Confini 89

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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

ECOLOGIA

Numero 89 Ottobre 2020


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 89 - Ottobre 2020 Anno XXII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Pietro Angeleri Francesco Diacceto Luigi Esposito Gianni Falcone Lino Lavorgna Sara Lodi Emilio Petruzzi Antonino Provenzano Angelo Romano Gianfredo Ruggiero Cristofaro Sola Massimo Vitali +

Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone e Sara Lodi

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EDITORIALE

TU E LA TERRA SIETE UNO

C'è stato un tempo in cui gli uomini si sentivano parte - non padroni - della natura. In ogni albero, ruscello, creatura riconoscevano il sacro, come in loro stessi. Questa sintonia teneva svegli ed accresceva i "sensi sottili" di cui erano dotati e che consentivano loro di comunicare con il creato e di "dialogare" con gli "spiriti" degli altri uomini, degli animali, delle foreste, del cielo, della terra, dell'aria, del fuoco e delle acque. C'è stato un tempo in cui signoria e proprietà convergevano nell'unica missione di tutelare e tramandare un porzione di territorio nella sua bellezza quanto nella sua utilità e un re era tale perché rappresentava in uno il suo popolo e la terra. Si veda e si riveda lo splendido film "Excalibur" di Boorman ed anche il suo "La foresta di smeraldo". Oggi restano labili tracce di quel che fu nella cultura e nella prassi di alcuni popoli aborigeni, di alcune tribù amazzoniche, di qualche nativo americano e nella Tradizione. Tutto è andato perduto con la scissione tra mente e corpo. L'uomo, col passare del tempo, ha ritenuto che il solo processo di comprensione mentale, attraverso intelligenza e ragione, fosse sufficiente a relazionarsi con il reale. E ha dimenticato di possedere un cuore ed un corpo senzienti e memori. Memori dei padri e degli antenati, della genealogia e del sangue e non solo del labile ricordo che oggi conserviamo di loro e che ce li fa presto dimenticare. Come ha scisso il legame col mondo dei sogni. Da allora, persino nelle cosiddette scuole iniziatiche le prove fattuali sono state sostituite dalla metafora delle prove iniziatiche, puramente mentali. E così Ercole ha potuto abbandonare le sue "fatiche" lasciando il campo a Sisifo. E così anche Prometeo è morto ed il fuoco si è spento. Gli uomini di un tempo avevano una mente, un corpo e uno spirito "ecologici": ossia questi erano un tutt'uno tra di essi ed erano, per questo, in grado di porsi in rispettosa relazione col tutto. Oggi agli uomini resta solo la ragione, quella del "cogito ergo sum". Una ragione egoista, avida, opportunista e supponente che tutto spiega col suo solo metro. Quel metro che ha ridotto il pianeta come è ridotto, quel metro che ha creato l'incubo nucleare, le armi batteriologiche, i gas nervini, lo sfruttamento delle risorse oltre misura, il cambiamento del clima, il buco nell'ozono mai tanto grande come adesso, la liquefazione delle calotte polari, l'immanità di incendi e tempeste, l'estinzione di specie viventi.... Quello stesso metro che desertifica e che erode le terre fertili. Ora, col senno di poi, si cerca di correre ai ripari propugnando un'economia verde e sostenibile,


EDITORIALE

giĂ , ma pur sempre di economia si tratta.... Forse andrebbe propugnata un'ecologia (almeno) della mente. Angelo Romano

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SCENARI

ECOLOGIA PROLOGO Napoli, Hotel Terminus, 24 novembre 1977. Seminario di studi ecologici sul tema: "Ambiente e urbanistica a dimensione d'uomo". Parte conclusiva del discorso pronunciato dall'autore di questo articolo, all'epoca presidente dell'Associazione nazionale salvaguardia ecologica e dirigente regionale dei Gruppi di ricerca ecologica. […] Oggi, quindi, abbiamo non solo le idee chiare sui limiti dello sviluppo ma anche gli strumenti più idonei per una consona tutela dell'ambiente, ancorata a sani presupposti di sviluppo sostenibile. Paradossalmente, però, se l'Italia può vantarsi di aver promosso il fondamentale rapporto realizzato dagli scienziati del Massachusetts Institute of Technology, ha anche il triste primato di non aver fatto nulla, nell'ultimo quinquennio, per realizzare i programmi in esso suggeriti. Le associazioni ambientaliste tradizionali continuano a organizzare allegre scampagnate e a battersi per la difesa di leprotti, uccellini e agnellini. Nobilissimi propositi, ovviamente, ma evidentemente non bastevoli a fronteggiare i disastri provocati dallo sconsiderato attacco agli ecosistemi. Non possono fare nulla di più, del resto, essendo in massima parte o espressione diretta di quelle entità che dovrebbero contrastare o ad esse asservitesi, dopo aver ceduto a gradevoli, chiamiamole così, "lusinghe". È stata proprio questa consapevolezza che mi ha spinto, due anni fa, a chiudere ogni ponte con loro e a fondare l'ANSE, con il sano proposito di "volare alto", cosa oggi facilitata grazie al connubio con i Gruppi di Ricerca Ecologica, che si muovono con analoghe finalità e con strumenti di diffusione mediatica senz'altro più efficaci rispetto a quelli di cui disponga l'ANSE. Un dato è certo: non si può tergiversare. Il Pianeta sta morendo e i popoli del mondo non hanno ancora compreso, in massima parte, il baratro nel quale stanno precipitando. Se non dovessimo correre ai ripari in fretta, nel giro di venti-trenta anni potrebbe essere davvero troppo tardi per intervenire. Tutti noi che ci troviamo in questo splendido salone, e tanti altri amici qui non presenti, ma idealmente al nostro fianco, rappresentiamo la parte sana di questo Paese e l'avanguardia culturale capace di discernere il grano dal loglio. Tocca noi, pertanto, produrre ogni sforzo affinché il validissimo messaggio di civiltà di cui siamo portatori si diffonda e permei le coscienze di chi, magari inconsapevolmente, si rende artefice delle proprie sventure. Non possiamo contare che su noi stessi e non possiamo permetterci di fallire, essendo la posta in gioco troppo alta. È in pericolo la nostra stessa sopravvivenza e pertanto non posso che chiudere il mio intervento


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evocando il monito di José Ortega y Gasset: "Io sono me più il mio ambiente e se non preservo quest'ultimo non preservo me stesso". UN PO' DI STORIA Sono trascorsi quarantatré anni da quel convegno che segnò, in Italia, un punto di svolta nell'approccio con le tematiche ambientaliste. Vi parteciparono fior di studiosi e furono tracciate le linee guida per una vera rivoluzione verde, ancorata ai principi sanciti nel famoso "Rapporto sui limiti dello sviluppo", commissionato alla prestigiosa università statunitense dal "Club di Roma", associazione non governativa fondata nel 1968 da Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King con l'intento di studiare i cambiamenti globali, individuare i problemi futuri dell'umanità e suggerire adeguati provvedimenti preventivi. Rileggendo le parole pronunciate circa mezzo secolo fa risulta evidente quanto esse siano pienamente attuali, a riprova che nei decenni successivi non si è fatto nulla né per porre rimedio ai disastri già allora evinti né per prevenire quelli futuri, che invece sono via via aumentati a dismisura. Il rapporto tra uomo e ambiente per millenni è stato caratterizzato da una armonica coesistenza, mai fonte di particolari scossoni. Nondimeno, già nel 1866, lo scienziato tedesco Ernst Haéckel scrisse un saggio intitolato "Morfologia generale degli organismi", destinato a diventare famoso perché in esso comparve una nuova parola, derivata dal greco oikos (casa, ambiente) e logos (discorso, studio): ecologia, ossia la scienza dell'insieme dei rapporti degli organismi con il mondo circostante. Concettualmente l'ecologia vanta anche studi più antichi, che possono risalire addirittura ad Aristotele (armonia della natura e tra le specie viventi) e in epoca più recente a Carlo Linneo (non tragga in inganno il nome: è un medico svedese), che nel XVIII secolo sviluppò l'idea di "economia della natura", in virtù della quale a ogni specie vivente viene assegnato il suo giusto posto, il giusto accesso al cibo, il giusto tasso di crescita demografica. Con Darwin vengono destrutturati sia la dimensione armonica della natura sia i rapporti tra le specie: la natura può trasformarsi anche in nemico e, all'armonica interdipendenza che caratterizza i rapporti tra le specie si associa una drammatica competitività, che spesso sfocia in tragedia. Nel 1913 nasce a Londra la "prima società di ecologia" e via via si perfezionano studi sempre più accurati per agevolare un sereno rapporto tra esseri umani e ambiente. Nel 1935 Arthur Tansely parla di "ecosistemi", ossia l'insieme degli organismi viventi e delle componenti non biologiche necessarie alla loro sopravvivenza in una certa area. Gli studi effettuati dagli scienziati fino alla metà del XX secolo, di fatto, servivano a inquadrare le problematiche ambientali in un contesto scevro da distonie particolari ed erano comparabili, quindi, a qualsiasi altro studio concepito per assicurare all'uomo utili strumenti per migliorare la qualità della vita. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, però, lo scenario cambia radicalmente: in pochi anni il progresso tecnologico sconvolse la vita del Pianeta e si registrò una sensibile alterazione del più volte citato "armonioso rapporto" tra natura ed esseri umani. Il vento impetuoso del presunto benessere spirava troppo forte per essere fermato e,

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nell'Occidente, i rifiuti industriali, i fumi velenosi e i gas di scarico incominciarono a contaminare massicciamente vaste aree, soprattutto quelle più densamente popolate. Se gran parte dell'umanità era cieca e una nutrita minoranza consapevole preferiva privilegiare con criminale cinismo gli interessi personali, anche a prezzo della vita altrui, già negli anni sessanta incominciarono a svilupparsi movimenti di protesta che, magari in modo confuso e approssimativo, cercavano di contrastare gli attacchi alla natura. Nel 1970, una buona fetta di questi novelli cavalieri dell'ideale, chiamati ambientalisti, decise di far sentire in modo più incisivo la propria voce. LA SETTIMANA DELLA TERRA Tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso le città si trasformano in formicai impazziti, con le strade intasate di auto e i gas di scarico che lasciano residui polverosi sui balconi delle abitazioni, in massima parte già munite di efficaci sistemi di riscaldamento. Con ritmo accelerato crescono anche gli impianti di aria condizionata. Le industrie scaricano veleni nei corsi d'acqua e accumulano rifiuti tossici difficilmente smaltibili. Scienziati corrotti, lautamente retribuiti, utilizzano in modo distorto le loro competenze per diffondere il falso concetto di sicurezza delle centrali nucleari. In Italia saranno sconfitti, ma ovunque nel mondo le centrali crescono come funghi dopo una notte piovosa. Dagli schermi televisivi il simpatico Gino Bramieri riversa quotidianamente, durante il "Carosello" (per i più giovani: intermezzo pubblicitario che andava in onda come apertura dei programmi di prima serata), un ritornello creato ad hoc per le casalinghe: "Emò emò emòemò! Emòemòemò audacia temeraria igiene spirituale Moplen! Inconfondibile, leggero, resistente, ma signora guardi ben che sia fatto di Moplen". È la rivoluzione della plastica, già prepotentemente affermatasi oltre oceano, che penetra nelle case di tutti, orientando le masse verso nuovi modelli di consumo. Nessuno può prevedere che il mondo si sarebbe presto trasformato in una pattumiera, eccezion fatta per i soliti rari nantes in gurgite vasto che, in ogni epoca, essendo per dono di natura "avanti", riescono a guardare più lontano di quanto non sia consentito a chiunque altro. L'Europa, che da sempre aveva costituito l'avanguardia culturale in ogni campo, non percepisce subito la deriva ambientalista, forse anche a causa del leggero ritardo con il quale il vento del modernismo e del consumismo iniziò a spirare, rispetto a quello che aveva già travolto gli USA. Paradossalmente fu proprio nel Paese che prima di chiunque altro aveva iniziato a inquinare gli ecosistemi - e sicuramente proprio per questa ragione - che si registrarono i prodromi di un sano ecologismo, esploso a livello planetario solo una decina di anni dopo. Un primo labile attacco all'industria avvelenatrice avvenne nel 1962, grazie alla biologa e zoologa Rachel Carson, che nel saggio "Silent Spring" (Primavera silenziosa) criticò l'uso indiscriminato dei fitofarmaci, stimolando l'approvazione di leggi più restrittive, purtroppo sistematicamente boicottate dalle multinazionali, che avevano facile gioco nel corrompere i politici e tacitare le deboli voci isolate che cercavano di arginare il loro potere corrosivo. Il 22 febbraio 1970, all'improvviso, oltre venti milioni di statunitensi suonarono la prima vera


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sveglia ambientalista, rispondendo a un appello del senatore democratico Gaylord Nelson. Nella capitale gli studenti dell'Università George Washington si riversarono per le strade improvvisando sit-in ovunque fosse possibile, per ammonire i passanti. Un profluvio di concetti nuovi e anche controversi inondò il Paese, grazie all'immediata amplificazione della protesta assicurata dalle dirette televisive e radiofoniche. Ciascuno aveva le proprie idee e proponeva personalissime soluzioni, spesso vaghe, fumose e prive di reale substrato scientifico, ma tutti avevano ben chiaro che il Pianeta era sotto attacco. Si incominciarono a individuare, sia pure confusamente e con conclusioni talvolta discutibili, le principali cause dell'inquinamento, tra le quali spiccava l'aumento della popolazione, come sostenuto dal biologo Garret Hardin: "Nessuno mai si è preoccupato di come un uomo della frontiera eliminava i suoi rifiuti, finché era solo, ma non appena la popolazione è andata addensandosi, i processi chimici e biologici di riutilizzo e di riciclo si sono andati sovraccaricando. […]La libertà di mettere al mondo altri uomini ci porterà alla completa rovina". Gli faceva da eco il collega Paul R. Ehrlich: "La catena casuale del deterioramento ambientale può essere risalita fino all'origine. Troppe automobili, troppe fabbriche, un consumo eccessivo di detersivi e di insetticidi, tutta una serie di trappole tecnologiche, impianti per il trattamento delle acque di scarico non adeguati, poca acqua, un eccesso di anidride carbonica: il tutto può essere facilmente attribuito alla popolazione in eccesso". Un terzo biologo, Walter Howard, ebbe il coraggio di sostenere per primo ciò che poi sarebbe divenuto un mantra di ogni ambientalista: "La società affluente è diventata una società effluente. Il 6% della popolazione mondiale, che risiede negli Stati Uniti, produce più del 70% dei rifiuti del mondo". In quel composito e non organizzato esercito, dove ciascuno recitava a soggetto, non mancarono i visionari estremisti, che si buttarono a pesce sul consumismo, esaltando la povertà. È ancora un biologo, Wayne Davis, che parla: "Evviva i neri del Mississippi, con i loro livelli di sopravvivenza e i loro gabinetti all'aperto, perché sono ecologicamente sani ed erediteranno una nazione". Tanti studenti parlavano della crudeltà degli esseri umani, dell'eccessiva propensione al profitto. Il senatore Vance Hartke anticipò il grave problema della tecnologia senza freni, ossia il progresso tecnologico che marciava più velocemente di quello umano: "Una tecnologia senza freni, la cui sola legge è il profitto, non può che aver avvelenato per anni la nostra aria, devastato il terreno, denudato zone forestali e corrotto le nostre riserve idriche". Se, come abbiamo visto, non mancavano i politici sensibili alle tematiche ecologiche, era ben evidente che in maggioranza fossero collusi con i potentati economici responsabili dell'inquinamento, come ben denunciato da Roderick A. Cameron, direttore esecutivo del Fondo per la difesa ambientale: "I settori politici del governo, che dovrebbero promuovere le leggi e gli orientamenti sollecitati dagli ecologi, sono come colpiti da paralisi. […]Le industrie, abituate a trarre profitti dalla rapina del nostro ambiente, non possono che compiacersi dell'elezione di uomini politici favorevoli alle loro esigenze e delle assunzioni di burocrati che non sono da meno".

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Non mancarono le disquisizioni più raffinate, di carattere filosofico, ancorate a un concetto espresso nel 1966 dallo storico Lynn White, durante una conferenza: "Continueremo a vivere una crisi ecologica, sempre più grave, fino a che non avremo respinto l'assioma cristiano secondo il quale la natura non ha ragione di essere se non in funzione dell'uomo". La relazione, tutta incentrata sulle gravi colpe che lo storico imputava al cristianesimo, fu pubblicata l'anno successivo nella rivista "Science" con il titolo "Le radici storiche dell'attuale crisi ecologica" ed ebbe grande risonanza mediatica per le tesi che sconvolsero larghe fette della popolazione, aduse a ringraziare il Signore ogni giorno, prima dei pasti, salvo poi dedicarsi alle pratiche più sconce che un essere umano possa concepire, a cominciare proprio dallo spreco del cibo fino a giungere alla sublimazione di quel "mors tua vita mea" che, esasperando la competitività oltre ogni umano limite, contribuisce sensibilmente a rendere mostruosa la società statunitense. Per White, sostanzialmente, il cristianesimo afferma il dominio dell'uomo sulla natura e stabilisce una tendenza all'antropocentrismo, stabilendo una distinzione tra l'uomo, addirittura formato a immagine di Dio, e il resto della creazione, che non ha "anima" o "ragione" ed è quindi inferiore. Da questa convinzione scaturirebbe una sorta di deleteria indifferenza verso la natura, fonte di guasti non riparabili nemmeno dai soggetti coscienziosi che, con tanta buona volontà, individuano gli interventi più adeguati grazie anche alle maggiori risorse tecnologiche progressivamente rese disponibili dalle nuove scoperte e invenzioni. È tutto inutile, sostiene White, se non cambiano le idee fondamentali dell'umanità sulla natura e non si abbandonano quegli atteggiamenti "superiori igiene e sprezzanti" che ci rendono "disposti a usare la Terra per il audacia temeraria spirituale nostro minimo capriccio". Con un chiaro riferimento a San Francesco, infine, lo storico suggerisce di adottare lo spirito insito nel suo messaggio per creare una "democrazia" del creato in cui siano rispettate tutte le creature e delimitato il dominio dell'uomo sulla creazione. La Settimana della Terra portò alla ribalta planetaria il problema ambientale, proiettando tante opinioni personali, ciascuna delle quali conteneva un pezzo di verità, senza per altro riuscire a formulare una teoria univoca per interventi mirati. Nondimeno la sua importanza, a livello di "stimolo", non può essere disconosciuta se è vero come è vero che, solo due anni dopo, delle line guida chiare ed incontrovertibili furono sancite dal famoso rapporto del MIT. Non è servito a nulla, come ben sappiamo, forse proprio perché non vi potrà essere nessun effettivo cambiamento se non cambia la mentalità delle persone. I DISASTRI AMBIENTALI Bisogna "battere" molto sulla necessità di un cambiamento "dal basso" perché la storia insegna che gli esempi negativi, in qualsiasi contesto si verifichino, non servono a determinare un radicale cambio di rotta. Un esempio lampante è offerto proprio dalla terribile pandemia che sta angustiando il Pianeta da circa un anno: il forte desiderio di preservare le proprie nefaste e deleterie abitudini (in


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particolare i milioni di giovani che passano le serate saltando da un bar all'altro per ubriacarsi e impasticcarsi; che non sanno rinunciare al rumore della discoteca, ad altri riti insulsi e così via) stimola una sorta di inconscia "rimozione del problema" che non consente interventi correttivi ma solo repressivi. I guasti prodotti dall'uomo per il mancato rispetto della natura sono sotto gli occhi di tutti. A distanza di decenni vaste aree del Pianeta risultano invivibili a causa degli esperimenti nucleari ivi effettuati negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso. Il continuo depauperamento delle foreste ha reso fragile il territorio, generando dolorose ecatombi; non è da meno l'edilizia selvaggia, per giunta minata anche dalla forte incidenza corruttiva, che ha indotto i costruttori a realizzare strutture abitative e infrastrutture capaci di crollare anche a seguito di piccole scosse telluriche. I grandi disastri ambientali non sono serviti a condizionare positivamente l'umanità e si continua, imperterriti, verso una sorta di cupio dissolvi, purché non si intacchino i falsi miti del presunto benessere assicurato dall'improprio utilizzo delle risorse naturali. Quando compii sei anni, il mio Papà, militarmente tempratosi nelle infuocate dune della Libia, mi regalò la divisa dei bersaglieri, l'élite dell'esercito italiano, pronunciando questa frase: "Ti auguro di non dover mai patire i rigori di una guerra, ma se ciò dovesse accadere, fai in modo di servire la patria indossando questa divisa". Per fortuna la guerra me la sono risparmiata, ma a venti anni ebbi il piacere di indossare realmente quella divisa, al servizio del "18° battaglione Poggio Scanno", con sede a Milano ed erede del leggendario "III reggimento", che ancora oggi vanta il primato del maggior numero di medaglie al valore conquistate sui campi di battaglia. Quando in una non lontana località si verificò un grave incidente ambientale, rendendosi necessario il supporto dell'esercito, toccò ai bersaglieri intervenire e furono scelte dieci risorse, tra le quali figuravo anche io. A Meda vi era uno stabilimento chimico, l'ICMESA, che balzò agli onori della cronaca il 10 luglio 1976: un reattore collassò a causa del surriscaldamento e, per evitarne l'esplosione, furono aperte le valvole di sicurezza, liberando nell'aria i fumi contenenti una sostanza tristemente famosa, la diossina, tra le più tossiche che esista. L'incidente è passato alla storia come "Disastro di Seveso" e "Nube tossica di Seveso", dal nome del comune più colpito perché proprio a ridosso dello stabilimento, anche se in realtà i comuni interessati furono quattro: Meda, Seveso, Cesano Maderno, Desio. L'incidente, la cui gravità non poteva sfuggire ai tecnici della società, per molti giorni fu tenuto in sordina e nella zona tutto continuava a svolgersi come sempre. Dopo una settimana, però, cominciarono a morire cani, gatti, conigli, talpe, uccelli e, contestualmente, si manifestarono le prime eruzioni cutanee negli abitanti dell'area. I giornali incominciarono a parlare dell'incidente e finalmente, il 20 luglio, il vertice aziendale diffuse la notizia che i fumi dispersi nell'aria contenevano diossina. Quei dieci giorni di ritardo nel dare l'allarme, però, costarono molto caro! Furono subito emessi i divieti di consumo dei prodotti agricoli coltivati nei quattro comuni colpiti dalla nube tossica e Seveso fu diviso in tre zone a decrescente livello di contaminazione. La "Zona A" fu evacuata tra il 26 luglio e il 2 agosto con il temporaneo trasferimento in due alberghi di circa settecento

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persone. Decisione che rispondeva più a logiche di opportunità politica che scientifiche, come spesso accade in simili circostanze. Che differenza di contaminazione vi poteva essere, per esempio, tra l'ultima casa della zona A evacuata e quella della zona B ad essa attaccata, considerata la vastità dell'area complessiva interessata? È evidente che una soluzione ideale avrebbe richiesto una evacuazione ben più estesa, che però le autorità non si sentirono di adottare. Noi bersaglieri avevamo il compito di impedire l'accesso a coloro che tentavano di rientrare nelle abitazioni per prelevare oggetti e beni, frettolosamente abbandonati. Le autorità sanitarie, intanto, appurata la presenza di diossina nell'aria, fornirono chiare informazioni sui letali rischi connessi alla contaminazione, mettendo in allarme soprattutto le donne in stato di gravidanza, alle quali fu chiaramente fatto intendere che sarebbe stato opportuno abortire. Un bel paradosso, dal momento che all'epoca l'aborto era vietato. Molte donne, decise ad agire tempestivamente, fecero ricorso agli aborti clandestini; le più abbienti si recarono all'estero. Il 7 agosto, però, sull'onda della crescente rabbia popolare, il Governo autorizzò gli aborti terapeutici alle donne della zona che ne avessero fatto richiesta, scatenando un putiferio a livello mediatico tra chi plaudiva all'iniziativa e chi, invece, la contrastava, ritenendo che i bambini dovessero comunque nascere, non importa se deformi. Al termine del quotidiano turno di servizio, ascoltando il telegiornale, mi mettevo le mani nei capelli: la disinformazione era pazzesca e lo sforzo di attenuare la gravità della situazione semplicemente irritante. Non solo: si esaltava il ruolo dell'esercito nella fase di controllo dell'evacuazione, ma la realtà era ben diversa. Ogni pattuglia era comandata da un sottufficiale dei Carabinieri che, evidentemente, a differenza dei rigidi ordini impartiti a noi bersaglieri ne aveva altri più morbidi: si chiudeva spesso un occhio, infatti, consentendo a molti cittadini di entrare nell'area contaminata, con quanti rischi per la loro salute è facilmente immaginabile. Un giorno mi trovai al cospetto di un pittoresco personaggio sui sessanta anni, con un sorriso smagliante e una larvata somiglianza col popolare comico Gino Bramieri, che si presentò al posto di guardia in compagnia di un'altra persona. Con un buon italiano e il tipico accento statunitense chiese di effettuare un sopralluogo nella zona maggiormente contaminata, esibendo un lasciapassare a doppia firma. Appurato che fosse tutto in regola, gli fornii il kit protettivo da indossare prima dell'accesso. Il nome, al momento, non mi disse nulla e sparì subito dalla memoria: l'importante era verificare che la foto sui documenti corrispondesse alla persona che si presentava al posto di blocco e che il lasciapassare fosse autentico. Quasi un anno dopo, la casa editrice Garzanti pubblicò un saggio del biologo statunitense Barry Commoner, "Il cerchio da chiudere", uscito negli USA nel 1971, nel quale venivano compiutamente affrontate le problematiche ecologiche. Il saggio ebbe vasta eco e mi precipitai ad acquistarlo, essendo nel pieno del mio impegno ambientalista. Nella versione italiana l'autore aveva aggiunto una prefazione interamente dedicata al disastro di Seveso, sviscerato in tutte le sue controverse dinamiche. Si può ben immaginare la sorpresa, pertanto, quando lessi il seguente paragrafo: "Ecco quali furono le mie impressioni durante un sopralluogo nella Zona A


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due mesi dopo la sciagura. La prima immagine è un blocco stradale, con i cavalli di frisia e il filo spinato che circonda la zona A, quasi fosse un campo trincerato di una guerra di altri tempi. Due giovani soldati sbucano dalla garitta che li protegge dalla pioggia battente: indossano la tuta mimetica e imbracciano armi automatiche. Il nostro lasciapassare di ingresso nella Zona, controfirmato dall'ufficiale sanitario regionale e dal sindaco di Seveso dopo mille traversie burocratiche, viene solennemente controllato. Noi, non prima di aver indossato tute protettive, anfibi, guantoni, maschere antigas e grossi occhiali, riceviamo il permesso di superare il blocco". Il caso aveva voluto che un anno prima mi fossi imbattuto in uno dei più grandi scienziati al mondo, docente di fisiologia vegetale presso l'università di Washington, fondatore del Centro per la biologia dei sistemi naturali e, soprattutto, autorevole avversatore delle centrali nucleari. La tragica esperienza di Seveso, al di là del clamore mediatico, non ha condizionato più di tanto le coscienze delle persone. Le industrie continuano ad avvelenare l'ambiente e le masse amorfe continuano a pagare il fio della loro "insostenibile leggerezza dell'essere", che le rende incapaci di rinunciare ai cibi spazzatura, all'uso smodato dei sistemi di riscaldamento e refrigerazione domiciliare, a restare ore e ore nel traffico mentre le velenose particelle emesse dai gas di scarico contaminano l'aria. Il potere politico, attento solo ad assecondare gli umori degli elettori, trova molto più utile e attraente allearsi con i potentati economici, ancorché nefasti, invece di contrastarli. Il mondo muore, pazienza. È un problema dei posteri, ma chi se ne frega dei posteri, sosteneva Luciano de Crescenzo in un celebre film, dissertando sugli stoici e sugli epicurei e manifestando netta preferenza per questi ultimi, sulla scorta di quanto contemplato in un celebre motto di Orazio: "Carpe diem, quam minimum credula postero". Nel 1986, il disastro nucleare di ?ernobyl', anch'esso caratterizzato precipuamente dai pressanti tentativi iniziali di minimizzazione, sancì in modo ancora più marcato come l'uomo fosse completamente slegato dall'ambiente che lo ospita e non ne avesse ancora compreso i limiti. SFORZIAMOCI DI NON PERIRE "Viviamo un momento storico caratterizzato da un'enorme potenza tecnologica e da un'estrema miseria umana. La potenza della tecnologia si autoevidenzia in modo penoso nel numero di megawatt delle centrali elettriche e nei megatoni delle bombe nucleari. La miseria dell'uomo si evidenzia nel pauroso numero di persone che già esistono e che presto nasceranno, nel deterioramento del loro habitat, la terra, e nella tragica epidemia, su scala planetaria, della fame e della povertà. La frattura tra il potere brutale e l'indigenza umana continua ad allargarsi, dal momento che il potere si ingrassa grazie a quella stessa tecnologia sbagliata che acuisce l'indigenza. Ovunque, nel mondo, è evidente il fallimento di partenza del tentativo di usare la competenza, la ricchezza, il potere a disposizione dell'uomo per raggiungere il massimo di beneficio per gli esseri umani. La crisi ambientale è un esempio macroscopico di questo fallimento: l'essere arrivati alla crisi è dovuto al fatto che i mezzi da noi usati per ricavare ricchezza dall'ecosfera sono distruttivi

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dell'ecosfera stessa. Il sistema attuale di produzione è autodistruttivo; l'andamento attuale della società umana sembra avere come fine il suicidio. La crisi ambientale è il segno sinistro di un inganno insidioso, nascosto nella tanto decantata produttività e nella ricchezza della moderna società, basata sulla tecnologia. Questa ricchezza è stata guadagnata con un rapido sfruttamento del sistema ambientale, ancorato sul medio termine, ma ha contratto ciecamente un crescente debito con la natura, caratterizzato dalla distruzione ambientale nei paesi sviluppati e dalla pressione demografica in quelli in via di sviluppo. Un debito vasto e diffuso che, se non pagato, entro la prossima generazione potrà cancellare la maggior parte della ricchezza che ci ha procurato. In effetti i registri contabili della società moderna sono in drastico passivo, tanto che, per lo più inavvertitamente, una grossa frode è stata perpetrata a danno della popolazione mondiale. La situazione di rapido peggioramento dell'inquinamento ambientale ci ammonisce che la bolla sta per scoppiare, che la richiesta di pagamento del debito globale può sorprendere il mondo in bancarotta". Le virgolette fanno chiaramente intendere che le parole tra esse scritte non sono mie. Mi accingo senz'altro a rivelarne l'autore; prima, però, sarebbe opportuno rileggere tutto il virgolettato soffermandosi su alcuni termini, verbi, concetti: "autoevidenzia", "è evidente il fallimento", "sistema attuale", "prossima generazione", "la bolla sta per scoppiare". La rilettura serve a far affiorare in modo più incisivo ciò che la mente ha elaborato a livello inconscio: l'autore ha esposto alcuni aspetti della crisi ambientale, paventando i rischi futuri in virtù del "rapido peggioramento dell'inquinamento". Il costrutto semantico dello scritto, i verbi al presente e concetti che, sostanzialmente, ribadiscono cose ben note, quotidianamente vissute o subite, portano naturalmente alla succitata conclusione. Ora ciascuno si aspetta il nome dell'autore, pensando a qualche scienziato italiano o straniero, il che non è sbagliato. Si tratta proprio di uno scienziato: l'unica cosa che non vi aspettate è che quanto da lui asserito non evidenzia l'attuale fallimento, non si riferisce né a una bolla che sta per scoppiare né alla "prossima generazione", intesa come quella che seguirà la nostra, come tutti voi state pensando. L'autore, infatti, è proprio quel Barry Commoner innanzi citato e il virgolettato è tratto dal testo, anch'esso citato, scritto nel 1971! 1971, ossia poco meno di mezzo secolo fa! La generazione cui faceva riferimento è quella nata più o meno tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso, una cui buona fetta ha già in mano le sorti del Pianeta. Ecco perché in questo articolo l'ecologia è assimilata alla scienza delle parole al vento. Anche io da circa mezzo secolo ripeto sempre le stesse cose. Perché? Perché l'umanità, soprattutto a sud dell'Equatore, da illo tempore recita una farsa: a parole ambisce al cambiamento; nei fatti lo rifiuta. E intanto si suicida. Quante parole dovremo ancora affidare al vento, prima che fungano da schiaffi capaci di farla ridestare dal sonno letale? Lino Lavorgna


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ECOLOGIA? E COSI’ SIA Alla facoltà di paleontologia della, diciamo, Sorbona di Parigi ci si dovrebbe scervellare, almeno da qualche decennio a questa parte e per pura onestà intellettuale, su un rompicapo ambientalista di ardua soluzione. Doverosa premessa No 1: è assodato che nel Pleistocene: a) gli attuali deserti del Sahara e del Medio Oriente erano ricoperti da rigogliose selve verdeggianti e che b) tali regioni erano abitate da esseri (umanoidi, sub-umani, ovvero uomini e donne belli e fatti che dir si voglia) dalla indubbia somiglianza a quella tribù di viventi alla quale tutti noi oggi ci onoriamo di appartenere. Nella capitale francese il dibattito accademico, sebbene aspro e dai toni accesi, non dovrebbe però essere mai disgiunto dalla considerazione che Sahara e Medio Oriente fossero stati un tempo ben diversi da oggi. Inoltre nella patria di Cartesio e del relativo approccio scientifico di tipo logico-conseguenziale (secondo cui il cammino verso la conoscenza non può prescindere da sostenibili assiomi tra loro ben relazionati), non si dovrebbe mai allentare la sorveglianza sulla costante presenza di un consolidato rapporto causa / effetto. Doverosa premessa No 2: E' certo altresì che nell' "anno domini" 2020 è del tutto impossibile affrontare qualsiasi argomento culturale, sociologico, economico e pur anche "spirituale", che non scaturisca da una solida matrice di aprioristica correttezza politica secondo cui è assodato che: L'"UOMO" (e naturalmente anche la DONNA! Dio non voglia infatti che una mia imperdonabile dimenticanza lessicale mi obblighi poi a profondermi in ampie scuse verso tutti i mezzibusti TV, "audience seeking oriented") deve sempre apparire come il principio e la fine del tutto. Al di fuori di EGLI (ed, "of course", di ELLA) non ci possono essere cause; non ci possono essere effetti". **** Dunque (e con la costante assistenza del caro Cartesio): Visto l'assunto (ancora non dimostrato, ma su cui tutti sono aprioristicamente d'accordo, dal Sommo Pontefice alla Piccola Greta) secondo cui l'attuale disastro climatico/ecologico non sia altro che opera della scriteriata razza UMANA, nella (rigorosa?) Alta Accademia parigina non si dovrebbero allora trascurare ulteriori elementi di indagine scientifica per rispetto di un rigoroso procedimento logico e cioè:

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1) nel Pleistocene, ci si muoveva, per caso, tutti quanti in "FIAT Panda" ? E, ulteriore dubbio amletico, era essa a benzina o a diesel? 2) le faretre per le frecce, seppur queste ultime di ecologica pietra levigata, erano di corretto materiale riciclabile? In una adeguata risposta scientifica a detti interrogativi (data la già ricordata vulgata "umanocentrica" dell'intero fenomeno ecologico-ambientale) dovrebbe necessariamente poggiare ogni base esplicativa delle desertificazioni geologiche. Dato inoltre che appena un centinaio di migliaia di anni fa alligatori da palude sguazzavano nei dintorni dell'attuale Monaco di Baviera (ritrovati in loco pertinenti fossili), occorre ricondurre tale fenomeno - sia a ribadimento di detta "vulgata" che a diretto giustificativo della fattispecie bavarese - a null'altro che ad un'erratica fregola turistica di rettili tropicali verso più temperati climi nordici? Dato che, come ben sappiamo, "in natura nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma" bisognerebbe onestamente domandarsi: ma cosa sta realmente facendo oggi il tanto vituperato essere umano in odio alla mitica Gea? In realtà nulla di strano: egli sta soltanto riportando le cose ad una loro condizione primigenia, ma - in obbedienza al citato principio della termodinamica - in forma modificata. Rigogliose foreste, trasformate nei secoli in modo autonomo dalla stessa Gea in idrocarburi, vengono ora, per opera dell'"homo automobiliensis", restituite all'atmosfera sotto l'aspetto di impalpabile CO2. Ciò è peraltro e senza dubbio un fatto artificiale di responsabilità umana, ma la vera questione sta nella misura dell'effettiva incidenza di tale fenomeno sul riscaldamento globale del pianeta. Infatti se il ragionamento non può prescindere dalla aprioristica filiera: "opera dell'uomo = inquinamento atmosferico = surriscaldamento del pianeta" allora sarebbe difficile il giustificare (senza il supporto, appunto, della teoria della "Panda preistorica") quell'ondata di calore che portò a desertificazioni di intere regioni ed alla presenza di alligatori in Baviera. Non sarebbe allora il caso di fare forse un pensierino - chesso' io? - anche agli erratici spostamenti dell'asse terrestre, all'"inversione dei poli", alle ricorrenti tempeste solari nel nostro amico Sole e chi più ne ha più ne metta, senza scaricare "tout court", per ancora poco comprensibili, ma non per questo inesistenti, fini politico-strategici planetari, la responsabilità del tutto soltanto sulle spalle di noi poveri mortali? Premesso quanto sopra, desidero comunque assicurare, a scanso di equivoci, che non mi sfugge la differenza che intercorre tra riscaldamento globale ed inquinamento planetario. Sicuro come sono, da un lato, che gli "Sherlock Holmes" della scienza mondiale siano ancora lungi dal poterci fornire risposte sul primo dei due fenomeni (il surriscaldamento) al netto di aprioristiche tesi preconfezionate, non nutro invece dubbi sul fatto che, per quanto riguarda l'inquinamento ambientale ed il relativo disastro planetario in cui tutti noi ("homini sapiens sapiens", ma con tendenza, ahimè, ad "homini imbecilles imbecilles") ci si stia sempre più auto-soffocando, esso sia invece del tutto colpa nostra e dell'assurda scelta di alcune modalità dell'odierno vivere.


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Le isole di plastica nell'oceano, i cumoli di rifiuti in tutte le grandi periferie urbane ed ogni altra bruttura consumistica che ci circonda sono infatti frutto di una degenerata lettura esistenziale, priva di limiti, preveggenza e lungimiranza. Elementi questi che ben si potrebbe invece far coesistere - se soltanto lo si volesse realmente - con l'ineludibile legge trasformativa del citato principio di termodinamica. Ma ritorniamo comunque al titolo proposto: ECOLOGIA Ecologia , cioè: oikos, "casa" o anche "ambiente" - logos, "studio" o " comprensione". Dunque, in soldoni, discettazione intorno alla nostra attuale, diciamo "casa"/"dimora". Ma sarà vero che la Terra sia (e sarà per sempre) il nostro unico e definitivo ostello? Cerchiamo di analizzare, semplificando all'osso, quei pochi concetti che io, da anziano, modesto orecchiante qual sono, sento comunque di aver ormai metabolizzato: A) Agli inizi del tutto, tra le infinite varietà di possibili scelte, la "vita" per evolvere ha preferito il carbonio (modesto e diffuso elemento di natura: uno dei tanti); B) Tutto ciò che vive sul pianeta Terra (suolo, acqua ed aria) partecipa dell'apporto di detto minerale; C) La vita "al carbonio" che ci siamo scelti (o che, a seconda della varie fedi religiose, ci è stata data) è tuttavia di complessità enorme e fatta da innumerevoli esigenze esistenziali che accomunano tutti gli esseri viventi: mangiare, bere, dormire, respirare, riscaldarsi, riprodursi etc., etc.. In sostanza tutte cose di cui la nostra Gea si è presa carico di rifornirci, ma a costo di pesanti fatiche personali. D) Inoltre è noto che ad una certa data di scadenza, ormai prevista con precisione, la stessa Gea ci darà lo sfratto. Tra cinque miliardi di anni, il Sole (che si trova oggi a circa metà del suo percorso di vita), una volta consumata la sua riserva di elio, esploderà in una supernova ed incenerirà il suo intero sistema satellitare. Ma già qualche miliardo di anni prima di tale fatidica scadenza, il sole comincerà a dare evidenti segni di malessere ed il nostro pianeta, per dirla con Woody Allen, comincerà anch'esso a non sentirsi troppo bene. E' chiaro dunque che la nostra Gea, prima o poi, ci tradirà. E) Comunque ed anche al netto dell'estinzione della Terra stessa, saranno già sufficienti inquinamento atmosferico, sovraffollamento, carenza di acqua e di risorse alimentari per estinguere la nostra forma di sopravvivenza, almeno nel modo in cui fino ad ora l'abbiamo conosciuta. Ed è per questa ragione che alcuni governi (almeno i più ricchi e/o i più previgenti e/o i più fantasiosi) cominciano a metabolizzare il fatto che l'uomo (e le donne, ri-"of corse"!) sarà costretto ad andarsene da qui anche prima di quei fatidici cinque miliardi di anni. Cancellerie di super potenze ed uffici studi di planetarie "corporation" private abbondano già di previsioni e progetti per modelli di vita umana extraterrestre. Ma dove, e soprattutto, in che modo? F) Ritengo che al di la della Luna, o tutto al più di Marte, non vi siano mondi su cui si possa ragionevolmente puntare ammesso e non concesso che in essi sia possibile una qualche forma di vita umana che possa essere definita vera e propria "esistenza" o non invece un qualcosa di poco più che una vigile ibernazione;

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G) Inoltre dal punto di vista prettamente fisico/materiale la vita "al carbonio" ha tutta quella serie di sopra accennate esigenze che il tentare di ricreare artificialmente un adeguato "habitat" al di fuori di Gea è impresa velleitaria e che comunque non potrebbe riguardare che pochissimi volontari altamente selezionati. L'intera umanità fuori dalla Terra è dunque cosa fuori discussione. Una sopravvivenza fisico/psichica dell'attuale uomo di carbonio entro artificiali bolle di cristallo eventualmente ubicate nel circoscritto e claustrofobico vuoto atmosferico di satelliti o pianeti extraterrestri sarebbe infatti del tutto insopportabile in quanto, oltretutto, priva di stimoli e prospettive. Che ce lo si tolga dalla testa!: gli esseri umani, nella loro attuale composizione e struttura (carbonio-organico) non potranno mai sopravvivere al di fuori della loro Gea. Ed infine, pur ammesso ma non concesso, che si possa sopperire colà a tutte le esigenze per una sopravvivenza fisica, non dimentichiamo che ci fu una volta qualcuno che disse: "non di solo pane vive l'uomo", ponendoci in tal modo dinnanzi al problema di come riuscire ad alimentare anche lo spirito di un essere umano costretto a vegetare in una bara di cristallo extraterrestre. No, non è questa la via da percorrere: che NASA e compagnia cantante se ne facciano una ragione. Il percorso da seguire è un altro e cioè: Il passaggio dal vile carbonio all'altrettanto vile, ma forse salvifico, silicio. Quando tra mille anni, un milione di anni e forse più, sofisticatissimi computer basati appunto sul silicio saranno in grado, attraverso un ancora inimmaginabile sviluppo tecnologico, di apprendere da soli, auto rigenerarsi e riuscire infine ad avere piena coscienza di se stessi, ecco che allora sarà giunto il momento in cui l'essere umano sarà in grado di travasare tutto il suo scibile, le sue connessioni sinaptiche ed anche la sua stessa identità personale dalla vecchia sacca di organico, articolato, complesso ed esigente carbonio ad una semplice scatoletta di silicio in grado di contenere una buona parte di se stesso. A questo punto, fine delle gravose esigenza del mangiare, bere, dormire, respirare, riscaldarsi … . Un flebile raggio di luce di una "Proxima centauri", in questa o in qualsiasi altra galassia dell'universo, sarà più che sufficiente per alimentarne la pila esistenziale e consentire a tale sorte di umanoide di portare in giro per il cosmo i residui scampoli di una qualche terrestre umanità. Antonino Provenzano Roma 6.10.2020


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EKO...LOGICA Ecologia: sostantivo femminile, dal greco: ï?êïò, oikos, "casa" o anche "ambiente"; e ëüãïò, logos, "discorso" o "studio" Scienza che ha per oggetto lo studio delle funzioni di relazione tra l'uomo e più in generale gli organismi vegetali e animali con l'ambiente in cui vivono. Entrando "a bomba" sull'argomento, senza rischiare di sfondare -indenni- il muro del "politicamente corretto", tanto caro a certi bacchettoni nostrani, emuli di altrettanti bacchettoni a stelle e strisce, va detto che il tema appare arduo benché di disarmante semplicità… nella consapevolezza che non c'è peggior sordo di colui che non vuole ascoltare. La natura si ribella rispetto alla umana tracotanza in quanto, quest'ultima, ritiene di essere depositaria unica e custode della madre terra. In realtà questo approccio da deità è fonte di responsabilità in quanto la razza umana, ergendosi a custode unica dell'ambiente, dovrebbe avere un atteggiamento "vagamente" critico rispetto al suo operato e non ritenere, viceversa, di essere la padrona assoluta a cui tutto è permesso. Abbiamo disquisito ampiamente sul tema delle emissioni e sulla scelta "green" della attuale "leadership" europea, e di lì occorre avere un approccio critico sulla scorta della nostra esperienza -non di certo scientifica-, non avendo, ovviamente, titolo alcuno (benchè nella logica del relativismo imperante, siamo tutti scienziati e cattedratici). L'ecologia è una branca della biologia che analizza i rapporti tra gli esseri viventi e l'ambiente in cui vivono. Numerosissimi sono gli articoli sull'argomento che spesso si fondano su luoghi comuni. Le argomentazioni da affrontare rispetto al problema ecologia sarebbero davvero molteplici ma ne analizzeremo due che risultano essere più comprensibili e soprattutto, alla nostra portata senza che i novelli scienziati della ekologia, ne fossero disturbati: -l'ecologia si occupa delle modifiche al pianeta indotte dalla nostra crescita demografica ed industriale come aumento di rifiuti, esaurimento delle risorse energetiche, alimentari, ecc -l'ecologia come scienza recente nata il secolo XIX, all'alba della industrializzazione galoppante consapevole già nel 1866 quando il tedesco Ernst Haeckel ebbe ad utilizzare il termine greco "oikos" che significa casa, avrebbe modificato equilibri che da milioni di anni caratterizzavano la vita del globo terraqueo Il primo argomento ricomprende e coinvolge argomenti che vanno dal diritto penale alla costituzione repubblicana, passando attraverso le problematiche legate al cambiamento climatico indotto dalle opere e soprattutto dalle omissioni dell'uomo.

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La sistematica violazione del diritto naturale affidata in primis alle emissioni riferibili, non solo alle emissioni di gas nocivi nell'atmosfera ma, in generale, a tutte le fonti di inquinamento, gassoso, luminoso, idrico e geologico. Tutte fonti di inquinamento che hanno generato, negli anni, una alterazione degli equilibri ecologici sul pianeta. Certamente l'inquinamento attraverso le vie gassose è il più insidioso e subdolo sia perché la ventosità (aumentata negli ultimi anni) che la volatilità stessa delle immissioni gassose nell'atmosfera, rappresentano motivo di facile diffusione e disperdimento o meglio, confusione con i gas naturali presenti sulla terra nella consapevolezza che l'ossigeno non rappresenta l'unica componente dell'aria che respiriamo ma un complesso equilibrio di elementi come ossigeno, argon, anidride carbonica, azoto ed altri microelementi in quantità minore. L'alterazione dell'equilibrio, inevitabilmente, influisce su tutto l'ecosistema che paradossalmente, è occupato, insieme a tutte le altre specie animali e vegetali che subiscono, inevitabilmente, da coloro che ne sono responsabili, incapaci di rinunciare agli effetti ovvero ai benefici di quella che viene definita, anche nel tema odierno, civilizzazione, quando, in realtà, essa rappresenta la barbarie nell'accezione peggiore. Il diritto ha prodotto dei meccanismi di tutela sotto la spinta, lodevole, di organizzazioni ecologiste che negli ultimi anni, si sono più interessate ad occupazioni di posti al sole piuttosto che tutelare le ragioni per le quali sono nate. Le fonti normative sono molteplici, almeno in Italia ed in particolare nell'ambito penale dall'incendio doloso e colposo, il danneggiamento seguito da incendio, il delitto doloso di frana e quello colposo, getto pericoloso di cose, diffusione delle malattie delle piante o animali, il pascolo abusivo e tanto altro come la pesca o la caccia di frodo e chi più ne ha più ne metta. Si è cercato di correre ai ripari attraverso il contingentamento di alcune attività come la caccia o la pesca, istituendo riserve, aree boschive protette e più in generale territori tutelati e privi di attività lesive degli equilibri ecologici…ma si fa finta o meglio si ignora, scientemente, talune fonti inquinanti. Le origini del sottoscritto lo portano ad alcuni parallelismi con le vicende Tarantine o Brindisine dove il carbone e la gestione della fusione dei metalli rappresenta uno dei drammi ambientali che hanno sconvolto un intero ecosistema in maniera irreversibile. Immaginare di passare nei pressi di Arcelor Mittal ex Ilva, e non accorgersi di un passato devastato dalla furia ragionata dell'uomo è pura follia; assistere al degrado delle masserie meravigliose che una volta puntinavano la piana Tarantina lungo la statale 100 è crimine organizzato, nella consapevolezza che se lo Stato prima, i Riva dopo e Arcelor Mittal adesso, non si sono avveduti di quello che è accaduto, è davvero paradossale. Equilibri fra uomo e natura, plasmati nei secoli, devastati dalla violenza dell'inserimento, in un territorio vocato come quello, di un mostro ecologico che ha irreversibilmente modificato, sinanche, l'orografia del territorio. Il crimine perfetto si è consumato quando amministratori, volutamente ignoranti, hanno omesso ogni verifica e controllo e di recente (i peggiori) se lo fanno…è solo per mera esigenza elettorale, Solo chi è consapevole degli effetti dell'inquinamento sulla salute di tutti ha reagito e di questo Nadia Toffa ne è stata testimone, un angelo che ha sostenuto gli abitanti del quartiere Tamburi nella loro solitaria battaglia ecologista, nella consapevolezza che la misura era colma ed a cui va il mio personale plauso.


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Il secondo argomento è rappresentato dalle riflessioni di Ernst Haeckel (Potsdam, 16 febbraio 1834 - Jena, 9 agosto 1919) è stato biologo, zoologo, filosofo e artista tedesco. Laureato in medicina alla Humboldt Universität di Berlino, tra i suoi maestri ebbe il fisiologo e ittiologo Johannes Peter Müller, che lo portò con sé durante una spedizione estiva per studiare gli organismi marini lungo la costa di Helgoland. Scontento della pratica medica, studiò per tre anni zoologia all'università di Jena, specializzandosi in biologia marina. Restò poi a Jena come docente per 47 anni dal 1862 al 1909, diventando anche professore di anatomia comparata. (wikipedia) Prescindendo dagli studi sulla biologia e zoologia di Haeckel (a lui si deve la scoperta di numerosissime specie animali) quello che apparentemente, sorprende è lo studio della filosofia, né potrebbe essere diversamente, in quanto, nella vulgata comune, chi fa il filosofo, fa un'inutile esercizio delle argomentazioni in quanto poco sovrapponibili alla realtà. Personalmente sono sostenitore dell'insegnamento degli studi filosofici in ogni ordine e grado scolastico, nella personalissima convinzione che senza un "perché" nulla può essere spiegato. Il mio amore per la filosofia, nonostante la mia ignoranza in materia, mi ha portato ad alcune riflessioni che postulano l'importanza di una materia assolutamente schiacciata dal relativismo e dal pragmatismo imperante che in nome del profitto e della utilità, calpesta, a piè pari, ogni e qualsivoglia ragione connessa alle azioni o meglio alla ragion d'essere dei comportamenti che il genere umano dovrebbe assumere rispetto al problema ecologia. Se la filosofia come il mio grande amore sostiene, è fondamentale per ogni e qualsivoglia attività umana, essa rappresenta la ragione fondante della stessa ecologia laddove sussiste l'esigenza, sempre più pregnante, di comprendere le ragioni stesse della scelta ecologia oltreché della utilitaristica esigenza di farne regola di vita. Sull'Argomento Manlio Iofrida argomenta come da nota in calce1 e che certamente, descrive la dualità tra ecologia e filosofia in maniera esauriente come solo un autore importante sa fare. La sintesi estrema è rappresenta dalla necessità di mettere da parte ogni egoismo per egoismo, consapevoli del fatto che se modifichiamo il nostro ambiente senza pensare a noi stessi più che egoisti siamo degli idioti. Emilio Petruzzi

Nota: Ecologia e filosofia a cura di Manlio Iofrida «dianoia», 23 (2016) Presentazione* Perché tornare, con un dossier monografico, su una tematica così inflazionata come quella dell'ecologia, una tematica così banalizzata da aver perso ogni preciso significato? Risponderò a questa obiezione assai sensata con la considerazione che sono proprio tale inflazione e tale perdita di senso a richiedere una messa a punto concettuale, per dar luogo a una discussione feconda su un argomento che – è questa, ovviamente, l'opinione dello scrivente – rimane l'orizzonte fondamentale della nostra epoca, sia sul piano culturale che politico. A questo proposito, farò subito una precisazione: è evidente che, in un tema come quello dell' ecologia, più che in ogni altro, è fondamentale il riferimento alle ricerche

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scientifiche: quello di ecologia, del resto, è nato, come è noto, come termine scientifico e il riferimento alle varie ricerche sul degradarsi della biosfera, sul consumarsi delle risorse naturali che hanno finora costituito il presupposto della produzione industriale, così come su una questione centrale come quella della sostenibilità rimane fondamentale. E tuttavia, proprio la crisi di senso che investe il tema e il termine di ecologia dimostra che tale riferimento scientifico è di per sé insufficiente e che è indispensabile un lavoro specificamente filosofico per uscire da questa impasse: la scienza non è di per sé suscettibile di orientare nel campo dei valori e delle scelte politiche e chiunque può facilmente vedere che essa può oggi essere considerata tanto responsabile dei disastri che ci stanno affliggendo quanto il miglior strumento della loro soluzione; inoltre (ma è una altro modo di esprimere lo stesso concetto) il problema ecologico non è una mera questione oggettiva, ma attiene alla relazione fra il soggetto vivente e l'ambiente – detto altrimenti, la natura non è un oggetto, e questo è il senso filosofico dell'ecologia. Nel seguito, è a questa rifondazione filosofica del concetto di ecologia che dedicherò una breve riflessione: tale rifondazione filosofica è, più specificamente, fenomenologica, e, ancor più nello specifico, fa riferimento al pensiero di Maurice Merleau-Ponty. Il problema maggiore che affligge la discussione sul temi dell'ecologia e su quello, ad esso inestricabilmente connesso, di natura, * Ringrazio Ernesto Paglioli e Matteo Villa, che hanno riletto una prima versione di questo testo, permettendomi di migliorarlo in più punti. 340 Manlio Iofrida è che si tratta di concetti fortemente ambigui. Se si esamina brevemente l'idea di natura che è al centro del pensiero del Rousseau del I discorso?1, e che certamente è stato uno dei più importanti e influenti anche per le discussioni successive in proposito, tanto da dar forma ancora oggi a tante posizioni “verdi” fondamentaliste, queste ambiguità emergono con chiarezza: nemico della tecnica, Rousseau le contrappone una natura vergine, intatta, intesa come un'origine piena; appellarsi alla natura diventa così la nostalgia del recupero di uno stato e un'epoca precedente alla violenza dell'uomo; natura significa un ordine, un equilibrio che ha l'oggettività di una legge naturale. In questo modo, la natura non è che l'opposto correlativo della cultura e della storia: questi due concetti che, pur escludendosi, si presuppongono reciprocamente, secondo quella categoria del supplemento che Jacques Derrida, nel suo De la grammatologie, ha così efficacemente introdotto, proprio a proposito di Rousseau e del suo grande seguace contemporaneo, Claude Lévi-Strauss?2. Se vogliamo uscire dall'alternativa di questi concetti tradizionali, dobbiamo deciderci a pensare la natura non come qualcosa di oggettivo, di positivo, di fisso e stabile, ma, al contrario, come qualcosa di negativo, di dinamico, che attiene alla relazione del vivente (non necessariamente umano) con l'ambiente che lo circonda. Partendo dalla nostra esperienza quotidiana, che cosa è naturale per noi? Naturale è ciò che si riferisce a un sapere che non deriva dalla nostra tradizione culturale, dal linguaggio, dalla nostra esperienza storica e personale, ma che attingiamo mediante le risorse del nostro corpo: quest'ultimo è ben lontano dall'essere diretto da un sapere positivo, chiaro e cosciente, da ciò che possiamo aver appreso per via intellettuale e culturale; anche se la cultura e la storia lo modellano in varie forme, non possono mai esaurirlo in quanto strato, preculturale e prelogico, che comanda gli aspetti fondamentali della nostra vita come esseri viventi, biologici?3. Non respiriamo, né camminiamo secondo quel che ci detta la nostra volontà cosciente: al contrario, come ha ben mostrato Italo Svevo, se ci met1 Di cui si veda l'edizione critica in J.J.Rousseau, Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, Bibliothèque de la Pleiade, 1964, vol. III, p. 1 e ss. (per un'edizione italiana cfr. J.J.Rousseau, Scritti politici, tr. it. Bari, Laterza, 1971, vol. I, p. 1 e ss.). Naturalmente, nel Rousseau successivo la posizione su questo punto è radicalmente diversa. 2 Cfr. J. Derrida, Della grammatologia (1967), tr. it. Milano, Jaca Book, 1969, parte II. 3 Per la distinzione fra conoscenza tetica e conoscenza pretetica, che risale a Husserl, fondamentale è l'ulteriore rielaborazione che ne ha fatto MerlauPonty nella sua Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. Milano, Bompiani, 2003, passim. Presentazione 341 tiamo a camminare pensando ai movimenti dei muscoli delle nostre gambe che sono a ciò necessari, cominciamo ben presto a zoppicare e incespicare… A livello scientifico, questa tematica fenomenologica è stata del resto autonomamente sviluppata anche da Gregory Bateson, nella forma della distinzione, di importanza fondamentale nell' impostazione del suo pensiero, fra conoscenza primaria e conoscenza secondaria?4. Se diamo il giusto peso a questo sapere prelogico che governa la parte fondamentale della nostra vita, arriveremo rapidamente a riconoscere che naturale non è un ordine di cose oggettivo e originario, ma un rapporto, un certo accordo fra noi in quanto esseri viventi e l'ambiente che ci circonda, una corrispondenza che si è creata fra noi e il mondo in secoli di evoluzione.


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La natura non consiste in un oggetto, ma nella coppia essere vivente-ambiente, coppia che è in continua trasformazione, poiché sia il nostro ambiente che noi, esseri viventi che ne facciamo parte, siamo in continua evoluzione e la vita consiste in uno scambio reciproco fra l'essere vivente e l'ambiente in cui è inserito. In questa prospettiva, è chiaro che né tecnica né cultura né storia sono esclusi da un simile concetto di natura: la tecnica non è che il prolungamento all'esterno dell'equilibrio fra il nostro organismo e l'ambiente e, dunque, non fa che spostare tale equilibrio a nostro (reale o presunto) favore, ma senza mai esaurire del tutto la natura, senza mai culturalizzarla completamente. Tragici fenomeni anche recenti come i terremoti, ad esempio, dimostrano come il momento ecologico non attenga né alla industria umana né alla natura in quanto separati, ma alla loro relazione: la crosta terrestre non essendo completamente padroneggiabile, sono spesso le errate azioni umane a causare fatali conseguenze; mentre un momento costruttivo che tenga conto fin dall'inizio dei suoi limiti escluderebbe tali conseguenze. Storico, dunque, è l'equilibrio fra essere vivente e ambiente che si realizza in ciascun momento, poiché esso non dipende dal rispetto di nessuna legge fissa, ma dall'adattarsi continuo di due entità intimamente storiche, dinamiche, l'ambiente e l'essere vivente. Ma allora quale è il senso del concetto di rispetto dell'ordine ecologico? Se non esiste una natura oggettiva, fissa, immobile, astori4 In proposito cfr. ad es. il saggio Stile, grazia e informazione nell'arte primitiva, in G. Bateson, Verso un'ecologia della mente (1976), tr. it. Milano, Adelphi, 1976, p. 160 e ss. 342 Manlio Iofrida ca, possiamo forse fare qualunque cosa? Ovviamente no: un ordine e un equilibrio, per il fatto di essere dinamici e di non consistere in leggi oggettivabili, non sono per questo meno reali; i limiti al prometeismo dell'uomo ci sono, e i risultati della loro violazione sono sotto gli occhi di tutti – basti pensare al fenomeno del surriscaldamento del pianeta. Semplicemente, l'ordine e l'equilibrio vanno riferiti non a un'entità, ma a quella relazione vitale (e dunque non meccanica e non completamente determinabile) fra essere vivente e ambiente in cui risiede il vero significato del concetto di natura. Sono antiecologiche tutte quelle tecniche e quelle azioni (non solo umane) che tendono a inaridire o a distruggere tale relazione vitale; sono ecologiche quelle che invece non solo la conservano, ma possono accrescere, rafforzare tale relazione. Approfondiamo ancora brevemente questo concetto di equilibrio fra essere vivente o ambiente, un tema in cui convergono la lezione di Maurice Merleau-Ponty, che ha coniato per esso il termine di chiasma, e quello della contemporanea teoria dei sistemi, che parla piuttosto di accoppiamento?5. Il senso di tali termini va attentamente soppesato in tutte le sue implicazioni: non si tratta di pensare alla coesistenza di due termini – l'essere vivente e l'ambiente – l'uno esterno all'altro, ma della relazione di due “entità” che non sono né un'unità pura e semplice (l'essere vivente infatti si distingue e si contrappone all'ambiente) né due entità separate: si tratta di due entità che si coappartengono. La relazione fondamentale, fondativa della natura è una relazione paradossale: come è noto, Merleau-Ponty ha cercato di avvicinarci alla comprensione di tale paradossalità approfondendo il fenomeno della visione?6. Potremmo sintetizzare così le sue riflessioni in proposito: quando noi guardiamo un paesaggio, ciò che conta è certamente quello che vediamo di fronte a noi; ma, in realtà, lo spettacolo anteriore è condizionato dal fatto che noi siamo inseriti in un campo visivo: non potremmo vedere quel paesaggio senza che ci fosse in qualche modo presente (non esplicito, non evidente) anche tutto ciò che è alle nostre spalle. Noi non vediamo 5 Sul tema dell'accoppiamento fra sistema vivente e ambiente, che è un punto centrale della teoria dei sistemi del Novecento, si veda soprattutto Varela, Thompson, Rosch, La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell'esperienza (1991), tr. it. Milano, Feltrinelli, 1992. 6 Fra i moltissimi testi di Merleau-Ponty che si potrebbero citare in proposito, ricorderò solo quelli fondamentali: M. Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito (1964), tr. it. Milano, SE, 1989, e Il visibile e l'invisibile (1964), tr. it. Milano, Bompiani, 1999. Presentazione 343 come una cinepresa che guarda dall'alto e dall'esterno gli eventi che riprende, noi vediamo il mondo dal suo interno: in altri termini, il visibile ha una parte di invisibile che lo condiziona e lo rende possibile. Il fenomeno della visione manifesta insomma il fatto che io appartengo a un mondo che è più ampio di me, anche se (è questo il culmine del paradosso) quel mondo, nei termini in cui esso mi appare, non potrebbe esistere senza l'attivo contributo dei meccanismi della mia percezione visiva: è anche il mio mondo e, se non ci fosse il mio occhio a suscitarlo, esso non sarebbe quello che è. Abbiamo voluto soffermarci su questa singolare relazione, per cui io rientro in qualcosa che mi eccede, perché è proprio tale relazione, come già annunciavamo, quella che fonda la natura e l'ecologia. È proprio il fatto che la mia esistenza

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rimanda a qualcosa che mi eccede, che va ben al di là di ciò che io posso aver fatto e costruito, a evidenziare che non tutto si riduce al mio facere, alla mia costruzione consapevole, e che esiste qualcosa da cui dipendo, anche se questa dipendenza non è meccanica e anche se quello che mi condiziona è, in una certa misura, condizionato a sua volta da me, secondo quel condizionamento reciproco che anche la fisica quantistica e il principio di indeterminazione di Heisenberg, nel XX secolo, hanno posto in luce. A monte del mio facere c'è un appartenere, a monte della cultura e dell'azione c'è un momento di passività e contemplazione, ogni determinatezza presuppone un vuoto e un'indeterminatezza che sono una risorsa vitale. Non è vero che in principio era l'azione; al contrario, l'azione è l'altra faccia di un momento di stasi, di immobilità, di limite: una ripetizione marca costantemente ogni differenza, un ricorso vichiano inflette la mitica curva del progresso in un cerchio, o, se si vuole, in una spirale che si riavvolge su se stessa?7. Al ritmo febbrile dell'azione utile e trasformativa si affianca un momento di contemplazione estatica, di inutilità o gioia priva di finalità esterna che fa parte a pieno titolo dell'idea di natura: quest'ultima non è volta ad un passato di purezza immemoriale, ma rappresenta la fuoriuscita dall'utile e dalla storia che è possibile, almeno in via di principio, in ogni presente storico. La natura e la 7 Questi temi del vuoto, dell'immobilità e della ripetizione sono stati sentiti assai più dalla cultura orientale che da quella occidentale e la riscoperta, anche in Occidente, di questa cultura e di questi valori , riscoperta che ha peraltro una lunga storia, è anch'essa un aspetto importante del sorgere, ai giorni nostri, di una nuova sensibilità ecologica. Sul tema dell' Oriente, cfr. quel che diceva già Merleau-Ponty nel paragrafo L'Oriente e la Filosofia di Ovunque e in nessun luogo, in Segni (1961), tr. it. Milano, Net, 2003, p. 178 e ss. 344 Manlio Iofrida storia non si dispongono su una linea evolutiva che fa sì che l'equilibrio si sposti progressivamente dalla prima alla seconda: esse sono piuttosto in un rapporto orizzontale, di coappartenenza reciproca e ogni momento storico – se gli uomini sono in grado di pensare e agire non prometeicamente, ma con la consapevolezza del limite e dell' appartenenza – può aprirsi sulla natura che gli fa da sfondo e da sostegno: va da sé che si tratterà di combinare azione e non-azione, attività e passività, di radicare l'attività nella consapevolezza del limite. A noi, oggi, dunque, il compito di operare storicamente per avere una corretta relazione attivo-passiva con la natura che è sul nostro orizzonte, prima che la catastrofe incombente in più modi – il riscaldamento ambientale, l'inaridirirsi delle risorse naturali, il continuo impoverirsi del patrimonio della biodiversità – non ci trascini in uno di quei “ricorsi di barbarie” a proposito dei quali la lezione di Giovambattista Vico ha ancora molto da insegnarci. I saggi che il lettore troverà qui di seguito sono dedicati a temi e autori che sono i punti di riferimento fondamentali per una riformulazione della problematica ecologica oggi: il lavoro su questo “canone”, costituito dal pensiero di Gregory Bateson, di Alexander von Humboldt, di Tim Ingold, di Marcuse, di Canguilhem è quello che permette di approntare degli strumenti per la creazione di un nuovo paradigma ecologico, che, nel quadro filosofico che ho delineato, dovrà essere essenzialmente interdisciplinare. È anche ovvio che gli studiosi che hanno accettato di partecipare a questo dossier condividono questo canone, ma non necessariamente le premesse filosofiche che ho tentato di delineare. Sergio Manghi ricostruisce alcuni aspetti del pensiero di Gregory Bateson, mettendo a fuoco in modo originale il significato che ha, nell'autore di Ecologia della mente, il tema della religione e del sacro, in connessione con quello della “danza interattiva”: un modo, fra l'altro, per sottolineare come sia impossibile ridurre il lavoro di Bateson nei termini di una scienza intesa in senso restrittivo; nella parte finale del suo saggio egli apre anche un'originale prospettiva di incrocio e confronto fra la prospettiva dello scienziato inglese e la riflessione sulla violenza e il sacro di René Girard. Franco Farinelli concentra la sua analisi sulla nuova visione della natura che è sottesa alla “Geografia delle piante” di Alexander von Humboldt: attraverso il confronto con il giacobino Forster e con la sua differente visione del rapporto fra natura e società, Farinel- Presentazione 345 li mette in luce la diversa prospettiva del borghese e moderato von Humboldt; ne risultano dimostrati il carattere di proiezione politica borghese-moderata, per quanto attraverso un'operazione epistemologica assai fine, della concezione della natura dell'autore del Cosmos, il suo aggiogamento all' “impressione totale dell'animo”, al sentimento borghesi: educazione estetica e paesaggio sono gli strumenti per il dominio occidentale sulla natura. Nicola Perullo approfondisce alcuni aspetti della ricerca di un altro autore essenziale per le prospettive ecologiche odierne, Tim Ingold, ma, nello stesso tempo, sviluppa la sua originale prospettiva ecologica, recentemente esposta nel suo libro Epistenologia?8: si tratta di una nuova ontologia che apre a un rapporto con la natura fluido, dimamico, inseparabile dalle nostre pratiche; sul piano


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filosofico, i nomi più importanti sono quelli di Bergson, di Dewey, di Deleuze. Stefano Righetti pone al centro della sua analisi di nuovo il pensiero di Bateson, per rivendicare l'autonomia del bios e del suo equilibrio sistemico rispetto al linearismo distruttivo della temporalità occidentale: Hegel è visto come il massimo simbolo di questa sottomissione della vita alla voracità del tempo occidentale e capitalistico, mentre Righetti sottolinea la contraddittorietà delle posizioni che, sulla questione del rapporto natura/cultura, ha assunto, in momenti diversi del suo itinerario intellettuale, un autore come Marcuse, che pure rimane un punto di riferimento essenziale per un discorso ecologico oggi. Andrea Angelini, infine, ricostruisce la trama del discorso ecologico di un autore fondamentale per l'epistemologia delle scienze della vita del XX secolo, Georges Canguilhem, la sua rivendicazione dell'irriducibilità della vita a artificio e costruzione: ne emerge l'originalità del progetto ecologico di Canguilhem, che sostiene a un tempo l'irriducibilità del vivente al culturale e, contro ogni naturalizzazione del sociale, il carattere di novità di quest'ultimo rispetto al vivente; Angelini conclude che la riflessione di Canguilhem offre gli strumenti per costruire sia un “naturalismo non essenzialista” che una “biopolitica affermativa”, che rispetta e continua la natura e il vivente, concependo l'istituzione sociale come “il prodotto di una normatività plurale, abitata da una differenziazione intrinseca al vivente”. Manlio Iofrida

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COPERTURA FORESTALE,INCENDI E FRANE: IL CASO DI SARNO (1998) Premessa: In Italia - ad eccezione delle province autonome di Trento e Bolzano - la difesa del suolo è come una frontiera sguarnita, una terra di nessuno dove il fai-da-te e la frammentazione degli interventi, disposti sovente in frazioni improprie del territorio, non riescono a impedire alle colate di fango e di detriti o alle ingenti masse d’acqua che si formano in occasione di piogge intense, di entrare agevolmente nei centri abitati e portarvi devastazioni e morte. La profilassi non esiste, la terapia eziologica non si sa cosa sia, l’unica pratica "medica" (mi si consenta il paragone) che viene esercitata e l’anatomia patologica il cui referto si conclude quasi sempre dando la colpa alla fatalità e ai capricci del tempo atmosferico. Nel vasto quadro della problematica relativa alla stabilità dei versanti di fronte ad eventi meteorici eccezionali ed alle pesanti alterazioni della superficie terrestre attuate dall’uomo si può descrivere succintamente il modo in cui agisce la copertura esercitata dalla vegetazione forestale. Rimarcando in questa sede, la necessita di una adeguata pianificazione della gestione forestale mirata a mantenere ed accrescere la funzione protettiva dei boschi sia pubblici che privati, in particolare per quanto concerne la protezione dall’erosione del suolo e da altri fenomeni idrogeologici avversi quali frane e alluvioni, la protezione delle risorse idrichee delle infrastrutture. Le aree che necessitano di specifiche e riconosciute funzioni protettive devono essere censite e i piani di assestamento forestale, o loro equivalenti, devono tener conto delle loro caratteristiche . Deve essere prestata particolare attenzione alle operazioni selvicolturali su suoli sensibili e su aree soggette a possibile erosione. In tali zone devono essere evitate tecniche selvicolturali inappropriate, l’uso di macchinari non idonei e, in particolare, la realizzazione di piste di esbosco, su terreni acclivi (che possono diventare, come e tristemente noto, punti di innesco frana). Dopo uno schematico quadro degli spostamenti dell’acqua nello spazio epi- ed ipogeo occupato dagli alberi esporrò alcune considerazioni sulla situazione critica che portò all’evento catastrofico del maggio 1998 a Sarno. Nel ciclo dell’acqua la copertura vegetale ed il suolo sottostante si inseriscono in un punto cruciale per la stabilita dei versanti, per la portata liquida e solida dei corsi d’acqua e per la sicurezza delle persone e degli insediamenti; essa esercita un’azione fisiologica ed un’azione meccanica.


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La valutazione del ruolo del bosco deve tenere conto del fatto che i boschi campani sono oggetto di utilizzazioni da molti secoli se non da qualche millennio. Di queste utilizzazioni hanno risentito sia la vegetazione che il “suolo”; il ripristino di una copertura vegetale ecologicamente funzionale avviene in tempi più brevi di quelli necessari alla ricostituzione del suolo. D’altra parte sono tuttora in atto alcune forme di uso del bosco che possono incidere negativamente sulla circolazione idrica. Va comunque premesso che l’influenza della copertura vegetale e, nel caso dell’attivita agricola, della lavorazione del suolo è estremamente difficile da valutare “perche nel confronto entrano in gioco circostanze svariatissime ed elementi non sempre paragonabili tra loro” (Gherardelli, Marone 1968). Nelle sue linee essenziali i movimenti dell’acqua si possono scomporre nel modo seguente: - intercettazione da parte degli alberi, penetrazione nel suolo e ritorno all’atmosfera per traspirazione o evaporazione. - Penetrazione nel suolo attraverso i macropori - Scorrimento sottosuperficiale - Raggiungimento della falda. Ricordiamo tra l’altro che sulle nostre colline campane, i boschi sono costituiti da latifoglie caducifoglie, le quali riducono fortemente la capacita di intercettazione durante un periodo che va dalla fine di ottobre alla fine di aprile, ossia per circa 6 mesi. La densità del soprassuolo arboreo e direttamente correlata alla capacita di intercettazione ma nei boschiaudacia radi è spesso sostituitaigiene dalla copertura delle specie arbustive o, con minore efficacia, temeraria spirituale dal tappeto erbaceo. Dall’insieme dei dati disponibili sull’intercettazione delle chiome si può concludere che, in conseguenza della molteplicità dei fattori che agiscono su tale fenomeno, la sua variabilità è molto pronunciata ed il significato dei dati medi è scarso. Si tratta comunque di QUANTITA’ IRRILEVANTI NEL CASO DI EVENTI METEORICI ECCEZIONALI (Borghetti 1992). Ma se l’azione idrologica epigea è importante quella ipogea lo è forse ancora di più; in terreni evoluti e non degradati la capacita d’infiltrazione è di solito elevata, anche la capacità di ritenzione da parte di mesopori è alta e così pure la capacità di detenzione (macropori). Questi caratteri sono ridotti più o meno fortemente nei suoli che, come nel caso di Sarno, per effetto dell’azione antropica, hanno subito una “decapitazione” degli strati umiferi e dell’orizzonte A; ne consegue una riduzione del potere di trattenuta da parte della lettiera e della porosità (Susmel 1968). Per rimarcare l’utilità e l’efficacia delle tantissime opere di sistemazioni idraulico-forestali eseguite in particolare dagli anni cinquanta in poi, con opere sia intensive che estensive, ovvero rimboschimenti, ricordo, infatti, che nel caso di boschi maturi di origine artificiale, ottenuti da piantagioni su terreni coperti da scaglia calcarea, (ottimi esempi di efficienza li troviamo ad esempio sopra Sala Consilina e Padula) come nella foresta Mercadante in Puglia), è stato osservato che precipitazioni catastrofiche hanno dilavato il terreno, ma il sistema radicale ha trattenuto la sottostante massa di ciottoli impedendone la mobilità.

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Da quanto sopra, appare chiaro che l’infiltrazione dell’acqua è maggiore in suoli non degradati o non erosi . Il deflusso superficiale è favorito dall’erosione e messa a nudo di orizzonti minerali poco permeabili e dal costipamento del terreno. Le pratiche selvicolturali sono quindi un punto delicato ed importante in questa fase del ciclo dell’acqua. L’acqua che non riesce a penetrare ristagna se il bosco è in pianura oppure, ed è il caso più frequente, scorre in superficie. La quantità di acqua che scorre è tanto minore quanto maggiore è la quantità penetrata nel terreno. L’erosione varia con il quadrato della velocità di ruscellamento e quindi l’energia erosiva è correlata alla pendenza del suolo ed alle accidentalità eventualmente presenti e diminuisce fortemente quando lo scorrimento dell’acqua è ostacolato dalla lettiera e dalla vegetazione erbacea. Una fonte di “rischio” legata non al tipo di utilizzazione ma alla “mancata utilizzazione del bosco” è costituita dall'invecchiamento di alcuni soprassuoli cedui di castagno e di robinia non sottoposti ad utilizzazioni da oltre 35 anni (Vogt et al 2006). In questi casi si e notato che l'azione del vento può sradicare i polloni e parte delle ceppaie Ribaltamento della zolla: tale fenomeno è legato all'invecchiamento delle porzioni ipogee non in grado di sostenere le parti epigee della pianta (Asincronia delle fasi fenologiche della pianta) - e, su terreni acclivi (pendenze superiori al 60%), provocare sommovimenti del suolo da cui possono trarre origine un solco erosivo o frane superficiali. Fuoco e pascolo Anche in presenza di un bosco con elevata capacità di protezione del suolo, ovvero ad elevata stabilità ecositemica, questa efficienza può collassate in caso di forti eventi di disturbo tra cui, in particolare, il fuoco (incendi boschivi con fuoco radente) in seguito al quale, con riferimento a quanto detto sopra, cessa l’azione di intercettazione delle gocce di pioggia. Per effetto della combustione della sostanza organica presente in superficie si formano idrocarburi che penetrano in profondità per alcuni centimetri e poi condensano formando uno strato, continuo o meno, idrorepellente. Ne consegue una diminuzione della permeabilità e quindi un aumento dello scorrimento superficiale e della velocità dell’acqua che provoca un aumento più che proporzionale della energia erosiva. Il pascolo degli animali domestici, esercitato anche in bosco soprattutto nella nostra regione è stato devastante, soprattutto fino alla legge Serpieri (1923) ed alla riorganizzazione del Corpo Forestale, che sapientemente ed oculatamente hanno saputo salvaguardare e ricostituire le foreste italiane, con il vincolo idrogelogico ed il relativo Regolamento, ed hanno saputo anche contrastare il fenomeno del pascolo abusivo, che dopo l’Unita d’Italia ha contribuito alla distruzione di migliaia di ettari delle nostre montagne e colline. Il pascolo infatti, agisce negativamente anche sulla circolazione idrica. Lo zoccolo degli animali provoca la costipazione delle particelle fini dei macropori del suolo, l’alterazione della struttura in seguito alla distruzione degli aggregati, ed anche un indurimento nei periodi di aridità. Eminenti studiosi, hanno messo in evidenza come le modifiche nella quantità di deflusso ed il regime dei bacini possono essere fortemente modificati dalle pratiche selvicolturali, dal pascolamento, dagli incendi.


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Per il Bacino del Sarno, come per gli altri territori montani e collinari dell’Italia meridionale, osserviamo il fenomeno dell’aumento del numero e dell’estensione degli incendi negli ultimi decenni, malgrado l’intensa riduzione del carico degli animali tenuti al pascolo e nonostante il sempre crescente (e spesso disarticolato) impegno pubblico nelle attività di prevenzione, di avvistamento e di spegnimento, in stretta correlazione con la forte riduzione delle attività connesse all’economia montana, ovvero dalle utilizzazioni del legno e dei prodotti secondari del bosco, che una volta, oltre a garantire un reddito importante per le aree montane, garantivano con la presenza “dei boscaioli e dei Forestali” anche una costante presenza umana qualificata che garantiva la manutenzione ordinaria e straordinaria a tutte le opere legate all’economia montana, ed in particolare le opere di sistemazioni idraulico-forestali, e la prevenzione dagli incendi boschivi, vero capitale da tutelare perse stessi e per le generazioni future. Un ulteriore e significativo elemento di TRASFORMAZIONE DEI VERSANTIèe costituito dalle INCISIONI, che sono quasi sempre di origine antropica. Si tratta quasi sempre di strade e di piste carrabili a servizio dell’agricoltura e della selvicoltura, che si inerpicano sui versanti a mezza costa, il che e d’obbligo per l’elevata acclività dei profili collinari. Quelle che più incidono sulla stabilita idrogeologica dei versanti sono le piste di quota, che superano di gran lunga il sistema morfologico pedemontano delle conoidi e raggiungono le fasce medio alte dei rilievi. Si tratta di incisioni quasi sempre recenti, realizzate in luogo delle antiche mulattiere con lo scopo di favorire l’esbosco comodo ed economico (in aree dove il macchiatico è già spesso negativo) dei prodotti legnosi provenienti dalle utilizzazioni boschive, mentre fino agli anni settanta, gli assortimenti legnosi venivano trasportati a valle, all’imposto, esclusivamente a mezzo di muli e teleferiche. Nei nostri boschi cedui, si usava il tipo più semplice e rudimentale di teleferica, il filo a sbalzo, noto in dialetto come “sarto”, sistema efficace ed ecocompatibile che, infatti, non comportava alcuna modifica del profilo del versante, soppiantato purtroppo dall’utilizzo di mezzi meccanici, con la conseguente crescita di piste di esbosco che spesso, dopo l’utilizzazione, vengono abbandonate e si trasformano in canaloni impraticabili, solcati da fossi profondi scavati dall’acqua e ostruiti dagli smottamenti delle scarpate. Il risultato di queste pratiche è nella fitta rete di piste di esbosco, o di servizio ai noccioleti, che attraversano ripetutamente tutti i versanti delle montagne del BACINO DEL SARNO, con una serie di incisioni del suolo che determinano discontinuità negli strati piroclastici e alterano profondamente il deflusso delle acque superficiali e i meccanismi di erosione e di trasporto solido. Va innanzitutto evidenziato che anche le eruzioni vulcaniche, come è noto, figurano come ulteriore causa di frane e alluvioni. Il deposito di ceneri vulcaniche, pomici e lapilli costituiva - e costituisce tutt'oggi - un elemento di forte precarietà dei pendii : l'elevata permeabilità alle acque delle “piroclastiti” può generare infatti, in presenza di consistenti precipitazioni, colate di fango o di detriti solidi (i mud flows e i debris flow nel linguaggio odierno). Il problema della forte instabilità delle coperture piroclastiche era, tutt'altro che sconosciuto anche ai tecnici ottocenteschi. Ne è efficace testimonianza ciò che, nel 1843, scriveva il direttore generale

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dell'amministrazione FORESTALE in un suo rapporto sul Bacino del Sarno: “il Sarno è il recipiente unico di tutte le copiose perenni sorgenti che scaturiscono dalle falde dei monti e di tutti i torrenti che da essi discendono in tempo di piogge. Il suolo che attraversa, essendo ricoperto di alti strati di lapillo e di ceneri vulcaniche, consiste in terra leggera e di poca coesione”, (precedenti alluvioni dei giorni 16 e 22 agosto e del settembre 1834). (Walter Palmieri . Dalla geologia alla storia: note su frane e alluvioni nel Mezzogiorno ottocentesco . Napoli 2002 - CNR). Va inoltre ricordato che, in passato, la presenza di economie agricolo-pastorali obbligava, pena la sopravvivenza, ad un costante controllo delle comunità locali nella gestione delle risorse naturali. Pratiche antiche e saperi locali venivano costantemente posti in essere contro frane e straripamenti. Ancora agli inizi '800 a Sarno, si praticava il metodo della “mena delle bufale” consistente nel ripulire, tramite il passaggio di questi animali, l'alveo dell'omonimo fiume per impedirne l'esondazione. Quindi, risulta evidente come le modifiche nella quantità di deflusso ed il regime dei bacini possono essere fortemente alterati dalle pratiche selvicolturali, dal pascolamento e dagli INCENDI. Le pratiche selvicolturali irrazionali aumentano l’entita del deflusso sia totale che superficiale, accentuano l’onda di piena, aumentano la produzione di sedimenti come effetto di un aumento dell’erosione e della franosità. Per effetto dei tagli “di rapina” vengono ridotti i valori di intercettazione e di traspirazione ed aumentati quelli di evaporazione e di deflusso. Quindi, si deduce che le modifiche del bilancio idrologico, e precisamente l’aumento del deflusso, sono più o meno sensibili in funzione dell’entita delle modifiche apportate alla vegetazione. Sottolineando che una parte talvolta predominante delle modifiche del deflusso non deve essere attribuita al solo taglio degli alberi (se eseguito in modo irrazionale), bensì alle operazioni di esbosco (passaggio di mezzi meccanici, trascinamento di tronchi al suolo) ed all’apertura di strade forestali. Catastrofi simili erano già avvenute, negli anni cinquanta, senza, purtroppo, che le Istituzioni facessero nulla o poco per evitarle. Inoltre, per dare maggiore spazio alle piazze o alle vie cittadine sottostanti le pendici, ed alle innumerevoli costruzioni abusive, gli alvei torrentizi, nelle sezioni di attraversamento dei centri abitati, sono coperti: essi potrebbero si e no convogliare una portata di piena se le acque fossero limpide, ma si ostruiscono quando l’onda di piena trascina tutto ciò che è stato buttato nell’alveo come se fosse una discarica, oppure quando dalla pendice si staccano colate di fango o di detriti, chiamate un tempo lave torrentizie, che all’imbocco del tombino lo ostruiscono e tracimano e si creano spazio travolgendo tutti gli ostacoli oppure, peggio, lo mettono in pressione, come avvenne nel caso del Regina Maior a Maiori (SA) il 24 ottobre del 1954, facendolo scoppiare e demolendo anche le case costruite ai lati . Sull’alluvione di Salerno dell’ottobre 1954, allorchè anche il capoluogo subì danni per una causa analoga, l’aver coperto il torrente Fusandola per costruirvi sopra strade e case, esiste un’abbondante letteratura tecnica della quale si citano per la loro obiettività e compiutezza i lavori di Frosini e di Hofmann che spiegano come la coltivazione del castagno sulle piroclastiti


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delle pendici a monte ne renda nulla l’azione di ancoraggio alla sottostante matrice calcarea, essendo il castagno una pianta ossifila. Questa fu anche la concausa del disastro di Sarno nel maggio 1998, allorchè il distacco di frane planari coperte di castagneti (sostituiti dagli agricoltori alle specie autoctone) sommerse quel centro abitato e quelli viciniori. Visto che le calamità si ripetono frequentemente, sono state emanate molte leggi e regolamenti, che dettano le regole degli interventi di sistemazione idraulico-forestali dei bacini torrentizi la cui mancata applicazione e alla base di questi disastri. Un'accurata analisi si trova negli insegnamenti di un grande trattatista, Manfredi De Horatiis, e di Livio Zoli suo successore nella cattedra di sistemazioni idraulico-forestali nell’ateneo fiorentino. Di Zoli è importante il concetto di “manutenzione del territorio” postulato nel1959 [: “Come una strada, una casa devono essere oggetto di manutenzione, così la terra su cui viviamo dev’essere ugualmente oggetto di manutenzione. La forma, l’entita, il ritmo di questo intervento sarà diverso da caso a caso, ma, se manca, la strada, la casa, la terra vanno in rovina. E per la terra, andare in rovina significa frane, e asportazione o depauperamento dello strato terroso utile”] il che si verifica in concomitanza con la pendenza del suolo, cioè in montagna e in collina” ma significa anche inghiaiamenti e impaludamenti che sono invece propri dei luoghi di pianura. La condizione ideale a cui tendere sarebbe quella della invarianza della forma della superficie terrestre, condizione che si può favorire frenando le forze naturali che tendono ad alterare lo stato attuale e accettando soltanto le modificazioni che, anche se eseguite ad opera della natura, sono volute e stimolate da noi. Riuscire a questo significa non solo conservare la terra, ma conservare tutto cio che l’uomo ha creato su di essa, significa dunque eliminare frane, dilavamenti, inghiaiamenti ed impaludamenti, e significa altresì conservare abitazioni, colture, strade, ferrovie, acquedotti e tanti altri impianti. Questa opera di manutenzione è, nell’ambito montano e collinare, specifico oggetto delle sistemazioni idraulico-forestali. Basterebbe rispolverare le regole del 1912. Agli inizi del secolo XX, al quale appartengono innumerevoli opere, eseguite sull'intero territorio Nazionale, di sistemazioni idraulico-forestali perfettamente riuscite perche realizzate applicando la regola del 1905 della “gradualità, continuita, integralità” dell’intervento, l’azione dello stato produsse altre regole che non sono state mai abrogate. Mi riferisco al D.M. 20 agosto 1912 di “Approvazione delle norme per la preparazione dei progetti di lavori di sistemazione idraulico-forestale nei bacini montani”. Di tale normativa il comma 12 si può considerare ancora adesso di grande attualità. Esso dice: “sono da impiegare i materiali rustici del sito, pietre, legnami, chiedendo alla forza di vegetazione i materiali viventi pel consolidamento dei terreni, ricorrendo anche a opere miste di legname e sasso. Nelle frane sono da evitare le costruzioni murali, adottando invece piccole palizzate, graticciate o fascinate basse, inerbamenti e semine o piantagioni di alberi di pronto accrescimento”. Questa norma, a parte l’italiano un po’ vecchiotto, sembra tolta da uno dei tanti manuali di ingegneria naturalistica che hanno visto la luce negli ultimi anni. Se confrontiamo una briglia di “legno e sasso” di quei tempi con una di adesso praticamente non vi sono differenze costruttive apprezzabili.

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Vi è però una differenza sostanziale: la prescrizione contenuta nel decreto del 1912 obbediva al criterio della economicità dei lavori mentre adesso quella tipologia è dettata dalla esigenza dell’inserimento delle opere nell’ambiente naturale. Conclusioni Gli esempi mostrati hanno valore di paradigmi. Si possono anche definire modelli iconici in scala 1:1. Naturalmente, per fortuna, ve ne sono anche altri in ambienti diversi. Con essi ho voluto mostrare con quali regole semplici si può debellare il dissesto idrogeologico. E’ ad esse che bisognerebbe ricorrere quando, dopo ogni disastro alluvionale, si sente affermare dai governanti che bisogna mettere in sicurezza il territorio. In Italia disponiamo di un arsenale tecnico di prim’ordine, sostenuto da una ricerca scientifica di eccellenza; quello che ostacola la messa in sicurezza del territorio è la disorganizzazione della difesa del suolo. Una volta vi erano due baluardi, il Genio Civile e il Corpo Forestale dello Stato. Il primo e stato messo alle dipendenze delle Regioni, mentre è stato sciolto il secondo, che aveva già da decenni assunto altri compiti mentre continua a svolgere egregiamente i compiti assegnati a difesa della legalità in campo ambientale e non solo, come Carabinieri Forestali . Al loro posto vi è, per fare la difesa del suolo, una miriade di soggetti che seguono strade diverse e che, in qualche caso, nello stesso assessorato, oltre che delle foreste e delle sistemazioni, si occupano anche della pesca, da una parte, e le continue realizzazioni delle province di Trento e di Bolzano dall’altra, vi è in mezzo una caterva di sistemazioni idraulico-forestali eseguite ma abbandonate, dimenticate, prive di manutenzione, oppure rimaste incomplete. E’ li che bisogna ricominciare a mettere mano per una seria profilassi della difesa del suolo. Se ne auspica quanto meno il censimento onde intervenire prima del loro collasso che trascinerebbe dietro anche la copertura forestale ch'era stata creata sapientemente in sinergia. Quindi, la copertura forestale da sola, nel caso di pendici indebolite da lavori stradali o scalzate da erosioni torrentizie, non è sufficiente a impedirne la franosità. Per questo in passato, fin dall'inizio del secolo scorso, si sono eseguiti muri di contenimento e lavori misti di natura idraulica negli alvei quali le difese spondali e le opere di imbrigliamento e di rimboschimento dei versanti (Puglisi, Gentile 1999). A parte la cura dei soprassuoli forestali di cui si detto prima, occorre tenere sotto stretta osservazione anche le opere idrauliche, le quali richiedono lavori di manutenzione che, tranne poche eccezioni, generalmente non vengono eseguite. Prima che tecnico, quindi, il problema è politico, ed una sede come questa mi sembra la più adatta per perorare la causa di una efficace messa in sicurezza del territorio ricordando che, ad ogni disastro, oltre alle cose e alle case vanno perdute vite umane. Se compito precipuo della politica e quindi della relativa azione di governo è quello di stabilire le priorità nell'affrontare i problemi, pianificando gli interventi opportuni, destinando le risorse e verificando la qualità delle esecuzioni, va detto a chiare lettere che in generale al Sud ed in particolare in Campania sul tema del dissesto idrogeologico la politica è quantomeno distratta. Certo distratta dalle urgenze del quotidiano e dalla endemica penuria di risorse, certo non adeguatamente stimolata e supportata da una burocrazia quasi mai valorizzata per i suoi meriti,


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certo non aiutata dai tanti consulenti esterni, spesso scelti per ragioni diverse dalla capacità di offrire efficaci soluzioni progettuali. Tuttavia la responsabilità delle scelte non è nè eludibile nè delegabile come ben sanno i tanti "indagati del giorno dopo" per le catastrofi naturali e le tante vittime che si susseguono con crescente quanto preoccupante intensità. Concludo quindi con l'auspicio che una politica più attenta e responsabile, anche nei confronti delle future generazioni, voglia e sappia farsi carico delle emergenze del territorio. Luigi Esposito

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LA TRAPPOLA GREEN Per anni ha spopolato una battuta di Giorgio Gaber sull'igiene personale. Per l'autore del teatrocanzone la doccia era di sinistra, il bagno nella vasca di destra. Oggi la politica è pronta a impiccarsi all'ennesimo, grottesco, tormentone: la difesa dell'ambiente è di destra o di sinistra? Ma che razza di domanda è? Si vede che c'è in giro gente che ha tempo da dedicare alla stupidità. Chi vorrebbe che la natura venisse distrutta se non un piromane? Il punto sul quale una distanza tra destra e sinistra sia misurabile semmai è un altro. Posto che la difesa dell'ambiente appartenga al paradigma di società evoluta, come si coniuga con il perseguimento dello sviluppo economico? Già, perché a tutti piacerebbe vivere in un mondo totalmente ripulito dall'inquinamento, a patto che resti un mondo antropizzato. Se, invece, per servire la pur giusta causa dell'ambientalismo si finisce per avere eserciti di disoccupati destinati alla fame e alla miseria, a chi sta male importa un fico secco la preservazione dell'habitat naturale. Finora la questione è stata tutta ideologica, con la sinistra che ha cercato di mettere il cappello sull'ambientalismo criminalizzando il nemico politico. La solita prassi falsificatoria insegnata nelle scuole di partito dei comunisti per screditare gli avversari. Spariti i bolscevichi sono rimasti in circolazione gli appunti su cui ha studiato la nuova sinistra radical-chic della Ztl (Zona a traffico limitato). I cattivi, quelli di destra, sono rimasti fedeli, seppure con qualche inciampo, al principio che le produzioni, a cui sono connessi i posti di lavoro oltre che i profitti dei produttori, siano la priorità per gli indirizzi strategici dello Stato. Una sana idea che, riguardo alla compatibilità ambientale, andrebbe precisata colpendo gli abusi e i comportamenti irresponsabili e sostenendo, con aiuti economici, la transizione ecologica di quei settori dove passare da una produzione di tipo tradizionale a una "green" non comporti la distruzione della produzione stessa. Ma ci si è messa di mezzo l'Europa. È di questi giorni il voto al Parlamento europeo per il mandato negoziale sulla legge europea sul clima. Il quadro normativo che le istituzioni dell'Unione dovranno costruire prevede di fissare al 2050 l'obiettivo del raggiungimento della neutralità climatica all'interno dell'Ue. Cioè, "tutti i singoli Stati membri devono diventare neutri sotto il profilo delle emissioni di carbonio". La Commissione europea dovrà, entro il 2023, predisporre una tabella di marcia che fissi degli step: una riduzione delle emissioni del 60 per cento entro il 2030, la graduale eliminazione entro il 2025 di tutte le tutte le sovvenzioni dirette e indirette ai combustibili fossili e una valutazione d'impatto che consenta di fissare una nuova riduzione delle emissioni al 2040.


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Bellissimo, a chiacchiere. Ma come si traduce nella sostanza? Il made in Italy si poggia su una gamma di produzioni, in particolare nell'agroalimentare, che non possono essere azzerate se non con la scomparsa delle produzioni stesse? Un esempio. Da uno studio del dottor Dario Caro e del professor Simone Bastianoni del gruppo di Ecodinamica dell'Università di Siena, in collaborazione con i professori Ken Caldeira (Stanford University) e Steven Davis (Università della California) si apprende che il 74 per cento delle emissioni mondiali di gas che provocano l'effetto serra sia causato dai bovini i quali rilasciano nell'atmosfera grandi quantità di metano e protossido di azoto. Il problema tocca da vicino l'Italia. Nel 2017 il consumo rilevato sul mercato interno di carni, di latte e prodotti caseari derivati è stato del 25 per cento dei consumi agroalimentari domestici (Fonte: Ismea-Nielsen). Sempre nel 2017, l'Italia è stata il quarto esportatore europeo di formaggi e latticini, con il 13 per cento del valore delle esportazioni dell'Ue a 28 (Ismea - Rapporto sulla competitività dell'agroalimentare italiano). Nel 2019 la produzione di Formaggio Parmigiano Reggiano e Grana Padano è stata di 349.149 tonnellate; di Gorgonzola per 60.309 ton.; di Asiago, Montasio, Caciocavallo, Ragusano per 28.307 ton.; nel 2018 di Provolone per 6.159 ton. (fonte: Clal - Rapporto fra produzione ed export di formaggi). L'export di prodotti delle industrie lattiero-casearie (3,4 miliardi di euro 10%) e delle carni lavorate e conservate (3,3 miliardi di euro - 9%) nel 2018 ha cubato circa il 20 per cento della filiera dell'agroalimentare per l'export (34,4 miliardi di euro) (fonte dati: Istat). Se nel 2020 i numeri sono crollati è colpa della pandemia, cessata la quale il comparto produttivo potrà tornare a correre collezionando nuovi record sulla bilancia commerciale. Ma per produrre eccellenti formaggi e squisite bistecche occorre che si allevino bovini. Ora, di là dagli altisonanti proclami degli organismi comunitari, come si pensa di salvaguardare la zootecnia italiana dal rischio di finire sulla graticola della transizione verde? Si ricomincia con la politica degli incentivi per abbattere i capi di bestiame? Si torna alle micidiali "quote latte" e alle supermulte per i trasgressori? Cosa tramano a Bruxelles? Se fosse qualcosa di simile alle norme in danno del comparto della pesca che hanno ammazzato tante imprese italiane del settore, è bene che le belle parole sull'ambiente le vadano a spendere da qualche altra parte, che gli italiani ne hanno abbastanza di grandi strategie finite in solenni fregature. Anche sull'utilizzo delle fonti energetiche non rinnovabili bisognerebbe fare un ragionamento sensato. Nel 2017 il trasporto di merci su strada in Italia è stato di 106,7 ton/Km (fonte: Eurostat). Se dovessero intervenire provvedimenti punitivi per questo segmento della mobilità, con sovrattasse e abolizione degli indennizzi compensativi sul consumo di carburanti, una delle principali infrastrutture a servizio del sistema produttivo nazionale andrebbe in crisi con incalcolabili danni all'export e ai consumi interni. Con gli esempi si potrebbe andare avanti a lungo. Ciò che conta rimarcare è l'inaccettabile metodo di lavoro delle istituzioni europee che per costruire la casa comune cominciano dal tetto anziché dalle fondamenta. Prima di dispensare norme assurde piacerebbe conoscere quali siano le reali intenzioni dei padroni del vapore per il futuro dell'Europa; cosa s'intenda sacrificare in nome della transizione ecologica e cosa no. E, ci domandiamo, chi dovrà tra i 27 Paesi membri pagare il conto più salato?

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Si fa come con le sanzioni alla Russia? Il gasdotto Nord Stream sta ancora lì che pompa combustibile alla Germania dalla "Russia con amore" e a fine anno un altro se ne aggiungerà mentre i nostri agricoltori sono in crisi nera grazie alla politica europea delle sanzioni. E poi, il timing della transizione ecologica. All'Occidente avanzato sono occorsi tre secoli di progresso scientifico e tecnologico per arrivare al punto in cui è. Come si può pensare di convertire una civiltà in trent'anni, a meno che non si abbia intenzione di distruggerla? Vorremmo che i nostri politici, invece di sfidarsi a chi sia più green, si preoccupino di scoprire i piani europei per il futuro dell'Italia. Non vorremmo che nel nostro destino vi fosse un mega hot-spot per immigrati e, nei posti più caratteristici, una stazione turistica per i ricchi vicini. Su una cosa siamo d'accordo con la sinistra: amministrare la tentacolare società post-industriale significa governare la complessità. Una regola però non è cambiata dagli albori della Storia: in un contesto umano aggregato c'è qualcuno che comanda e ci sono gli altri che subiscono gli effetti del comando. In Europa, l'Italia da quale parte del trono è collocata? Conosciamo, ahinoi, la risposta. E poi dicono che uno diventa euroscettico. Cristofaro Sola


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ECOLOGIA: UN NEOLOGISMO Sicuramente l'Accademia della Crusca ha allo studio l'emissione di una errata corrige in ordine all'accezione 'ecologia' perché col tempo, questa ha perduto il suo significato originario per acquisire quello, più contingente, dello studio dell'eco. Del resto, in esito alla formazione originaria del nome che prende da oikos e logos, non ce lo vedo l'attuale governo alle prese col greco. Dal che, meglio interpretare in maniera più adeguata e 'moderna' il termine per farne un qualcosa di meglio attinente alla situazione: l'eco, appunto, e lo studio delle sue varie applicazioni. Ad esempio, in termini di Covid, Covid, Covid, Covid, Covid. Penso che gli esperti di comunicazione di marca pentastellata abbiano volutamente inserito 'l'eco' nelle loro strategie al fine di saturare l'ambiente con parole 'd'ordine' riverberate all'infinito. In un recente telegiornale di RAI1, ad esempio, lo spazio dedicato alla pandemia è stato di ben 20 minuti lasciando agli altri 10 l'informazione su tutti gli altri fatti riguardanti l'Italia e il Mondo. Uno spazio, quello dedicato alla pandemia, dove tra un'eco e l'altra il virus, a causa della 'morfologia' del territorio e della 'composizione' dei rilievi, è stato condito in tutte le tonalità/salse possibili e immaginabili. Siamo tornati al numero dei 'positivi' giornalieri, associati stavolta al numero dei tamponi effettuati, mentre le immagini mostrano file di persone che diligentemente attendono il loro turno per farsi spazzolare il cavo faringeo e i turbinati. E, poi, il numero dei ricoverati nonché quello dei contagiati in terapia intensiva, l'entità dei morti, i focolai in Italia, il commento dei Governatori ovviamente diverso l'uno dall'altro, quello del personale sanitario locale, col 'cappello' di qualche virologo o infettivologo nostrano che fustiga giovani, maturi e anziani bellamente 'in giro' mentre, a suo dire, dovrebbero mostrare un senso di maggiore responsabilità e starsene a casa. Se disponibile, un qualche rappresentante dell'ISS fa sempre il suo bell'effetto in video. Non manca, ovviamente, il ministro di turno o, addirittura, il presidente del consiglio che ci spiega perché la colpa è la nostra se loro, con sommo dispiacere, sono costretti a pensare a forme più restrittive della nostra libertà: siamo dei discoli impenitenti, dei disobbedienti inveterati, dei ribelli scriteriati. Il tutto seguito dalla situazione pandemica nel mondo: dalla Francia alla Germania al Belgio; dagli USA con annesse le intemperie di Trump, all'India, ai Paesi latinoamericani dove Bolsonaro non manca mai, con una puntatina in Russia, per finire con qualche dichiarazione d'effetto da parte di studiosi internazionali che ventilano scenari apocalittici. Già. Perché questo virus insidioso, un figlio di puttana per dirla in termini aulici, sfugge alle più

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banali osservazioni degli 'esperti' rinnovandosi di volta in volta: all'aperto e alla distanza di un metro, non c'è problema; ma ecco che gli 'spruzzi' di saliva in uno starnuto possono arrivare anche a 12 metri; sulle superfici il soggetto inquisito staziona per 2/7 giorni per poi scoprire che vive all'aperto e sulle superfici soltanto alcuni secondi ma ciò fino a quando importanti studiosi non affermano che su vetro e metalli la sua vita può protrarsi addirittura fino a 21 giorni. Si pensi che perversione può raggiungere se è in grado di 'ingannare' specialisti che lo esaminano con le stesse conoscenze scientifiche e con gli stessi strumenti eppure giungendo a conclusioni differenti. E l'eco continua fino a saturare l'ambiente: gli effetti sulla scuola, l'incremento dello smart working, l'ampliamento delle video-call, l'allargamento dei video-meeting, il cambiamento attuale e prospettico delle nostre abitudini lavorative e private nonché il mutamento dell'approccio sanitario ai nostri problemi di salute, con tanto di sociologi, di psicologi, di pedagoghi, di medici che articolano le loro funeste riflessioni in un clima da Shining dove il 'cattivone' è rappresentato da un Jack Torrance in veste di virus. Ma ecco, in conclusione, con la voce inorgoglita del conduttore o della conduttrice, il premio alle nostre 'sofferenze', il riscatto del nostro sacrificio, la rivalsa da tanti patimenti: l'OMS (forse in virtù della presenza in quella sede dell'esimio prof. Mario Monti, futuro capo commissione per le priorità dei sistemi sanitari europei, ex drammatico presidente del consiglio nostrano), seguita dalla Commissione Europea, ha affermato che l'Italia è al primo posto nella lotta al fetente virus, con tanto di lusinghieri apprezzamenti al punto da far arrochire per l'emozione la voce del giornalista. Dopo di che, i 20 minuti sono terminati. L'ambiente è saturo e l'inquinamento devastante è assicurato. La scuola nella sua organizzazione è totalmente nel 'pallone' con i banchi anticovid pagati centinaia di milioni, già sfasciati e accatastati. Gli operatori economici (le imprese, i professionisti, ecc.), in forte ripresa dopo la fine del lockdown, stanno tornando all'attesa degli eventi, alla stasi nelle decisioni, in procinto di licenziare non appena scadrà la 'copertura' governativa. I consumi tornano a languire per il clima di paurosa indeterminazione del futuro. Ma ecco che una nuova eco giunge a sostenere gioiosa il Paese e le sue paure: la ripresa green, green, green. L'ecologia farà da padrona nel brioso rilancio economico mentre scorrono le immagini di un cielo terso, di un prato in fiore, di un orizzonte limpido con frotte festose di persone, con bambini al seguito, che radiose osservano l'ambiente 'pulito' che li circonda; alcune a piedi, altre in bicicletta e altre ancora in monopattino, l'ultimo ritrovato della scienza e della tecnica per il futuro dei nostri spostamenti. Il green fa prima del 'covid' a saturare l'ambiente ma, fortunatamente, non è così inquinante perché non va al di là del pronunciamento. La crociata (nominale e comunque europea) contro la plastica si è arenata sul 'fortunale' della pandemia per il suo abnorme impiego nel materiale medicale e nella protezione degli alimenti mentre le limitazioni negli sversamenti in atmosfera (comunque europee) sono riconsiderate dal possibile, legittimo commercio delle 'quote gassose' da 'sparare' in aria. Il resto è fuffa. I Comuni continuano a stabilire le 'domeniche ecologiche' contro le polveri sottili per le gaie famiglie che riscoprono l'ambiente che le circonda


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mentre vetusti autobus lanciano sbuffi velenosi tra loro. Fortunatamente, come cennavo, c'è il monopattino per il lancio del quale sono stati investite centinaia di milioni. Forse, si può pensare che un uso generalizzato del mezzo possa egregiamente sostituire l'inquinante trasporto pubblico e, comunque, decongestionare l'inquietante, inquinante traffico. Chissà se per l'inverno, visto il non vincolante impiego e l'arguzia italica nel modificarne la velocità, verrà dotato di gomme termiche: tanto per rispettare, dal 15 novembre al 15 aprile, le relative prescrizioni. Per il green non c'è altro. Come, del resto, non c'è altro per il Paese: echi ripetuti fino a ottundere l'intelletto, fino a relegare in timorosa solitudine, fino a inibire ogni iniziativa, fino a frustrare speranze. Se si riuscisse a superare il frastuono massmediale sul nulla, sarebbe da chiedere a viva voce che ne è delle politiche che questo governo avrebbe dovuto porre in atto per fronteggiare la crisi economica, al di là della contingente e sconclusionata 'coperta' di Arlecchino; quali sono le politiche da porre in essere per la 'ripresa'; quali sono le politiche da adottare per fronteggiare da gennaio prossimo la valanga dei licenziamenti e la grave crisi sociale che ne deriverà i cui effetti vanno ben al di là nel tempo: in un Paese di anziani, stanno inibendo lo spirito imprenditoriale dei giovani per cui, se il numero di coloro che intraprendono si restringerà per l'ottusa indeterminazione politica, si restringerà in via proporzionale il numero degli occupati, condannando all'inedia il Paese stesso. Ma non c'è verso di superare il frastuono; men che meno dopo l'ultimo DPCM che entra nelle case e da l'ennesima mazzata al terziario. Evidentemente, nemmeno l'opposizione ci riesce; forse, ha accolto l'invito, ripetuto nei 20 minuti dei telegiornali da parte di esponenti della maggioranza, ad una 'leale' collaborazione per uscire tutti trionfanti da quest'ardua prova. Mi chiedo, al riguardo, se hanno avuto modo di ascoltare l'audizione del Prof. Pasquale Mario Bacco alla Camera dei Deputati, lo scorso 11 ottobre e cosa pensino al riguardo. Non sono un medico e, quindi, non sono in grado di valutare la fondatezza delle affermazioni che il luminare in quella sede ha fatto ma certo è che quello stesso luminare non si sarebbe giocata la reputazione proprio in quel posto; tutt'al più l'avrebbe fatto in uno dei tanti talkshow dove d'abitudine gli 'esperti' e anche i politici dichiarano tutto e tutto il suo contrario. Certo è che se avesse ragione sarebbe veramente da ridere. Pietro Angeleri

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ECOLOGIA FA RIMA CON IPOCRISIA Ecologia è una bella parola, non c'è dubbio, che fa fine, denota cultura, esprime consapevolezza, narra di sensibilità sociale e di determinazione e che oggi inquadra chi la pronuncia nel novero di quelle persone 'impegnate' che non possono che militare a 'sinistra'. Come, del resto, coloro che parlano ad esempio di 'sociale', di 'diritti', di 'immigrazione', di 'Europa'. Accezioni, queste, che oggi d'emblée sono attribuite al cosiddetto patrimonio culturale di una parte politica senza lasciare spazio ad ogni qual sorta di distinguo, di concetto esimente o inglobante, di contorno arricchente. Sembra come se la 'destra' fosse una masnada di boriosi, insensibili ignoranti, di bruti indifferenti, di rozzi sconclusionati sulla materia. La mia verità è che purtroppo in buona parte la 'destra' oggi è proprio così ma ciò non toglie che i 'peccati' della 'sinistra' siano meno macroscopici. A cominciare dall'incompletezza per non dire inconsistenza delle loro politiche, quando non dalla smaccata ipocrisia. Intanto, il semplice pronunciamento sembra dover bastare alla risoluzione del problema senza che si riscontri una politica conseguenziale che, assieme alla soluzione, fornisca un confacente viatico per il futuro. Mi viene da pensare che i dirigenti di quel raggruppamento politico abbiano compiuto seri studi su Eraclito e su Filone e sul loro concetto di logos, la parola, vivificante per il solo fatto di essere pronunciata. O, forse, in via traslata, hanno approfondito la teogonia egizia dove Ptah depone l'Uovo Cosmico sulle rive dell'Oceano primordiale, pronuncia il nome e Ra fu. O, forse ancora, nell'odierno mélange culturale-politico-partitico, si sono incarnati nell'Adamo della Genesi che 'crea' gli animali semplicemente dando loro un nome. Ciò che manca da quella 'sinistra' parte è andare oltre l'enunciazione: gli sbarchi devono essere permessi senza che vi sia una successiva cura degli sbarcati, il sociale va indicato senza che vi sia una efficace attenzione e impegno per i mali della società, i diritti vanno conclamati senza che si pratichino iniziative e politiche atte a preservarli. Analogamente, ciò vale per l'ecologia e per la sua formulazione che, oltre a inquadrare il pronunciatore nel novero delle persone 'impegnate' di 'sinistra', di più non fa. A cominciare dalla necessità di formare la società sull'argomento. Per cui, dopo vent'anni di 'impegnato' governo di 'sinistra', intervallati da dieci anni di menefreghismo di 'destra', ci ritroviamo con delle aberrazioni sociali dove l'aria, l'acqua e la terra, anziché essere di tutti, non sono di alcuno e quindi se ne può fare strame. I divieti ci sono ma si possono riversare in aria tonnellate di fumi dannosi e se un qualche magistrato indaga è un reazionario che vuole affossare un importante settore produttivo. È l'atteggiamento tenuto per l'ILVA mentre varie amministrazioni anche di 'sinistra' di Taranto rilasciavano tranquillamente


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licenze edilizie a ridosso dei muri della fabbrica, in concomitanza con la Regione che vietava in un raggio di 20 Km il pascolo e la raccolta dei mitili. È l'immobilismo del Ministero dell'Ambiente nei diversi governi anche di 'sinistra' nel rilasciare autorizzazioni VIA (valutazione di impatto ambientale) mentre le produzioni relative sono avviate da tempo. Con l'assenso dell'Unione e del PSE, è addirittura la possibilità di commerciare quote gassose da 'sparare' in atmosfera e di decidere, praticamente, dove nel mondo convenga inquinare. Sarà che non avendo più una chiara impronta connotativa la 'sinistra' per definire il suo 'nuovo' essere ha preso a destra e a manca, dai radicali ai 'verdi', ma si vede che non sono connotati che le si confanno, non sono quelle le tematiche che agevolmente è in grado di dipanare, non sono quelli i percorsi dove le sia facile orientarsi. In più, le manca l'impronta movimentista, tipica del 'vecchio' socialismo. Per cui, mentre i ghiacciai si riducono, il livello dei mari s'innalza, il riscaldamento globale avanza, le perturbazioni climatiche aumentano e si ingigantiscono, preferiscono affidare la battaglia ecologista sul campo a pseudo movimenti quando non a singoli come Greta Thunberg: una ragazza svedese che si muove nel mondo su invito di interessati gruppi sensibili, ovviamente di 'sinistra', ignara del ruolo al quale la 'sinistra' stessa la sta condannando: quella di cieco testimonial di una politica che non verrà mai seriamente attuata. Una efficace politica ambientalistica, del resto, tradotta a livello di azione di partito, si pone in netto contrasto con il concetto di sviluppo sostenibile, altro argomento caro alla 'sinistra', il quale, al di là della pennellata di nobiltà della sua definizione, significa semplicemente la facoltà di 'rovinare' l'ambiente fino al limite di sopportazione dell'ambiente stesso, cioè fino al limite delle sue possibilità di recupero per non lasciare macerie ai nostri figli. Un concetto, tuttavia, che come si può intuire lascia ampio margine di discrezionalità e di opportunità. In Italia, ad esempio, siamo alla formulazione di una norma di prevenzione in un'ottica nobilmente ambientalistica, contenente l'elencazione pedissequa dei divieti e delle stringenti azioni lasciando tuttavia all'etica degli operatori la sua applicazione. E, a volte, siamo praticamente all'indifferenza di fronte alla contravvenzione di quelle stesse norme per sfuggire all'onerosità del sistema e/o, peggio, per lucro. È il caso, sempre ad esempio, del rinvenimento dei relitti navali affondati nel Tirreno pieni di rifiuti tossici o il ritrovamento di un'infinità di contenitori di rifiuti analogamente tossici in un comprensorio che ingloba addirittura 38 Comuni tra le provincie di Caserta e di Napoli. In quest'ultimo sito, peraltro, la puntigliosa classificazione di rischio tra Comuni condotta dall'ISS non lenisce la portata dell'abnorme numero di affezioni polmonari che in quei luoghi comunque si registra insieme a significativi sforamenti dalla media di tumori alla mammella, alla vescica, ai polmoni. Qualcuno potrebbe chiedersi a cosa hanno portato le indagini circa l'individuazione dei colpevoli, visto e considerato che si tratta di reati penali. Ma, con ogni probabilità, resterebbe deluso. Ma a destare stupore non è tanto l'inefficacia eventuale delle indagini quanto la possibilità che l'interramento di quell'infinità di contenitori sia potuta accadere, innumerevoli volte, senza che qualcuno abbia visto camion, ruspe e uomini che provvedevano al tristo compito. Un qualcuno

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che, con ogni probabilità, ha in famiglia problemi sanitari derivati dall'inquinamento e, giustamente, a viva voce chiede allo Stato la bonifica dell'ambiente. Se non fosse tragico, saremmo al burlesque, alla pantomima. Ma quello della Terra dei Fuochi non è il solo spettacolo ad andare in scena: gli si affianca degnamente quello relativo agli inceneritori. Nessuno ha spiegato alla gente che protesta nelle piazze che le discariche non sono più consentite dall'Unione e che la via per lo smaltimento dei rifiuti urbani passa per il loro incenerimento con il recupero dell'energia derivata dalla combustione, da destinare a beneficio degli abitanti di quei Comuni che hanno conferito i rifiuti stessi. In sostanza, i rifiuti che prima andavano a deturpare una zona come discarica, possibilmente da interrare e dalla quale recuperare il biogas della fermentazione, diventano il mezzo per ottenere consistenti risparmi nei costi energetici delle abitazioni. Ovviamente, i fumi degli inceneritori, secondo la norma, sono innocui, semplice vapore acqueo, per le puntuali manutenzioni dei filtri del camino. Detto questo, c'è da chiedersi allora perché la gente di una comunità individuata per la posa dell'inceneritore protesta. Teme forse che le manutenzioni non vengano effettuate per cui la combinazione delle combustioni di materiali vari darebbe luogo all'emissione di diossina? Oppure teme che dilatate tempistiche nella lavorazione dei rifiuti possano dar luogo ad una nuova 'discarica'? O, invece, teme che il conferimento da parte del proprio Comune non sia puntuale così da ritrovarsi una 'discarica' in casa? Ovvero, teme che l'istallazione dell'inceneritore possa avvenire ignorando precisi termini di distanza dall'abitato ovvero l'esistenza di una qualche peculiarità della zona? Nessuno lo sa e, comunque, ogni possibile risposta sarebbe un processo all'intenzione. Fatto sì è che la gente protesta, senza alcuna cognizione di causa e senza che vi sia qualcuno, forse interessato, a spiegare loro almeno le ragioni dell'esistenza. In pratica, una protesta come quella effettuata decenni fa sul nucleare, condannando l'Italia, in nome del 'verde', ad acquistare energia all'asta, per giunta contornata da Paesi costellati da centrali nucleari. Lo so, c'è l'enorme problema dello smaltimento delle scorie per le quali forse si è temuto all'epoca l'anticipazione della Terra dei Fuochi ma di tutta evidenza è che al colpevole menefreghismo si abbina, congiuntamente o disgiuntamente, l'indifferenza, il particolare interesse e la totale voluta ignoranza. Mi auguro che nell'incontinente fantasia sinistrorsa a nessuno venga in mente, a proposito del 'buco' dell'ozono, di promuovere l'abolizione degli allevamenti di bovini e suini dell'Emilia, imputabili con la loro flatulenza di dare notevole contributo al fenomeno. Incontrerebbero una serie opposizione visto l'apporto di quegli allevamenti all'economia locale e nazionale. Ma, forse, a qualche ostinato potrebbe venire in mente di 'imbrigliare' le scoregge delle vacche e dei suini per il recupero del dannoso biogas: sarebbe un'azione degna di lode e gli auguro buon lavoro. Comunque, spesso e volentieri, si fanno battaglie del tutto autoreferenziali come quella dei NO TAV, cara alla 'sinistra' la quale farisaicamente qualche tempo prima aveva votato in Europa la formazione della cosiddetta short list nella quale la TAV è prevista. In ogni caso, nella sua


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disinvolta azione, nessuno è lì ad imputarle che il congiungimento autostradale tra Livorno e Grosseto non si può fare visto l'ostruzionismo operato dagli abitanti di Capalbio, in massima parte appartenenti alla 'creme' della gauche, timorosi che possa venire disturbato il loro dorato buen retiro. Come detto, è l'ipocrisia, insieme all'opportunità, a farla da padrona: spazia in ogni dove, dalle targhe alterne alle domeniche ecologiche, in assenza di specifiche politiche a cominciare, spesso, dal rinnovo del parco trasporti pubblici e a finire con la fatuità degli impegni assunti dopo le calamità naturali (mappature geologiche, verifica periodica degli ambiti delle acque, monitoraggio del territorio, ecc.) e quelle indotte dalla mano dell'uomo: urbanizzazione forzata, disastri ecologici per incuria, ecc. ecc. ecc. E, quando si manifesta, l'ipocrisia acquista toni risentiti, velati di compassione per le persone colpite, per caricarsi di determinazione nel risolvere velocemente il danno. Potrei proseguire ma penso di aver sufficientemente rappresentato la situazione in patria. Vorrei, d'altro canto, poter dire che l'atteggiamento dell'Unione in proposito è diverso ma, purtroppo, anche lì lo 'sviluppo sostenibile' si presta ad un'infinità di interpretazioni e le 'sensibilità' si manifestano dove possono. Si porta avanti, giustamente, una strenua battaglia per eliminare la sperimentazione sugli animali dell'industria della cosmesi ma si adottano tutte le prudenze del caso, peraltro con ampie dilazioni e sostegni economici, nel richiedere che i motori marini, una delle principali fonti d'inquinamento, vengano gradualmente sostituiti. Analogamente, dicasi per gli aerei. Ovviamente, sperando in una pronta rispondenza degli armatori e delle società, parliamo di trasporto marino e aereo targato UE, una parte delle 51.000 navi che ogni giorno fendono i mari e dei circa 10.000 aerei che, in ogni attimo della giornata, solcano i cieli di tutto il mondo. Il summit di Parigi dello scorso anno, promosso dall'UE e teso, si pensi, a limitare il riscaldamento globale al di sotto del 2% annuo d'incremento, ha visto la partecipazione di ben 190 parti ma c'è da chiedersi quanti di quei Paesi extra UE contribuiscono veramente al riscaldamento? Quanti hanno fondatamente sperato nella larga munificenza dell'Unione? E quanti, tra i grandi, hanno aderito nutrendo fondatamente la stessa speranza? Paesi, quest'ultimi, in forte sviluppo, strenui consumatori di fonti energetiche fossili altamente inquinanti perché privi di difese collaterali, che concordano solamente in virtù dell'entità degli aiuti comunitari il cui buon fine è tutto da vedere. E che dire del rifiuto americano di aderire? Un rifiuto che da solo, ammesse le generali buone intenzioni, ha compromesso la quasi totalità dell'impegno generale. Eppure, l'Unione in quell'occasione mancò poco che si scusasse con il presidente americano per non aver saputo trovare le ragioni di una sua permanenza. Mancavano le fantozziane poltrone in pelle umana ma ci siamo andati vicino. È bene che i rapporti rimangano sereni, a prescindere dall'ambiente. Si pensi al nucleare e, in tale ambito, a quale poteva essere la situazione negli ex Paesi dell'URSS dopo il crollo del cosiddetto impero sovietico: già prima del '91 la tecnologia delle relative centrali di alcuni di quei Paesi era datata ma l'energia che producevano era a basso costo; un

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aspetto notevolmente importante con l'introduzione della libertà di mercato. Da lì, la riottosità a smantellare vinta, una volta divenuti canditati membri dell'Unione, solamente dietro l'erogazione di notevoli contribuzioni. Eppure, ad oggi, a distanza di oltre un decennio del loro ingresso nel sodalizio comunitario, il problema non è totalmente risolto. Ma non meravigliamoci più di tanto. La Francia che provvede al suo fabbisogno energetico per oltre il 74% col nucleare è parimenti ritardataria nello smantellare centrali obsolete, individuate secondo i termini dell'AIEA, l'Agenzia internazionale per l'energia nucleare. Anche qui potrei proseguire ma … Basta. Non ho più voglia di continuare. Che dire in conclusione? L'ecologia, secondo la definizione di Wikipedia, è l'analisi scientifica delle interazioni tra gli organismi e il loro ambiente. Ebbene, le interazioni ci sono, a volte anche pesanti, ma così almeno gli studiosi della materia hanno qualcosa da analizzare. F.D.


POLITICA

DICIOTTO ANNI! No, sinceramente non so se ridere o piangere! Nella disperazione mi appiglio all'immortale italianità di Ennio Flaiano secondo cui: "La situazione è grave, ma non seria!". Viaggio spesso in automobile con l'orecchio incollato a Radio radicale. E ciò non per una mia particolare inclinazione verso i lasciti politico-culturali della buonanima di Marco Pannella, ma in quanto detta emittente è l'unica che faccia un servizio pubblico degno di tale nome e cioè un asettico resoconto di una specifica realtà. Mi riferisco alla trasmissione in diretta dei dibattiti di Camera e Senato senza alcuna mediazione di commentatori (radio) o mezzibusti (TV) più o meno asserviti a sacerdozio di tesi preconfezionate, capziose e di parte. L'ascolto delle attuali due Assise attraverso gli interventi dei vari rappresentanti del "popolo sovrano" - soprattutto nella loro attuale, variegata composizione ove la maggioranza relativa degli astanti è frutto del nefasto principio dell'"uno vale uno" ove unica giustificazione scientifico/sociale di tale assunto non dovrebbe trovare onestamente riscontro se non che nelle primordiali esigenze corporali dell'essere umano nelle quali effettivamente il "sommo" vale l'"infimo" - è sconcertante, penoso, preoccupante e, cosa peggiore di tutte, spesso comico. E pur se talvolta aulico ed accattivante, tale ascolto non manca di appalesare mal celati aspetti di autoreferenzialità, gratuita assertività degna di miglior causa, sibaritico godimento del suono delle proprie parole, compiacimento dialettico, sfoggio di superficiale, appiccicaticcia informazione, il tutto spesso condito da cacofonici accenti regionali forieri di mattanze di congiuntivi, violenze di "consecutio temporum" sbalorditivi innalzamenti a dignità di florilegio lessicale di italianizzati inglesismi sostituenti, in modo del tutto gratuito, vocaboli ancora ben presenti nella nostra lingua nazionale Mi si conceda un'auto citazione (fatto del tutto inelegante, lo so, ma alla mia età, finalmente e come si dice in francese: "Je m'en fous !") per fornire una consolidata testimonianza delle mie costanti riserve in merito alla attuale democrazia parlamentare (CONFINI N. 79 dell'ottobre 2019 "Democrazia parlamentare? Un vero e proprio ossimoro") ed in merito alle quali il mio diuturno ascolto della predetta emittente non fa che ribadirmene fondatezza, valore ed, ahimè e soprattutto, tragica attualità. Il dibattito attualmente in corso sul voto ai "teenagers" (e presumo anche sul relativo elettorato passivo) raggiunge il culmine di un lunare percorso di ridefinizione di un'assise ove inesistenti: 1) esperienza, 2) consapevolezza, 3) maturità esistenziale e 4) competenza tecnica sembrano reclamare a gran voce un ultimo, nefasto atto di completamento di tale "sovrano" capolavoro,

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una definitiva ciliegia sulla torta: riempirlo di ragazzini (soprattutto di contemporanea, pecorile, ignorante fattura in quanto etero-diretti e quindi con "identità" esogena) ove, ed è proprio il caso di dirlo, l'"uno" varrà veramente l'"altro" e l'Aula piuttosto che "sovrana" diventerà allora l'assise di una appendice del tutto "subalterna" alle peggiori caratteristiche della nostra società. Un presidente della Camera dei deputati di 18 anni, un capo del Senato della Repubblica (e seconda carica dello Stato!) di 25 anni - chi lo vieta ? Sarà del tutto "costituzionale" - saranno il legittimo completamento e culmine di un percorso concettualmente gratuito (giovane = perfetto), assurdo, artificiale, capzioso, ideologico, acritico e quindi ideale scenario di chi vuol ridurre la democrazia a farsa, il popolo a gregge ed il bene reale del paese ad asservimento di alcune "vendute" o forse (ma lo credo poco) irresponsabili (?) quinte colonne di altri interessi non certamente benefici per il popolo italiano Antonino Provenzano Roma 15.10.2020


AMBIENTE

2020: UN ANNO BOLLENTE Le temperature globali del 2020 saranno probabilmente le più elevate di sempre. Già ci sono tutte le premesse. Secondo il servizio Copernicus, infatti, il mese di maggio 2020 è stato il più caldo di sempre, con un aumento della temperatura di 0,63 gradi centigradi sopra la media degli ultimi decenni. In alcune zone della Siberia, le temperature sono state di 10°C sopra alla media In Alaska e Antartide, nell'ultimo anno, le temperature sono state di 0,7°C al di sopra della media. Inoltre, i livelli di concentrazioni di CO2 nell'atmosfera pur rallentando la loro corsa per effetto del Covid 19 hanno continuato ad aumentare. Cambiamenti climatici e improvvise variazioni del clima, con eventi meteorologici spesso devastanti come alluvioni, trombe d'aria o grandinate sono la logica conseguenza di questi cambiamenti. Non deve quindi sorprendere che il nostro pianeta sia in molte regioni letteralmente in fiamme. In una sola settimana due fronti di incendi fuori controllo in California hanno distrutto oltre 400.000 ettari di vegetazione e centinaia di abitazioni, per lo più nell'area attorno alla Baia di San Francisco. Cifre che fanno di queste due ondate di fuoco la seconda e la terza più grave della storia del Golden State. Le fiamme di oltre 585 focolai sono alimentati dal caldo torrido e secco, dai venti e da almeno 12.000 fulmini senza pioggia. Questo è uno dei dati più interessanti, le fiamme, quando di origine naturale, sono spesso innescate dai fulmini. Ma non va meglio in Italia. I dati dell'Istituto Isac del Cnr relativi ai primi sette mesi del 2020 dicono che la temperatura quest'anno è stata, ad oggi, di oltre un grado (+1,01 gradi) superiore alla media storica classificandosi al quarto posto tra i più bollenti dal 1800. I dati evidenziano anche la riduzione del 30% delle piogge, nonostante le ultime bombe d'acqua e di grandine che hanno colpito il nord Italia. Con quasi 500 incendi da nord a sud è stata un'estate di fuoco anche per l'Italia con pesanti danni all'ambiente, all'economia, al lavoro e al turismo. Nelle ultime settimane violenti incendi hanno devastato ampie porzioni della nostra penisola, dall'area di Budoni in Sardegna alla Puglia, dall'Emilia Romagna alla Sicilia, dal Lazio alla Calabria, dalla Campania all'Umbria e alla Basilicata, con migliaia di ettari bruciati, animali morti, alberi carbonizzati, oliveti e pascoli distrutti. Pur senza raggiungere i livelli della California, le fiamme sono arrivate a lambire le città, costringendo a intervenire anche dall'aria con canadair ed elicotteri oltre che sulla prima linea di terra con le squadre dei vigili del fuoco. L'evidente tropicalizzazione del clima ha creato le condizioni per l'esplodere di roghi devastanti nelle aree dove la siccità colpisce con maggiore

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violenza. Negli ultimi dieci anni grandini e incendi hanno causato oltre 14 miliardi di euro di danni a produzioni e infrastrutture. Il 60% dei roghi è di origine dolosa. Si tratta di un fatto grave che ha effetti drammatici in un Paese come l'Italia dove più di 1/3 della superficie nazionale è coperta da boschi per un totale di 10,9 milioni di ettari. Ci vogliono decenni per far rinascere tutto l'ecosistema forestale con la su biodiversità e la sua ricchezza di servizi. I boschi assolvono funzioni importanti per tutta la nostra società, come per la prevenzione dalle frane e dalle alluvioni, la ricchezza di risorse biologiche, il sequestro di CO2, oltre a costituire un patrimonio naturale con importante valenza turistica. Gli incendi hanno effetti devastanti per il turismo. Per sconfiggere gli incendi serve un impegno da parte di tutti. In primis servono da parte delle Regioni, che sono responsabili della prevenzione, più azioni e politiche mirate per la prevenzione e il contrasto degli incendi, moltissimi dei quali possono essere evitati. Per gli incendi di origine naturale, infatti, una corretta manutenzione dei boschi contribuisce ad evitare il propagarsi delle fiamme. Per difendere i boschi italiani occorrerebbe promuovere il ritorno alle campagne e all'imprenditoria agricola. Anche il Governo e le Regioni possono fare di più in questo senso. Per quanto riguarda gli incendi dolosi, dal punto di vista normativo, la legge 68/2015 ha introdotto gli ecoreati nel codice penale. Purtroppo, molti Comuni non la applicano in molti casi di incendio doloso. Inoltre, nei casi più gravi, si può configurare per le conseguenze che hanno i grandi incendi boschivi il delitto di disastro ambientale, introdotto con la legge 68/2015 e che prevede fino a 15 anni di reclusione più le aggravanti. La riluttanza, tutta italiana, al controllo e all'applicazione delle leggi contro i crimini ambientali è uno degli aspetti sui cui lavorare per crescere. Massimo Vitali


GEOPOLITICA

CON IL CUORE A YEREVAN PREMESSA Questo articolo NON si propone di spiegare le cause del conflitto tra Armenia e Azerbaigian ma solo di stimolare un impegno civile, solidaristico, nei confronti del popolo armeno, che soffre più per l'ignominiosa indifferenza delle potenze occidentali che non per i feroci attacchi dei nemici. Gli scarni riferimenti ai fatti contingenti, pertanto, sono espressi a titolo di esempio e vanno considerati come stimolo al necessario approfondimento. È impossibile, in un articolo, fornire una chiara rappresentazione di eventi che possono essere ben compresi solo a fronte di una piena conoscenza dei fatti pregressi. Nell'articolo è utilizzata la parola "Artsakh" per indicare il territorio impropriamente definito dai media di tutto il mondo "Nagorno-Karabakh". "Nagorno" è una parola russa che significa "montagna"; "Karabakh" è una parola di origine turca e persiana che significa "giardino nero". Russia, Turchia e Iran sono soggetti fortemente coinvolti nella vicenda e, proprio per sancire in modo ancora più pregnante il diritto di un popolo di essere lasciato in pace, il territorio conteso sarà definito con il suo vero nome: Artsakh, che rimanda ad Artaxias I, re dell'Armenia dal 190 al 160 a.C. e fondatore della dinastia degli Artassidi, subentrata agli Orontidi, presenti in Armenia sin dal VI secolo a.C. Anche la questione terminologica comprova la confusione che aleggia intorno alle vicende di quell'area geografica. L'INTRICATA MATASSA Come anticipato in premessa, occorrerebbe scrivere almeno un saggio per fornire un quadro informativo esaustivo su un contesto geo-politico che vede contrapporsi troppi attori. L'alleanza militare con la Turchia, che foraggia gli azeri nella rivendicazione dell'Artsakh, rende impossibile ogni concreto aiuto a livello istituzionale, al di là dei formali richiami alla pace e degli stucchevoli e inutili bla bla bla diplomatici, che non cambiano la sostanza delle cose. Gli azeri, di fatto, violano sistematicamente la tregua sottoscritta grazie alla mediazione della Russia e la comunità internazionale fa finta di non vedere. Una compiuta trattazione della vicenda bellica, inoltre, non potrebbe prescindere dai sentimenti di imbarazzo che pervadono gli analisti in virtù delle tante contraddizioni da gestire. Alcuni esempi possono far percepire le difficoltà che si riscontrano quando ci si muova in quel ginepraio. È normale che gli armeni provino sentimenti ostili nei confronti dei dirimpettai, non

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GEOPOLITICA

scevri da quello più terribile, ossia l'odio; è altresì normale che siano ricambiati con la stessa moneta, essendo il popolo azero convinto, per induzione e non certo per convinta deduzione scaturita da severi studi, che il territorio conteso sia realmente di loro pertinenza. Illuminante, a tal proposito, quanto asserito dallo scrittore polacco Ryszard Kapuœciñskii: "In realtà nessuno sa veramente spiegare perché armeni e azeri si odino tanto. Si odiano e basta! Lo sanno tutti, lo hanno succhiato col latte materno". ("Imperium", Universale Economica Feltrinelli, 2013. L'autore scrive ben 320 pagine per percorrere un "viaggio" approfondito, dal 1939 al 1992, in quei territori dissoltisi in mille rivoli e staterelli dopo il crollo dell'URSS, ben spiegando le oscure, complesse e violente realtà, spesso condizionate dall'ignoranza e dalle altrui manipolazioni, rese ancora più inesplicabili da una confusione di lingue e culture che rimandano al mondo dopo il crollo della Torre di Babele). Il legittimo afflato di simpatia, tributato agli armeni dagli osservatori occidentali di un certo peso, esclude i sentimenti di odio nei confronti degli azeri, tanto per il normale rifiuto di un sentimento così estremo quanto per la consapevolezza che anche gli azeri sono vittime di giochi più grandi di loro, fomentati da soggetti esterni fortemente interessati a scompaginare quell'area geografica, per ragioni molto meno nobili di quelle paventate dagli eserciti in lotta. Manifestare apertamente questa distinzione, però, non è facile, soprattutto nelle relazioni con gli amici armeni. Altra complessa gatta da pelare riguarda la Russia, che ha una base militare in Armenia e di fatto funge da garante per la sua integrità territoriale. Occorrerebbero, tuttavia, ben più di 320 pagine per far comprendere il vero ruolo della Russia, senza far nascere equivoci quando, a denti stretti e con palpabile imbarazzo noi occidentali dobbiamo sostenere: "Meno male che Putin c'è". Equivoci facilitati anche dalla preponderanza di una narrazione storiografica fortemente partigiana e quindi lontana mille miglia dalla realtà. Si dovrebbe smontare pezzo per pezzo, per esempio, il tentativo di legittimare il diritto degli azeri a governare l'Artsakh con riferimenti che risalgono addirittura a quattrocentomila anni fa. (Non è un errore di battitura: ho scritto proprio quattrocentomila). Dopo aver esaustivamente definito cosa sia realmente accaduto dai tempi della dominazione romana fino al crollo dell'URSS, soffermandosi adeguatamente sui fatti del 1915, bisognerebbe attaccare con decisione quello che si può definire il "dolce inganno", con riferimento alle tante trappole che l'uomo ha saputo creare, nel corso della sua esistenza, per trasmettere il male facendolo passare per bene. All'insegna di accattivanti espressioni concilianti, tipo "vogliamoci bene" e "basta con la guerra", autentici campioni della comunicazione fanno passare l'idea, apparentemente bellissima, che l'unica via per la definitiva risoluzione del problema sia una abbraccio fraterno tra armeni e azeri, suggellato dal ritorno a casa, ossia nella Grande Madre Russia. Nel 2014, Russia, Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan hanno dato vita all'Unione economica eurasiatica e non è un mistero per nessuno che Putin voglia realizzare nell'area ciò che non siamo capaci di fare in Europa: una vera integrazione politica degli stati confinanti. Al momento l'Azerbaigian si è tenuta fuori perché proprio non ne vuole sapere di questo progetto, avendo assaporato il gusto


GEOPOLITICA

dell'indipendenza e sentendosi ben protetta da Sua Maestà Erdogan, che ispira più fiducia di Putin. De gustibus non disputandum est verrebbe da chiosare. Putin, però, è fiducioso e da bravo giocatore di scacchi muove le sue pedine con raffinata strategia, contando anche sui tanti milioni di azeri e armeni che vivono in Russia, con doppio passaporto, utilizzati come le sirene di omerica memoria. "Venite, fratelli armeni; venite, fratelli azeri; non potete continuare ad ammazzarvi in eterno! Che vita è questa? Vi è un luogo stupendo, su questo pianeta, dove possiamo vivere insieme, in gioiosa armonia e in pace! Questo luogo si chiama Russia! Noi stiamo già qui. E ci stiamo benissimo! Venite anche voi. Vi aspettiamo a braccia aperte". Il canto delle sirene, per ora, non funziona né per gli armeni, che hanno le idee chiare su come si debbano estrinsecare i rapporti con la Russia, né per gli azeri, che della Russia non ne vogliono proprio sapere. NON LASCIAMO SOLI GLI ARMENI Gli armeni sono abituati a essere "dimenticati" e non ci fanno più caso, oramai. Questo dato, però, non impedisce loro di apprezzare la solidarietà, foss'anche quella espressa con un semplice sorriso. Non lasciamolo solo, questo meraviglioso popolo, che da secoli patisce quella triste condizione esistenziale generata dalla consapevolezza di non essere capito dai più, di essere tollerato con fastidio da chi capisce, di essere osteggiato senza ragione (o per subdoli interessi) e di essere sostanzialmente amato senza riserve solo da chi, purtroppo, può fare poco per cambiare le cose. Sono trascorsi oltre cento anni dal genocidio, che ancora non viene riconosciuto come tale da tanti stati. Questa è una delle tante cose che fa male; fa molto male. Si approfondisca la storia dell'Armenia, in modo da penetrare in un universo conoscitivo che porterà tanta ricchezza culturale. La storia non è maestra di vita, contrariamente a quanto da tanti ingenuamente sostenuto, ma conoscerla è importante, non fosse altro per capire a chi tendere una mano e offrire un fiore. Dopo aver assimilato almeno gli aspetti essenziali di un popolo così travagliato, ciascuno potrà muoversi in piena autonomia, stabilendo contatti con i tanti armeni che vivono in Italia, per esempio, o con i nostri connazionali residenti in Armenia, che in questi giorni di tensione sopperiscono egregiamente alle lacune informative e alle distorsioni mediatiche, inviando "inconfutabili" reportage, essendo le parole scritte sempre corroborate da drammatiche immagini. Il livello dei lettori di CONFINI è molto alto e pertanto chiunque intenda accogliere questo appello non ha bisogno di consigli per "iniziare" un fascinoso viaggio. Con un intento meramente collaborativo, pertanto, indico di seguito alcune informazioni essenziali, che torneranno utili, eventualmente, ai più pigri o a qualche sporadico lettore che quella fetta di mondo non abbia mai frequentato, nemmeno mediaticamente. Purtroppo in questo magazine non è possibile attivare gli hyperlink e pertanto è necessario effettuare le ricerche secondo le indicazioni fornite.

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LINK INTERNET Per un primo approccio basta accedere al blog www.galvanor.wordpress.com e digitare "Armenia" nel campo "cerca". Compariranno quattro articoli: "24 aprile il giorno sacro degli armeni"; "Cento anni di solitudine"; "The cut - il padre"; "The promise". In calce al secondo articolo sono elencati dei link a documentari e film; altri riferimenti a importanti film sono riportati anche nell'articolo intitolato "The promise". (Se per una ragione qualsiasi non dovessero comparire tutti i succitati articoli basterà scrivere il titolo nel campo "cerca"). Per prendere contatto con la comunità armena in Italia si può fare riferimento ai siti www.comunitaarmena.it; www.unionearmeni.it; per esprimere solidarietà al popolo armeno si può scrivere all'ambasciatore, al seguente indirizzo: info@ambasciataarmena.it (sito web ricco di informazioni: www.ambasciataarmena.it). Facciamoci sentire. Il nostro affetto si tramuta in medicina per il loro affranto spirito. Lino Lavorgna


CULTURA

COME FECE IL FASCISMO A SCONFIGGERE LA TUBERCOLOSI? Silvio Berlusconi a 84 anni ha contratto il virus del Covid19 e, nonostante l'elevata carica virale, dopo due settimane è uscito dalla clinica allegro e pimpante come il presidente Americano Trump (74 anni) dopo due giorni di degenza. Questi due esempi ci dimostrano che chiunque abbia contratto il virus può guarire. Le migliaia di morti che abbiamo registrato nel pieno della pandemia (e che speriamo di non rivedere), sarebbero state infinitamente meno se quelle persone fossero state curate adeguatamente. Non è il Virus che uccide, ma la mancanza di cure, a parte il caso di pazienti affetti da gravi patologie poi aggravate dal Covid. Negli anni venti, prima dell'avvento del Fascismo, in Italia la tubercolosi (TBC) infettava ogni anno 600mila persone e causava oltre 60mila vittime, soprattutto fra i bambini. Eppure nel giro di pochi anni il Regime riuscì a depotenziarlo fino a sconfiggerlo del tutto. Come fece? Prendendolo a manganellate o annegandolo nell'olio di ricino? Battute a parte, la risposta è semplice: costruendo ospedali e dotandoli delle più moderne strumentazioni tecnico-scientifiche e applicando procedure mediche all'avanguardia nella cura delle malattie infettive. Furono realizzate negli anni del Fascismo quelle eccellenze in campo ospedaliero che tutto il mondo guardava con ammirazione e che ancora oggi rappresentano l'ossatura del sistema sanitario pubblico: a Roma lo Spallanzani, il San Camillo e il Forlanini, a Napoli il Cardarelli, a Genova il Gaslini solo per citare i più noti, cui si aggiunsero le centinaia di ospedali minori e le molteplici strutture specializzate per la cura delle patologie polmonari come, ad esempio, il Villaggio Sanatoriali di Sondalo. In pochi anni dal 1929 al 1936 furono creati oltre 20mila posti letto in sessantuno nuovi ospedali. In ogni località termale sorgevano le Colonie Elioterapiche per la cura delle patologie polmonari e tutti gli anni i bambini potevano andare a respirare aria salubre al mare o in montagna grazie alle colonie estive. In quegli anni nessuna nazione europea investì nella sanità pubblica come l'Italia fascista. Altro che mascherine, distanziamento sociale e banchi a rotelle nelle scuole... Gianfredo Ruggiero

Per saperne di più è disponibile il libro di Gianfredo Ruggiero:”I danni del Fascismo e le colpe di Mussolini”, distribuito da AMAZON, oppure richiedere copia all'autore, E-mail: ruggierogianfredo@libero.it, 280 pagine € 12 - E-book €3,99

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DA LEGGERE


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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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