introduzione di una fattispecie di "messa in sonno" di tipo massonico? Per quanto mi riguarda la auspicherei vivamente, sia per neutralizzare l'attraversamento dell'attuale fase "vaticana" da parte di un anziano fedele quale io sono e sia per mettere in funzione "mute", almeno per un po', la "narrazione" cristiana di un Papa argentino, che più che "ponte-f-ice" tra cielo e terra mi appare come una sorta di pervicace "ponte-s-fice" tra le due entità e, sembrerebbe, a tutto beneficio soltanto di quest'ultima. Leggo su "Avvenire": "Le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio ed hanno diritto ad una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo." Parole ineccepibili e pertanto del tutto condivisibili, ma non appaiono come affermazioni da Papa, da capo e primo responsabile di quella chiesa fondata da Cristo ed a noi tramandata sulla base di scritture granitiche e ritenute pertanto dai credenti, sacre ed inviolabili. La Chiesa sembra così appiattirsi supinamente su ciò che dice lo Stato (che peraltro ha l'obbligo, se non morale, certamente giuridico, di implementare). Il Papa non può, ahimè, essere al contempo di fede cattolica e di convincimento laico. Si!, vorrei proprio entrare in una sorta di temporaneo oblio religioso in attesa di potermi risvegliare di nuovo in una chiesa a me nota, incardinata nella fede e nella tradizione che sono le facce inscindibili della medaglia del cattolicesimo stesso. Cosa mi combina l'attuale successore di Pietro (per non parlare di vicario di Cristo) in modo palesemente imprevedibile, spiazzante, direi sbalorditivo per chi - per tutta una vita - ha ritenuto che il proprio credo religioso poggiasse su un'indiscutibile base di rivelazioni soprannaturali consolidate da meditata dottrina e diuturne manifestazioni di fede sia individuali che collettive? Cosa mi sta apparecchiando Papa Bergoglio come novella "pietanza" fideistica che dovrebbe ora accompagnare gli ultimi scampoli di vita di quel me medesimo che, un tempo, fu: a) un giovinetto timorato di Dio, b) un adolescente colpevolizzato moralmente per le sue più che normali pulsioni di giovane maschio (quante volte, figliolo? E poi, lo sai, che la Madonna piange e tu diventi cieco? Ed ora mi venite a dire che libero è bello e che la Chiesa non deve contestare - in ossequio, lo ripeto, se non altro alle sacre scritture - il libero fluire delle proprie naturali pulsioni?), c) un rispettoso figliolo di una madre intelligente, colta e credente,

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d) un entusiasta chierichetto a servir messa al collegio dei Padri Gesuiti (si, ahimè, proprio loro) fucina, al contempo, sia di alta cultura che di sedimentati e dolorosi sensi di colpa - c'è qualcuno oggi che ha mai sentito parlare degli esercizi spirituali per adolescenti redatti a suo tempo da Sant'Ignazio di Loyola? - funzionali soltanto a penalizzare qualsiasi "joie de vivre"? E no, Santità, "pacta sunt servanda"! Lei non può, quasi alla fine della mia partita esistenziale, cambiarmi le carte in tavola, far intendere che: "si, queste erano le regole, ma tanto tempo fa, ora si procede in altro modo!". Ciò che un tempo era ufficialmente vietato, o meglio aborrito, ora è consentito e fin'anche benevolmente e "paternamente" benedetto. E quel che è molto grave, non in base ad una modificata dottrina ancora ben stampata sui "libri" strutturali dell'ecclesia, ma soltanto per una forma di, appunto, accondiscendente paternalismo che strizza l'occhio al mondo laico, al pensiero dominante a quella se-dicente parte elitaria della società esercente il sacerdozio del politicamente corretto, senza se e senza ma. E no, Santità! Lei qui rappresenta un qualcuno che fu il principe della "s-correttezza politica " , l'anti-mondano per eccellenza, il controcorrente, il rivoluzionario, il portatore di una frattura, di una spada e non di un consenso progressista ed i cui fedeli non avrebbero dovuto essere folle plaudenti, ma soltanto il semplice - ed amaro - sale della terra (Matteo 5,13). Quello in cui la Chiesa cattolica, di cui Lei è il monarca, deve credere, pena il suo scivolare nella assoluta irrilevanza, è un qualcosa di semplice, granitico, immortale e, per il momento, ancora di bi-millenario consolidamento e non banderuola ai venti di questo mondo. Ricorda Santità?: "Il mio regno non è di questo mondo" ( Giovanni 18,28-38). Ipse dixit e non ci si dovrebbe girare intorno, distinguere, ammorbidire, appiattire, adattare, relativizzare, mondanizzare per effimero consenso umano o, pur anche che sia, per un mal posto senso ecclesiale di pur apprezzabile giustizia civile. No Santità, questo NON è compito Suo! LO STATO (RIPETO, LO STATO) E' IL SOLO AD AVERE IL DOVERE DI FORNIRE ADEGUATA PROTEZIONE GIURIDICO-LEGALE A VOLONTARIE UNIONI OMOSESSUALI DI TIPO LAICO-SOCIALE, NEL RISPETTO DELLE LIBERTA' INDIVIDUALI, DELL'UGUAGLIANZA DI TUTTI I CITTADINI DI FRONTE ALLA LEGGE (IN TERMINI DI DIRITTI E DOVERI) E DEL PRIMIGENIO COMPITO DELLA TUTELA DEI MINORI(*) Ma lo Stato, ripeto, lo Stato, deve provvedervi, la Chiesa Cattolica non può e non deve, farsene alcun carico. Per essa debbono esistere soltanto le Scritture, e null'altro, e queste non possono essere da Lei piegate alla convenienza dei tempi, soprattutto con proclami estemporanei che non possono essere interpretati che come superficialmente "buonisti", nella migliore delle ipotesi, o inquietantemente "capziosi" per incomprensibili motivi, nella peggiore. Mi auguro che lo Spirito Santo che, per dottrina, dovrebbe aver provveduto a metterLa al timone della barca di Pietro, sappia, in questi perigliosi momenti della storia del mondo, illuminarLa per il meglio. Antonino Provenzano Roma. 23/10/2020 (*) CONFINI N° 73, aprile 2019, pag. 19 : "Famiglia? (Cerchiamo di capirci).


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4 NOVEMBRE: SIA FESTA NAZIONALE PROLOGO "Cercheremo di narrare, pertanto, una storia importante dalla quale trarre spunti per meglio guardare dentro noi stessi, magari per rimettere in discussione pensieri e convincimenti che ci accompagnano da sempre, grazie anche a una storiografia per certi versi pasticciona, per altri palesemente bugiarda e, solo molto raramente, se non proprio "obiettiva", quanto meno "onesta". Diradare le troppe nubi che offuscano la verità storica e capire da dove veniamo può facilitare il cammino, soprattutto ai più giovani, verso un futuro che assomiglia sempre più a un'autostrada priva di barriere divisorie, nella quale tutti corrono all'impazzata, in qualsiasi direzione, distruggendosi vicendevolmente. Uno scenario terribile, ancor più nefasto di qualsiasi guerra. […] La Prima guerra mondiale, per l'Italia, si chiuse con il famoso bollettino emanato dal generale Armando Diaz, anche se solo nei giorni successivi si perfezionarono le occupazioni di Pola, Sebenico, Valona, Cattaro, dove le truppe italiane non furono accolte con molto entusiasmo, e Zara, che invece accolse con trepidante gioia i nostri soldati. Il 17 novembre anche Fiume diventò italiana, creando le premesse per future tensioni tra l'Italia e gli alleati. L'Italia aveva conquistato le terre irredente pagando un alto prezzo in vite umane: 651mila soldati e 589mila civili. Un intero popolo aveva sofferto dure privazioni per tre anni e mezzo, contribuendo con tutte le proprie forze al successo finale perché, come più volte scritto, la Prima guerra mondiale fu "guerra totale" grazie all'impiego di tutte le risorse disponibili. L'Italia, finalmente, poteva definirsi geograficamente unita. Restava da costruire l'unità nazionale, perché, ancor più di quanto non fosse vero nel 1860, "si era fatta l'Italia e ora bisognava fare gli italiani". Ma questa è tutta un'altra storia. (Lino Lavorgna, "Il Piave mormorava", saggio pubblicato a puntate su "Confini" da gennaio a novembre 2018). L'UNICA DATA IN GRADO DI UNIRE TUTTI GLI ITALIANI Il 3 novembre 1918, a Padova, nella villa del conte Vettor Giusti del Giardino, senatore del Regno, fu siglato l'armistizio che pose fine alla Prima guerra mondiale, non a caso definita anche "Quarta guerra d'indipendenza italiana", dal momento che, con la riannessione di Trento e Trieste, si perfezionò l'unificazione territoriale, politica e istituzionale del Paese. L'armistizio entrò in vigore il giorno successivo e, nel 1919, fu istituita la "Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate", con valore di festa nazionale. Nel 1977, un po' per il clima politico dell'epoca, condizionato da una sinistra che addirittura riteneva il 4 novembre un giorno di lutto, e un po' a

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causa della crisi petrolifera, che indusse molti governi dei paesi occidentali a varare le disposizioni di contenimento dei costi energetici note come "austerity", l'evento fu spostato alla prima domenica di novembre, pur di non perdere un giorno lavorativo. Nel 2018, Pasquale Trabucco, ex ufficiale, al fine di sensibilizzare opinione pubblica e istituzioni sul rispristino della festività, fondò il comitato "Noi stiamo con Pasquale Trabucco" e organizzò una raccolta di firme, personalmente curata percorrendo a piedi 1750 km, dal comune italiano più a nord (Predoi, Bolzano) fino a quello più a sud (Portopalo di Capo Passero, Siracusa). Durante il tragitto fu ricevuto dai sindaci delle città attraversate, depose fiori alla base dei tanti monumenti ai Caduti e illustrò lo scopo della sua iniziativa, culminata con la visita al sindaco di Roma, dopo aver reso onore al Milite Ignoto in una toccante cerimonia. L'assidua campagna del tenente Trabucco ha avuto alta eco mediatica e ha scosso le coscienze. Il 27 marzo 2019, un importante raduno a Roma registrò la presenza di delegazioni provenienti da tutta Italia, creando ulteriori presupposti per l'iter legislativo, solo in parte rallentato dalle vigenti contingenze. Il comitato è pienamente operativo, comunque, e la sua attività non potrà che concludersi con una piena vittoria, da dedicare soprattutto ai nostri nonni, immolatisi sulle fredde alture alpine e negli altopiani carsici per conferire alla patria piena dignità territoriale. Lino Lavorgna


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TRENT’ANNI ITALIANI Adesso, sembra impossibile crederci; sembra di aver vissuto un sogno esagitato, bellissimo e pericoloso, qualcosa di estremamente lontano dagli "orizzonti" ristretti, mediocri, egoistici nei quali un po' tutti siamo forzati a vivere; eppure vi sono stati in Italia anni tempestosi, gonfi di polemiche, densi di fervore creativo, ricchi di una vitalità che prorompeva come un canto di giovinezza in ogni manifestazione nazionale, dall'arte alla politica, dalla cultura al sindacalismo. Sembrava che l'Italia avesse la "febbre", che il suo ritmo di vita divenisse frenetico, quasi nel tentativo di scuotersi di dosso l'uggia di un'esistenza inguaribilmente provinciale, ancorata al tran- tran piccolo borghese ereditato dal periodo umbertino: quella che era stata definita la " Cenerentola d'Europa " per la sua esistenza vegetativa e fuori tiro dalle grandi correnti della vita moderna europea, sembrava volersi mettere rapidamente al passo, conoscere ciò che gli altri avevano tentato in tutti i campi della creazione umana ed operare una "sintesi" dei risultati raggiunti, ma una sintesi nostra, dai caratteri peculiari ed inconfondibili, come in un appello disperato alle forze più profonde della stirpe. Il primo ad "aprire le ostilità" fu, in un certo senso, Marinetti, quasi a dimostrare ancora una volta che i poeti sono un po' i profeti della Storia, i veggenti degli avvenimenti futuri, sono coloro che intuiscono prima e meglio degli altri, con sensibilità da artisti, le linee direttrici su cui si svolgeranno gli eventi e si muoveranno le torpide folle. Sin dal 1909, con un "Manifesto del Futurismo" pubblicato sul giornale parigino Le Figaro, ed anzi dal 1905, sin dal primo numero della rivista milanese Poesia, Marinetti aveva " dichiarato guerra a tutto il vecchiume d'Italia ". Dinanzi alla sbigottita platea del Politeama Rossetti, a Trieste, nel marzo del 1909, Marinetti aveva lanciato una frase destinata a diventare famosa nei Cinque Continenti; aveva detto : "noi cantiamo la guerra sola igiene del mondo!" e, nel programma politico dei futuristi, che furono subito dopo tra i pochi, convinti assertori dell'impresa di Libia, altre parole eretiche, quali patriottismo e militarismo, tornavano ad avere diritto di cittadinanza. Perché allora, in Italia, certi termini erano tabù. Non proibiti da alcuna norma di legge, naturalmente; ma messi fuori uso da un malvezzo pluridecennale nel quale confluivano le mediocri cariatidi che "facevano" politica nell'aula sorda e grigia di Montecitorio - tra uno scandalo e una crisi di governo, un appalto e un "assalto alla diligenza" - e le forze limacciose del sovversivismo di sinistra. Qui, davvero, era invalso lo uso della negazione ad oltranza, ottusa ed aprioristica : quelle che si

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autodeflnivano " giovani forze ", in realtà masticavano, ad uso e consumo del proletariato dell'epoca, le più rancide formule del XIX secolo: positivismo, materialismo, economicismo e sputavano, con la tranquilla metodicità dei ruminanti - che non sanno d'altro fuor che di paglia e digestioni - su qualunque valore non rientrasse in quegli schemi. Tutto ciò che nella Storia era stato creato dal pensiero dalle ambizioni dalla cultura, dall'anima, dalle mistiche dedizioni o dagli slanci eroici dell'uomo, per le Vestali nostrane del torbido fuoco marxista, era soltanto una sovrastruttura: una perniciosa invenzione, studiata da pochi sfruttatori ed avallata da poeti, pensatori e sacerdoti per ribadire le catene ai piedi di chi lavorava con i calli alle mani; e guai a chi osasse ancora parlare di idealismo e di fede, di spirito e libertà creatrice: la massa era la massa, ed i dirigenti del socialismo erano i suoi profeti: la verità, la giustizia e l'avvenire si tingevano di rosso. I futuristi, che avevano tratto dalle furibonde risse nei palchi e nei ridotti di tutti i teatri, un certo gusto a menare non metaforicamente le mani e ad " andare controcorrente ", non furono però i soli ad opporsi al demagogismo dilagante. Accanto ad essi, erano sulle piazze e nell'arengo culturale, anche i nazionalisti guidati dalla prestigiosa figura di Enrico Corradini, scrittore finissimo e tempra di politico dall'orientamento aristocratico. Ponendosi in netta antitesi con tutta la situazione esistente allora in Italia, Corradini - che fondò II Regno due anni prima che Marinetti uscisse con la sua Poesia, e cioè nel 1903 - nei suoi libri e nei suoi drammi, prima, e nell'organizzazione politica cui dette vita poi, si lasciò guidare dal quasi mistico presentimento della restaurazione dell'Impero di Roma. Corradini che fu il primo, grande scrittore italiano a seguire da presso le tragiche vicende della nostra emigrazione nelle Americhe, era accesamente e dichiaratamente antidemocratico, poiché il " marasma democratico aveva isterilito la vita politica italiana nella lotta dei partiti e nel quotidiano esercizio del ricatto parlamentare "; lotta a fondo, quindi, al sistema demoliberale, per affermare " la supremazia degli interessi della Nazione e del suo destino imperiale su tutte le contingenze degli uomini e dei partiti ". Dal 1910 - anno in cui si tenne al Palazzo Vecchio di Firenze il primo Congresso Nazionalista - al 1915, l'anno della battaglia per l'interventismo, il movimento corradiniano lottò con coraggio, passione e tenacia, contro la democrazia, lo scadimento dei valori spirituali, il parlamentarismo, la demagogia socialistoide, appellandosi alla " volontà di potenza " della parte migliore della società italiana. Ancora oggi, non si possono rileggere senza emozione le numerose opere che il fondatore e capo del nazionalismo andò pubblicando in quegli anni di aspre polemiche : la " trilogia " dedicata alla tragedia dell'emigrazione ed al primo espansionismo africano (La Patria lontana - La guerra lontana - Le vie dell'Oceano) e poi L'ora di Tripoli; La conquista di Tripoli; Sopra le vie del nuovo Impero; e, ancora. II nazionalismo e la democrazia e II nazionalismo italiano. I nazionalisti dichiaratamente avversi al regime dei partiti ed al sistema democratico e parlamentare, andarono ancora oltre nel loro radicalismo rivoluzionario, e presero nettamente


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posizione contro la massoneria, da cui traeva origine tanta parte della sudditanza della classe dirigente italiana alle Logge parigine ed agli interessi del capitalismo britanico. Fervide intelligenze, pensatori di prim'ordine, scrittori di rara potenza espressiva ed uomini d'azione, coordinarono e guidarono questa travolgente battaglia : da Forges-Davanzati a Coppola, da Maurizio Maraviglia a Luigi Villari, da Castellini a Scipio Sighele a Vincenzo Picardi, da Maffio Maffii a Fauro a Fulcieri Paulucci de' Calboli, e molti di essi caddero poi sul fronte della guerra invocata per tanti anni o tornarono dalle trincee con sul petto la azzurra testimonianza del dovere compiuto in superba coerenza tra pensiero ed azione. E come dimenticare D'Annunzio, splendidamente isolato nel fulgore del suo genio inimitabile, e pur legato per tanti versi al ìermento rivoluzionario di quegli anni? Tutta la poesia dannunziana, tutto il " pensiero " contenuto nei suoi versi e nelle sue tragedie, nei suoi scritti e nei suoi discorsi, furono indubbiamente come dei fermenti di rinnovamento gettati nella morta gora della vita italiana di quel turbinoso periodo. Non era soltanto una traduzione poetica delle tesi nietzschiane del superuomo, come voleva e vuole una critica letteraria scritta da pigmei per pigmei, un'esaltazione in chiave lussureggiante di un anticonformismo fine a se stesso e pago solo di una sua " compiutezza estetica " che faceva di ogni azione un'opera d'arte: la concezione dannunziana della vita e del mondo era la trasposizione poetica d'uno "stile" che rifiutava la mediocrità e la viltà, l'egoismo e la paura, tutta la miserabile ragnatela in cui si avvoltola l'esistenza dei più, conteneva un appello all'eroismo ,alla bellezza, alla dedizione per gli ideali, in nome di ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. E ci si permetta anche di affermare che in molte opere dannunziane - come ne Le Vergini delle Rocce, oltre che negli scritti più propriamente politici - si dispiega l'architettura armoniosa e solenne di un " nuovo ordine " gerarchico ed organico della società, i cui spunti non sono validi soltanto per l'Italia, e che a suo tempo, nella Carta del Camaro, trovarono una seducente sistemazione costruttiva. A questa minoranza battagliera ed irrequieta che si batteva con eguale ardore sulle riviste di alta cultura e nelle piazze, dalle colonne dei giornali ai palcoscenici dei teatri, venne da Corridoni l'apporto inestimabile di una "eresia" maturata nei ranghi del più combattivo settore di sinistra. La "crisi" di Corridoni e dei suoi sindacalisti rivoluzionari, esplose nel periodo più acceso della polemica per l'interventismo e prese le mosse da ben altri ragionamenti o impulsi o tendenze che non fossero quelli di un Marinetti, di un Corradini o di un D'Annunzio: la rottura tra il sindacalismo rivoluzionario e il socialismo marxista, partiva dalla obiettiva constatazione del fallimento marxista di fronte al fatto guerra. Da quarant'anni, ormai, cullandosi nella quiete assicurata all'Europa ed al mondo da una fitta rete di accordi e trattati internazionali, le sinistre marxiste erano andate assordando le opinioni pubbliche di tutti i Paesi con una propaganda tanto stupida quanto presuntuosa: non solo il militarismo aveva compiuto il suo ciclo, ed al massimo poteva aspirare a celebrare i suoi fasti nella inutilmente rigida disciplina delle caserme, ma neppure di imperialismo o di patriottismo era più il caso di parlare. La parola era passata alle masse, ed i nuovi demiurghi della situazione, i

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corifei di queste mitiche folle proletarie, ossia i dirigenti del socialismo internazionale ed internazionalista, stavano spavaldi ai loro posti di' comando, nei partiti e nei sindacati, per assicurare che su quelle anticaglie, su quei residui medioevali, nessun'altra speculazione reazionaria avrebbe potuto essere compiuta. Se mai qualcosa fosse stato tentato, non diciamo nelle democratiche terre di Francia, di Inghilterra e d'Italia ma anche negli Stati gerarchici d'Austria e Germania, il movimento organizzato e coordinato dei lavoratori avrebbe ricondotto alla ragione i superstiti assertori di ideali superati e di ambizioni anacronistiche. Poiché i partiti socialisti avevano ovunque milioni di voti, sempre più deputati e sempre più giornali a disposizione; poiché in ogni paese controllavano sindacati sempre più potenti, chi poteva dubitare della esattezza d'un simile ragionamento? Non erano forse con i socialisti ed aderenti ai sindacati di sinistra, gli operai dei grandi complessi industriali, i ferrovieri, i portuali, i contadini? E se costoro avessero tutti insieme "incrociato le braccia", come si diceva con espressione allora di moda, quale Governo a-vrebbe potuto spingere avanti le sue provocazioni scioviniste fino alla dichiarazione della guerra? E come avrebbe potuto essere attuata la famosa e temuta mobilitazione generale una volta che le Autorità si fossero trovate di fronte allo "sciopero generale proletario"? Innumerevoli libri, opuscoli, conferenze, avevano volgarizzato questi interrogativi e diffuso nelle masse la quasi mitica sicurezza che l'imponente apparato dell'Internazionale socialista Taceva ormai da insuperabile schermo ad ogni "avventura" guerrafondaia ed imperialistica. Invece le cose erano andate in modo diametralmente diverso da quel che si era teorizzato per quarant'anni, all'ombra di tutte le illusioni del razionalismo pacifista ed edonista fin de siècle. I socialisti inglesi e francesi avevano obbedito disciplinatamente al tanto criticato ed irriso "richiamo della Patria"; ed i socialisti tedeschi, dopo aver votato in Parlamento i crediti alla guerra, si erano arruolati volontari a diecine di migliaia. L'Internazionale socialista si sfaldava di fronte alla guerra, al risorgere impetuoso del patriottismo, al riemergere, di tanti valori ideali, spirituali ed eroici. Solo in Italia il socialismo era neutralista: si trasformava in fenomeno stranamente ed ottusamente conservatore, rifiutandosi persino di discutere i motivi della clamorosa debacle delle forze internazionali del marxismo. Filippo Corridoni, battagliero organizzatore di un sindacalismo dalle pronunciate tendenze rivoluzionarie, pose invece queste domande alla sua coscienza di militante. Appena ventenne, egli aveva distribuito alle porte delle caserme un foglietto antimilitarista dal significativo titolo: "Rompete le righe"; era stato un attivista convinto della gioventù socialista milanese, trascinandola a tutte le azioni di piazza; era passato da una prigione all'altra, dopo una sequela di processi, che ne avevano stroncato il fisico ma temprato in modo adamantino il carattere. Pallido, smunto, ascetico, aveva un singolare ascendente tra operai e contadini, sì da meritare sin da allora quella definizione di "Arcangelo sindacalista", che sarà poi il titolo di un magnifico libro


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scritto su di lui da Jvon de Begnac. Egli si era allontanato dal socialismo, accusandolo di "corruzione parlamentaristica" e di "riformismo piccolo-borghese", per dedicarsi con inesausta passionalità all'organizzazione del sindacalismo rivoluzionario: vi era dell'idealismo nelle sue tesi estremiste, c'era del volontarismo eroico in quel ricorso alla violenza che egli invocava tanto spesso, come l'unico metodo serio per formare e forgiare una minoranza capace e degna della conquista del potere. E quando nella "sua" Unione Sindacale scoppiarono furibonde le polemiche sulla posizione che doveva assumere l'Italia nel conflitto, Filippo Corridoni, ancora una volta rinchiuso nel carcere milanese di S.Vittore, prende decisamente posizione per l'interventismo, ed appena libero : "La neutralità è dei castrati - grida ai suoi operai - Noi che non siamo e non vogliamo essere tali, ci sentiamo pronti alla battaglia". La campagna corridoniana per la guerra, che ha tutti gli aspetti di una "predicazione" tanto è pervasa da una mistica aspirazione al sacrificio, si svolge in un ambiente diffìcilissimo: le tesi dell'interventismo calano dall'empireo aristocratico, nel quale le dibattevano i pensatori ed i giornalisti nazionalisti, i seguaci di D'Annunzio e di Marinetti, per tentare di rovesciare la psicologia pacifista delle stesse masse proletarie, e qui Corridoni non dimentica le sue aspirazioni rivoluzionarie poiché dipinge la guerra come un'indispensabile "bagno di sangue", come un lavacro sacrificale dal quale emergerà la classe dirigente di domani : la guerra è il preludio alla Rivoluzione. In questo vivo, passionale fermento di idee e battagliare di opposte tesi, mentre rumoreggiavano nelle vecchie, fatiscenti strutture della società italiana tante forze nuove e dai più diversi ambienti saliva l'ansito per una rivoluzionaria trasformazione dello Stato, un uomo si pose al centro della grande ora che stava battendo sul quadrante della storia italiana : Benito Mussolini. Anche lui era un eretico; anzi, eretico del socialismo ufficiale era sempre stato sin da quando si era messo a capeggiare la frazione rivoluzionaria del partito, ed aveva profuso a piene mani il suo torrenziale sarcasmo estremista sui "santoni" del movimento, accusati più volte di imborghesimento ed eccessive fiducie nel gradualismo parlamentarista. Mussolini era stato davvero uno strano tipo di "socialista" :mentre gli altri dirigenti del partito si limitavano a farsi. una cultura su Marx e Babeuf arrivando, al massimo, agli utopisti tipo SaintSimon, Owen, Faiirier, e si quietavano poi con le formulette classiste buone a mieter consensi nei comizi sezionali, negli anni d'una dura ed errabonda giovinezza che lo aveva portato sinanco a fare il muratore in Svizzera, Mussolini aveva spaziato sulla opera di tutti gli scrittori e pensatori europei. Ancora giovanissimo, ad esempio, aveva scritto su Nietzsche un saggio (La filosofia della forza ) che era tutto un inno alla romanità ed una severa critica alla "morale degli schiavi" che aveva trionfato con il cristianesimo. Era un "socialista" che trovava il tempo di attaccare i dirigenti del suo partito, di studiare il violino e qualche lingua straniera e di scrivere opuscoli su "La poesia di Federico Klopstock ", sulle " figure di donne nel Guglielmo Tell" di Schiller e sull'opera di Augusto von Platen.

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Sorel aveva detto di lui: "Mussolini non è un socialista ordinario, credetemi. Voi lo vedrete, forse, un giorno, alla testa di un battaglione sacro, salutare con la spada la bandiera italiana ". "Non è socialista; e non è neanche marxista - andava dicendo sempre la Kuliscioff nel suo salotto politico-letterario a Milano, dove pontificava a tutta l'intellighentsia progressista dell'epoca proprio proprio l'è un poetino che ha letto Nietzsche... ". Un poetino che aveva osato affermare: alla quantità preferiamo la qualità... Al gregge obbediente e rassegnato che segue il pastore e si sbanda al primo urlo dei lupi, preferiamo il piccolo nucleo risoluto, audace, che ha dato una ragione alla propria fede, sa quello che vuole e marcia direttamente allo scopo". E poi: "Ci chiamino pure romantici, ma noi fermamente crediamo che in piazza e non altrove si combatteranno - maturi i tempi e gli uomini - le battaglie decisive". Ecco, Mussolini non aveva neanche bisogno di risolvere una crisi di coscienza, come avveniva allora a molti sindacalisti, socialisti e repubblicani: per lui l'interventismo non era che lo sviluppo inevitabile, quasi la logica prosecuzione di un orientamento politico rivoluzionario di cui il socialismo era stato solo l'occasionale ed estemporanea vernice, come una obbligata tappa polemica giovanile. Il 20 ottobre del 1914, Mussolini si dimette dall'incarico di direttore dell'Avanti! - il quotidiano che egli aveva portato in poco tempo da 40 a 100 mila copie giornaliere - ed il 15 novembre fa uscire il primo numero di un "suo" quotidiano: II Popolo d'Italia. Abbiamo già avuto modo di precisarlo : Mussolini cercava nell'interventismo, quanto il socialismo italiano non aveva potuto e non poteva dargli: lo strumento, il mezzo, la possibilità di una rivoluzione nazionale. Come siamo venuti via via esponendo, su questa interpretazione della guerra convergevano i pareri di tutte le forze vive della Nazione: futuristi, sindacalisti rivoluzionari, nazionalisti e dannunziani; Mussolini non poteva non essere su questa barricata, che era poi quella da cui avrebbero preso le mosse le forze della riscossa italiana, a conflitto concluso. Provenienti da origini diverse, con l'impetuosità di rivi che scendono da vari monti e confluiscono nello spumeggiare di un torrente, tutti questi "filoni" di vita italiana, tutte queste avanguardie, queste minoranze irrequiete ed eroiche, questa splendida giovinezza della Patria, si ritrova nella battaglia per l'interventismo, parte volontaria per la guerra, da alla Storia d'Italia un appuntamento creatore al di là del conflitto, con qualcosa di più forte e più vero di un pallido ragionamento filosofico, per virtù d'istinto e con la forza irresistibile dell'esempio. La campagna per l'entrata in guerra dell'Italia, se aveva da un lato unito nei Fasci d'Azione tutte le forze giovani e rivoluzionarie della Nazione, aveva anche svelato in un certo senso i sostanziali legami che univano tra di loro le forze neutraliste: i socialisti ed i cattolici, ad esempio, si erano ritrovati insieme contro l'interventismo, e dietro lo schermo pavido delle oligarchie parlamentari. Al di là della retorica ufficiale, bisogna davvero concordare con Vincenzo Morello, il quale scrisse che la guerra fu fatta in un'atmosfera di guerra civile: "La guerra nazionale, la quale appunto perché tale avrebbe dovuto riunire in un solo fascio, divise, invece, sino alle loro più profonde


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radici provinciali e comunali le genti italiane; la guerra, infine, ruppe la leggera crosta di uniformità, che la così detta Unità aveva creato e rivelò l'Italia a se stessa, in tutte le sue profonde sinuosità e in tutte le sue più incomponibili differenze... ". C'era stato chi aveva detto, con coerenza innegabil : sì alla guerra! per la rivoluzione, e chi aveva detto, con altrettanta coerenza: no alla guerra! no alla rivoluzione! Era quindi inevitabile che, terminato il conflitto, questi due schieramenti si trovassero di nuovo di fronte. Quelli che genericamente si erano raggruppati sotto le insegne dell'interventismo, avevano avuto la meglio nelle "radiose giornate" del maggio del '15, contro le esitazioni dei cattolici, contro la demagogia socialista e la congenita vigliaccheria dei parlamentari, ancora manovrati da Giolitti; ma, finita la guerra, nello smarrimento provocato da una vittoria che non aveva dato i frutti sperati, nell'atmosfera di caos sociale, di miseria, di smobilitazioni industriali, quasi per un rigurgito dei più bassi istinti e degli egoismi peggiori, ebbero la meglio i denigratori della guerra. Anche queste sono pagine lontane di storia, cronache ormai quasi del tutto dimenticate, ma basta leggere qualche libro o sfogliare qualche giornale dell'epoca o spingere al flusso dei ricordi i più anziani tra gli italiani, per avere subito il quadro pauroso, quasi allucinante del tristissimo dopoguerra vissuto dalla Nazione. Nel 1919, ad esempio, ancora 150 mila disertori vagavano per la Sicilia, mentre dietro le insegne dei socialisti e dei popolari si attruppavano milioni di operai, contadini, commercianti e borghesi alla deriva, tutti i rancori, gli odi, le insufficienze di una società in sfacelo morale. Quelle "aristocrazie" morali che erano emerse tumultuosamente alla ribalta della vita politica nazionale nel '14 e nel '15, sembravano esser scomparse, come ingoiate dal gorgo sanguinoso della guerra che aveva falciato i migliori, i più coraggiosi, i più decisi. La disfatta diplomatica subita dal Governo Orlando a Parigi, il fallimento di tutte le nostre aspirazioni dalmate ed adriatiche, l'incapacità della classe dirigente ad affrontare i paurosi problemi della smobilitazione di milioni d'uomini e della "riconversione" delle industrie di guerra, l'insensibilità di un uomo come Nitti che "faceva senza risultato una politica di rinunce", tutto, insomma, sembrava concordare e convergere allo sgretolamento dello Stato. Anche gli Alleati, quelli che avevano invocato a gran voce l'intervento italiano nel momento del pericolo, facevano la parte loro, alzando i prezzi delle materie prime delle quali l'Italia era priva, come il carbone, il ferro e il cotone e persino il grano. E pareva che Papini avesse ragione : "L'Italia sarebbe diventata l'ultima nazione sulla faccia della terra, ridotta a lavare i piedi sudici dei croati e dei levantini". Gli italiani, così, arrivarono all'assurdo di vergognarsi di aver vinto! E si misero d'impegno a scioperare, contro tutto e contro tutti, come travolti da una ventata nichilista: quasi 2 mila scioperi si ebbero nel solo 1919, con 150 morti e 450 feriti, e le sommosse dilagavano un po' dovunque in un'atmosfera da guerra civile. Nella carenza dell'autorità statale, che aveva abdicato financo alla sua dignità formale, crebbe e si impose rapidamente il movimento fascista, che aveva in Mussolini il suo Condottiero e ne "II Popolo d'Italia" il giornale di punta.

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Alla tracotanza social-comunista, verbosa, retorica e magniloquente, tanto ricca di premonizioni apocalittiche quanto povera di costruttivi sbocchi politici il nascente fascismo oppose un programma che poteva essere condiviso dalla stragrande maggioranza del Paese, stanco di disordini, di minacce e ricatti, irritato per la sempre più evidente minaccia alla sua stessa unità. Ma sbaglierebbe chi, partendo da questa obiettiva constatazione - che spiega da sola i convulsi avvenimenti degli anni che vanno dal 1919 al 1922 ed è la genesi più esatta dei motivi politici immediati che culminarono nella "Marcia su Roma", sbaglierebbe - dicevamo - chi volesse ridurre il fascismo a semplice fenomeno di reazione anticomunista ed esaurirlo nella mera funzione di restauratore dell'ordine e della legalità. C'era nel fascismo una "carica esplosiva" che si verrà svelando con il passare degli anni, una potenzialità rivoluzionaria che farà di questo fenomeno, nato tipicamente italiano - ed anzi, ad essere esatti, nato in alcune regioni come la Lombardia e l'Emilia-Romagna - un fatto europeo e mondiale. Abbiamo già osservato, in una sia pur rapidissima sintesi, come nell'interventismo confluissero una serie di filoni ideali, culturali e spirituali. Queste stesse componenti si ritrovano nel fascismo, ma via via che il fascismo marcia verso la conquista del potere e ancor più dopo, quando si trova a costruire il "suo" Stato, entrano in gioco tutta una serie di fattori nuovi, che agli inizi del movimento, forse, erano soltanto nella lucida intelligenza di Mussolini ed in pochissimi dei suoi seguaci. Si badi un momento allo svolgersi degli avvenimenti: il 28 ottobre 1922, gli squadristi calano su Roma e conquistano il diritto al governo senza neanche spargimento di sangue. La formazione del primo Governo Mussolini, è salutata con un sospiro di sollievo dalla grande maggioranza dell'opinione pubblica; fra l'altro, non è un governo fascista nel senso letterale dell'espressione, i fascisti, anzi, vi sono addirittura in minoranza: vi sono tre Ministri fascisti (Giovanni Giurati, Oviglio e De Stefani), un nazionalista (Federzoni), due popolani (Tangorra e Cavazzoni), due demosociali (Carnazza e Giovanni Cesarò), tre liberali (Gentile, Teofilo Rossi, De Capitali). E dei 18 sottosegretari, due erano nazionalisti, due demosociali e quattro popolari. La più dura fatica, i dirigenti fascisti la dovettero svolgere, in quelle ore drammatiche, non verso gli avversari ma nei confronti degli stessi squadristi, i quali, malcontenti per la soluzione governativa adottata e vittime di imboscate socialcomuniste a S. Lorenzo, tumultuavano per Roma: e furono avviati in tutta fretta alle stazioni e rinviati a casa con treni speciali. Non si era fatta una rivoluzione, e neppure un colpo di Stato: si era posto fine ad un periodo di malgoverno, con il beneplacito della Corona e con l'accondiscendente solidarietà di nazionalisti, popolari, liberali, demosociali ed ambienti e forze della cosiddetta "destra nazionale" in genere. Il fascismo non era tutto qui, però; non si esauriva nel ritorno alla disciplina, all'ordine, alla legalità, ed alla correttezza burocratico-amministrativa. Una volta giunto al potere, la sua collaborazione con le forze che lo avevano aiutato divenne mano mano più difficile e liberali, popolari e demosociali si staccarono dalla maggioranza governativa prima ancora che si arrivasse alla cosiddetta "fase dell'Aventino".


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La rottura, ufficiale, diciamo così, la rottura clamorosa e definitiva tra il fascismo e le forze della destra che oggi definiremmo qualunquistiche, tra il movimento capeggiato da Mussolini e gli ambienti genericamente borghesi e patriottici, liberali e conservatori, avvenne appunto nel periodo dell'Aventino e non è azzardato supporre che se essa non avesse trovato il "caso" Matteotti per venire alla luce, avrebbe trovato un'altra qualsiasi occasione per manifestarsi ed esplodere : quando i contrasti politici sono insanabili, quando il cozzo avviene tra schieramenti che si rifanno a principii irriducibili, ha poca importanza, per lo storico come per il cronista, perdere tempo sull'episodio che è venuto a rappresentare il casus belli. Le guerre, si sa, scoppiano sempre per un incidente di frontiera, ma sarebbe meglio dire : grazie ad un incidente di frontiera. La verità era che tutte le forze che avevano sino a quel momento cooperato con il fascismo, e tutti gli ambienti che lo avevano più o meno nascostamente aiutato, ritennero fosse quello il momento buono per liquidare Mussolini e il suo governo: l'Italia era pacificata, la vita economica e commerciale andava riprendendo il suo ritmo, l'orizzonte internazionale era sgombro da grossi rischi; era il momento opportuno per riassorbire l'esperimento fascista. E' in questo periodo, è nei mesi della lunga estate calda del 1924 che si gioca una partita politica di somma importanza. Il fascismo, però reagisce, non intende ritirarsi, sente di non avere affatto esaurito il suo compito con l'aver spezzato la spina dorsale al sociacomunismo ed al suo sindacalismo estremista e piazzaiuolo, anzi passa alla controffensiva, afferma di non aver ancora neppure iniziato il "suo" esperimento costituzionale e sociale. E, prendendo di contropiede gli alleati del '22 che intendevano liquidarlo e addirittura con una questione morale, appena intuisce che il momento critico è superato e che già l'aver resistito è una vittoria, proclama di aver bisogno di tutto il potere... e se lo prende. Siamo al 3 gennaio del 1925, la vera data " rivoluzionaria " del fascismo, quella in cui il movimento delle Camicie Nere prende formalmente coscienza della sua vocazione rinnovatrice ed assume su di sé la pesante responsabilità storica di dirigere da solo le sorti d'Italia. E' da quella data, infatti, che prende l'avvio il processo di rinnovamento delle strutture costituzionali, politiche e sociali dello Stato: fino a quel momento, il fascismo si era limitato a governare, a rimettere il bilancio in pareggio ed a riportare un po' d'ordine nella sconquassata vita burocratica ed amministrativa della Nazione. Ed è interessante notare come proprio in questo periodo, le migliori e più fervide intelligenze italiane si schierino con il fascismo, aiutino ed appoggino questo sforzo rinnovatore, si impegnino attivamente anche in quella " mobilitazione culturale" che esso comportava. Si è detto poi, al lume della critica disfattista e denigratoria venuta di moda dopo il 25 aprile 1945, che tutto il periodo fascista, l'intero ventennio altro non sia stato che un'avventura attivistica imposta alla Nazione da un pugno di scriteriati che si erano fatti avanti a suon di manganelli e mantenutisi al potere con l'uso continuato della forza: interpretazione falsa ed assurda di quegli anni smentita dal numero e dalla qualità di coloro che al regime portarono un'adesione non servile.

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Si pensi, per esempio, ai firmatari del cosiddetto "Manifesto Gentile", che era poi, in sostanza, un appello agli uomini di cultura di tutta l'Europa, per spiegare i motivi ideali che sostanziavano il fascismo e lo rendevano un fenomeno di portata e valore universali. Il manifesto, reso noto alla fine del marzo 1925, portava, tra diecine di altri, le firme di : Giovanni Gentile, Balbino Giuliano, Pericle Ducati, Quirino Maiorana, Alessandro Chigi, Salvatore Pincherle, Francesco Ercole, Nicola Pende, Alberto Asquini, Arrigo Solmì, Emilio Bodrero, Camillo Pellizzi, Gioacchino Volpe, Umberto Pestalozza, Gino Arias, Lionello Venturi, Ugo Spirito, Arturo Rocco, Cesarini Sforza, Giorgio Del Vecchio, Antonio Beltramelli, Giuseppe Ungaretti, Arnaldo Fratelli, Guido da Verona, Bruno Barilli, Ardengo Soffici, Ugo Ojetti, Lorenzo Giusso, Ildebrando Pizzetti, Alfredo Fanzini, Alessandro Varaldo, Ferdinando Russo, Margherita Sarfatti, Francesco Coppola, Curzio Suckert, Gherardo Casini, Darlo Nicodemi, Luigi Pirandello, Franco Aitano, Fernando Agnolotti, Cipriano Efisio Oppo, Guelfo Civinini, Luigi Barzini. Erano scrittori, medici, giornalisti, archeologhi, drammaturghi, compositori, filosofi, pensatori d'ogni ramo dello scibile già famosi o con la premonizione della fama che presto avrebbe premiato le loro qualità; erano il "meglio" dell'Italia, la sua intelligenza resa in un prisma iridiscente aperto a tutte le rifrazioni del pensiero contemporaneo e a tutte le più alte manifestazioni dello spirito. Essi si schierarono con il nascente regime, attratti appunto da quella potenzialità rivoluzionaria cui abbiamo accennato, convinti della necessità di un profondo rinnovamento della vita italiana, del costume e della morale del popolo italiano. Anche dall'altra parte - ci si obietterà - vi era, intorno a Benedetto Croce, uno schieramento imponente, da Antonio Anile a Sem Benelli, da Cecchi al De Ruggiero, da Abignente a Mario Casella, dal Jemolo a Mandolfo, dalla Serao a Salvatorelli, da Luzzatti a Morpurgo a Mosca, da Enrico Altavilla al Manara Valgimigli a Corrado Alvaro, dal Barbagallo a Corbino. E De Santis, Del Giudice, Maranelli, Messineo, Montale, Salvemini, Saponaro, Pietro Silva, Tilgher e Zanotti Bianco. Ma noi non contestiamo questo fatto; non vegliamo insistere neppure sulla significativa constatazione che molti degli intellettuali firmatari in un primo tempo del manifesto Croce aderirono poi al fascismo - caso tipico Concetto Pettinato, che si schierò con la RSI, venendo addirittura dall'Estero per puntare su quella che era ormai per mille sintomi la carta perdente mentre gli aderenti al manifesto di Gentile, per la massima parte, rimasero sempre fedeli al fascismo, pagando durissimamente di persona e talvolta con la vita. A noi basta sfatare lo sciocco luogo comune che vuole dipingere il fascismo come una accolita di avventurieri e di ribaldi, e non invece come un movimento politico che ebbe i suoi intellettuali, scrittori e pensatori e che, come vedremo, seppe anzi sintonizzare le sue aspirazioni ideali con i motivi della grande crisi che stava attraversando la civiltà occidentale. Dicevamo, dunque, che mentre si realizzava intorno al regime questa più che rispettabile mobilitazione di intelligenze, il fascismo iniziava la costruzione del " suo" Stato e la applicazione dei suoi postulati rivoluzionari. Quello Stato venne costruito gradatamente, un anno dopo l'altro, un decreto-legge dopo l'altro,


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un Istituto dopo l'altro, con una successione di tempi e di forme cui nessun avversario potrà negare il dono della logica e la virtù della coerenza politica. Dopo alcune leggi miranti a rafforzare l'autorità ed il prestigio dello Stato e dei suoi rappresentanti, venne promulgata il 3 aprile del 1926 la legge sulla "disciplina giuridica dei rapporti di lavoro", che poneva fine "al secolare agnosticismo dello Stato in materia di conflitto di sanare una volta per sempre questa frattura, togliendo alla teoria ed alla prassi marxiste la sua arma fondamentale. Nel 1928, si affrontò il non meno grave problema della forma di rappresentanza politica. Sin dall'anno prima, il Gran Consiglio del fascismo aveva constatato che la Camera dei Deputati, per essere espressione di un regime come quello liberaldemocratico, non era più in "sintonia" con la nuova situazione. Si arrivò così ad elezioni da svolgere su una "lista" di candidati proposti dalle organizzazioni dei datori di lavoro e lavoratori, dagli Enti morali riconosciuti e dalle Associazioni culturali, educative ed assistenziali. Il Gran Consiglio selezionava questi nominativi, con facoltà, tuttavia, di scegliere anche al di fuori di tali elenchi per poter inserire nella lista "persone illustri nelle scienze, nelle lettere, nelle arti e nella politica". II numero dei votanti veniva ristretto a coloro che, avendo più di 21 anni, pagassero un contributo sindacale o 100 lire annue, di imposte dirette; fossero stati impiegati dello Stato o di un Ente sottoposto a tutela statale; membri del clero o ministri di un culto ammesso. Tutta la tradizione antiparlamentaristica di cui - e più che comunemente non si creda - è ricca la vita politica italiana, una tradizione che, grosso modo, può allineare i nomi di critici della taglia di Bonghi, Arcoleo, Vidari, Sighele, Marselli, Mosca e Parete, riecheggiava in questa riforma politica che faceva anche giustizia del "mito" del suffragismo universale indiscriminato e dell'ottuso egualitarismo ottocentesco. Al centro di queste innovazioni, il fascismo poneva un nuovo organo costituzionale : il Gran Consiglio, classico strumento rivoluzionario che doveva esprimere il suo parere anche su : 1) la successione al trono; 2) le attribuzioni della Corona; 3) la composizione ed il funzionamento del Senato, della Camera; 4) i trattati internazionali che importavano variazioni di territorio; 5) i rapporti tra lo Stato e la Santa Sede. Il Gran Consiglio era costituito: a) dai Quadrumviri; b) dai Presidenti del Senato e della Camera; e) dai Ministri dei Dicasteri più importanti; d) dal Presidente dell'Accademia d'Italia; e) dal Segretario ed i due vice-segretari del PNF; f) dal Presidente del Tribunale Speciale e dal Capo di S.M. della Milizia; g) dai Presidenti delle Corporazioni industriali ed agricole. Inoltre, potevano entrare nel G. C. coloro che fossero stati nominati con decreto del Capo del Governo " per meriti eccezionali". I quadrumviri erano componenti a vita, gli altri, in ragione delle loro funzioni e per la durata di esse, mentre gli appartenenti al terz'ultimo gruppo, duravano in carica tre anni. Si veniva così a costituire al vertice politico del nuovo Stato una "minoranza qualificata" continuamente rinfrescata nella sua composizione, organo permanente di propulsione e di coordinamento, sottratto alle fluttuazioni estemporanee e demagogiche di pareri di massa, ed in grado di assicurare la continuità dell'azione statale.

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Negli anni successivi, mentre si provvedeva a sanare il quasi cinquantennale conflitto tra Stato italiano e Vaticano con gli "Accordi del Laterano", mentre si superava brillantemente la paurosa crisi economica che squassava tutto il mondo per effetto e conseguenza del gigantesco crack americano del 1929 e si salvava ancora una volta la lira dai vortici del marasma finanziario che imperversava dovunque, tra una serie imponente di lavori pubblici, di bonifiche, di organizzazione delle Forze Armate, non ebbe sosta il fervore culturale del fascismo. Tutto quello che era stato tentato prospettato e realizzato in Italia, pur avendo avuto all'origine, come abbiamo succintamente esposto, una problematica italiana e alcune necessità urgenti della nostra vita nazionale, assumeva in realtà la forma e la sostanza di un'affermazione politica di valore universale. In Italia si cercava di risolvere problemi che erano, dove più dove meno, presenti in tutta la società europea: non c'era dovunque, ed anche fuori d'Europa, ad esempio, l'esigenza di superare la lotta di classe, di eliminare la "frizione" tra forze della produzione, sindacati e Stato? Non si discuteva dovunque della "crisi" della democrazia basata nel Parlamento e sui partiti, e dell'insufficienza delle strutture politiche liberali di fronte ai paurosi problemi che l'epoca moderna crea quotidianamente allo Stato? Abbiamo accennato ad una "successione logica" con la quale il fascismo provvide alla costruzione del suo Stato, cioè della struttura costituzionale consona ai suoi postulati ideologici e rivoluzionari, ed abbiamo già delineato alcune tappe fondamentali di tale sviluppo. Dopo le leggi sindacali già citate, un altro passo avanti, in materia economico-sociale, venne compiuto nel 1934. Il 14 novembre dell'anno precedente, Mussolini aveva tenuto al Consiglio Nazionale delle Corporazioni uno dei suoi più importanti e meditatati discorsi : egli affermò che la crisi non era "nel" sistema capitalistico-liberale, ma "del" sistema tutto intero e, dopo aver rilevato come l'Europa fosse ormai spodestata nella direzione della civiltà umana, negò che l'Italia potesse definirsi una nazione ad economia capitalistica. Il 5 febbraio 1924 veniva così promulgata la legge che riordinava il complesso settore delle Corporazioni e l'8 maggio successivo il Comitato Corporativo Centrale dettò il relativo regolamento d'attuazione. In base a queste norme le Corporazioni facevano capo a tre gruppi: a ciclo produttivo industriale, agricolo e commerciale e per le attività produttrici di servizi. Con successivi decreti vennero poi costituite le 22 Corporazioni e nominati i loro consiglieri che, in numero di 823, si radunarono il 10 novembre del '34 in Campidoglio. In un articolo irruente, Mussolini poteva finalmente precisare la portata sostanziale di tutte le innovazioni compiute, sia in sede politica che in sede economica, sociale e costituzionale : "Col suo nuovo Consiglio delle Corporazioni - egli gli scriveva tra l'altro - l'Italia presenterà al mondo la più radicale riforma nella storia dei tempi moderni. I sintomi sono chiari ovunque, Tutte le strade conducono a Roma, ma anche tutte le strade conducono da Roma a tutti gli orizzonti, a tutti i punti cardinali davanti alla innumerevole moltitudine di Milano, io dissi, che il mondo fra dieci anni sarà o fascista o fascistizzato.


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Ripeto ora, con maggiore convinzione, che il 1934 segnerà una tappa decisiva in questa fascistizzazione del mondo". I sintomi sono chiari... il fascismo è un fenomeno universale... queste espressioni, sempre più frequenti in quegli anni stanno appunto ad indicare che l'esperimento in corso in Italia, nella mente di coloro che ne dirigevano lo sviluppo, aveva un valore non soltanto circoscritto all'ambito nazionale. E non era facile millanteria di parte, questa: in tutto il mondo operavano ormai gruppi politici che si dichiaravano fascisti o affini al fascismo. Eccone un sommario elenco, redatto dai servizi del nostro Ministero degli Esteri : Argentina, Partito fascista argentino; Austria, Heimatschutz; Belgio, Dinasos (di Van Severen), "Legion Nationale" di van den Bossche, la "Ligie nationalcorporaive du travail" di Somville; Bolivia, le "Camisas Kasis" di Iriarte e Baldomaz; Brasile : Acao Social Brasileira), di Fabrinho e l'"Integralismo" di Salgado, con le sue squadre d'azione in camicia verde; Bulgaria, i "Bulgarski fascisi" di Mitakoff e la "Nazionalna Zadruga fascista " di Stalysky; Cile, il "Movimento nazionalsocialista" di Gonzales von Marèes, il "Fronte National" di Vial e il Partito Corporative Popolare; Cuba, le "Camicie Verdi"; Danimarca, il "Ny Seind" di Tandrup; Estonia, il Partito Fascista diretto da Lirk; Finlandia, il "Lappiamo" di Rosola; Giappone, il "Nippon Kokka" di Akamatsu e il " Kokuka " di Araki; Grecia, due movimenti; Irlanda, la "National Guard" di O. Duff, con le Camicie Azzurre; Lettonia, ; "Perconkrusts" di Celmnis, Lituania, il Partito nazionalista di Smetona; Norvegia, il National Samling di Quisling; Olanda, la Lega Generale fascista di Baars, l'Associazione Giovani Fascisti di Mineur, il Gruppo nazista di Mussert e lo "Ziwart Front" di Moiser; Panama, la "Union de defensa nacional" di Tapia Collante; nel Perù, il Partito Fascista di Vallejo; nel Portogallo, la "Açao Escolar Vanguarde" di Salazar; Romania, la "Guardia di Ferro" di Codreanu; Spagna, la "Falange Espanola" di Besteiro e Primo de Rivera; Svizzera, il "Fascismo Svizzero" di Fonjallaz; in Ungheria, il Partito Fascista Ungherese di Kaszala ed il Gruppo Nazista di Mesko. Persino in Manciuria, a Charbin vi era il movimento "Russky Fascism" capeggiato dal generale Rodzajevisky. Anche in Inghilterra, v'erano gruppi che si ispiravano dichiaratamente al fascismo, come la "British Union of fascists" di Sir Oswal Mosley, i cui aderenti indossavano la camicia nera ed avevano creato movimenti analoghi in Australia (con la "New Guard" di Campbell) ed in Canada (con le "Camicie brune" di Chalifoux). In Francia, nella terra degli Immortali Principii, i gruppi fascisti erano numerosissimi: le "Jeunesses Patriottiques" di Taittinger e Prevost; il Francismo, di Bucard, le "Croci di Fuoco" di De la Roque e la "Solidaritè francaise" di Renaud, oltre al movimento alsaziano "Staatreform" fondato da Armbruster. Qualcuno di questi gruppi sparì nel nulla o rimase circoscritto a pochi aderenti, ma molti altri crebbero e si svilupparono in modo estremamente combattivo, dal Brasile al Portogallo, dalla Spagna al Cile, dall'Ungheria alla Romania alla stessa Francia. Essendo questa la realtà delle cose non si trattava più soltanto, per l'Italia, di affrontare le incognite di una normale competizione politica e diplomatica, ma sibbene di sostenere il ruolo

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storico di centro propulsore di una rivoluzione che si ergeva contro tutto un mondo di principi ottocenteschi e di interessi cristallizzati. Dal 1934 in poi, tutte le "grandi mosse" della politica estera italiana segnano altrettanti "appuntamenti con la storia" dell'Europa e della civiltà di tipo nuovo di cui l'Italia era diventata portatrice. E c'è, in ogni occasione, un non casuale incontro tra quelle che sono le esigenze che definiremo più propriamente nazionali e quelle spiccatamente ideologiche. Come nel caso dell'impresa etiopica, per esempio: nessuno può negare che l'Italia andò in Africa per risolvere il problema del suo spazio vitale, per avere un territorio che assicurasse uno sfogo alla nostra crescente pressione demografica e perché noi non dovessimo passare in eterno sotto le forche caudine della mancanza di materie prime essenziali, indispensabili alla dignitosa e libera esistenza di una grande Potenza moderna. Ma questo momento imperialista del popolo italiano non realizzava anche un più alto interesse di tutta l'Europa e dell'intera razza bianca? Noi ci proponevamo di portare in Africa, in un ventennio, dieci milioni di italiani; di trasformare l'A.O.L, non in una riserva di sfruttamento colonialistico e commercialistico. secondo il vieto cliché delle plutocrazie franco- inglesi, ma in un territorio abitato da milioni e milioni di bianchi che avrebbero riaffermato con le opere di civiltà e virtù creatrici della stirpe. Ed oggi che gli europei sono stati scacciati dall'Asia e si apprestano ad abbandonare l'Africa- oggi si può intendere appieno l'imponenza di quel diverso "orizzonte" che noi prospettammo allora a tutti gli europei e contro il quale si coalizzò la miopia conservatrice e rinunciataria delle classi dirigenti democratiche di Francia e d'Inghilterra. E' da questo angolo visuale, è partendo da filo conduttore offertoci da queste considerazioni che bisogna anche inquadrare il vero significato della seconda guerra mondiale. Certo, la guerra scoppiò a causa di Danzica e del suo famoso "corridoio", certamente, essa esplose per l'incontenibile spinta della Germania nazista a cancellare le conseguenze del diktat di Versailles; e l'Italia vi partecipò anche per considerazioni strettamente "nazionalistiche", avendo ad obiettivo la conquista della preminenza nel Mediterraneo, le limitazioni del predominio anglo-francese nel Mare Nostrum, il consolidamento delle raggiunte posizioni imperiali. Ma gli storici futuri saranno senz'altro indotti a scoprire i motivi veri di quella conflagrazione anche e soprattutto nello irriducibile antagonismo che si era venuto cristallizzando tra i due opposti gruppi di Potenze, per motivi essenzialmente ideologici. V'erano, ormai, chiaramente, due principi diversi in lotta, due concezioni dell'uomo, della vita e del mondo in assoluto contrasto tra di loro. Da una parte, anche in sede teoretica, di pensiero politico, di filosofia - se più piace questo termine - v'erano i Paesi che ancora credevano nei principi scaturiti dalla Rivoluzione Francese dell'89, nel parlamentarismo e nel partitismo; e dall'altra v'erano i Paesi che si ispiravano alla dottrina fascista, per una concezione spirituale, per uno Stato gerarchico e corporativo, per l'Ordine e la Autorità. Il fascismo, partito da un semplice attivismo antisovversivo, quasi da un'istintiva reazione al


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disordine del primo dopoguerra italiano, era venuto mano mano precisando la sua vocazione più intima e si era posto come la bandiera della rivoluzione antidemocratica, antiplutocratica ed anticomunista. Anche anticomunista, è il momento di precisarlo. Per il fascismo, che già aveva sconfitto il bolscevismo in casa nel 1919-'22 e si era mobilitato nel '36 per impedire che esso si installasse in Spagna, all'estremità occidentale del Vecchio Continente, il comunismo non è che un aspetto del mondo democratico. Sono gli errori della democrazia, le insufficienze dello Stato parlamentare, le ingiustizie sociali connaturate al sistema capitalistico, che forniscono continuamente armi. alla propaganda comunista e danno un che di fatale, di veramente progressivo allo slittamento a sinistra del mondo moderno. Perciò il fascismo, coerentemente a questa impostazione, non appena sgommato il socialcomunismo in Italia si dette a smantellare lo Stato liberal-democratico: per eliminare alla radice la possibilità che il marxismo trovasse di nuovo alimento alla sua propaganda sovversiva. Perciò il fascismo - si può dire sviluppando il ragionamento al momento della resa finale dei conti politici, si trovò contro, contemporaneamente e le democrazie capitalistiche anglosassoni, e la Russia bolscevica. Anche per questo, si può definire la seconda guerra mondiale una guerra soprattutto ideologica. Né è da pensare che si possa tentare al riguardo la speculazione superficiale che già abbiamo avuto modo di denunciare a proposito del Regime e di tutta l'esperienza del ventennio: come intorno al fascismo italiano si schierarono in buona fede intelligenze di prim'ordine, così intorno all'Asse ed a quello che potremmo definire il Fascismo Europeo si mobilitarono energie e spiriti di altissima levatura. Non un intento apologetico - estraneo, oltre tutto, al nostro stile - ci spinge a fare questa affermazione, ma l'obiettiva constatazione dei fatti e la speranza di contribuire alla ricerca della verità: E d'altronde, poiché tutti questi uomini continuarono a mantenere fede alle proprie idee anche quando le cose si mettevano male per la loro "barricata", perché negare il riconoscimento a tanto cosciente sacrificio? Dopo il 1942, e più ancora dopo il 1943, l'Asse aveva poche speranze di vincere la guerra. C'era - è vero, ed è ormai di dominio pubblico - un'angosciosa "corsa" tra i laboratori tedeschi dove si studiavano razzi e missili e fors'anche la bomba atomica e la massiccia preponderanza degli anglo-russi-americani; ma questo duello era sconosciuto ai più. Di evidente, di palpabile c'era soltanto la strapotenza degli Alleati: da Oriente, le Armate rosse calavano come una valanga d'acciaio e di fuoco; da Occidente, preceduti in cielo da diecine di migliaia di bombardieri e caccia, e in terra da altrettanti carri armati, dilagavano i multicolori eserciti militanti per gli anglosassoni; l'Italia era già invasa, la Balcania indifendibile, l'Atlantico percorso da poderosi convogli che scaricavano nelle brecce aperte nella "Fortezza Europa" milioni di uomini e diecine di milioni di tonnellate di materiale bellico. Questa lotta senza speranza, era anche - terribile a dirsi - all'ultimo sangue. Non ci sarebbe stata pietà per i vinti, per i sopravvissuti, per coloro che non avessero abiurato o saltato in tempo il fosso. Chi fosse scampato ai massacri del fronte ed ai bombardamenti, una volta sparata l'ultima fucilata, sapeva che era passibile di morte, di prigione, di epurazione.

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Eppure in tutta Europa, minoranze coraggiose tennero duro sino in fondo, non vennero meno all'impegno preso o al giuramento prestato, vollero cadere in piedi, se era destino che la sconfitta suggellasse tante speranze. In Italia, per la Repubblica Sociale, sorta in tragiche circostanze, vi furono 700 mila volontari tra soldati e civili. E lo stesso accadde in tutti i Paesi europei invasi, nonostante che ovunque le sorti della guerra apparissero chiaramente decise. Avvenne così che una guerra iniziata formalmente per motivi nazionalistici e revanscistici, perdesse sotto l'urgere di eventi storici la sua scorza esteriore e si mostrasse con il suo vero volto di lotta tra opposti principi, che si contendevano l'onore e l'onere di dirigere le sorti del mondo. Nel suo "Dialogo quasi socratico", comparso su "Civiltà Fascista" nel marzo del '44, Mussolini si chiedeva e rispondeva: "Ma allora che cos'è la grandezza delle cose umane? Ciò che esce dai confini del consueto, del normale. La grandezza, e quindi la gloria. Nella religione - ad esempio - è la santità; nell'arte il capolavoro; nella scienza, la scoperta; nella politica, l'impero; nella guerra, l'eroismo. Quindi v'è una gloria artistica, una religiosa, scientifica, politica, militare... Ritieni che la "gloria" militare sia necessariamente legata alla vittoria? - No. Affatto. Si può perdere bene; si può vincere male. Ci sono delle disfatte gloriose e delle vittorie equivoche. Quando un popolo resiste sino allo estremo, quando un esercito si batte all'ultimo uomo, la gloria ne bacia le bandiere anche se fu avversa la sorte delle armi. Vi sarà sempre rispetto e poesia per coloro che hanno combattuto.. ". Poiché il rispetto è mancato e la poesia è stata proibita, nel primo, grigio e sanguinoso dopoguerra d'Europa, che almeno si renda omaggio con l'obiettività a "coloro che hanno combattuto". Dovunque, in tutta Europa. Perché, se in Italia vi fu il grande fatto storico della R.S.I. a confermare la vitalità del fascismo dopo i traumi del 25 luglio e dell'8 settembre, bisogna riconoscere che in tutte le Nazioni d'Europa delle minoranze qualificate ed agguerrite si schierarono sotto le stesse insegne ideali. In Romania, la "Guardia di Ferro", misticamente ispirata dal sacrificio di Codreanu, suo Capo e fondatore, lottò fino all'ultimo; e nella vicina Ungheria, le "Croci frecciate" di Szalasy combatterono tra le macerie di Budapest, come tredici anni dopo avrebbero fatto altri ribelli della stessa generosa razza. Con gli ustascia in Croazia, con le "Aquile bianche" di Nedic in Serbia, con le "Camicie Azzurre" in Polonia, altri movimenti presero le armi in difesa dell'Europa invasa. E' più noto, ma non in tutti i suoi aspetti sacrificali, il contributo dato da belgi ed olandesi alla "guerra per l'Europa": le loro Legioni di volontari sul fronte russo, si batterono fino all'ultimo uomo, ed i pochi superstiti, tornati in Patria dopo paurose odissee nei campi di concentramento di mezza Europa, trovarono pronto al confine il gendarme e, dopo, il plotone d'esecuzione, o la prigione, o la "morte civile" rappresentata dall'epurazione. I fiamminghi di Elias, i volontari valloni portati sul fronte dell'est dal magg. Hellebant, tutti coloro che seguirono la prestigiosa figura del Capo belga Leon Degrelle, pagarono duramente di persona. Elias ed Hellebant sono ancora detenuti, Leon Degrelle è ramingo per il mondo.


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Anche i norvegesi di Quisling, ispirati da Knut Hamsun che condivideva in pieno gli ideali dell'Asse e che, processato, ormai vecchio, si rifiutò di rispondere ai suoi giudici e non aprì bocca durante tutto il dibattimento, dettero migliaia di volontari, come i danesi e gli spagnoli della "Divisione Azzurra", immolatisi intorno alla contesa Leningrado. Sul fronte russo si trovarono così spalla a spalla: italiani, tedeschi, ungheresi, romeni, spagnoli, fiamminghi, valloni, olandesi, norvegesi, finlandesi, croati, cosacchi, (dell'Armata antibolscevica costituita dal gen. Wlassov, che fu poi impiccato insieme a 50 alti ufficiali nella Piazza Rossa di Mosca) ed, un buon nerbo di volontari francesi. I francesi, infatti, dettero una non dimenticabile partecipazione a questa lotta, con militari come Petain, politici come Lavai, pensatori come Charles Maurras, Drieu La Rochelle ed il Premio Nobel Alexis Carrell, poeti come Brasillach, che prima d'essere fucilato al triste forte di Montrouge scrisse liriche d'una stupenda bellezza, scrittori come Fabre-Luce, giornalisti come Henry Beraud e Bardeche, artisti di fama internazionale come Chevalier, Guitry e Corinne Luchaire. Le Divisioni "Carlo Magno" e "Giovanna D'Arco", formate interamente di giovani volontari, continuarono a combattere in Germania anche quando la Francia era ormai interamente occupata, e lo stesso fecero, fino in Alto Adige, nel '45, i reparti della "Milice" francese di Darnaud. Non per nulla sulle macerie della Cancelleria di Berlino, dove avevano disperatamente combattuto i resti di molti reparti di "volontari" europei, sbattuti nella fiammeggiante Capitale del III Reich dalle ultime vicende del conflitto, dopo che i carri d'assalto sovietici e le fanterie mongole avevano spento nel sangue le ultime resistenze, fu trovato scritto su un frontone : "Noi europei moriamo, perché l'Europa viva ". *** Ma l'Europa oggi non vive, vegeta mediocremente, e sembra non avere altro destino che la "scelta" tra la casacca russa e la livrea americana. Le più tristi profezie dei pensatori sulla crisi dell'Occidente, le più cupe premonizioni mussoliniane sullo "spodestamento" dell'Europa, si sono avverate. Una volta, a "fare politica" erano le Cancellerie ed i Governi europei: a Londra, a Parigi, a Berlino, a Roma, a Vienna. Dalle decisioni europee dipendeva il destino del mondo. Oggi, fanno e disfanno, solo americani e sovietici, e gli stessi governi democratici del Continente vivono sotto l'incubo che un improvviso sussulto elettorale degli americani non costringa Washington a stabilire con Mosca un "modus vivendi" alle spalle e sulla pelle dell'Europa. Cacciati dall'Asia, odiati in Africa, espulsi dal Medio oriente, gli europei si trovano nella peggiore condizione possibile : sono, anzi, invasi, in casa loro, dal torrente di giamaicani ed altri uomini di colore che si stabiliscono in Inghilterra, mentre gli algerini sparano all'impazzata sui boulevards parigini, ed a Roma spendiamo diecine di milioni per "educare" i futuri dirigenti dello Stato somalo. I colloqui Eisenhower-Krusciov e lo "spirito di Camp David" sanzionano questa situazione provvisoria del Vecchio Continente: l'Europa è fuori giuoco.

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Provvisoriamente; perché, continuando di questo passo non è escluso che la spinta propulsiva del comunismo non raggiunga i suoi definitivi obiettivi. Tutte le forze nazionali europee, impegnate nella costruzione di un "Ordine Nuovo" che rappresentava un solido argine al bolscevismo, sono state pugnalate alle spalle nel momento culminante, e la Russia sovietica ha avuto via libera piantando le sue bandiere ne] centro del Continente, con Berlino spaccata in due e la falce e martello sulla Porta di Brandeburgo. E' tutto un mondo che preme alle frontiere di questo Occidente invigliacchito e tremebondo, che non ha più un "mito" in cui credere e spera solo che "dall'altra parte" non si decida di serrare i tempi. Dal settembre del '39 ad oggi, l'Unione Sovietica ha "inghiottito" : Polonia orientale 177 mila chilometri e 10 milioni e mezzo di abitanti), Carelia Finlandese, Lituania, Lettonia, Estonia, Bessarabia e Bucovina. Moldava, zona di Petsamo, Prussia orientale, Ucraina subcarpatica, Sakalin meridionale, Isole Curili e Taunu Tuva(Mongolia); si è dilatata, verso oriente e verso occidente per un complesso di 707.212 chilometri quadrati e per 24.535.500 abitanti. Dal "matrimonio di guerra" tra Russi, Inglesi ed Americani, solo i primi sono usciti con aumento di potenza, territori, popolazioni e prestigio politico. E sono ancora all'offensiva, ovunque e in ogni campo, profittando di ogni occasione, per far guardare a Mosca come al "mito" del nostro secolo, una idea-forza che ha al suo servizio anche i prestigiosi successi spaziali. E da quest'altra parte non si capisce, non si vuole ancora capire che a Mosca bisogna opporre Roma: un altro mito, un'altra bandiera, un'altra fede. Pino Rauti 1965


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SE PROPRIO DOVETE STORPIARE I SOSTANTIVI, STORPIATELI BENE! INCIPIT Rassegna stampa televisiva mattutina, prima del primo caffè, in emittenti diverse: per tre volte è stato asserito "ministra Lamorgese". Non se ne può più. FACCIAMO CHIAREZZA Egregi giornalisti che affollate le redazioni dei media (termine che imperterriti e in buona compagnia continuate a pronunciare con la ridicola e inesistente versione anglosassone "midia"), nessun giudice, purtroppo, può imporvi di non storpiare la lingua italiana e pertanto avete campo libero nelle vostre fantasiose elucubrazioni. Buon pro vi faccia e soprattutto buon divertimento: non è da tutti avere la possibilità di intervenire, non importa se negativamente, nel cambiamento del linguaggio. Se proprio dovete storpiare i sostantivi, però, almeno storpiateli con senso logico! Altrimenti è davvero troppo. Volgere al femminile "ministro", cosa che già di per sé non sta né in cielo né in terra, utilizzando il suffisso "a" (ministra), anziché "-essa" allarga i confini dell'impossibile ben oltre quelli terrestri e del cielo! Non vi sembra di esagerare con le cose impossibili? Il femminile di un sostantivo si forma partendo dalla forma più antica alla quale sia possibile risalire nello studio della sua storia (etimologia). Per l'italiano, questo dovreste saperlo anche voi, il riferimento più antico, in massima parte, è il latino; poi vi è il greco; non mancano influssi celtici e sono altresì presenti molti altri termini mutuati dalle lingue dei tanti popoli che si sono divertiti a praticare il bunga-bunga nel nostro paese, nel corso dei secoli. Il dizionario Treccani, che - perdonatemi - è redatto da persone con un pizzico di autorevolezza superiore alla vostra, ci ricorda che il suffisso nominale adoperato per formare il femminile dei nomi di professione, mestiere, occupazione, dignità nobiliari è "-essa": contessa, duchessa, principessa, dottoressa, ostessa, poetessa, professoressa, studentessa. Talvolta il suffisso esprime una connotazione ironica o spregiativa: giudicessa, medichessa. Riferito a cose, invece, può assumere un valore accrescitivo o dispregiativo rispetto alla base nominale: ancoressa, articolessa, pennellessa, sonettessa. Corretto il femminile di alcuni nomi di animali (elefantessa, leonessa); in disuso l'abitudine di utilizzarlo per indicare le mogli di chi ricopre una determinata carica (generalessa, prefettessa), mentre persiste l'utilizzo con valore ironico o spregiativo (vigilessa, medichessa). Basta sfogliare un semplice dizionario latino-italiano, del resto, per scoprire l'arcano.

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Conte: comes-comitis; femminile: comitisa-comitisae e quindi "contessa". Principe: princeps-ipis; femminile: princips uxor-uxoris (moglie del principe, che evidenzia la forte caratterizzazione del sostantivo maschile, reiterata anche nei sinonimi "regia virgo" fanciulla del re, fanciulla reale - e "princeps femina-ae") e quindi "principessa"; Duca: dux ducis; femminile: dicissa-ducissae e quindi "duchessa"; Professore: professor-oris; femminile: mulier professor-professoris e quindi "professoressa" (anche qui mulier evidenzia la forte caratura maschile, che trova il giusto equilibrio nel sinonimo "docendi magistra-magistrae, da cui "maestra"); Dottore: doctor-oris; femminile mulier doctor-doctoris e quindi "dottoressa"; Avvocato: advocatus-i, termine che non contempla il femminile e quindi resta invariato. È improprio, pertanto, dire "avvocatessa" e ancor più "avvocata", che fa scadere il termine nella ridicolaggine, dal momento che il sostantivo è stato coniato precipuamente per indicare la figura religiosa più importante del firmamento cristiano: "Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi". Arriviamo a ministro, per non farla troppo lunga: "Rei pubblicae administrator- oris"; oppure "gubernator-oris", "procurator-oris" e , in ultimo, "minister-tri". Di femminile non se ne parla proprio e già questo basta a rendere il termine invariabile. Sulla scorta di quanto sopra esposto, e sorvolando sul quarto termine con il quale sia possibile declinarlo in latino, se proprio volete divertirvi a mettere la gonna al sostantivo, il termine da utilizzare (sempre impropriamente, sia ben chiaro) è "ministressa" e non ministra. Dulcis in fundo, tanto per affondare un po' il coltello nella piaga: qualora dovesse venirvi voglia di sfogliare un testo di grammatica per studiare il femminile dei nomi, perdetelo un quarto d'ora in più anche sui capitoli dei verbi servili e della consecutio temporum. Quel "sarebbe dovuto essere" pronunciato con metodica e diffusa frequenza fa davvero venire i crampi allo stomaco, alla pari del congiuntivo presente in una frase con condizionale presente nella reggente. Va da sé che non è proprio il caso di invitarvi a ripassare anche il corretto utilizzo dei congiuntivi al di fuori della consecutio temporum: è sempre buona norma, infatti, non combattere battaglie perse in partenza. Lino Lavorgna


DA LEGGERE

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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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