Confini 88

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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

IDENTITA’

Numero 88 Settembre 2020


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 88 - Settembre 2020 Anno XXII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato:

Francesco Diacceto Gianni Falcone Roberta Forte Lino Lavorgna Pietro Lignola Sara Lodi Emilio Petruzzi Antonino Provenzano Angelo Romano Cristofaro Sola +

Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone e Sara Lodi

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EDITORIALE

IL CAOS CHE AVANZA E' la forza di specificazione che determina l'identità. Lo dimostra la varietà della vita nelle sue molteplici forme. Si tratta di una forza che agisce non solo a livello delle specie viventi ma anche a livello individuale e sociale. Gli individui tendono a differenziarsi, a manifestare la loro unicità ed a competere per affermarla, le società puntano a specificarsi sulla base di retaggi, valori, aspirazioni, culture. Anche i corpi sociali fanno la stessa cosa. Ad esempio le imprese si specificano dandosi un marchio, una fisionomia specifica, producendo beni e servizi il più possibile differenti da quelli dei concorrenti grazie ad una marcata riconoscibilità. Lo stesso fanno, mutatis mutandis, anche le istituzioni, le formazioni sociali ed i partiti politici. Se la vita è pulsante e variegata specificazione, la morte è omologazione, come omologanti sono alcune forze che pervadono il mondo moderno. Tra tutte, dopo il comunismo e l'egualitarismo, la cosiddetta globalizzazione e la spinta alla standardizzazione che porta con sé. Purtroppo, negli ultimi decenni, vi è stato un travaso di identità dai popoli ai mercati, dagli uomini alle cose, tanto da indurre alcuni ad identificarsi solo attraverso simboli di stato, stili di consumo, peggio, a tatuarsi un codice a barre, come fossero pacchetti di patatine o confezioni di profilattici. Famiglia, scuola, mezzi di comunicazione, poteri finanziari, lobbie, gruppi di potere, primato dell'economia sulla politica, hanno concorso e concorrono ai processi di omologazione, alla desertificazione dei valori specificanti. Tanto che, oggi, i cosiddetti "influencers" hanno molti più seguaci di un leader di partito e sono in grado, a pagamento, di orientare le scelte di consumo di masse sempre più amorfe e sempre più decerebrate, nelle quali gli individui sono sempre più desiderosi solo, non di distinguersi per il loro valore, ma per il capo griffato che indossano, per il liquore che bevono, per lo shampoo che usano. Le scelte delle persone e le azioni conseguenti sono sempre meno figlie di ragione e passione bensì di slogan, di parole d'ordine, di acritici rituali collettivi. Ai giovani interessa sempre meno scoprire sé stessi e il mondo, basta che si vada in discoteca ad agitarsi come forsennati in un contesto di musiche ottundenti e di vapori alcolici o "ecstatici". "Genitore 1" e "genitore 2" rappresentano l'acme di tale processo cancellando il padre e la madre, scalzandoli dai loro millenari e sacrosanti ruoli, una follia contro la famiglia in ossequio ad un egalitarismo massificatore ed assimilante, come i Borg dei film di fantascienza, quanto falso ed ipocrita perché propalato nel nome della non discriminazione delle coppie omosessuali. Il sesso è stato messo anch'esso a servizio dell'omologazione, tutti uguali nel nome del desiderio pulsionale: uomini, donne, gay, lesbiche, transessuali e chi più ne ha più ne metta, ma guai alle


EDITORIALE

pulsioni oltre il limite piuttosto evanescente delle molestie. Guai al peccatore, anche se il presunto "peccato" risale ad un'era geologica diversa, in barba alla non retroattività della legge penale. Ma questo è il sogno americano sul quale non è ammessa obiezione per il "maccartismo" congenito che affligge quel popolo. E se si decide che il fumo va messo all'indice non c'è difesa o riserva indiana in cui rifugiarsi. Non importa se l'alcool miete molte più vittime, se i pesticidi prodotti dalle multinazionali sono altamente cancerogeni, se le droghe sintetiche bruciano i neuroni dei giovani, se la polluzione da gas di scarico uccide quanto la peste, il nemico è il fumo del tabacco. Ipocriti! Le multinazionali del tabacco hanno preteso, per non rischiare risarcimenti miliardari, la messa all'indice dei fumatori nell'ancor più ipocrita consapevolezza che pur di dare "blend" alla sigaretta additivano il tabacco naturale con un centinaio di dubbie e tossiche sostanze. E' il Kali-Yuga che bussa alle porte per portare il caos annunciato, per confondere le lingue, i valori, le idee, per offuscare intelligenza e ragione. E così sterminate masse di diseredati, in costante incremento numerico, errano sul pianeta, anche forzando i confini, per contendersi quel po' di briciole che sfuggono all'avidità dei pochi, sempre più pochi, che monopolizzano la ricchezza ed il potere delle nazioni. E il "genio della specie", consapevole che il brulichio di vita famelica, consumatrice e longeva non è sostenibile da un pianeta provato e malato, si difende distillando virus sfuggenti e letali: aids, ebola, sars, aviaria, mucca pazza... e da ultimo il Covid che sta sovvertendo le economie, le vite delle persone e lo stesso ordine sociale. Ma il sistema è congegnato in modo tale che se si ferma cade in pezzi e, quindi, via alle vacanze, alle discoteche, ai viaggi, alle manifestazioni sportive, agli spettacoli, alle fiere, alle riunioni, ai comizi in piazza. Pazienza se i contagi aumentano e pazienza pure se bande di esagitati, convinti che la terra è piatta o che il virus non esiste, concorrono al contagio scalmanandosi e accalcandosi in riunioni incontrollate di presunta protesta contro le misure liberticide a tutela della salute collettiva. E' la massa bruta e senza cervello che vuol farsi, impossibilmente, individuo pensante. C'è una perdita di senso crescente, disorientante, che rende legittimo tutto ed il contrario di tutto. Rende legittimo a Renzi intonare il canto della vittoria alle ultime elezioni regionali per qualche voto conservato in Toscana, rende legittimo a Di Maio di intestarsi la vittoria dei Sì al referendum, anche se la relativa norma l'avevano votata quasi tutte le forze politiche, rende legittima la radiazione di Palamara dall'Ordine giudiziario quasi fosse un corpo estraneo e non un "capobastone" caduto in disgrazia e, quel che è peggio, rende legittimo il silenzio del Colle. Questo per restare in Italia. Ma che dire della "legittima" cancellazione delle libertà ad Hong Kong, della "rieducazione" degli Yuguri, della persecuzione dei Curdi, della impunità di un Erdogan o di un Lukasenko, delle calotte polari che scompaiono, delle balene che si spiaggiano a centinaia, della foresta amazzonica che arde come la ricca California e la lontana Australia, delle stragi di innocenti, dei padri che ammazzano i figli, degli squinternati che trucidano per il solo gusto di ammazzare, dello smarrimento e dell'ipocrisia che dilagano... Tranquilli, è solo il caos che avanza cancellando ogni identità. Il sacro è tramontato. Angelo Romano

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IDENTITA’ È sicuramente un caso: anticipando la scelta del tema, chiudevo l'altro mio 'pezzo' proprio sull'argomento 'identità', uno scritto di un tardo pomeriggio di agosto, acquoso e indolente, con una gran voglia di pensieri-immagine buoni e sereni, sia pur virati al seppia, e mi ritrovo oggi con il focus del corrente mese proprio su quello stesso oggetto: al che, ringraziando il caso (e l'amico direttore), mi rallegro perché la vena nostalgica e malinconica del precedente scritto, rileggendolo, mi accorgo che ha sfocato la mia riflessione confezionandola più come un bisogno di 'orgoglio di appartenenza' che come di tratto identitario. Così, con il presente scritto, vorrei provare ad aggiustare il tiro cercando, nel tempo stesso, di dare all'identità un senso più pratico che filosofico, un aspetto più accomunante che distanziante, una sembianza più fruibile nella realtà odierna che un ricordo da ciarpame. E non è facile perché il mio ragionamento si basa chiaramente su un che di empirico, privo di qualsivoglia rigore scientifico il quale, anziché aiutarmi, mi porterebbe a darmi della scriteriata insolente e boriosa. Già, perché se procedessi lungo i 'sacri' percorsi, dovrei concludere che l'identità non esiste, ovvero che sussiste solo per denotare una differenza oppure che è mutevole e costantemente in divenire, una qual sorta di prêt-à-porter. Infatti, senza andare alle origini del pensiero organizzato, se volessimo dilettarci con Voltaire, ad esempio, scopriremmo che per quel filosofo (e non è il solo) 'identità' significa sostanzialmente 'stessa cosa', una 'medesimezza', si perdoni l'astruso termine. Per cui un fiume rimane il 'medesimo' per ciò che riguarda il letto, le rive, la sorgente, la foce; in pratica, per quanto riguarda tutto ciò che esso non è. Ma siccome esso cambia continuamente l'acqua che costituisce il suo essere, non esiste alcuna identità, alcuna 'medesimezza' relativamente a quel fiume. E se volessimo spingere il ragionamento più in là per associarci l'uomo, ci verrebbe detto che l'unica 'medesimezza' che lo riguarda è quella legata alla memoria, al sentimento continuo di ciò che è stato e di ciò che è. Una comparazione, tuttavia, che non porta beneficio, arricchimento. Non sono tanto d'accordo ma non disperiamo. Almeno secondo Hobbes l'identità umana è certa, ben differenziata da quella animale, anche se poi viene successivamente caratterizzata da fattori plurimi, spesso volgenti al conflitto all'interno della 'medesima' (ci vuole) specie; per cui, banalizzando il discorso potremmo dire che una 'identità comunitaria' si frantuma in differenti 'identità' di stato, sociali, economiche, ecc. che, tuttavia, immancabilmente confliggono tra loro. E non c'è da stare allegri perché tali conflitti sono dirompenti. Per cui, alla fin fine, neppure la


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consapevolezza di possedere una comune identità umana pone l'uomo in atteggiamento conciliante verso un altro uomo. Il curioso è che altri duecento anni di evoluzione del pensiero non hanno prodotto cambiamenti apprezzabili circa concezione dell'argomento; soltanto i contorni sono stati di volta in volta ammantati di sfondo religioso, etico e estetico o sessuale. E, in verità, neppure i filosofi più recenti sono stati in grado di 'globalizzare inglobando' il concetto, spesso ricorrendo più sulla disquisizione circa identità di 'categoria'. Potrei citare Foucault da un verso e Heidegger dall'altro ma il discorso di fatto non muterebbe. Pur tuttavia, di recente, mi sono dilettata su amene letture dell'opera di Zygmunt Bauman che, sebbene non risolvano il mio attuale dilemma, mi forniscono almeno un contesto di considerazioni allargate. Intanto, che neppure istituzioni apparentemente consolidate come Stato e Nazione possono oggi soddisfare la bisogna; certo, ad uno Stato serve almeno il richiamo alla 'Nazione' per cementare la 'cittadinanza' visto che altri fattori di coesione sono andati raminghi; un ricorso che nel caso italiano, ad ulteriore esempio, fa leva sull'Inno di Mameli cantato allo stadio dai partecipanti, spettatori e atleti, agli eventi sportivi: l'unico emblema, del resto, di 'italianità'. È interessante quello che Bauman ha pensato di noi: 'In Italia, dovreste saperlo fin troppo bene … Ad un secolo e mezzo dalla vittoria del Risorgimento, l'Italia a malapena può dirsi un Paese con una lingua unica e una piena integrazione degli interessi locali …. La priorità dell'identità nazionale è ancora, com'era prima dell'unificazione, una questione aperta e che suscita vivi contrasti. …'1 . Di rimando, la Nazione necessita dello Stato per significarsi e significare ma oggi trova un ente 'anomalo' che ha disperso la sua 'statualità' verso l'alto e verso il basso, senza che percorsi compensativi, culturali, economici, sociali, siano intervenuti. Per altri versi, cercare un'identità nella 'modernità fluida', come il filosofo la definisce, dove il web ha parcellizzato all'infinito il virtuale essere, è un'impresa impossibile vista la proiezione in un mondo dove tutto è sfuggente e le ansie, i dolori, i sentimenti di insicurezza provocati dal 'vivere in società' hanno bisogno di un paziente lavoro d'interrogazione delle realtà e di come i singoli si 'posizionano' in essa. Del resto, cercare di acquietare il senso di volatilità e di precarietà dei progetti di vita brandendo certezze del passato e di conseguenza spiegare lo spaesamento facendo leva solo sui 'sacri testi' è come tentare di 'svuotare il mare con un secchiello.'. Viviamo in una 'società dell'incertezza', secondo quel pensatore, dove lo Stato, nel processo di globalizzazione in atto, non ha più il potere o la volontà per mantenere inespugnabile il suo patrimonio con la società. 'I flirt extraconiugali e perfino l'adulterio sono inevitabili e ammissibili, se non addirittura smaniosamente e appassionatamente procurati (per soddisfare le condizioni preliminari stabilite per essere ammessi nel 'mondo libero' …). Avendo ceduto ai mercati globali la maggioranza dei propri compiti ad alto impiego di lavoro e di capitale, gli Stati hanno molto minore necessità di fare ricorso al fervore patriottico. Perfino i sentimenti patriottici, …. Sono stati ceduti alle forze del mercato e da queste ridispiegate sul campo di battaglia per rimpolpare i profitti degli organizzatori di manifestazioni sportive, spettacoli, celebrazioni di anniversari e

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altre manifestazioni pubbliche. …'2. Come, del resto, tutte le altre 'gerarchie d'identità', non più controllate e protette, si sono dissolte o hanno perso gran parte del loro passato potere di seduzione. Per l'Italia, si pensi all'insorgenza delle odierne Regioni e al loro potere di fascinazione verso la politica dopo quasi un decennio di piattume di berlusconismo e antiberlusconismo. Nel 2001, infatti, con la modifica del Titolo V della Carta costituzionale sia pur varata da Sirene ammaliatrici nelle vesti DS (oggi PD) per trattenere l'Ulisse celodurista, sembrava che la politica avesse ripreso la sua funzione programmatoria e di guida, operando tra l'altro più vicino alle necessità locali. Ma, poco dopo l'ubriacatura iniziale, le Regioni sono diventate una via di mezzo tra una satrapia e un nightmare; una via che, ai prelievi fiscali, ha aggiunto complicazioni alla già complicata via della Pubblica Amministrazione. Ma, almeno uno scopo con il loro agire lo hanno raggiunto: quello di sconfessare un caro vecchio docente, un certo Marshall McLuhan il quale per la società, in risposta al Villaggio Globale, vedeva la sua 'ritribalizzazione'. Neppure l'associazionismo sotto le sue più disparate forme 'identitarie' è riuscito a canalizzare funzionalmente ed emotivamente le esigenze e le attese il quale, dopo una festosa 'primavera', ha perso ben presto la sua funzione rivendicativa per sposare unicamente quella di 'circolo' pacioso, ovviamente autoreferenziale. Nemmeno il sindacato è sfuggito all'involuzione: le sue 'piccole pugne', infatti, toccano oggi i contorni della pagina e rimproverano agli amanuensi solamente lo scadimento dei colori delle figure allegoriche di cornice. Ciò che domina, quindi, è l'insicurezza che fa vacillare persino diritti che si credevano incrollabili: quelli economici sono ormai fuori dal controllo dello Stato; quelli politici che gli Stati possono audacia temeraria igiene spirituale offrire sono strettamente limitati 'e compressi all'interno di quello che Pierre Bourdieu ha definito il pensiero unico del neoliberismo e del libero mercato senza alcuna regola mentre i diritti sociali vengono rimpiazzati uno ad uno dal dovere individuale di provvedere a sé stessi e di essere 3 sempre un passo avanti agli altri.' . Un 'pensiero unico' sgraffignato dalla 'sinistra' al neoliberismo e 'usato' coercitivamente a mani basse. Eh! Quando si dice 'identità' ereditaria. Lo so. Il quadro non è dei migliori e tutto ciò sembra contraddire la (mia) esigenza di 'identità' perché, checché se ne dica, debbo costantemente affermarla. Non posso sentirmi come fuscello tra i marosi, ho bisogno di radici e di comunità, e non ha importanza alcuna se debba imparare a capire il siciliano o il bergamasco, l'arabo o lo svedese; non ha alcun rilievo se debba frequentare gay, transgender o etero; se debba apprezzare il sassofono tenore o il pianoforte, se debba frequentare la low society, i raccoglitori di anguille di Comacchio o fare i bagni nella spiaggia popolare. In tarda età, ho scoperto che l'unica cosa che veramente (mi) importa è di stare bene con le persone che scelgo di frequentare e dalle quali vengo scelta. Un insieme di persone che formano una 'comunità' dove ciascuno con il proprio bagaglio conoscitivo ed esperienziale arricchisce gli altri. Non siamo ancora all'identità' piena ma ci avviciniamo: poter dire e godere di partecipare a 'raduni' di scapestrati vegliardi definiti 'quelli dell'Ave Maria' (è troppo lungo spiegare), aperti ad ogni affiliazione, mi dà una 'connotazione' singolare, non c'è dubbio, ma mi sento appagata del


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bisogno di aprirmi e di confrontarmi. E qui cade l'asino: Aprirmi e confrontarmi con la mia 'formazione', con la mia esperienza, con i miei sentimenti e le mie paure. In una parola, con la mia, la mia sola identità che è fatta di passato che ricordo e di presente dove agisco. Non voglio certo scomodare il sig. René Descartes, in arte Cartesio, e affermare che penso e, quindi, sono ma certo è che il mio essere è di per sé stesso un'identità, che non trova eguali. Ed il bello è che cerco non una 'medesima' identità bensì un'identità diversa con la quale apparentarmi perché ciò che semmai ci può accomunare è proprio la stimolante diversità. Il 'cercare' significa 'mettersi in piazza', affrontare l'agorà. E questo comporta 'gridare' il proprio essere. Come scrisse il collega Massimo Sergenti nella 'Rivoluzione dell'unicità' nel novembre 2014, purtroppo viviamo in una società dallo spirito mercantile, in cui l'aspetto economico del vivere tende a soppiantare l'aspetto morale-estetico e la logica del contratto tende a prevalere sui rapporti interpersonali. Il dramma è che lo spirito mercantile, uscendo dai suoi ambiti, ha contaminato ogni altra espressione della vita civile, sociale e soprattutto politica. Per cui, ogni messaggio ha necessità di parole, un profluvio di parole dove il loro valore si ferma al loro pronunciamento, senza agganci nel passato e senza alcuna concreta proiezione nel futuro. In effetti, non esiste più una capacità di lettura prospettica. Si pensi al Covid e alla sua assurda gestione. In sostanza, le parole pronunciate scarsamente denotano i veri elementi in campo, la fondatezza della situazione descritta, e nel contempo, il reale pensiero e la vera capacità di chi le pronuncia; servono, per lo più, a trarre dall'impaccio, ad uscire da una contingenza in attesa della prossima. Il fatto è che la parola, in bocca all'attuale politica, ha perso la sua capacità creatrice, per divenire spettacolo e un frastuono senza senso è divenuto assordante, valanga di parole sterili, con l'unico effetto di rendere silenti, attoniti, gli ascoltatori. Ma il silenzio che ne deriva all'ascoltatore sotto un tale frastuono è, a sua volta, sterile, perché non suscita in lui comparazione, deduzione, non sollecita la memoria, una valutazione, una riflessione, non lo induce verso l'espressione di un giudizio che, per quanto soggettivo, è sintomo di elaborazione. Così, su un qualsivoglia argomento si crea una dilagante opinione, il più delle volte frutto di una fugace osservazione, di un veloce ascolto, di uno stato d'animo, che si somma per pigrizia a quella di un amico, di un conoscente fino a formare la cd. pubblica opinione che, priva di 'ancoraggi personali' ondeggia, spesso angosciata, come un campo di frumento sotto il vento di tempesta. Invertire il demenziale percorso è sicuramente un'ardua prova; un'impresa che, come primo passo, dovrebbe richiedere proprio il ricorso alla memoria di ciò che si è stati e di ciò che si è, facilitati purtroppo in questo dall'ampliamento anomalo della fascia generazionale degli ultrasessantenni. Del resto, i giovani, in quanto tali, non hanno elementi da comparare, l'esperienza nel cercare e il bisogno di dedurre: sono stati allevati per correre e (speriamo) fruire, secondo meccanismi competitivi che esulano da ogni altra considerazione. Gli anziani, invece, hanno una memoria e si ricordano, come diceva mia nonna, che 'si stava meglio quando si stava peggio'. Con ciò intendendo che noi ultrasessantenni potevamo non avere lo smartphone, la pagina su

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Facebook e su Instagram, che non conoscevamo i low cost e l'abbigliamento griffato casual o le sue contraffazioni, ma quando dichiaravamo una persona 'amica' vuol dire che l'avevamo guardata materialmente in faccia, conoscevamo i suoi pensieri e provavamo per lei un'empatia, al di là delle differenze esperienziali e formative. Che non avevamo bisogno di dimostrare la nostra esistenza e la nostra originalità attraverso la 'tatuazione' (si riperdoni la forzatura) del nostro corpo: bastava parlare, dei figli o delle vacanze, del lavoro o dei disagi e riscontrare rispondenza, consiglio, calore umano, senza bisogno di spiattellare il tutto su una pagina virtuale, con tanto di foto persino della colazione mattutina, verso centinaia di 'amici' virtuali ai quali non frega un amato … Una memoria che ci faccia ricordare che cosa siamo stati capaci di fare. Perché siamo quelli della riconversione economica in meno di un quarto di secolo, gli artefici del 'miracolo economico' e della industrializzazione, i comprimari nella costruzione dell'Europa comunitaria senza i quali i virtuosi Paesi del Nord avrebbero potuto, certo lodevolmente, continuare ad accendere i fuochi di Beltane, porsi in testa un palco di corna e inseguire la 'cerva'. Hanno preferito, invece, per loro scelta vestirsi di seta e discettare in latino ma questo non li abilita ad innalzarsi paludati da giudici e da boia nei confronti altrui. Specie nei nostri. Basterebbe ad impedirlo un po' di amor proprio dettato, sia pur sulla scorta della memoria, da un orgoglio di appartenenza. Non siamo sempre stati dei dissipatori, dei pressappochisti, degli ignoranti inveterati e, sebbene la stampa estera ci abbia (interessatamente) sempre descritto come mangiaspaghetti e mafiosi, mandolinisti e strafottenti scanzonati, fare una vacanza in Italia, tra il sole, il mare e l'ospitalità, era il sogno di una vita. Avevamoigiene il migliorspirituale sistema di Welfare, prima che l'assistenza elettorale audacia temeraria soppiantasse la previdenza; la migliore copertura delle prestazioni fatta di immobili, prima che la finanza li cartolarizzasse; un diritto del lavoro invidiabile prima che la competizione liberista e sinistrorsa lo riducesse di fatto alla legittimazione del caporalato; produzioni che abbinavano maestria e 'magia' nel trasformare, prima che il piattume monocorde culturale e produttivo ne facesse strame. È ciò solo un quarto di secolo fa. Avevamo tutto questo, ci riconoscevamo e ci riconoscevano in tutto questo quando, secondo i 'salvifici innovatori della II Repubblica', stavamo male. Oggi, retoricamente parlando, stiamo meglio? Ci possiamo rispondere semplicemente guardandoci attorno. Mi rendo conto e sono pienamente d'accordo con Bauman (che presunzione) quando dice che è impossibile leggere il presente con i 'sacri testi' ma la domanda è: perché siamo obbligati a sottostare sic et simpliciter al 'presente'? Non penso sia fattibile un 'ritorno' al passato che, peraltro, vede solo macerie; l'opera mirabile dei 'salvifici innovatori' piuttosto che una graduale evoluzione che sostituiva istituti vecchi con quelli nuovi in uno con la dilatazione dello scenario e dei costumi, ha epidemicamente distrutto. Certo, mi rendo conto delle difficoltà ad agire in un mondo come quello odierno dove il 'logoramento del carattere', lo 'svuotamento' delle istituzioni democratiche e la 'privatizzazione' della sfera pubblica ridotta sempre più ad un talk show dove tutti possono urlare le loro ragioni senza che questo riesca a trasformare le condizioni di ingiustizia e illibertà presenti nel mondo


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moderno4. Sicuramente non è facile e la politica certo non aiuta, responsabile com'è dello sfascio, ma la difficoltà non è così grande da farci dichiarare l'impossibilità di riprendere a costruire. Il primo passo è mettersi nell'agorà e 'gridare' intanto la propria esistenza non in quanto 'merce' bensì come persona e, contestualmente, la propria verità, il 'proprio' punto di vista elaborato dalla 'propria' memoria e, proprio per il noto colore e odore, chiamare i 'pezzi informi di materia organica anfibia' con il loro vero e inequivocabile nome: merda. E non ci sarebbe da stupirsi se, nella 'piazza', qualcuno condivida il giudizio espresso; qualcuno completamente diverso in storia, formazione e occupazione che, comunque, è giunto alla 'medesima' costatazione e la dichiara. È un po' quello che facciamo noi di Confini: una 'comunità', ciascuno con un passato personale, 'identicizzati' (si perdoni la forzatura) solo dal legittimo desiderio di ciascuno di esternare liberamente il proprio pensiero e di dimostrare così, a sé stesso e agli altri (vale per me), di non conoscere la strada dell'ammasso celebrale. E là nella 'piazza', inoltre, denunciare insieme alla propria insoddisfazione, le colpe dello sfascio, senza alcuna remora motivata da capziose 'identità' politiche, culturali e religiose del passato prossimo; men che meno nei confronti delle ultime: con tutto il rispetto, possono pure aver funzionato come oppio dei popoli, per dirla alla Marx, ma da che il vaticinio di Nietzsche si è avverato con la morte del maggior referente, conniventi gli intermediari, quelle 'identità' sono purtroppo talmente scadute che neanche Battiato, nonostante il ricorso a 'gesuiti euclidei', riesce a trovare un 'centro di gravità permanente'. Una denuncia di riscatto, inoltre, per uscire dall'angoscia, aggravata dal Covid la cui gestione assurda cerca in ogni modo di accreditare una nuova 'identità', gli 'ammalati' dalla sindrome della capanna; basta vedere la voluta trascuratezza con la quale la nostra stampa ha trattato la 'marcia di Berlino', non dei negazionisti bensì dei razionalisti. Per chi volesse saperne di più 5 basterà collegarsi al sottosegnato indirizzo . Una denuncia dinanzi alla propria famiglia, dispersa, delusa, frustrata e neghittosa e al 'prossimo', all'amico e al conoscente, utilizzando ogni canale di comunicazione possibile. Senza delegare in questo imprenditori illuminati o banchieri sapienti che, criticando la politica (facile a farsi), dichiarano di avere a cuore le sorti di un popolo che, a esser buoni, hanno 'utilizzato' ad abundantiam; o gran comis d'etat dalle soluzioni finanziarie salvifiche per quanto richiamino, oggi, all'etica; o imbonitori di paese che dal loro camioncino vendono solo mutande e calze di lana anche nel periodo estivo o cercano per le vie gonzi per invitarli al paradisiaco paradiso, allo spettacolo spettacolare, al miracoloso miracolo della visione di un corpo femminile in topless o in nudo integrale. E senza delegare neppure giovani Masanielli che, nella loro insipienza rivoluzionaria, sono 'campati' solo nove giorni senza neppure scalfire, nonostante l'effimera Real Repubblica, la dominazione spagnola. No. Noi, in prima persona, con la nostra 'identità' che, al pari dell'anchorman di Quinto Potere, dichiariamo 'di essere incazzati neri' e di non sopportare più tutto questo. Le sorprese che un'azione del genere potrebbe riservare sono tutte da scoprire; se non altro, la soddisfazione di

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aver liberamente, volontariamente, esternato il nostro pensiero senza barriere frapposte dall'omologazione imperante. Accresce l'autostima che in un cammino è metà del percorso. A questo punto, però, puntuali osservatori dello scenario internazionale potranno dire che la questione 'identitaria' con gli annessi e connessi non riguarda solo questo nostro Paese bensì l'intero globo terracqueo. E, certamente, sono nel vero. Ma … nessun cittadino di quei Paesi, civili e democratici, piccoli o grandi che siano, ha perso l'orgoglio dell'appartenenza' che, in virtù anche della memoria del passato, si traduce da parte dello Stato in un efficace ed efficiente azione, anche disinvolta, nell'ambito di un quadro 'comunitario'. Potranno pure avere, quei Paesi, delle opposizioni anche dure all'interno, ma è appena il caso di osservare che quelle stesse opposizioni, effervescenti o equilibrate che siano ma incisive, mirano solo a preservare e ad accrescere la 'grandezza' del loro Stato. E ciò senza minimamente sposare la tesi sovranista o quella tout court comunitaria. Sicuramente, ci sarà qualche filosofo che farà presente che tutto questo non è 'identità' ma …. Chi se ne frega? Non è importante dare il Nome alla Rosa quanto cogliere dal simbolo il suo più completo ed esaustivo significato, in un'interpretazione che sia almeno organica ed estetica, a beneficio dell'anima. Come una volta apprendevamo. Roberta Forte

Note: 1 Z. Bauman – Intervista sull'identità – a cura di Benedetto Vecchi – Giuseppe Laterza e Figli 2003 - p. 23 2 Bauman - Op.cit. – pp. 29-30 3 Bauman - Op.cit. – p. 30 4 Bauman – Op.cit. – X-XI 5 https://www.facebook.com/hair.seduction/videos/3695294397169968/?extid=K8PsNSuUCFFlgT9M


TEMA DI COPERTINA

IL DECLINO DELL’IDENTITA’ IN UN MONDO DI ZOMBI INCIPIT "Viviamo in un'epoca di tale finzione che oggi siamo in grado di costruire la nostra identità come la vorremmo noi, non com'è veramente". (Kasia Smutniak) IL TERRENO INARIDITO In genere per un incipit si sceglie un aforisma caratterizzante, pronunciato da qualcuno noto per l'altissimo profilo culturale. Sia pure con il dovuto rispetto, è proprio impossibile tributare siffatto riconoscimento alla bellissima attrice polacca, vedova Taricone (protagonista della prima edizione del Grande Fratello, morto giovanissimo a seguito di un incidente durante un lancio con il paracadute). Il semplice fatto, pertanto, che un concetto così realistico sull'identità scaturisca dall'esperienza di chi, a soli diciassette anni, decise di sostituire le faticose traduzioni dei classici greci e latini con la più divertente (e soprattutto lautamente retribuita) attività nel mondo della moda e dello showbiz, la dice lunga su come un termine di pregnante valenza simbolica si presti a speculazioni concettuali di ogni tipo, perdendo in tal modo efficacia propositiva. A ben guardare gli aforismi sull'identità coniati dai soggetti "titolati", infatti, traspare evidente la recita a soggetto di chi difende la propria o quella che ritiene propria, dopo essersela attribuita consapevolmente o inconsciamente. Tanti anni fa mi legai sentimentalmente a una stupenda ragazza calabrese, trasferitasi a Napoli per frequentare il corso di laurea in Architettura, che avrebbe potuto tranquillamente seguire a Reggio, a pochi chilometri dal paese natio. Quando le chiesi il perché della scelta, replicò testualmente, accompagnando le parole con un mesto sorriso: "Tu non hai proprio idea cosa significhi studiare nella mia regione, soprattutto per una ragazza". Per discrezione omise di aggiungere "bella"; sia pure nella estrema sintesi, tuttavia, ben affiorava il quadro fosco che l'aveva indotta a sobbarcarsi a pesanti oneri economici per costruire il proprio futuro. Avrei voluto dirle che, purtroppo, non esistevano isole felici e certe squallide modalità comportamentali, non solo afferenti ai ricatti sessuali, si riscontravano a qualsiasi latitudine, ma non riuscendo a trovare istintivamente le parole adeguate a trasmettere un pensiero tanto devastante, tacqui. In altra circostanza, invece, discorrendo di politica in presenza di amici, ebbe modo di affermare che "era fiera delle sue radici", cesellando l'asserzione con il solito ritornello cantato da chiunque consideri il posto in cui sia nato il più bello del mondo. Osservai che tanta fierezza non aveva alcun fondamento logico, alla luce di una realtà contingente (allora, come

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prima ancora e come in seguito) che non lasciava nulla all'immaginazione. Già Giustino Fortunato, del resto, aveva dipinto la regione come "uno sfasciume pendulo sul mare" e forse a distanza di una settantina di anni (eravamo nel 1975) sarebbe stato ancora più caustico. Non avessi mai parlato: mi fulminò con gli occhi, inviperita, e quella sera rientrammo nelle rispettive abitazioni ciascuno per proprio conto. Era stata offesa la sua identità di donna calabrese, da lei stessa messa in discussione, però, proprio nel momento in cui dalla Calabria era scappata, ritenendo l'ambiente sociale troppo malato per consentirle prima un sereno corso di studi e poi una proficua e onesta attività professionale. Discorso, ovviamente - è banale ribadirlo - comune a tanti giovani e non certo riguardante la sola Calabria. Da questo aneddoto emerge il primo stadio della confusione che aleggia intorno all'identità, ossia uno stato mentale che la psicologia definisce "distorsione cognitiva": si ritiene che le proprie emozioni riflettano la realtà, pur basandosi su un palese errore concettuale, più forte di qualsivoglia ponderata azione, che quella realtà categoricamente smentisce! Il legame con le radici, primario elemento dell'identità personale, non viene scalfito dai fatti contingenti, ancorché coscientemente respinti. TIPICO ESEMPIO DI DISTORSIONE COGNITIVA L'analisi composita delle distorsioni cognitive afferenti al concetto di identità richiederebbe un saggio. Il razzismo, per esempio, in tutte le sue componenti e devianze, altro non è, all'origine, se non una cattiva percezione della propria identità. Non potendo elencarle tutte, ne scegliamo una eclatante: la distorsione dell'identità politica. Da sempre gli uomini si confrontano, a volte anche in modo violento, sulla diversa "weltanschauung", a prescindere dalla sua natura: etica, opportunistica, elevata, becera. Non vi è nulla di anomalo in questo, dal momento che è la natura umana, condizionata più o meno equamente dal retaggio ancestrale e dall'ambiente in cui si cresce, a determinare lo sviluppo del pensiero e i convincimenti che ci accompagnano lungo i sentieri della vita. Una delle differenziazioni più note, ovviamente, è quella che contrappone una concezione sociale definita di "destra" a quella definita di "sinistra". Due mondi diametralmente opposti, che propongono modelli di vita completamente differenti, ciascuno ritenuto ideale dai rispettivi sostenitori. Tutto ciò al netto delle distorsioni volontarie e consapevoli, perpetrate da chi giochi sporco, su entrambi i fronti, per mero interesse di parte. Costoro, in quest'analisi, non c'interessano: prendiamo in considerazione solo chi sia in buona fede, ossia coloro che si professano onestamente "di destra" o "di sinistra". In quanti, se fosse possibile metterli in fila, sarebbero in grado di enunciare una corretta definizione dell'ideologia professata, mettendone in luce gli aspetti salienti? Per quanto riguarda la destra, la questione identitaria è stata già affrontata nel numero 37 di questo magazine: "Destra e futuro" (giugno 2015). Qui basti dire che oggi, non solo in Italia, il termine è spesso associato a entità politiche completamente avulse da una reale connotazione


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destrorsa. Molti sostenitori dei tre partiti che formano la coalizione di centrodestra, infatti (già questo termine costituisce un ossimoro, come più volte spiegato), si definiscono, innocentemente e con convinzione, di destra, in base a banalissimi propositi concettuali, supportati anche da giornalisti e politici un po' superficiali e un po' ignoranti. Una volta stabiliti i parametri corretti di una vera destra moderna e sociale (e per quanto riguarda casa nostra, anche europea), qui omessi per amor di sintesi essendo stati più volte ribaditi, risulta evidente che nessuno dei tre partiti abbia titoli per poter incarnare quei valori, vilipesi, per esempio, ogni qualvolta si parli di destra liberale (più che un ossimoro un vero abominio, come ben spiegato nel numero 81 di CONFINI: "L'oppressione liberale", dicembre 2019), senza considerare che la semplice alleanza con il partito di Berlusconi, concepito esclusivamente per la mera gestione del potere e composto in massima parte da soggetti senza scrupoli, che eufemisticamente definiamo "discutibili", porta chiunque quell'alleanza sostenga mille miglia lontano da un'area di destra degna di questo nome. Anche negli USA registriamo una grande confusione identitaria: i repubblicani sono associati alla "destra", pur rispondendo a logiche di cinico opportunismo economico e a modalità comportamentali deprecabili, da una vera destra viste come il fumo negli occhi; si tende poi a considerare "comunisti o socialisti" i democratici, che in massima parte non sono dissimili dai repubblicani e si differenziano solo per aspetti di vita sociale che non è azzardato definire di secondaria importanza. Differenze sostanziali, che riguardano precipuamente singole persone culturalmente evolute (pensiamo ad Al Gore, per esempio, a Obama, allo stesso candidato presidente Joe Biden e alla lunga lista di scrittori, saggisti, poeti) rendono ancora più ridicola l'accusa di "social-comunismo". Ritornando a casa nostra è appena il caso di ricordare che occorre davvero tanta fantasia per considerare di "sinistra" l'attuale classe politica del PD, legata mani e piedi a quei poteri loschi che da sempre hanno rappresentato il nemico primario di qualsiasi movimento "autenticamente" di sinistra. Un'identità quanto mai ballerina, pertanto, pervade milioni di persone, che recitano a soggetto, senza avere cognizione di cosa effettivamente siano nella realtà. L' IDENTITÀ DEGLI IMBONITORI I poveri diavoli che non sanno cosa siano rappresentano una facile preda per coloro che, artatamente, manifestano una "falsa identità". Al netto dei truffatori che ne inventano di tutti i colori per gabbare il prossimo, troviamo "truffatori" di alta qualità le cui truffe sono così sofisticate da non costituire alcun reato penalmente perseguibile. Costoro, proponendo una falsa identità del proprio essere, riescono a condizionare le menti più fragili, orientandone le scelte. Parliamo di soggetti in gamba, molto intelligenti, colti, spesso raffinati e di bella presenza, che però trovano più congeniale e appagante mettere il loro talento al servizio del male anziché utilizzarlo per il bene comune. Questo articolo è stato scritto prima della prova referendaria del 20 e 21 settembre e quindi in

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piena campagna elettorale, fortemente condizionata dalle vagonate di bufale sciorinate da chi tentava disperatamente di indurre gli italiani a votare contro la riduzione dei parlamentari. Romano Prodi, per esempio, si è battuto come un leone a favore del "NO", esortando gli elettori con formule concettuali che è poco definire astruse: "Pur riconoscendo che, dal punto di vista funzionale, il numero dei parlamentari sia eccessivo, penso che sarebbe più utile al Paese un voto negativo, proprio per evitare che si pensi che la diminuzione del numero dei parlamentari costituisca una riforma così importante per cui non ne debbano seguire le altre, ben più decisive per il futuro del nostro Paese". (Il Messaggero, 29 agosto 2020). In pratica, pur essendo d'accordo sul taglio dei parlamentari, vota "no" perché questa riforma non è da lui ritenuta importante e così deve essere per tutti: secondo il suo bislacco ragionamento, infatti, se fosse considerata importante potrebbe impedirne altre realmente importanti. Vi è venuto il mal di testa? Mi dispiace, perché ora vi tocca anche il carico da dieci. Facciamo un salto all'indietro di quattro anni, alla vigilia della "schiforma" proposta da Renzi, per fortuna sonoramente bocciata dai cittadini. Cosa disse allora l'illustre professore? "Le riforme proposte non hanno la profondità e la chiarezza necessarie, tuttavia per la mia storia personale e le possibili conseguenze sull'esterno, sento di dover rendere pubblico il mio Sì, nella speranza che giovi al rafforzamento delle regole democratiche soprattutto attraverso la riforma elettorale. Dato che nella vita, anche le decisioni più sofferte debbono essere possibilmente accompagnate da un minimo di ironia, mentre scrivo queste righe mi viene in mente mia madre che, quando da bambino cercavo di volere troppo, mi guardava e diceva: 'Romano, ricordati che nella vita è meglio succhiare un osso che un bastone'. (Fonte: Comunicato stampa diffuso il 30 novembre 2016)". La riforma non gli piaceva, ma andava sostenuta perché vi era una larvata speranza che avrebbe potuto fungere da traino ad altre che gli piacevano. Se non si trattasse di Prodi si potrebbe senz'altro sostenere la tesi della distorsione cognitiva; trattandosi di lui, invece, è evidente che ogni dichiarazione faccia aggio a un gioco delle parti proteso a favorire qualcuno a discapito di altri, con buona pace del bene comune e di cosa effettivamente serva al Paese. L'identità pubblica di Prodi è quella di un uomo di cultura, europeista, leader politico di alto rango, economista, prestigioso accademico, dirigente pubblico e di grandi aziende private, pluriministro, capo di governo; volendo rappresentare la sua vera identità, invece, quale ritratto ne scaturirebbe? L'alterazione dell'identità, naturalmente, risulta tanto più grave e pericolosa quanto più elevato è il livello dei manipolatori. A tal fine citiamo ancora gli Stati Uniti, depositari di una forte identità nazionale, paladini della democrazia, da esportare in tutto il mondo secondo i "loro sacri valori": senza riscrivere la storia dell'ultimo secolo, pensiamo solo a cosa abbia rappresentato lo scempio iracheno, propedeutico alla nascita dell'Isis (CONFINI nr. 40, "Venti di guerra", gennaio 2016). LE IDENTITÀ RELIGIOSE MATRICI DI GUERRE E TERRORISMO


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Sorvoliamo. Che ne dite? Questo argomento merita un numero speciale, non un semplice capitolo di un articolo. L'IDENTITÀ DI GENERE E I DIRITTI CIVILI: LE MOSTRUOSITÀ DELLA SINISTRA. Per non trasformare questo articolo in un romanzo faccio riferimento a due miei precedenti scritti del 2016: https://www.secoloditalia.it/2016/11/cognome-scenari-futuri/; https://issuu.com/linolavorgna/docs/unioni_civili_-_la_posizione_di_eur. Il primo, pubblicato sul "Secolo d'Italia", affronta in chiave ironica la barzelletta del doppio cognome; il secondo, pubblicato su vari organi, analizza in chiave più composita la crisi della famiglia in virtù delle malsane spinte del modernismo. PROSPETTIVE IDENTITARIE PER UN MONDO MIGLIORE L'argomento ha trovato una valida trattazione nel numero 87 di CONFINI ("Per un mondo migliore", luglio 2020) sia pure senza un precipuo riferimento al concetto di identità. È ben evidente, del resto, che in qualsiasi modo si analizzino le fenomenologie sociali, l'identità assume sempre, anche implicitamente, un valore prioritario. Quante volte, in questo magazine, abbiamo affrontato il tema del nazionalismo, evidenziandone luci (poche) ed ombre (tante)? Che cosa è il nazionalismo se non una disperata proiezione della propria "presunta" identità? Ritorniamo all'aneddoto della studentessa calabrese: che cosa abbiamo, lì, se non un'identità nazionalista scaduta in becero provincialismo, secondo uno schema mentale che, a leggerlo, appare in tutta la sua stupidità e proprio per questo spaventa, essendo diffusissimo: la mia patria è il paese più bello del mondo; la mia regione è la più bella della mia patria; la mia provincia è la più bella della mia regione; il mio paese è il più bello della mia provincia; il mio quartiere è il più bello del mio paese (a Siena, soprattutto durante i giorni del palio, questo assunto raggiunge livelli parossistici); nel mio palazzo quelli del terzo piano sono proprio insopportabili, ma le due famiglie sul mio pianerottolo sono composte da brave persone, anche se i Pinco Pallo sono un po' più bravi dei Ciao Tizio. Qualche mese fa un'amica m'inviò il link a un video che non mi lasciò stupefatto solo perché, oramai, vi è ben poco che mi stupisca. Riguardava una ragazza siciliana, diciannovenne, che aveva invitato i genitori al programma televisivo di Maria de Filippi, "C'è posta per te", per tentare di ricucire il rapporto dopo essere stata ripudiata e cacciata di casa a causa di una relazione non gradita. La ragione? Il fidanzato non era del suo paese e non era diplomato! Anche lei, però, aveva solo la licenza media, ma per i genitori andava bene solo un compaesano, almeno diplomato, in grado di darle "sicurezza". La vicenda, raccontata così, già appare assurda, grottesca, intollerabile, ma avendo modo, guardando il video, di cogliere l'espressione dei genitori intrisa di odio (terribile soprattutto quella della mamma) e di ascoltare le parole sconclusionate pronunciate da entrambi, si percepisce ancora più nettamente il gap culturale che pervade larghi strati della società (perché in questo caso non vale certo il detto "una rondine

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non fa primavera"), avvelenati da una disastrosa percezione identitaria. Mi sono messo alla ricerca e sono riuscito facilmente a reperire in rete il video, visionabile al seguente link: https://www.wittytv.it/ce-posta-per-te/settima-puntata-sabato-29-febbraio-2020/ (a partire dal minuto 42). Va visto come emblema dell'ignoranza che alimenta la crudeltà. IDENTITÀ POSITIVE: GLI EROI CHE SERVONO PIÙ DEL PANE Altro che la favoletta di Brecht sui popoli beati perché non hanno bisogno di eroi. In una società malata fino al midollo, che vede quotidianamente calpestati i valori più nobili e sacri, bistrattato l'essere ed esaltato l'apparire, come ben detto dall'immarcescibile Claudio Risé, nobilissima figura della cultura italiana oltre che impareggiabile psicoterapeuta, "[…]servono uomini al di fuori della normalità. Figure come Parsifal che cambiano il mondo dei corrotti perché sono in relazione naturale con il trascendente. Le istituzioni da sole non sono in grado di redimersi". (Articolo su "La Verità", 23 settembre 2018). Questa citazione, mi si perdoni l'inciso, per chi scrive assume un valore tutto particolare: al concetto espresso dall'insigne accademico ho dedicato un romanzo, incarnando in un novello cavaliere della Tavola Rotonda, non a caso definito proprio "Parsifal", l'eroe del tempo moderno che si erge contro le distonie epocali, a cominciare dall'ipocrisia di chi si propone con falsa identità, maschera tra maschere, miserabile tra miserabili (Prigioniero del Sogno, Edizioni Albatros, 2015). Sostiene ancora Claudio Risé nel suo articolo: "L'eroe ha luce, dice il mitologo Karoly Kerenyi nei suoi lavori su queste figure, perché è in una relazione naturale, spontanea, con il mondo trascendente, che ci parla del senso della vita umana, l'unica cosa che lo interessa profondamente. Egli è il risanatore naturale delle istituzioni, proprio perché è cresciuto al di fuori di esse e non partecipa alla loro corruzione. […] L'eroe mitico dell'Occidente dopo la consunzione e decadenza dell'impero romano e della prima fase del mondo cavalleresco di re Artù, è Parsifal, il figlio di un Re guerriero ucciso in Oriente, e per questo allevato dalla madre nella natura incontaminata lontano da ogni corte, pratica e intrigo di governo. […] Gli aspetti mostruosi dei vecchi poteri (anche dentro di noi, non solo nella società), che rifiutano l'autenticità del cambiamento accusandolo di barbarie e inciviltà, vanno messi in condizione di non fare altri danni e rinunciare ai loro mostruosi appetiti. Occorre parteggiare per l'eroe, già presente negli altri e dentro di noi. E saperne riconoscere la luce, aiutandola a crescere". Bellissima esortazione che dovrebbe spingere tutti a una maggiore attenzione. A ben guardare, infatti, le masse non hanno mai mancato di affidarsi a quelli che ritenevano "eroi" in grado di redimerle. Solo che hanno sempre preso lucciole per lanterne, scambiando dei mestatori per eroi, per poi disarcionarli dopo aver compreso l'errore. Il guaio grosso, però, è rappresentato dal fatto che i mestatori, anche dopo essere stati disarcionati, trovano sempre il modo di pascolare in un prato florido, mentre milioni di persone non fanno altro che passare da delusione in delusione, trascorrendo la vita in attesa "dell'uomo


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che verrà". Imparino a capire che non arriverà nessuno se il primo cambiamento non vi sarà in primis dentro di loro, lasciando affiorare una reale, positiva e solida identità. Solo se ciascuno sarà il vero eroe di sé stesso e riuscirà ad elevarsi, tra i tanti potrà facilmente emergere il Parsifal meritevole di essere seguito, ossia: "Der Mann der kommen wird". CONCLUSIONE: LE VITTIME DELL'IDENTITARISMO CRIMINALE Non è tutto oro quello che luccica e, ancor più, non tutto quel che è oro brilla. Le false identità, dai tempi di Pericle, hanno generato milioni di morti. A conclusione di questo articolo rivolgiamo un commosso pensiero alle vittime dei tiranni e dei feroci criminali che, per tutelare la propria identità farlocca, di presunta superiorità, non hanno esitato nel perpetrare veri e propri genocidi. È impossibile ripercorrere tremila anni di storia, ma cerchiamo almeno di citare gli eventi più pregnanti, anche come monito per i più giovani, affinché imparino a concedere fiducia con parsimonia, dopo aver valutato attentamente gli interlocutori, tenendo bene a mente che l'uomo si misura per ciò che ha fatto, non per ciò che dice di voler fare. I "democratici" cittadini di Atene si sentivano semidei e quando quelli di Melo decisero di restare neutrali nella guerra contro Sparta si offesero a morte. Come avevano osato non "servire" Atene? Fu del tutto normale, quindi, trucidare gli uomini e ridurre in schiavitù donne e bambini. Roma non si accontentò di violare il trattato del 306 a.C., che diede avvio alle guerre puniche; 160 anni dopo, a vittoria acquisita, dovette distruggere Cartagine, lasciando la città in preda ai saccheggi dei propri soldati. Nel Nuovo Mondo imperi secolari furono dissolti come neve al sole dai civilissimi "conquistadores", che riempivano le loro navi di oro e di ogni ben di Dio. Nel Nord America la conquista dell'Ovest costò la vita a cinquanta o forse addirittura cento milioni di nativi: le cifre ballano, ma anche quelle più basse sono terribili. Erano ritenuti inferiori e quindi massacrabili senza pietà. Il ventesimo secolo s'inaugura con il genocidio degli Armeni, vittime della voglia identitaria dei "giovani turchi", anch'essi illusi di essere un popolo eletto, senza eguali sulla Terra. Hitler prenderà esempio da loro, quando decise di sterminare gli Ebrei: "Chi si ricorda del genocidio armeno?" replicò nel 1939 a chi obiettava che la "soluzione finale" da lui prospettata non sarebbe passata inosservata. Le grandi purghe di Stalin erano terminate proprio in quell'anno, dopo aver causato la morte di oltre 250mila persone. Da sette a dieci milioni di vittime, invece, le vittime di Holodomor, la grande carestia che colpì l'Ucraina dal 1932 e il 1933, sfruttata da Stalin per far morire di fame la popolazione e portare più agevolmente a compimento il piano di russificazione del Paese. Pochi esempi tra i mille possibili, ma bastano e avanzano per aprire la mente sul concetto di "identità". All'inizio del capitolo ho riportato due citazioni. La prima è abbastanza nota perché incarna un vecchio proverbio, molto diffuso soprattutto nel Sud Europa; la seconda, più raffinata, è stato coniata da Tolkien come verso di una bellissima poesia da Gandalf dedicata ad Aragorn, discendente di un re e legittimo erede del regno di Gondor. Aragorn, dopo aver perso il padre, fu allevato da Re Elrond, che gli nascose le nobili radici fino

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all'età di venti anni, quando gli consegnò la spada spezzata appartenuta al suo antenato Isildur. "Non tutto quel che è oro brilla", quindi, perché il puro e forte Aragorn ignorava chi fosse e il suo valore era ignoto anche al resto del mondo, almeno fino a quando non fu messo in condizione di lottare per la salvezza degli umani e ritornare a Minas Tirith con la corona di re in testa. Vi sono molte similitudini tra Parsifal e Aragorn, eroi in grado di cambiare il corso della storia. Nel mondo moderno, e quindi nella "realtà", non mancano uomini che possano vantare analoghe peculiarità ma, proprio come recitano i primi versi della bella poesia di Tolkien, costituiscono "oro che non brilla", perché magari vivono nascosti in luoghi isolati, lontano dalle rovine di un mondo in dissoluzione e dai fastidiosi rumori di folle sempre più assomiglianti a zombie. Vanno ricercati, quindi, con la lanterna di Diogene ed esortati a combattere, mettendosi con umiltà al loro servizio, senza fare storie e soprattutto senza troppe chiacchiere, che non amano. La loro "identità" è la migliore garanzia per costruire un mondo migliore. Buona ricerca. Lino Lavorgna


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IDENTITA’ ESOGENA Alla mia età, ormai ben più vicina agli ottanta che ai settanta, una riflessione sul termine "identità" va affrontata con circospezione e comunque, a scanso equivoci, con un dizionario sotto il braccio, anche se costituito nella fattispecie dalla comoda, seppur superficiale, Wikipedia. Leggo: "Il concetto di identità nella sociologia, nelle scienze etnico- antropologiche e nelle altre discipline sociali riguarda la concezione che la persona ha di se stessa, sia nell'individuale che nella società. Quindi l'identità è l'insieme di caratteristiche che la rendono, appunto, unica e quindi diversa dall' "altro"". Direi che più o meno ci può stare, senza che sia peraltro fuori luogo qualche ulteriore integrazione di analoga matrice, diciamo, "internettiana", secondo cui: "Per identità personale si intende in filosofia la capacità dell'individuo di avere consapevolezza del permanere costante del suo io che si manterrebbe sostanzialmente identico attraverso il tempo e le diverse e varie esperienze che ne hanno segnato la vita fino al momento presente". E direi che quanto sopra possa bastare, almeno per ciò che concerne una preliminare inquadratura della questione. Alla luce delle svariate primavere ormai da me attraversate, percepisco dunque l' "identità" come una sorta di costante accompagnatrice, una caratteristica di tipo personale, e quindi esistenziale, con la quale rapportarmi quotidianamente e che, nel bene e nel male, si pone come onnipresente angolo di prospettiva nella diuturna disfida del mio stare al - o confrontarmi con il mondo. A questo punto ecco una doverosa, breve considerazione preliminare atta a puntualizzare un concetto: "Intendesi per fenomeno endogeno " ciò che nasce, che ha origine nell'interno" in contrapposizione ad esogeno che è invece " ciò che proviene o nasce dal di fuori"". Ed a pormi altresì la seguente domanda: "La mia attuale percezione di identità ha caratteristiche fenomenologiche del primo o del secondo tipo?". Naturalmente, e come per ogni altro essere umano, la risposta è univoca: " ne ha di entrambi i tipi, sia endogeni che esogeni". Il risultato che ne viene fuori sta però tutto nel composto alchemico finale delle due componenti, nelle rispettive proporzioni quantitative e soprattutto nei tempi necessari ad una appropriata e sostenibile stabilizzazione della "mistura" stessa. La Chiesa cattolica, con la sua bi-millenaria esperienza della natura umana ha infatti fissato

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un'"età della ragione" del bambino (sette/dieci anni) per ritenerlo idoneo ad accostarsi ai sacramenti della comunione e della cresima con una lettura fenomenologica secondo la quale a detta età la nota fondamentale (la "keynote") della sinfonia caratteriale dell'individuo sarebbe già stata marcata in modo molto significativo, se non indelebile, e che di conseguenza tutte le successive esperienze e variegati sviluppi esistenziali della persona stessa avrebbero comunque risentito di tale fondante aspetto costitutivo. Per appartenenza generazionale e per caratteristiche socio-culturali, considero pertanto la mia attuale identità di uomo anziano come una sorta di sostegno e/o fardello che, a seconda della circostanze, mi accompagna o mi opprime nella quotidianità, ma che comunque (nel bene o nel male) costituisce quello specifico "pacchetto esistenziale" che gli altri socialmente riconosceranno poi in colui che va a firmarsi, qui di sotto, come "Antonino Provenzano". Quali dunque gli elementi costituenti la struttura di base di tale stato di fatto ed al tempo, come detto, sia caratteristica che fardello? Eccoli, non sono moltissimi, ma tutti quanti ineludibili ai fini del risultato finale : - Genetica. Grazie a papà e mamma ed a tutti i relativi ascendenti, contribuenti, chi più chi meno, alla definizione delle peculiari caratteristiche di quello specifico sacchetto di pelle animata che batte al momento sui tasti di questo "computer"; - Educazione infantile di carattere ambientale e culturale che mi hanno immesso entro categorie mentali ben definite intorno alle quali si è svolta poi l'intera trama /scenario di tutta la mia successiva esistenza ; - Sviluppo adolescenziale colto e severo che hanno incanalato forme di lettura del reale e susseguente adeguamento esistenziale in parametri utili (almeno per quanto mi concerne) a fornirmi adeguate chiavi interpretative di quanto mi circonda; - Formazione culturale classico-umanistico-giuridica attraverso la cui lente di lettura mi sono relazionato con i miei simili incontrati di volta in volta nel cammino della vita; - Attività professionale liberamente scelta che ha caratterizzato la cifra del mio stare al mondo per una buona parte della mia esistenza adulta. Bene. Mi corre però l'obbligo di sottolineare che, nel mio caso particolare, già all'età di 24 anni tutte le predette cinque caratteristiche/fardello avevano svolto pienamente il proprio ruolo e stavano pronte, come una pila elettrica ben carica, a fornire energia esistenziale/identitaria per almeno, fino ad ora "et deo gratias!" - un successivo cinquantennio di vita. Naturalmente, e come è noto, non si finisce mai di imparare: il tutto sotto forma di esperienza che va ad aggiungersi, giorno dopo giorno, a quel nucleo centrale identitario così come sinteticamente sopra delineato. Ritengo infatti che l'esperienza stia all'identità personale come gli addobbi all'albero di natale: il tronco di abete è l'identità mentre nastri, candeline e palline ad esso appese costituiscono le esperienze (almeno per quanto riguarda, naturalmente, una vita mediamente normale: esperienze tragiche e/o traumatiche possono infatti essere talmente dirompenti da incidere irreversibilmente sulla stessa struttura portante dell'identità individuale).


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Credo che quanto sopra delineato possa valere grosso modo e "mutatis mutandis" per tutti gli adulti di oggi che abbiano raggiunto almeno la sessantina. Ma per chi si trova oggi al di sotto di tale soglia d'età, e soprattutto per gli odierni giovani e giovanissimi, come si pone la questione in termini di ricerca prima e caratterizzazione poi, di una qualche forma di reale identità? Credo che le odierne persone ben mature (di anni "in primis") una volta superate e consolidato in età relativamente giovane le cinque ineludibili fasi di: 1) genetica, 2) educazione infantile, 3) sviluppo adolescenziale, 4) formazione culturale e 5) scelta di una professione nelle quali le componenti endogene ed esogene si sono incontrate, mescolate ed infine fuse in un'unica componente unitaria, abbiano poi proseguito la loro quotidiana esistenza costantemente alimentati da un'unica fonte di energia identitaria di tipo prettamente endogeno, come appunto in una batteria elettrica caricata a corrente continua. Premesso quanto sopra azzardo un'un'affermazione molto netta: credo che al giorno d'oggi l'umanità occidentale (io mi occupo soltanto di essa in quanto non conosco la restante parte dell'universo mondo e che comunque - e ci mancherebbe altro - invero: "del mio dir poco le cale") nell'accezione della cosiddetta gente comune (anziani naturalmente esclusi) non sia affatto particolarmente preoccupata delle eventuali caratteristiche di una propria presunta identità: Tutt'altro, e direi piuttosto che ormai essa propenda sempre più verso l'effetto "gregge"! Fanno infatti una gran pena individui adulti incapaci di restare, anche se per un attimo, da soli con se stessi e che non abbiano, ne intendano avere, alcuna consapevolezza dell'attimo fuggente per prendere coscienza del luogo in cui essi si trovino, di cosa e chi al momento li circondi in quanto costantemente condizionati dall'esigenza compulsiva di evadere, tramite smartphone, verso l'altrove e/o l'altrui. E ciò a causa di un'ormai consolidata sofferenza esistenziale fatta sia di rifiuto di qualsiasi insopportabile solitudine che di una presunta, angosciosa, esclusione da immaginabili paradisi perduti ubicati proprio li, appena al di la del luogo di ubicazione ed al di fuori dell'attimo che si stia appena vivendo. Essi non dispongono infatti, per restare in metafora, di alcuna "pila" mentale a corrente continua che possa alimentare la loro percezione dell'essere e dell'esser-ci. Laddove l'identità è per me una carica di energia accumulata soprattutto nella prima fase dell'esistenza terrena, ritengo che per i predetti miei contemporanei il loro tipo di identità sia invece come un motore elettrico a corrente alternata la cui ininterrotta alimentazione da una presa di corrente ad esso esterna e separata sia "conditio sine qua non" per il suo funzionamento. E ciò, come suol dirsi, per la serie: "mi connetto, quindi esisto e di conseguenza mi riconosco come individuo; mi disconnetto, quindi non esisto e di conseguenza non ho più alcuna identità". Ne deriva che, senza energia per il telefonino, l'individuo si dissolva proprio nell'istante in cui egli venga a trovarsi, ahimè, solo soltanto con se stesso. Gli esseri umani miei contemporanei tendono quindi ad andare oggi sempre più ad esogena energia elettrica e sembrano felicissimi di poter continuare a procedere sempre di più in tal modo (mitizzato "5 giga" docet!). Picco di potenza, vivo, calo di potenza, muoio!

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Ne consegue che quei vecchi che vanno ancora ad identità consolidata (a pila, tanto per intenderci) possono ancora riconoscersi nella comune espressione del: " "Lei non sa chi sono io", ma io lo so e posso quindi starmene da solo qui ed ora". Gli altri che hanno deciso di vivere a corrente alternata ad alimentazione "culturale" prettamente esterna, connessi al telefonino sempre e dovunque, potranno invece riconoscersi soltanto nell'affermazione, analoga e contraria, secondo cui " "Io non so chi sono io" e quindi, da disconnesso, sono solo non mi ritrovo con me stesso, ma ne sono sinceramente terrorizzato". Si potrebbe azzardare allora la previsione secondo cui nel prossimo futuro ci si potrebbe riconoscere nella seguente equazione: "niente elettricità (cioè a cellulare muto), niente identità (cioè autoconsapevolezza zero)? Speriamo proprio di no, ma temo invece che sarà così! Antonino Provenzano Roma 11 settembre 2020


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IDENTITA’ O IDENTITARISMO? La domanda sorge spontanea dopo un decennio di bombardamento mediatico sul concetto di identitarismo e soprattutto dopo 75 anni di antifascismo e nazionalismo come arma di distrazione di massa La struttura organizzata dalla intellighenzia di sinistra ha farcito il secondo dopoguerra del monstrum, associando il nazionalismo ai regimi totalitari, dimenticando, evidentemente, che da millenni si combatte per i territori propri e soprattutto degli altri (dimentica le atrocità commesse in medio oriente in nome di un nazionalismo-razzismo che attacca tutto e tutti, negando ad altri il diritto ai propri territori in nome di un Dio che di divino ha ben poco). A dire di taluni "le istanze identitarie e quelle connesse al Nazionalismo, anche laddove esso ha finito per fare inevitabilmente rima con Fascismo ed altre ideologie similari, hanno finito per incrociarsi più volte". Ciò non mi sorprende in quanto la storia non è altro che una manipolazione continua come ci insegnano, sin da piccini, i dogmi di Camera e Fabietti Tuttavia quello che si percepisce come sentimento di disprezzo, figlio legittimo della globalizzazione, ispirato ai dogmi americani nonchè figlio illegittimo del consumismo, non è altro che la realizzazione di un progetto più ampio che tende ad annullare ogni identità per far posto a quello che molti definiscono il "pensiero unico" che impone la pace con le armi; la demonizzazione della identità, tanto cara a chi addita i nazionalismi associandoli ai regimi totalitari di destra (non si comprende il distinguo che esclude i regimi totalitari di sinistra.. ma ne prendo atto senza adeguarmi al pensiero unico) è diretta conseguenza di quelle scelte che vedono la sopraffazione della propria cultura rispetto ad interessi sempre più globalizzati ammantati, come scelta mediata, dalla "democratizzazione" forzata di interi territori per accelerare la "evoluzione della societa", in una prima fase, per poi accedere, evidentemente, attraverso un vassallaggio, ad un regime totalitario che vede le identità affievolirsi sempre più per far posto alla pace sovrana in nome di una democrazia importata, il cui unico e reale risultato… benchè possa apparire tautologico, è la guerra e per questo mi interrogo se questo sentimento imperialista non coincide con quel concetto che la vulgata comune associa all'identitarismo e quindi al nazionalismo quando, in realtà, rappresenta l'antitesi. Ancora oggi c'è chi disquisisce sulla galassia "nazionalista e fascista" come estremamente variegata indicando il Front National, come l'alfiere transalpino tacciandolo di populismo (altro termine tanto caro a certa "intelligenza", piuttosto che nazionalista o di estrema destra). Analoghe esperienze ci sarebbero nelle culture germaniche (Austria e Germania in testa) e

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nell'Europa orientale tra cui spicca la scelta ungherese ed ucraina senza disdegnare la destra slavo polacca con le passate esperienze di Samoobrona (Autodifesa) e Liga Polskich Rodzin ed Alba Dorata, in Grecia. A dire della intelligenza di sinistra, il punto cardine dell'agenda politica nazional-populista europea "sembra essere, un po' dappertutto, il concetto di sovranità", ovvero, descrivendola in maniera semplicistica, "la capacità di un singolo stato di provvedere, con le sole proprie forze istituzionali, al funzionamento di sé stesso in ogni ambito (politico, economico, militare ecc)". Secondo alcuni autori, i pilastri del nazionalismo, in maniera dissacrante ed a dir poco, sprezzante, sarebbero: 1. Un'imponente Statolatria di origine senza dubbio hegeliana, che vede nello Stato ed i suoi atti come il fine supremo della realizzazione dell'homo politicus 2. Il culto di tutti quegli elementi, storici e metastorici, che tentano di ammassare culture diverse ma legate da parentele (pangermanesimo, panslavismo ecc), all'interno delle quali però ogni Stato rivendica il ruolo di guida-faro in virtù della propria statolatria. 3. Il culto del confine e la perenne ricerca di stabilirne uno "definitivo" per il proprio stato di riferimento, finendo poi inevitabilmente a collidere con le istanze pseudo-imperiali di cui sopra. 4. La rilettura in chiave nazionalista della storia, volta a legittimare le istanze nazionaliste dell'età contemporanea. 5. L'esasperazione delle differenze tra lo Stato e ciò che ne è al di fuori, ed allo stesso tempo l'appiattimento delle differenze tra le varie componenti etniche, ma spesso anche sociali, interne allo stato nazionalista. Questa descrizione del nazionalismo appare ideologizzata e talmente lontana dalla realtà, da porre degli interrogativi anche elementari ed una facile critica In relazione al primo argomento pare evidente l'antitesi tra l'homo politicus e lo Stato stesso. Laddove il nazionalismo non postula nè il primo nè il secondo, ma trova nella identità di una nazione (non nel popolo) la sua essenza donde lo Stato come essenza primaria appare deputato a regimi ì totalitari ma di ispirazione comunista dove l'homo politicus non ha spazio se non come homo di partito ed organico alla struttura del partito stesso Anche il secondo argomento pare lontano dalla realtà del nazionalismo in quanto appare tautologico pensare "all'ammasso" di culture diverse sotto la stessa egida sulla base della esperienza pangermanica che ha radici ben più profonde e certamente stride con il concetto di nazionalismo e semmai, va a braccetto con l'imperialismo tanto caro al blocco comunista al pari di quello americano ancorchè diversamente interpretato (il primo con la condivisione dell'approccio cultrale, il secondo con la imposizione del modello economico sociale) Il terzo parrebbe avvicinarsi alla realtà laddove la tutela dei confini non può, certamente, porsi come motivo scatenante della scelta imperialista in quanto in evidente contrasto, cultura che appartiene agli importatori di democrazia e di dittatura del proletariato Il quarto argomento, ancorché trattato in maniera fugace è quello che meriterebbe maggior


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attenzione laddove nessuno stato o meglio nessuna Nazione degna di definirsi tale, può rinunciare alla propria storia semmai la storia, ove valesse la pena ricordarla, non viene scritta da vinti… ma dai vincitori e spesso sotto dettatura di regimi imperialisti che scandiscono i momenti dell'agenda dello sviluppo futuro dello stato, non più Nazione, ma vassallo dell'impero. Varrebbe, a quel punto, negare sinanche la ragione di una statua equestre o di una piazza che ricorda un eroe nazionale (a torto o ragione ce ne sono milioni e ciò porterebbe a pensare che parrebbe inutile e socialmente deplorevole fare un cenno, anche attraverso la toponomastica, ad un padre della patria o ad un "eroe dei due mondi") Il quinto argomento, appare un falso storico atteso che associare il nazionalismo al tentativo di appiattire le differenze etniche, è volutamente una menzogna laddove quella cultura appartiene, essenzialmente, all'approccio bolscevico della visione della società dove, non solo vi è un appiattimento su base etnica ma vi è, nell'ambito della etnia originaria, la lotta di classe la cui finalità è rappresentata dalla dittatura del proletariato In buona sostanza l'identità di un popolo è il nazionalismo inteso come insieme di culture, storia, società, anche con differenze dovute alle distanze, dalla geografia di un territorio che hanno impedito un rapido interscambio fra le varie componenti di una nazione come le differenze nella nostra Italia e le difficoltà di comunicazione dovute a croniche carenze come la viabilità tanto che sia dal punto di vista terminologico che "estetico" certe differenze socio ambientali paiono essersi assottigliate benché, in realtà, risultino ancor più marcate e dovute all'applicazione di un modello unico di vita in contesti spesso lontani anni luce tra loro. La stessa Nazione in cui viviamo è un esempio tangibile di societàigiene complessa tenuta insieme dal concetto di identità che non audacia temeraria spirituale rappresenta il male, come taluni tendono a considerare e non è in antitesi con il nazionalismo semmai è l'espressione dell'identità come rappresentazione plastica di una nazione e del suo nazionalismo. Il termine Identità è l'aspetto più sublime del concetto di nazione laddove identifica una cultura che non può e non deve essere globalizzata perché marca delle differenze in termini antropologici e culturali ed apre al confronto fra culture differenti, senza che vi possa essere una prevaricazione tra le stesse, nella consapevolezza che negare il nazionalismo e quindi l'identità, è essa stessa frutto della globalizzazione ed il più grande crimine ai danni di un popolo. Viva l'identità di un popolo con i suoi pregi ed i suoi difetti! Emilio Petruzzi

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REGIONALI TRA FINZIONE E REALTA’ Bisogna ammettere che la comunicazione di regime è fantastica: riesce a trasformare sconfitte in vittorie. E viceversa. Il circo mediatico parla di successo di Nicola Zingaretti e di disfatta per Matteo Salvini. È l'arte della narrazione che predilige la plasmabilità del verosimile alla spigolosità del vero. Poi c'è la realtà dei numeri che, come si sa, sono testardi, bisogna solo avere la pazienza d'interrogarli. E cosa dicono? Raccontano tutt'altra storia. Vero che la partita complessiva sulle 6 regioni al voto (teniamo fuori dal conto la Valle d'Aosta) si sia conclusa con un pareggio sulle presidenze assegnate: 3 alla destra, 3 alla sinistra. L'auspicato 4-2 per la destra non c'è stato. La Puglia, data dai sondaggi a Raffaele Fitto, è invece rimasta saldamente nelle mani di Michele Emiliano. Sarebbe questa la tacca sulla pistola fumante di Zingaretti? Michele Emiliano, ancorché etichettato Pd, lo si può ritenere organico al partito? Per quel che abbiamo visto e udito lo escluderemmo. Stesso dicasi per lo sceriffo di Salerno, Vincenzo De Luca che gli stessi esponenti della sinistra faticano a considerare uno di loro. De Luca ha vinto in Campania radunando un'armata di vecchi arnesi della politica, per lo più provenienti dal campo moderato del vecchio centrodestra. E una vittoria ottenuta così la si può attribuire alla sinistra? È vero che Nicola Zingaretti non perdendo la Puglia e la Toscana ma lasciando sul campo la periferica - si fa per dire- regione Marche si consolidi alla guida del Partito Democratico. Tuttavia, una non-sconfitta non si traduce in automatico in una vittoria. I numeri del Partito Democratico sono negativi. Rispetto alle regionali del 2015 il Pd cala in tutte le regioni al voto mediamente del -6,3 per cento, con punte di caduta consistenti nelle Marche (10%) e nella osannata Toscana (-11,22%). Neanche l'alleanza con i Cinque Stelle è stata un successo. Piuttosto, è stato un tonfo. In Liguria gli elettori dem hanno voltato la faccia al Pd per scegliere quella rubiconda del governatore uscente Giovanni Toti. All'ombra della lanterna, il partito di Zingaretti ha perso il 5,75 per cento rispetto al 2015, scendendo nella percentuale di lista sotto la soglia psicologia del 20 per cento (19,89%). Eppure, prima dell'avvento di Toti la Liguria era considerata una roccaforte "rossa". Oltre alla menzogna sulla vittoria zingariettiana, appare bizzarro il muro di silenzio che si è alzato sulla liquefazione del Movimento Cinque Stelle. I capibastone pentastellati hanno provato a nascondere la disfatta dietro la vittoria del "Sì" al referendum sul taglio dei parlamentari come se il responso favorevole dei cittadini fosse cosa loro.


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Poi hanno provato a giustificarsi dicendo che paragoni numerici tra regionali e altri tipi di elezioni in cui è maggiore il peso del voto d'opinione non sono corretti. Anche prendendo per buona l'obiezione li abbiamo ugualmente stanati comparando il dato di domenica/lunedì con quello delle precedenti regionali. E per quanto provino a svignarsela dalle responsabilità del risultato catastrofico, la mazzata definitiva l'hanno comunque beccata. Sul 2015 hanno subito un calo medio, nelle sei regioni al voto, del 9,68 per cento. Ovunque hanno dimezzato i consensi rispetto alle precedenti regionali. Con un dato clamoroso: la Liguria. Nella patria del fondatore Beppe Grillo, dove hanno espresso un candidato della loro area, per di più in alleanza con il Pd, hanno rimediato il 7,78 per cento di lista con un crollo del 17,07 per cento rispetto alle precedenti regionali. Nel 2015 il candidato del Movimento ottenne il 24,85 per cento dei consensi. In Campania, finora granaio elettorale dei pentastellati, terra di Luigi Di Maio, la lista grillina è precipitata al 9,92 per cento contro il 17,02 della volta precedente. Il dato Cinque Stelle in Veneto è imbarazzante: 2,69 per cento. L'analisi dei flussi indica un doppio travaso dei consensi dai Cinque Stelle in minore misura alla destra, in maggiore al Partito Democratico. Fine di una breve ma strampalata storia. Sul fronte opposto, benché sia vero che alla destra non è riuscita la spallata, i due leader sovranisti, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, non hanno di che lamentarsi. Di là dalla conquista delle Marche che una propaganda maliziosa intesta a Fratelli d'Italia quando a dare il maggiore apporto al candidato Francesco Acquaroli è stata la Lega che ha il 22,38 per cento dei consensi, i numeri sorridono a entrambi i leader. La Lega aumenta i propri voti di lista nelle 6 regioni mediamente del 13,13 per cento. Propri rappresentanti entrano per la prima volta nei Consigli regionali di Puglia e Campania. Nella discussa Toscana il partito di Salvini è al 21,78 per cento, attestandosi al secondo posto dietro il Partito Democratico. Per quanto riguarda la Meloni, le è andata da favola. Nel 2015 Fratelli d'Italia doveva accontentarsi di un ruolo testimoniale navigando ovunque su percentuali inferiori al 5 per cento. Le urne di domenica/lunedì, invece, certificano il consolidarsi di una posizione da terzo partito, a livello nazionale, alle spalle di Lega e Pd. L'exploit meloniano si quantifica in un aumento medio dei consensi, nelle 6 regioni, pari al 7,56 per cento. La responsabilità del mancato successo nelle regioni tenute dalla sinistra va ricercata nel crollo generalizzato di Forza Italia. Per quanto il circo mediatico abbia tutto l'interesse a scaricare la croce su Salvini, la verità è che si è verificata la medesima condizione che ha portato la destra lo scorso gennaio a perdere in Emilia-Romagna. Il partito di Berlusconi è calato, rispetto al 2015 dove già si era verificata un'emorragia di consensi, di un ulteriore 6,13 per cento medio. In Campania, dove aveva candidato alla presidenza un proprio uomo, Forza Italia ha avuto una perdita secca rispetto al 2015 del -12,53 per cento, precipitando adesso al 5,16 per cento. Una spiegazione plausibile potrebbe essere l'assenza forzata del vecchio leone di Arcore dal vivo della campagna elettorale a causa della malattia. Ma non è così. La guerra interna tra i quadri locali del partito; il trasloco in massa dell'apparato clientelare forzista alla corte di Vincenzo De Luca;

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l'assoluta inadeguatezza della classe dirigente locale sono le concause di una disfatta annunciata. Il partito berlusconiano ha un serio problema di ricambio generazionale che non è stato affrontato nei tempi giusti e ora, che la spinta propulsiva impressa dal carisma del capo si è esaurita, ne paga le conseguenze. Il crollo della gamba riformista della destra non è un problema riducibile alle sole dinamiche interne a Forza Italia: coinvolge l'intera coalizione. Perché, numeri alla mano, la debolezza di una forza non più in grado di presidiare l'area liberale annichilisce la vocazione maggioritaria della coalizione stessa. La questione è complessa e merita un approfondimento che faremo in seguito. Al momento, ci preme sottolineare che certi facili entusiasmi non trovano riscontro nella realtà. Il che, tradotto, vuol dire: Zingaretti la pianti di atteggiarsi a vincitore perché non lo è. Nulla è cambiato rispetto a prima del voto, se non il tracollo dei Cinque Stelle e l'esito referendario. Il Governo resta in bilico e tutto può ancora accadere. Giuseppe Conte si preoccupi di scrutare il cielo, gli potrebbe capitare di vedere una supernova. Immaginiamo sappia cosa sia. È l'esplosione di una stella che prima di scomparire irradia una forte luminosità. Figurarsi il botto se ad esplodere sono 5 stelle tutte insieme. Cristofaro Sola


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UN PAREGGIO CON MOLTI PERDENTI E POCHI VINCENTI Cari amici lettori, di cosa potremmo discorrere se non del voto di domenica e lunedì? Voi sapete che io, nelle scorse settimane, non ho fatto cenno alle elezioni regionali; so, infatti, per lunga esperienza, che quasi mai le previsioni della vigilia sono confermate dalle urne. Certo, alcuni esiti erano scontati: nessuno avrebbe accettato scommesse contro Zaia e De Luca, che, infatti, hanno vinto alla grande. Ora può dispiacere ma non certo meravigliare che De Luca sia stato confermato presidente della nostra regione, poiché a suo favore hanno giocato due importanti fattori. Il primo è la gestione del coronavirus: il discorso del lanciafiamme è piaciuto agli elettori assai più di quanto sia dispiaciuto al governo centrale, al quale peraltro De Luca non è mai rimasto alleato. L'indipendenza è una qualità apprezzabile del nostro presidente regionale: il piddì lo ama tanto poco che nessuno lo immagina al posto di Zingaretti come tanti immaginano Zaia al posto di Salvini. Il secondo è la mancanza di avversari dotati di carisma (ma forse dovrei dire la mancanza di avversari sic et simpliciter): il buon Caldoro è stato ripescato quasi all'ultimo momento, contro il parere di una parte della coalizione che avrebbe dovuto sostenerlo. In Campania il centro destra non ha uomini del livello di Zaia o di Toti ma, soprattutto, non ha una classe dirigente capace e dinamica: questo aiuta a spiegare perché molti capetti che in passato erano con Caldoro siano passati fra le truppe di De Luca. Oltre De Luca, hanno vinto secondo le previsioni Zaia in Veneto e Toti in Liguria: il successo di Zaia è stato ancor più schiacciante di quello deluchiano e anche quello di Toti è stato molto netto. Il popolo, anche se spesso si comporta in maniera bovina, è capace di riconoscere i buoni amministratori. L'unica regione che ha cambiato è quella delle Marche, passata al centrodestra dopo tre lustri di amministrazioni rosse. Lì il piddì si è liberato di un governatore non allineato e ha perso malamente. La Toscana resta rossa, com'era in tutte le previsioni ragionevoli: ma la sinistra per la prima volta scende sotto il 50% dei voti. Una vittoria per le poltrone, una batosta per i consensi. Last but not least, la Puglia, che a destra si sperava cambiasse colore. Molte somiglianze ci sono fra Puglia e Campania: anche Emiliano non è un presidente gradito al suo partito, anche Fitto è un candidato che aveva già perduto e non suscitava entusiasmo. Certo, Emiliano non ha trionfato come De Luca, né Fitto è caduto in basso come Caldoro, ma il risultato è stato lo stesso.

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Tre a tre, dunque: ma c'è chi vince e chi perde. I cinque stelle, Renzi e Berlusconi perdono e su questo c'è poco da discutere. I grillini cercano di consolarsi con la vittoria del Sì, ma con i seggi ridotti e i consensi sempre più miseri rischiano addirittura di restar fuori dal futuro parlamento. Renzi si avvia a far la fine di Fini e di Monti: sembra ormai un personaggio shakespeariano, da molto rumore per nulla. Forza Italia è invecchiata, con un Berlusconi senza eredi politici. Anche la Lega non ha di che cantar vittoria: le sue percentuali sono calate dopo il boom delle elezioni europee e il tentativo salviniano di scendere al sud non è riuscito; né può consolarsi con il fatto di essere partita da zero. Il piddì ha tirato un sospiro di sollievo per aver perso una sola regione. Ha perso, però, molti voti anche dove ha vinto. L'unica vincitrice di questa tornata è Giorgia Meloni, poiché i voti a Fratelli d'Italia sono cresciuti dappertutto, e non poco. Infine, il referendum. Il sì è stato un voto di pancia, un voto istintivo contro i parlamentari che, via, davvero non meritano più molta stima. Ora tutta la legislazione (non solo la legge elettorale) va modificata e il dramma è che dovrà farlo una maggioranza parlamentare minoritaria nel paese e certamente poco sensibile all'interesse generale. Aggiungiamo l'ignoranza dilagante ai vertici del paese (che al ministero degli esteri si confonda il Libano con la Libia non è confortante) e ditemi se non c'è da temere il peggio. Pietro Lignola


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LA CARTINA TORNASOLE Mai e poi mai avrei creduto che un Paese come il nostro, vissuto di cielo, di terra e di mare, solare come una spianata siciliana a mezzogiorno o una cima trentina di prima mattina, artefice del bello per tratto ereditario, solidale come tra valligiani e contadini, ospitale come un convento sulla Francigena, potesse dimenticare tutto il suo essere e accettare il crepuscolo lanzichenecco. È ammissibile, umanamente e culturalmente parlando, che una intera rete autostradale collassi a causa della contemporaneità di lavori di assestamento e manutenzione? È quello che è accaduto e accade alle 'nostre' autostrade, ammalorate da decenni di colpevole incuria. Un cantiere via l'altro, sovente deserti, un solo senso di marcia spesso dividendo una sola carreggiata, con file chilometriche di autovetture in attesa di transito i cui occupanti, inebetiti dal sole, sono grati alla protezione civile o agli addetti della Società Autostrade per le bottigliette d'acqua distribuite gratuitamente. Penso che in una qualunque società civile, in qualunque Paese democratico un quadro del genere comporti come minimo il ripristino della vecchia pratica dell'esposizione al pubblico ludibrio dei gestori del bene pubblico; sarei portato ad aggiungere la pena di cinquanta nerbate sui glutei ma, siccome non sono un violento, mi astengo da quest'ultimo pensiero per lanciarmi in una fantasiosa carrellata di derrate marce e di escrementi da lanciare sul volto dei colpevoli alla gogna da parte della gente in transito, vogliosa di riscatto. Inoltre, qualunque società civile, qualunque Paese democratico, contestualmente ai responsabili gestori, avrebbe unito al tribunale della gogna i concedenti la concessione, gli artefici materiali dell'atto, gli amministrativi e i tecnici, con ogni evidenza disattenti delle cifre risibili esposte in bilancio per la 'manutenzione' e dei segni plateali di drammatici deterioramenti. Stavo per aggiungere un'altra categoria di possibili imputati: i politici che si sono susseguiti alla guida del Ministero dei Trasporti e del Paese ma cadrei nella banale accoppiata che vede oggi la 'politica' e il 'danno' come un binomio indissolubile. Quindi, anche qui mi astengo: non ignoro certo che la politica può essere sensibile verso soggetti che l'hanno sostenuta; che può essere disattenta nei loro confronti e che perfino l'attività censoria al pari della legge, secondo quel motto attribuito al Giulio nazionale, possa essere applicata per i nemici e interpretata per gli amici. Non lo ignoro, come dicevo, ma se scartiamo gli 'architetti' per la loro capacità camaleontica rimangono comunque i 'direttori dei cantieri' e la 'manodopera' con tutta la loro responsabilità penale e civile, alla quale però nessuno ha guardato. Da qui, la 'portata' in giudizio e l'auspicabile esposizione alla gogna.

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Comunque, dobbiamo convenire che un Dio esiste: grazie al Covid, quest'anno non abbiamo avuto stranieri a frotte che si sono riversati sulle nostre spiagge e sulle nostre montagne; solo qualche sparuto realista ha varcato la virtuale frontiera per condividere con i nostri connazionali le tribolazioni di un 'viaggio della speranza' verso la località di vacanze. La sporadicità della presenza 'straniera', quindi, non ha potuto dar luogo alla coralità di critiche dei nostri 'partners', tipica in altre occasioni, né motivare la provocatoria satira; stavo per aggiungere 'offensiva' ma mi trattengo perché, sebbene per me lo sia stata in passato, è bene ricordare che una 'offesa' è, nella sostanza, un danno morale recato alla dignità di una persona o di un'istituzione con atti o con parole; atti o comportamenti con i quali si viola un principio, un valore etico, una norma comunemente accettata, o che sia comunque con questi in contrasto. Ne consegue che siccome l'offesa non è stata rilevata nel passato, ciò vuol dire che ormai la dignità personale e istituzionale, la violazione di principi nonché l'esistenza di valori etici sono aspetti che la corrente cultura mercantile, opportunistica fino all'inverosimile, ha fatto divenire soggettivamente ed elasticamente interpretabili e comunque destinati nella generalità a quella folta schiera di peculiarità che si ritrovano oggi solo nei racconti fantasy. Quindi, evito l''offesa' nell'aggettivazione della critica che, grazie agli imperscrutabili disegni divini tracciati dal Covid, non c'è stata rendendo così grazia agli italiani che, nella pressoché totalità, hanno riscoperto le loro spiagge e le loro montagne, accomunati negli indirizzi vacanzieri nostrani dal timore del contagio e accostati dai cantieri autostradali. Ci sarebbe da piangere ma non rattristiamoci perché anche il sentimento è divenuto un fatto soggettivo, da interpretare, pena lo sbigottimento degli astanti. In ogni caso, un altro aspetto emerso da ultimo lascia pensare. Mi limito a questo non volendo emettere né giudizi né patenti nell'incomprensione degli spettatori. Mi riferisco alla scuola. Perciò, pensando, solo quale attestazione della mia esistenza senziente, mi chiedo: è razionale il pot-pourri di norme, di posizioni, di decisioni, di deleghe e di divieti che oggi sembra caratterizzare la macchina scolastica, frammentati sin dal livello ministeriale e giù fino a quello di preside d'istituto? E, ancora. È razionale che i 'professori', a causa del Covid, abbiano legittima facoltà di esercitare il loro mandato e di tenere sessioni d'esame? Che abbiano facoltà di sottoporsi ai test clinici, contrariamente ai loro alunni? Sarebbe (stato) altrettanto razionale se la stessa facoltà fosse (stata) riconosciuta a medici e infermieri? Verrebbe da pensare che l'obbligo dell'esercizio delle proprie mansioni nei secondi riguardi la sacrosanta cura della salute umana, ab initio nobilitata dal giuramento d'Ippocrate, dalla quale tuttavia non sia distante l'interesse personale del paziente mentre nei primi la concessione della facoltà di esercizio sembra concernere la prevalenza dell'interesse personale dalla quale appare molto distante la missione educativa e la cura del discente. Mi rendo conto che, esposta così, la situazione sembra un gioco di parole ma ciò che penso siano da valutare sono i significati intrinseci del ragionamento nella loro oggettiva e pregnante realtà, temendo comunque che soggettivazione del bene e la oggettivazione formale dell'opportunità personale siano ormai le linee guida del vivere civile e sociale, mercé la politica, oggi più che mai


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becera e demagogica incarnata da ibridi geometrici e da scherzi nell'evoluzione genomica. Ecco, alla fine ci sono caduto ma il fatto è che, volere o volare, oggi essa sembra coniugarsi con tutto ciò che è aleatorio, indistinto, possibile senza carattere, irrazionale. Lo so, il dubbio denota l'esistenza al pari del pensare e ha bisogno di riscontri oggettivi per dissolversi. Orbene, mi chiedo: e se la facoltà di esercizio fosse riconosciuta agli autisti dei mezzi pubblici? Al personale ferroviario? Ai piloti aeronautici? Se fosse riconosciuta al personale del supermercato nonché agli appartenenti a tutte quelle categorie che hanno nel rapporto col pubblico il fulcro centrale delle loro mansioni? Ecco. Questa a me sembra una domanda razionale. Diversamente, arriverei a dubitare della mia razionalità senza provare pena per gli alunni e compassione per le famiglie. Ma se la mia domanda, a fronte dello scenario, non trovasse l'auspicato riscontro, allora sarebbe segno che l'unico soggetto verso quale provare pena e compassione sono io: come tutti i pazzi, sarei convinto di essere savio. Il che comunque sarebbe utile come cartina tornasole. Francesco Diacceto

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DIMMELO TU COS’E’ È un pomeriggio piovoso e, al momento, non mi viene in mente altro da fare che scrivere, nella penombra della casa, mentre le note di Dimmelo tu cos'è si spandono nell'ambiente. In verità, il personaggio Antonello Venditti non mi entusiasma. Non ho mai avuto il piacere di conoscerlo ma, a sentire gente che lo ha fatto, non sembra sia il massimo nei rapporti umani. Ma non è di questo che vorrei scrivere quanto delle sue canzoni. Lo so, anche loro sono un po' banali ma che volete farci, mi ricordano eventi ed emozioni che, diciamolo, ognuno della mia età ha vissuto in giovinezza: il mare, i primi amori e le relative pene, gli esami, l'autostop, la passione politica e lo sport. E, quando le ascolto, è come se mi accoccolassi sotto un piumino, alla ricerca di un tepore artificiale per illudermi che l'estate non stia per finire e fuori non ci sia il temporale, cercando di non sentire i tuoni che rotolano nell'aria, i vetri che vibrano e, in lontananza, dei cani impauriti che abbaiano, mentre la pioggia sferza la terra e sprazzi di luce bianca fermano l'attimo. Il problema è che faccio sempre più fatica a percorrere a ritroso la strada dei ricordi: un po' per la vecchiaia che annebbia la memoria e la confonde costringendomi a volte a pormi domande senza senso su una tal data o la meccanica di un evento. Come se le risposte fossero significative e importanti. Ma, fortunatamente, mi ravvedo alla svelta per abbandonarmi alle emozioni, belle o brutte che siano ma comunque vivificanti, stimolate dalla voce dell'Antonello. Ma … ehhh! Ma … in altre occasioni, la fatica del 'ritorno' mentale è accresciuta dalla pena, da una grande pena che mi avvolge come un sudario dalla quale cerco vanamente scampo. È come se nel desiderio di tornare ad Avalon dovessi attraversare tutte le brutture del mondo, immergermi nel dolore, costatare la perfidia, l'incompetenza e la tracotanza, contare i morti dai visi stravolti riversati nella via insieme alle loro piccole cose, camminare tra le macerie di magnifiche opere architettoniche ridotte a cumuli di detriti e ferri sghembi, intristirmi fino alla spossatezza per le file di gente dagli occhi vacui in cerca di pane e, alla fine, soffermarmi affannata sull'immancabile coppia di bambini male in arnese, dai vestitini logori, che dopo un raggelante smarrimento stampato nei loro occhi si affannano per ricondurre il tutto alla loro realtà. E iniziano a giocare. Mi par di sentire i puristi dei concetti e vedere la loro smorfia di disappunto per il richiamo ad Avalon: l'isola delle nebbie secondo la vulgata comune, luogo di mitica sepoltura del leggendario re Artù sempre in lotta con Mordred, dove Viviana e Morgana erano di casa, impegnate con disinvoltura a tessere i destini del mondo, frenate e spronate da un Merlino consapevolmente in


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affanno per i turbamenti di Ginevra e Lancillotto, divisi dalla lealtà ma sommersi dal comune sentimento. Credo che dallo stilo di Goffredo di Monmouth e dalle successive rivisitazioni non potesse uscire opera fantasy più degna (scusate la presunzione) di essere avvicinata al periodo della mia gioventù e a quella di tanti altri; una gioventù dove le brutture, ovviamente, non mancavano e la cattiveria circolava ma esisteva un limite morale per superare il quale i prestidigitatori dovevano seriamente industriarsi al punto da costruire ricche vesti 'nobili' alle loro azioni, intridendole di fronzoli e di paillettes brillantanti. Almeno, la ricerca di una premorale. In sostanza, non esito a dire che, alla fin fine, sussisteva una qual sorta di rispetto tra le genti, il 'progresso', come ho scritto lo scorso mese, manteneva intatto il suo inglobante concetto, il futuro aveva una stimolante colorazione rosea, la speranza si poggiava su consistenti presupposti di certezza e la solidarietà era ancora un atteggiamento spontaneo fatto di sostanziali convergenze di interessi, idee, sentimenti. Ma, per restare ancora un attimo su Avalon, c'era anche una spiritualità che, unita alla comune morale, agiva da freno inibitore agli eccessi senza sfociare nel bigottismo e nell'ipocrisia. Quella spiritualità, casareccia se si vuole ma non per questo meno sentita ed efficace, che colta dalla magistrale e indimenticabile penna di Giovannino Guareschi induceva il sindaco comunista mangiapreti Giuseppe Bottazzi, detto Peppone, in quel di Brescello, a pressare un riottoso Don Camillo e a pretendere che il figlio fosse battezzato con i nomi di Lenin, Libero, Antonio. E, allo scandalizzato rifiuto del prete, eccolo tornare da solo, col bimbo in braccio e, dopo una furibonda scazzottata col sacerdote, cercare un salvifico compromesso togliendo 'Lenin' e aggiungendo 'Camillo' quale tributo. "Ma no: chiamiamolo invece Libero, Camillo, Lenin", disse Don Camillo. "Sì, anche Lenin: quando hanno un Camillo vicino, i tipi come quello là non hanno niente da fare". "Amen", borbottò Peppone, tastandosi la mascella. Già, la spiritualità … dal che l'ulteriore abbinamento ad Avalon, per i seguaci delle corrette astrazioni; l'isola delle mele e non delle nebbie; una 'mela' custodita nelle terre dell'anima, l'isola delle mele appunto, la quale assume così una sfumatura ancora più preziosa perché ci riporta alla saggezza antica e ci insegna la possibilità di far viaggiare l'anima, di morire e risorgere. Qualche dubbio? Si provi a leggere la descrizione scientifica della mela e non si farà fatica ad accorgersi che è un inno all'esoterismo dal quale la Historia Regum Britanniae e il suo autore non sono certo lontani. Ora, però, Avalon è scomparsa nella vastità dell'Oceano di Nun e Nunet mentre Mehetueret fornisce succose bistecche su tavole imbandite di ricchi ignoranti crapuloni: e non sembra esserci modo per ritrovarla. La bussola si è persa, le stelle sono coperte e una nebbia ovattata smorza suoni e richiami, tradisce l'attenzione e, come scrisse D'Annunzio, quale inane caligine incombe 1 sull'ampia ruina . L'ho scritto diverse volte e non faccio fatica a ripeterlo: apprezzo molto il pensiero del collega Sola che puntualmente trasferisce sui suoi scritti. E, al pari dei precedenti, ho pienamente condiviso la sua riflessione sull'ordoliberalismo tedesco

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e sull'aut aut che egli alla fine pone. Ma, pur non essendo pessimista per natura, mi chiedo sul piano pratico se davvero la strada che abbiamo di fronte si biforchi soltanto tra sovranismo e ordoliberalismo quale salvifica Terza Via, contrapposta quest'ultima al bieco liberismo capitalista. E non perché io non creda all'edonismo mediterraneo e pure al bagno di sangue che deriverebbe da una sua sovranista sregolata materializzazione o perché non confidi nella purezza del pensiero ordoliberale che non perde occasione per tradire sé stesso. Sono state chiamate in causa le banche tedesche e i loro salvataggi ma ritengo che il pragmatismo tedesco, incarnato dalla Merkel, abbia avuto modo di dispiegarsi in tutta la sua agilità nella fase precedente alla Brexit quando il rigorismo alemanno si piegò al punto da giustificare le richieste del poco accorto Cameron per non sostenere, come governo, il referendum da lui stesso promesso e promosso. Una flessibilità che ha preferito dimenticare l'insofferenza inglese sempre manifestata negli anni dell'europarlamento di fronte alla rigidità tedesca; un'insofferenza giunta al punto da far fuoriuscire dal PPE i parlamentari conservatori del Tory Party. Eppure, le richieste inglesi non erano da poco: accanto al rifiuto dell'euro, la cancellazione della qualifica di Super Stato ai fini delle contribuzioni; la facoltà di disattendere l'applicazione delle direttive comunitarie qualora il 55% del Parlamento fosse contrario; analoga facoltà per gli altri se un certo numero di Stati fosse avverso; ulteriore facoltà di sospendere dai benefici sociali per quattro anni quei soggetti residenti ma non dotati di cittadinanza. Quindi, se il referendum britannico si fosse espresso per la permanenza, la teutonica Angela sarebbe stata costretta a mantenere gli impegni, assunti addirittura nel Bundestag e ribaditi, alla presenza di Cameron e del gotha della politica e dell'economia, in quel di Amburgo in occasione del Matthiae-Mahlzeit, il più antico banchetto del mondo. Non oso chiedermi che ne sarebbe stato dell'Unione la quale, ad esser buoni, ne sarebbe uscita con un'impostazione che, secondo una concezione vetero-imperiale, potremmo sintetizzare 'alla come ce pare'. Nel senso di 'come ci conviene' visto che nei confronti di nessun altro Paese al mondo, ad eccezione degli Usa, Berlino vantava un attivo nell'interscambio commerciale tanto elevato quanto con la Gran Bretagna (oltre 40 miliardi). Dal che, l'83% degli imprenditori teutonici si erano dichiarati fortemente contrari all'uscita dell'irrequieta Albione ed avevano espresso 'calde' raccomandazioni per scongiurarla. E questo, in riferimento ad una morale che pretende di farsi docente, per non parlare di altri Paesi nordici, sicuramente sensibili verso la socialità e con i conti in ordine ma ben fermi nell'essere (nel continuare ad essere) punto di attrazione di capitali la cui provenienza è ad esser buoni discutibile, in assoluto silenzio degli 'astanti' integerrimi guardiani, peraltro pure disattenti (devo vedere sul Devoto-Oli se il termine è giusto) sull'applicazione delle norme sulla libera concorrenza. Chissà se qualcuno di quei 'potenti' ha frequentato un altro 'ordine' e si è imbattuto nel 'Liber Al Vel Legis', il Libro della Sacra Legge di Thelema, di crowleyana mano ma suggerito nientepopodimeno che dallo spirito Aiwass, davanti alla stele funeraria del sacerdote egizio


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Ankh-af-na-Khonsu. Ha preso a sfogliarlo e con un colpo d'occhio ha colto la frase ' …. Fa' ciò che vuoi, sarà tutta la Legge. … "2. Gli è bastato. E non ha ritenuto di leggerselo dall'inizio perdendosi, così, '… La mia gioia è vedere la vostra gioia. … '3. Ovviamente scherzo ma, per continuare ancora un po' a scherzare fra tra tanta depressione, uno si avvicina al calvinismo, è intrigato da una indistinta passione liberale non disgiunta da forti sentimenti di socialità, scopre Hayek e si iscrive alla Mont Pelérin Society, poi fa master con Walter Eucken, Franz Böhm, Hans Grossmann-Doerth, Alfred Müller-Armack, Wilhelm Röpke e Alexander von Rüstow per rendere pratiche le teorie sociali di mercato fondate sulla responsabilità individuale e collettiva con un forte ruolo ordinatore dello Stato così da approdare all'ordoliberalismo. Ma, all'improvviso, si rende conto che Hayek, nelle more, ha incontrato Von Mises e si ritrova alle prese con quella che viene definita visione 'neo liberale austriaca', naturalistica, dove le risposte sociali sono pressoché unicamente nel mercato, quasi in totale assenza dello Stato. Il tale, a questo punto, frastornato da un uppercut al mento visto il prevalere di quest'ultima, tenta di sbrigliare la matassa ma, purtroppo, subito dopo si accorge che nel frattempo le teorie di Hayek e le specializzazioni ordoliberaliste sono state inquinate da un atteggiamento keynesiano riveduto e corretto secondo i principi rovesciati della vecchia Cassa del Mezzogiorno italiana. Da perderci il capo. Intanto, il fertilizzante ordoliberale che aveva permeato le fondamenta dell'Europa gocciola inutilmente fuori dal vaso tedesco e dal portavaso europeo, invalidato da correnti atlantiche e 'pacifiche' (si pensi) che hanno ridotto al lumicino l'anticiclone di Friburgo, hanno fatto breccia nei capisaldi di stabilità metereologica e i cicloni hanno preso a spazzare il continente. Così, tra un vortice e l'altro, affiorano nuclei sopraelevati dove gli abitanti ancora possiedono ombrelli e hanno le scarpe asciutte e si illudono di essere al riparo dalle intemperie mentre il mondo a loro fisicamente sottostante è solcato solo da interessate barchette e gommoni delle ONG che prelevano famiglie accampate sui tetti per sfuggire alla furia devastatrice delle acque. Ed è a questo punto che il nostro 'tale', appena lambito dall'acqua, moralmente indeciso se salire su un barchino per prodigarsi o provare ad arrampicarsi più in alto, si rammenta di Hobbes per il quale il giusto e l'ingiusto sono delle convenzioni e le valutazioni morali sono soggettive, attesa la 'naturalità' della bramosia umana. L'unico calmante hobbesiano all'ingordigia dell'uomo, gli sovviene, è la paura altrettanto naturale della morte violenta; dal che, la razionalità, unica àncora di sopravvivenza, articolata in tre regole fondamentali: la ricerca e il conseguimento della pace e accontentarsi di avere tanta libertà quanta ne riconosce agli altri. Ed è proprio questa seconda regola che gli permetterebbe l'uscita dallo stato di natura implicando che gli uomini stringano dei patti fra loro. La terza regola, infatti, è: il rispetto dei patti. Già … ma se i patti, una volta stretti, poi non vengono rispettati come le cronache, ad ogni piè sospinto, documentano? Gli accordi sui migranti sono carta straccia; alla libertà di mercato segue un 'dipende' grande come il Bundeskanzleramt e

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l'Eliseo messi insieme, la libera concorrenza è una serie di sensi unici alternati gestiti da semafori 'intelligenti' al punto da farne corsie preferenziali. La solidarietà, tanto sbandierata e pure pressata da eventi straordinari quali il Covid, dopo mesi di consulti, è risultata vincolata all'esame delle feci e delle urine del paziente, alla conta dei suoi globuli rossi e bianchi, alla misurazione della sua eritrosedimentazione e delle sue gammaglobuline. E il tutto non basterebbe a tracciare un esaustivo quadro clinico ma, dal momento che i tikets costano più degli esami diagnostici, è stato deciso di soprassedere: tanto, la solidarietà non potrà manifestarsi prima di 12/14 mesi; c'è da capire, non si possono avviare con un click motori del livello della BCE, del FMI, della Banca Mondiale. E poi, diciamola tutta: nelle more, chissà che San Gennaro non ci faccia la grazia …. Allora, sapete che nuova c'è? ognun per sé, afferma il tale che smette di arrovellarsi e cerca di arrampicarsi più su, deciso a contare sulle sue sole forze. Un momento … e il Dio per tutti? vocia con disappunto il coro del Comitato Tecnico dei Proverbi della prestigiosa enciclopedia Treccani, puntando l'indice accusatore verso l'omino con le dita doloranti in arrampicata. E che diamine! Non si può essere così imprecisi, prorompono i coristi, purtroppo ignari dell'email che giace nel loro server con la quale il Comitato Tecnico della Storia delle Religioni comunicava che Dio era stato rinvenuto esamine in fondo ad una scarpata dove era rotolato inciampando nella lama di un machete, oppresso dalla distanza che intercorre tra il contenuto delle righe percorse dalla yad e la loro pratica attuazione, dilaniato da pittoreschi gospel e spirituals da un lato e dall'altro da sonnacchiose, insulse omelie e disinvolte omnicomprensive 'Opere Religiose'; così, dopo aver perso la strada delle menti, oppresse dal bisogno e prive di speranza o distolte dalla pratica, immediatamente fruibile soddisfazione che danno loghi, griffes, strumenti smart, viaggi low cost, sesso e alcool. Il tutto, in totale disinteresse dei comitati tecnici e dei salmodianti, occupati nelle loro notazioni notarili. A questo punto, conclusa la metafora, potrei dire che la stessa se da un lato tocca tutto il mondo occidentale, straricco di pseudo-miti ma ormai privo di ideali e di valori, sperduto nel gran mare dell'essere per dirla alla Nietzsche, dall'altro concerne l'Europa tutta che ha buttato alle ortiche ogni unità standardizzata di 'misura' per adottare quella che l'opportunismo detta al momento. Potrei dirlo ma nella considerazione annovererei tout court l'Italia che, invece, merita delle aggiunte. Le merita perché, sotto tanti aspetti, è un caso unico. Ho avuto modo di ascoltare in streaming l'intervento del prof. Mario Draghi al recente meeting di Rimini, annualmente tenuto da Comunione e Liberazione. Quello di quest'anno, poi, sotto l'intrigante titolo 'Privi di meraviglia, restiamo sordi al sublime'. Su un tale titolo ci sarebbe da scrivere un saggio ma non è questo il momento. Comunque, dicevo dell'intervento che, indubitatamente, seppur nell'esposizione misurata è stato puntuale ed esaustivo, peraltro premendo su aspetti che Confini ha più volte toccato; un intervento ben chiaro e importante ma comprensibilmente misurato non foss'altro, credo, per non alimentare (anzitempo?) le voci di un futuro ruolo politico. In sintesi, è il momento per cambiare la costruzione dell'Unione nella costatazione che le


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esigenze sono comuni; gli aiuti comunitari che riceveremo dovranno essere proficuamente impiegati; la pandemia, cambiando le nostre abitudini, ridurrà delle produzioni a favore di altre, ne nasceranno delle nuove e altre scompariranno; i sostegni alle categorie generano debito che qualcuno compra sulla fiducia: ne consegue che se ben mirato, opportunamente impiegato, il debito è 'buono' mentre diversamente rischia di far perdere la stessa fiducia che lo sostiene. In conseguenza, necessita una programmazione. Non starò a ripercorrere le volte che la (nostra) rivista ha denunciato le storture europee né quelle dove ha accusato l'assenza di programmazione e l'esistenza, invece, di solo puro assistenzialismo che non genera economia, accompagnato da un profluvio di parole inutili. Ciò che piuttosto voglio evidenziare, uscendo per un attimo dall'intervento dell'ex presidente della BCE, è che l'Italia, in un cammino trentennale, è divenuta il Paese dei paradossi sociali. Se qualcuno volesse dilettarsi ad approfondire potrei consigliare la lettura dell'ultima opera di Luca 4 Ricolfi, 'La società signorile di massa” . È una foto tristemente interessante. Emerge dal libro di cui sopra ed è confermato dai dati, che tra tanto altro il nostro Paese ha oltre il 30% di disoccupazione giovanile senza che vi sia alcuno che gridi sulle conseguenze. Nemmeno i diretti interessati. E questo è un fatto che dovrebbe sconvolgere ogni governante degno di questo nome perché compromette irrimediabilmente il futuro del Paese. E non bastano a lenirla le centinaia di milioni spesi in banchi distanziatori, posti sotto un soffitto di una scuola che crolla, il reddito di cittadinanza ad una famiglia che non insegna o il bonus alle casalinghe che, tra l'altro, non hanno alcun potere d'intervento, o altrettante centinaia di milioni in bonus per scanzonati monopattini in nome di una green economy da manga. La persistenza di una tale situazione giovanile, invece, e l'assenza di qualsivoglia politica al riguardo non solo testimonia la scarsa vista dei reggitori della cosa pubblica, la mancanza di ogni coerente impegno ma, quel che è peggio, anche l'assenza di stimoli e di motivazioni nei giovani. Tra le macerie, privi di conoscenza e di esperienza, si svagano e credono che la vita si possa risolvere nel lavorare, quando accade (altrimenti c'è la famiglia), quanto basta per acquisire gli strumenti e le possibilità dello svago. Dal che, credo, l'ulteriore richiamo del prof. Draghi sul porre la massima attenzione verso i giovani insieme alla premessa con la quale l'esimio relatore ha voluto aprire il suo intervento: l'esigenza di etica. Non starò nemmeno a sottolineare come quest'ultima chiosa sia importante nella caratterizzazione di un popolo, a maggior ragione quale insegnamento verso i giovani in un contesto dove i concetti di bene e di male sono stravolti dalla convenienza, dove il giusto e l'ingiusto sono sbrindellati elastici, dove i comportamenti sono sempre più spesso dettati dalla forza o dalla rabbia. Ciò che, invece, l'insigne conferenziere non ha toccato è un aspetto che a mio sommesso avviso è importante al pari degli altri: la (ri)formazione di una identità e di un sentimento nazionale. Non voglio minimamente propugnare il sovranismo né intendo denegare l'esigenza di un'Europa coesa: ciò che voglio semplicemente sottolineare è che dei tre Superstati europei due sanno chi sono, ci credono fermamente, il popolo ne è fiero e, a livello internazionale, non c'è divisione

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manifesta tra esponenti governativi e quelli dell'opposizione. Mentre il terzo ha perduto la memoria e al popolo non è questione che interessi. Con la pandemia, poi, tutt'al più ci si può inorgoglire per le sceriffate di De Luca o deprimere per i camici di Fontana. Già Conte è lontano con i suoi atti strani, i DPCM credo si chiamino, con i quali qualcuno dice che sta esautorando il Parlamento. Già, fa bene, tanto questi mangiapane a ufo che ci stanno a fare? Ridurli? Per fare cosa? Mi dicono che tra poco ci sarà un referendum al riguardo. Premesso che li manderei tutti a casa, chiederò lumi al mio consigliere regionale (provinciale, comunale, municipale) su come votare perché invero non c'ho capito molto. La verità è che nella perdita dell'identità nazionale abbiamo perso il valore di tutte le altre che contano. Così, votiamo alle consultazioni nazionali su un piano squisitamente umorale ormai mentre a quelle locali votiamo di pancia. La famiglia e il matrimonio sono una costrizione inutile, la Patria è dove hai la casa e l'interesse, le tradizioni sono salvaguardate e hanno avuto il marchio DOP, STG e IGP. Potrei proseguire ma mi fermo nel rappresentare lo scempio voluto e perpetrato da una sinistra apolide e materialistica e aggravato, da ultimo, da Masanielli non so quanto convinti che la loro 'rivolta' contro la politica, economica e sociale della Napoli spagnola nella prima metà del Seicento fosse salvifica per il popolo. In realtà, durò solo nove giorni. Indebolì, è vero, il secolare dominio spagnolo sulla città, aprendo la strada per la proclamazione della filofrancese Real Repubblica Napoletana, guidata da un effimero Enrico II di Lorena, duca di Guisa, la quale, tuttavia, permase poco più di cinque mesi. Con la caduta del forte di Nisida, gli spagnoli rientrarono in città. E ciò in quanto è difficile comprendere che si può innovare, riformare, senza distruggere. E quando questo purtroppo accade, non restano che rovine neppure asportate. Ecco. Ho compiuto il mio passaggio al bosco e sono riuscita a riapprodare all'Avalon della mia mente, gustandomi i ricordi suscitati dalle parole dell'Antonello. Comunque, c'è un punto di quelle frasi che mi rafforza particolarmente nella convinzione che qualcosa s'ha da fare per tornare ad apprezzare la vita, i rapporti col prossimo, a riconoscersi in qualcosa, ad accantonare il rancore e a far volare l'anima: quando il cane non ti riconosce più, cerchi le chiavi di una casa che non è più tua, lanci uno sguardo alla vecchia foto della nonna che gioca col cerchio in mano ed è l'unica cosa del passato che ti resta; quando t'interroghi su quello che manca, quello che ancora non c'è e che ti prende alle spalle e non ti fa tornare indietro, allora la prima cosa da fare per innestare un virtuoso processo di ritorno è 'scopare bene'. E siccome Antonello lo afferma in televisione e alla radio alle orecchie di milioni di ascoltatori, posso ben meschinamente affermarlo io. Perché, diciamolo, i nostri uomini non hanno più nemmeno l'identità di latin lovers. Va bene che le straniere, con il Covid, non arrivano ma le italiane, nella liberalizzazione forsennata dei costumi degli ultimi decenni, le hanno ben soppiantate fino a fare del sesso un che dal consumo rapido e indolore. Con la risultante che oggi un giovane uomo, indeciso e pavido, disistimato, oggetto di consumo con l'unica sua effimera forza nel pene sostenuto non più dal desiderio mutuo bensì dal Levitra o dal Cialis se non dalla virtualità di una immagine digitale e


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computerizzata, è un essere che non sa più chi è. Non so quanto la donna potrà gioire di questo, sia pur dopo secoli di sottomissione, perché l'estrema debolezza dell'altro genere mina in partenza il suo pur giusto e doveroso riscatto. Minando, in conseguenza, il quadro sociale e, quindi, il suo trionfo. Detto ciò, forte dei miei ricordi e abbarbicata all'Isola delle Mele, questo è ciò che penso del doloroso percorso nella oscura selva. In una parola: desolazione. Diversamente, dimmelo tu cos'è. Roberta Forte

Note: 1 G. D'Annunzio – Laudi – II – vv. 239-240 2 Liber Al Vel Legis - I° - v. 40 3 Liber Al Vel Legis - I° - v. 13 4 Luca Ricolfi – La società signorile di massa - La nave di Teseo editore, Milano 2019

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BARBARIE DURE A MORIRE Sono davvero tante le pratiche barbariche che sopravvivono in taluni paesi orientali, a cominciare da quelle umilianti per l'universo femminile. Infibulazione, lapidazione, soggezione violenta alle prepotenze maschili, schiavitù vera e propria, ci fanno accapponare la pelle ogni volta che la cronaca porta alla ribalta le vittime di sub-culture eccessivamente tollerate dal mondo occidentale, per timori di ritorsioni che però configurano, sostanzialmente, una sorta di malcelata ignavia. Restando nell'ambito della "verginità", ancora a molte latitudini considerata valore ineludibile per una donna non sposata, sgomenta apprendere, per esempio, che in Indonesia, le giovani donne desiderose di intraprendere la carriera militare devono dimostrare la propria illibatezza subendo una mortificante visita medica: sono costrette a spogliarsi al cospetto di medici uomini e a sdraiarsi su un lettino con le gambe divaricate. Se non sono vergini si possono dimenticare l'ammissione e, come se non bastasse, vengono espulse con un marchio d'infamia che le accompagnerà per tutta la vita. Pratiche analoghe sono diffusissime e rappresentano solo una piccola componente di un contesto degradante, in massima parte destinato a restare sommerso. È facilmente ipotizzabile, del resto, cosa siano costrette a subire le donne che vivono in paesi con forte deficit evolutivo, considerato anche ciò che, purtroppo, ancora avviene nel "civilissimo" Occidente, non soltanto per colpa di soggetti indegni di figurare in un consorzio civile. Proprio in questi giorni, infatti, in Francia, il ministro dell'Interno, Gerard Darmain, si è visto costretto a preparare una proposta di legge che prevede la messa al bando del mostruoso test e severe pene per chi dovesse continuare a effettuarlo. Molti medici, infatti, ponendo un problema etico e deontologico, sostengono di essere favorevoli al certificato se esso possa contribuire a salvare la vita della ragazza "accusata", proteggendola in tal modo dalle terribili vessazioni dei familiari, del fidanzato, della comunità retrograda di cui faccia parte. Loro si dicono ben conoscitori della realtà sociale e sono sicuri di agire nel migliore dei modi possibili, in scienza e coscienza. Una legge estremamente restrittiva, a loro giudizio, è inutile e non perseguibile, essendo i certificati utilizzati nell'ambito privato. In pratica, in mancanza di una denuncia da parte di chi il certificato richieda, o di un'autodenuncia da parte di chi lo emetta, non sarebbe possibile contestare il reato e la legge, di fatto, sarebbe automaticamente violata. Il problema, come si vede, non è di facile soluzione proprio in virtù della sua particolare natura.


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Sarebbe tutto più semplice se, al posto delle miriadi di associazioni che si battono per i diritti delle donne (o meglio, oltre a ciò che loro fanno), i governi dei paesi che tali pratiche trovano immonde producessero un'azione comune di chiara denuncia, scevra di quegli arzigogolamenti diplomatici utili solo a creare fumo senza arrosto e destinati a perpetuarsi in eterno. Sono trascorsi seimila anni dagli albori della civiltà e come siamo messi, a livello planetario, è sotto gli occhi di tutti. Forse è arrivato il momento di un vero scossone, avendo ben chiaro, inoltre, che non esistono zone "completamente" franche. Lino Lavorgna

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MINIGONNE A SCUOLA Come se non bastassero i problemi generati dall'emergenza pandemica, al liceo Socrate di Roma è scoppiato lo scandalo delle ragazze in minigonna, invitate dalla vicepreside a non indossarle per non indurre in tentazione i professori, ai quali potrebbe "cadere l'occhio". Apriti cielo! Un fuoco incrociato si è abbattuto sulla povera dirigente, che si sarà sentita come la Polonia agli inizi della Seconda Guerra Mondiale, schiacciata dai tedeschi a Ovest e dai russi a Est. Le ragazze hanno inscenato una vibrata protesta, recandosi tutte a scuola in minigonna e ponendo in risalto i problemi logistici, legittimamente considerati prioritari. Il presidente dell'Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli, invece, difende i docenti, che fanno la figura dei guardoni modello Alvaro Vitali nei film erotico-caserecci degli anni settanta, con una dichiarazione ufficiale: "Si deve evitare che, a causa di un evidente e marginale incidente comunicativo, la categoria dei docenti sia percepita dall'opinione pubblica in maniera distorta e degradata e che il liceo Socrate venga erroneamente rappresentato come presidio di cultura oscurantista. L'episodio dimostra, una volta di più, quanto sia fondamentale utilizzare le parole correttamente e consapevolmente". Anche il ministro Azzolina, tramite l'Ufficio scolastico regionale del Lazio, ha disposto un'accurata indagine. A scanso di equivoci scriviamo subito che ogni donna ha il diritto di vestirsi come vuole, quando e dove lo ritenga opportuno, senza che ciò debba rappresentare alcun problema per lei. Alle ragazze, pertanto, va manifestata senza indugio la massima solidarietà. Ciò premesso, tuttavia, cerchiamo di essere ragionevoli, evitando sterili elucubrazioni socio-filosofiche. 1) La vicepreside non sarà una stupida e se si è espressa in quel modo, sostanzialmente suggerendo alle ragazze qualcosa che avrebbe suggerito a una figlia, avrà avuto le sue buone ragioni. È addirittura banale e stucchevole dover ribadire il diritto delle donne a vestirsi come meglio ritengano, ovviamente nei limiti di una decenza che di certo non può essere inficiata da una minigonna, capo di abbigliamento che oramai vanta oltre mezzo secolo di radicamento sociale. Parimenti, però, chiunque dovrebbe essere libero di parcheggiare la propria auto, Lamborghini o utilitaria che fosse, senza doversi preoccupare di chiuderla anche per una breve sosta caffè. Esistono i ladri e quindi ci si regola di conseguenza: autonomamente ciascuno rinuncia a un legittimo diritto e a un evidente presupposto di libertà, per motivi di opportunità. E ovviamente ciò accade a tutti, ogni giorno, in mille contesti. Siamo onesti: possiamo negare che, in questo Paese, l'universo maschile, per buona parte, non sia ancora in grado di reggere la vista di una


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bella ragazza sexy in minigonna senza strabuzzare gli occhi, per non dir di peggio? Figuriamoci, quindi, cosa potrebbe verificarsi in un'aula con una dozzina di belle ragazze con splendide gambe scoperte fino all'inguine e mutande in vista, soprattutto in questi frangenti che vedono molte scuole prive dei banchi, e arrapatissimi docenti, magari con moglie modello Pina Fantozzi. Un po' di comprensione per la vicepreside, quindi, che evidentemente ben conosce i polli del suo pollaio, è altrettanto dovuta e la dichiarazione del presidente Giannelli, ancorché comprensibile sul piano diplomatico, risulta eccessivamente severa. I limiti maschili nel restare indifferenti al cospetto di una donna in abiti succinti non possono sfuggire a nessuno. Per molti anni ho lavorato nel mondo della moda e dello spettacolo e potrei citare decine di aneddoti al riguardo. Durante una finale di un prestigioso Fashion award internazionale, per esempio, un giornalista venne ad intervistarmi ed essendo preso da mille impegni lo ricevetti mentre stavo effettuando un briefing alle modelle, contestualmente intente al trucco e parrucco. Le modelle, mezze nude, si muovevano con i classici ritmi frenetici di quei momenti, ovviamente senza dare peso a chi fosse presente nel salone. Avreste dovuto vedere la faccia del giornalista e la chiazza di sudore che si formò sotto i suoi piedi, per non parlare del balbettio. 2) Querelle sulle minigonne a parte, sarebbe il caso che in quel liceo (LICEO!!!) si pensasse soprattutto a studiare "seriamente". Le ragazze hanno esposto un cartello con la seguente scritta: "Non è colpa nostra se gli cade l'occhio", con "gli" che sottintende "professori", quindi un sostantivo plurale. Ai tempi miei, delle liceali che avessero commesso un errore di questa portata, sarebbero state inviate ai lavori forzati! Lino Lavorgna

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PER UN MONDO NUOVO? SI MA ATTENZIONE ALL’ENTROPIA La beota ineleganza dei tempi mi induce ad una lettura (forse imperdonabilmente) negativa di ciò che mi circonda a causa del sostanziale pessimismo che ispira la mia quotidiana visione della contemporaneità. E ciò, non perché io sia un anziano signore cupo e bilioso frustrato per alcunché. Tutt'altro: chi mi conosce sa bene come io sia invece sostanzialmente positivo nell'agire, comunicativo ed entusiasta in merito a svariate fattispecie della vita di ogni giorno. No, trattasi di ben altra ragione: ho infatti la profonda consapevolezza di aver avuto in sorte (unitamente a tutti quei miei contemporanei dotati di una qualche coscienza di ciò che li circonda) di vivere, da fortuito testimone del tempo, gli ultimi scampoli di una delle più grandi civiltà della storia dell'uomo: la greco-romana-cristiana, iniziata, come è noto, nella Grecia del V° secolo avanti Cristo e conclusasi, secondo il mio modesto parere, nella seconda metà del secolo scorso (in particolare, con l'allunaggio di Neil Armstrong sul nostro satellite nel 1969 e, soprattutto, con la relativa fotografia scattata alla nostra piccola, azzurra Terra, biglia sperduta in un immenso vuoto nero ed innanzi alla quale tale nostra prorompente civiltà non ha più ragione alcuna per potersi culturalmente inorgoglire). Al riguardo CONFINI ha onorato della sua ospitalità, sul proprio numero 57, MAL'ARIA del settembre 2017, il mio scritto : "La Crisi dell'Occidente", pagine 40/53, nonché il relativo seguito, sul successivo numero 59, AUTONOMIA del novembre dello stesso anno, con la mia ulteriore riflessione intitolata : "Perché "Crisi dell'Occidente"?", pagine 31/33). Alla luce di tali mie considerazioni, mi è pertanto abbastanza difficile dare un qualche sottinteso senso di positività all'aggettivo "nuovo" collegato al sostantivo "mondo", come proposto dal nostro caro Direttore per il numero scorso della nostra amata Rivista. Con l'usuale mio ricorso al dizionario per cercare il significato delle parole di uso comune, leggo: NUOVO: "dicesi nuovo di cosa fatta o avvenuta o manifestatasi da poco, spesso in contrapposizione diretta a vecchio, antico e quindi con significato prossimo a moderno". Quindi non necessariamente "migliore". E dunque la conseguente, legittima domanda: il nuovo sarà migliore? Una eventuale risposta in senso positivo dovrebbe essere auspicalmente l'unica che ci si debba augurare, altrimenti, in caso contrario, a che pro il formulare tale domanda in termini di sottinteso auspicio? Ed è proprio sull'auspicio che, secondo me e come suole dirsi, casca l'asino. Primo principio della termodinamica: "L'energia può essere convertita da una forma in un'altra, ma non può essere né creata né distrutta". In soldoni: "in natura nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma".


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Ritengo che tale ferreo principio della fisica della materia valga altresì per quanto concerne il mondo spirituale della "felicità"/"infelicità" umana (inglobato successivamente in tutto ciò che, nel suo complesso, verrà poi chiamato, STORIA) laddove pur modificandone e/o variandone alcuni componenti, il complessivo risultato finale della reciproca interazione non muta, rimanendo perennemente uguale a se stesso. Dato che - sempre secondo il principio sopra enunciato - ogni sistema (e l'umanità intera è un sistema) dispone di un suo contenuto energetico dovuto a tutti i contributi di energia legati al suo stato, anche per la condizione umana (se non altro in un determinato ambito "attuariale" di sviluppo socio-economico-culturale) la quantità complessiva di soddisfazione personale e sociale non può, nell'insieme, che rimanere costante. Quindi ed in pratica: credo che "domani" noi tutti (nel nostro attuale stato evolutivo di Homo Sapiens Sapiens e nella somma algebrica delle relative componenti di positività/negatività) non ci ritroveremo né più felici né più infelici di quanto non lo si sia oggi, né lo sia mai stato ieri. Sono pertanto dell'avviso che la svolta ecologica, gli scenari post-Covid, i divenienti rapporti tra le nazioni, qualunque sostanza o forma essi possano o vogliano prendere nel prossimo futuro, nulla aggiungeranno o toglieranno alla complessiva quantità energetica di felicità esistenziale concessa dagli dei come pacchetto di dotazione individuale ad ogni essere umano vivente sulla Terra. Cambieranno certamente gli addendi, ma domandiamoci: "se non si potrà modificare il complessivo risultato finale, cosa avrà mai in serbo per noi di "buono" il mitico futuro? Quesito difficile, certamente, ma credo, ahimè, dalla scontata risposta. Inoltre, e purtroppo, è necessario fare i conti anche con il Secondo principio della termodinamica : "Tutti i processi spontanei endotermici hanno la comune caratteristica di svolgersi nella direzione che porta a una maggiore libertà di moto delle particelle cioè ad uno stato di maggiore disordine e quindi da uno stato di bassa entropia ad uno di entropia più alta". Qual' è dunque - tanto per fare un esempio banale, ma abbastanza chiaro ed al solo fine di potersi intendere - l'unico possibile "futuro" che possa mai attendersi, che so io, una bella ed elegante tazzina da tè in porcellana cinese? Purtroppo uno ed uno soltanto: quello di ritrovarsi, prima o poi, ridotta in mille pezzi. Per la sua stessa natura fisica, in null'altro le è dato di potersi trasformare se non che nelle proprie briciole non ricomponibili. E ciò, niente po' po' di meno che in ossequio - ma guarda tu! - ad una delle leggi fondanti dell'intero universo: appunto, il secondo principio della termodinamica. Il mondo dunque evolve, necessariamente e soltanto, da una data condizione di bassa entropia ad una successiva di entropia più alta, con, ahimè, l'ineludibile conseguenza che - tanto per restare fedele all'esempio e riconducendolo a quanto possa riguardarmi personalmente essendo io nato e vissuto in un mondo in cui, diciamo, tutte le "tazzine" mostravano comunque (e ciò, per lo meno, all'inizio della mia esistenza ai tempi della lontana, seconda Guerra Mondiale) una certa integrità con appena qualche ben dissimulato segno di incipiente frattura, il ritrovarmi oggi catapultato in un universo di soli frantumi di tutto quanto da me serenamente

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conosciuto, non mi va affatto bene. Cosa questa invece del tutto naturale per coloro che, venuti al mondo dopo l'apocalisse della predette porcellane (i nuovi nati, i "millennials", tanto per intenderci), non hanno - beati loro! - alcuna memoria di tutt'altro universo composto invece da, diciamo, "servizi da tè" di ben'altra fattura. Attenzione però: tale stato di crescente entropia socio-economica e quindi culturale, non sfugge naturalmente agli attuali, monopolistici gestori della nostra condizione esistenziale. Molto occhiuti e perfettamente informati, essi si accorgono che lo stato di generale entropia del consorzio umano tende a crescere in modo molto accelerato e che quindi il pregresso ordine, almeno per come esso è stato fino al momento conosciuto, si avvia a dissoluzione. E' dunque necessario iniziare a correre ai ripari. Sì, ma in quale modo ? Attraverso prove tecniche di "dittatura": Come ci ha infatti ricordato di recente l'ottimo sceneggiato televisivo de "La7", "Chernobyl", sulla catastrofe di quella centrale atomica sovietica esplosa con le note, drammatiche conseguenze, ogni processo di crescente riscaldamento per reazione nucleare va controllato attraverso pilotati rallentamenti del processo stesso con l'introduzione di apposite barre (grafite/boro) in mancanza delle quali tale processo diventa ingestibile con dirompenti conseguenze. In egual maniera chi ritenga di poter tenere sotto controllo la "centrale nucleare" dell'intera umanità deve aver la certezza di poterne manovrare in ogni istante i meccanismi di controllo saggiandone anche, di tanto in tanto, funzionalità e tenuta. Cosa allora di meglio che testare, attraverso l'allarme Coronavirus, lo stato di possibile condizionamento e connessa reattività di un determinato sistema paese? Risultato?: BINGO! Con gli strumenti adatti, il meccanismo funziona benissimo. Il sistema è facilmente ed efficacemente controllabile e/o condizionabile! Quali sono dunque i necessari INGREDIENTI del nuovo, diciamo, "fascismo 2.0" (inteso questo come tecnica di consenziente privazione e/o condizionamento delle libertà individuali dei cittadini, ma mantenendo, al contempo, ordine pubblico e pace sociale)? Eccoli: - Presenza di un CONCETTO "pseudo astratto" in quanto, al contempo, sia di indubbia natura concreta che di tipologia assolutamente impalpabil : ieri, nel noto ventennio, la NAZIONE, oggi il VIRUS, ad entrambi dei quali è comunque possibile fare riferimento nelle più variegate circostanze sociali, sia di tipo prettamente concettuale che di contingente confronto dialettico; - Riferibilità ad un LEADER certamente "pro tempore", ma morfologicamente ben riconoscibile: ieri munito di apposita "mascella", oggi fornito di caratterizzante "pochette", ma ciò, ai fini della rispettiva funzionalità, è del tutto irrilevante; - Utilizzo di un capo di ABBIGLIAMENTO, specificamente significativo, sia per l'esigenza del momento che per l'intrinseco valore semantico: ieri orbace e camicia nera, oggi guanti e mascherina;


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- Ripetitivo atteggiamento di IDENTIFICAZIONE MORFOLOGICA ogni qual volta debba ricorrersi ad un gesto molto comune, ma ben codificato. Ad esempio un saluto interpersonale: ieri quello "romano", oggi il toccamento gomito/gomito, piede/piede (presumo con ineludibile ilarità da parte del diretto interessato: "Sua Maestà, Coronavirus XIX°" - Martellante PROPAGANDA mediatica (come si dice oggi H24) in modo che l'esistenza della triade "virus - pericolo - adeguamento di massa" venga costantemente ribadita in tutte le salse con relativo, intimo disagio esistenziale di chi senta di non essersi doverosamente adeguato ad un "diktat" generalizzato e soprattutto, in quanto socialmente dovuto, politicamente corretto. - Diffuso controllo "POLIZIESCO" sia diretto da parte delle forze dell'ordine che tra gli stessi cittadini, indotti a diventare occhiuti censori del proprio simile: in sostanza: ieri l'O.V.R.A, oggi l'O.V.R.A.M. (Opera Vigilanza Repressione Assembramento & Mascherina). Al riguardo, mi permetto di rimandare alla mia recente riflessione sull'argomento, "Il Covid al balcone", pubblicata alle pagine 33-37 del numero 86 di CONFINI - DEMOCRAZIA VIOLENTA. - Apposito corpo "NORMATIVO", ieri assurde leggi razziali, oggi irrazionali decreti sanitari: entrambi emanati naturalmente al solo scopo del "bene supremo" del Paese. Il test tipo "Chernobyl sociale" della nazione sembra dunque essere, almeno per il momento, perfettamente riuscito. Non c'è stata alcuna esplosione, il sistema ha serenamente retto, sessanta milioni di italiani hanno reagito con l'ordine auspicalmente previsto dai manovratori per tutto il tempo di durata dell'esperimento (ovviamente limitato). Ora, una volta scongiurata l'"esplosione" ed accertata sia la reattività che la contemporanea, positiva tenuta dell'intero sistema (diligentemente registrata da chi di dovere ed archiviata a futura memoria) si può, e si deve, passare - ci si augura con successo - alla successiva, ineludibile fase: quella dell'immediata riduzione della turbolenza nucleare della società con opportuno "raffreddamento" del sistema attraverso inserimenti, per restare in metafora, di consistenti "barre di grafite/boro": nella fattispecie, ineludibili, corpose fleboclisi, sia nazionali che europee, di sostegno economico all'intero corpo sociale del paese per riportarne in equilibrio il sistema volontariamente spinto ai limiti della propria fisiologica tenuta. E ciò, allo scopo sperimentale di avvicinarsi il più possibile al punto di rottura senza rischiare tuttavia di perdere il controllo effettivo della situazione. Il seguito, come suole dirsi, alla prossima puntata, ma nel frattempo e per dirla con un ottimo Renzo Arbore "d'antan": "meditate, gente, meditate"! Antonino Provenzano Roma, 9 luglio 2020

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IN MORTE DI UN NEMICO Celebrare gli amici, i "compagni di strada", viene facile. Di loro si dicono le migliori cose, talvolta dribblando la verità, non solo a fini consolatori: se ne parla bene perché in essi ci si rispecchia. Le scelte compiute da chi ci è intellettualmente e sentimentalmente affine in parte riflettono immagini speculari delle nostre vite vissute. La cosa, invece, si fa complicata quando si tratta di nemici. A fare il tipo cavalleresco quando si ha la certezza che il nemico è scomparso per sempre e non potrà più nuocere non comporta fatica. Siamo tutti prodighi di buoni sentimenti al cospetto della morte degli altri. Ma il più delle volte è ipocrisia. Eppure, vi sono momenti nei quali bisogna avere il coraggio di piegare la testa in segno di sincero cordoglio davanti alla salma di un nemico per onorarne l'umana qualità consegnata alla memoria dei sopravvissuti. Fu così quando Giorgio Almirante si recò a "Botteghe Oscure" per rendere omaggio al defunto Enrico Berlinguer, un nemico politico combattuto ma rispettato. E oggi tocca lo stesso destino al corpo esanime di una nemica irriducibile della destra: Rossana Rossanda. La Ragazza del secolo scorso, come lei stessa si era definita titolando un'autobiografia pubblicata nel 2005, è stata un pezzo della storia del comunismo italiano. Partigiana, dirigente del Pci, amministratrice locale e poi deputata in Parlamento, se dovessimo tratteggiarne il carattere con un aggettivo quello sarebbe: intransigente. È al rigore intellettuale che si lega il ricordo della vivace militante di partito: la coraggiosa che compie scelte radicali, di rottura, pur di rimanere coerente con la propria visione del comunismo. Nel 1969 fu cacciata dal Pci anche per il sostegno dato alle rivolte operaie e studentesche e ai movimenti della sinistra extraparlamentare. Rossana Rossanda, da "ingraiana" (aderente alla corrente di Pietro Ingrao) dell'ala movimentista del Pci, insieme a Lucio Magri, Valentino Parlato, Aldo Natoli, Lidia Menapace, assunse posizioni fortemente critiche verso l'Unione Sovietica, in particolare di condanna per la brutale repressione della Primavera di Praga, seguita all'invasione militare della Cecoslovacchia nel 1968. La pubblicazione di un articolo sulla rivista "Il Manifesto", fondata insieme a Lucio Magri, dal titolo "Praga è sola" determinò la radiazione dal partito con l'accusa di frazionismo. Fu lei, la donna che Palmiro Togliatti aveva voluto alla guida della strategica sezione cultura del Partito, che negli Anni Sessanta provò a introdurre innovazioni rivoluzionarie nell'impianto ideologico del comunismo italiano. Con scarsi esiti, perché dovette fare i conti con un partito non ancora pronto ad affrancarsi dai contenuti valoriali, "antropologicamente" introiettati, della


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cultura patriarcale da sempre egemone in Italia. Un esempio. La Rossanda, negli anni Sessanta, si fece promotrice di un convegno di partito sul tema della famiglia. Serviva per esporre la tesi che l'istituto familiare" non era un apparato ideologico dello stato, era la griglia dalla quale tutti gli apparati passavano". Oggi la si definirebbe una fuga in avanti che il Pci non era in grado di sostenere. Tant'è, come ricorda la stessa Rossanda nel libro di memorie, che furono mandati da "Botteghe oscure" Emilio Sereni e Nilde Jotti a metterci una pezza, sconfessando la sua linea troppo avanzata. Per inciso, l'episodio denota quanto la verità venga manipolata dagli epigoni "dem" del comunismo nostrano. La cosmesi storica restituisce oggi una falsa immagine del gruppo dirigente comunista dell'epoca togliattiana, chiuso a testuggine al cambiamento e al riposizionamento su obiettivi eterodossi di lotta per la conquista dell'egemonia. Lo storytelling degli odierni progressisti i dirigenti del Pci li racconta tutti evoluti e moderni, quando invece erano retrogradi e succubi di un'ideologia dogmatica e intollerante. Per intenderci, quando la Rossanda fu radiata dal partito non fu certo l'allora dirigente Giorgio Napolitano a difenderla. Lo stesso Napolitano che una prematura agiografia parecchio disinvolta descrive come una sorta di liberal anglosassone capitato per caso dalle parti di Botteghe Oscure. Ma l'intransigenza della Rossanda non fece sconti a nessuno. Come aveva criticato il socialismo reale enfatizzando la novità dei movimenti di lotta del Sessantotto, con altrettanta schiettezza e realismo denunciò, in un articolo divenuto storico, il nesso tra la visione stalinista della lotta di classe e il terrorismo delle Brigate Rosse materializzatosi attraverso l'adozione dei medesimi stilemi del veterocomunismo. Il 23 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, sul Manifesto compare un corsivo a sua firma dal titolo "Il discorso sulla Dc". Nell'analizzare la miopia dei partiti operai che avevano abbassato la guardia nella critica alla Democrazia Cristiana e nel contempo non riuscivano a cogliere il legame che allineava su un comune piano d'azione poteri imperialisti, capitale privato e statale, Stato, partiti, confessionalismo, connessione la cui messa a fuoco sarà invece la novità delle lotte del Sessantotto, la Rossanda rivela una verità sulla genesi del terrorismo brigatista che nessuno, neanche a destra, fino a quel momento aveva osato svelare. Scrive: "In verità, chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l'album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria". E aggiunge:" Il mondo imparavamo allora - è diviso in due. Da una parte sta l'imperialismo, dall'altra il socialismo. L'imperialismo agisce come centrale unica del capitale monopolistico internazionale. Gli stati erano "il comitato d'affari" locale dell'imperialismo internazionale. In Italia il partito di fiducia l'espressione è di Togliatti - ne era la dc. In questo quadro, appena meno rozzo, e fortunatamente riequilibrato dalla "doppiezza", cioè dall'intuizione del partito nuovo, la lettura di Gramsci, una pratica di massa diversa, crebbe il militarismo comunista fino agli anni cinquanta". Grazie a lei è stato possibile riannodare quel filo rosso che dagli anni della Resistenza arriva fino all'esplosione del fenomeno terrorista. Grazie a quelle parole, coraggiose, scritte in un momento

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particolarmente delicato della storia della Repubblica si è fatta piazza pulita di tutti i tentativi depistatori sulla matrice, e sui mandanti morali, del brigatismo. Ma i ringraziamenti terminano qui. Per il resto, il complesso delle idee della Rossanda ci resta totalmente ostico. Nulla di quello che ha scritto e preconizzato ci convince. Soprattutto la sua idea di femminismo che è stata la pietra angolare della costruzione socio-culturale di genere che oggi la sinistra prova a introdurre nell'Ordinamento giuridico italiano declassando l'identità sessuale a optional, modificabile a piacimento in qualsiasi momento dell'esistenza individuale. Abbiamo avversato l'idea, da lei fortemente spinta, della negazione radicale della missione tradizionale delle istituzioni educative. Non abbiamo condiviso la sua visione palingenetica del Sessantotto. Non ci ha convinto la sua interpretazione della funzione della sinistra sublimata in una "morale dell'uguaglianza". Due parole -morale e uguaglianza- che messe insieme ci provocano l'orticaria. Come non abbiamo mai apprezzato il tentativo di presentare al mondo occidentale, giudicato corrotto dal potere dell'imperialismo capitalista, una versione edibile dell'ideologia comunista, una volta ripulita della sua sostanza stalinista e autoritaria. Se le sue idee meritano di essere combattute fino in fondo, la caratura della sua intransigenza intellettuale reclama rispetto. E solo di fronte a questa, che è una storia di coerenza, leviamo il cappello. Cristofaro Sola


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EROI DEL NOSTRO TEMPO: ROBERT BILOT INCIPIT Beati i popoli che possono contare sul sacrificio e sull'impegno degli eroi, perché non vi è popolo, su questo pianeta, che non abbia bisogno di loro. Con buona pace di Brecht, che asseriva il contrario. I FATTI La Taft Stettinius & Hollister è uno di quei megagalattici studi legali che si trovano solo negli USA, con sede primaria a Cincinnati, nell'Ohio, undici sedi periferiche e oltre seicento avvocati associati. L'attività legale è svolta precipuamente al servizio delle grandi aziende, in particolare quelle chimiche. Nel 1998 entra a far parte dello studio Robert Bilott, trentatreenne, figlio di un militare che, come tutti i militari di carriera, è soggetto a frequenti trasferimenti. Robert cambia ben otto scuole prima di diplomarsi a Fairborn, nell'Ohio, condizione che influisce non poco sul suo carattere. Dopo aver conseguito la laurea in Scienze politiche, in Florida, nel 1990 ottiene la specializzazione per l'esercizio dell'attività legale presso il Michael E. Moritz College of Law, prestigiosa scuola di diritto pubblico con sede a Columbus, capitale dell'Ohio. Un giorno Robert riceve la visita del contadino Wilbur Tennant, conoscente di sua nonna, il quale gli chiede di indagare sulla morte di centonovanta mucche a Parkersburg, in Virginia Occidentale. Tennant sospetta che le mucche si siano ammalate bevendo l'acqua contaminata dai rifiuti tossici della società chimica DuPont. Robert visita la fattoria e scopre che i capi di bestiame sono morti con condizioni mediche insolite: organi gonfi, denti anneriti e tumori. Si rivolge, pertanto, all'amico e collega Phil Donnelly, che lavora per la DuPont, il quale fa lo gnorri, promettendogli, però, che avrebbe effettuato degli accertamenti. Robert, non senza fatica in virtù della riluttanza dei capi, preoccupati di attaccare un'azienda tanto potente, intenta una piccola causa al solo fine di ottenere informazioni ufficiali sulle sostanze chimiche scaricate nei corsi d'acqua. Il rapporto dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente, però, non rivela nulla di anomalo e quindi Robert intuisce che le sostanze tossiche non sono regolamentate, il che consente il loro improprio utilizzo senza problemi. La reazione scomposta di Donnelly, alla richiesta di più chiare spiegazioni, gli conferma i sospetti. Il vertice della multinazionale, con la cinica e ben conclamata condotta di chi sia aduso ad arricchirsi sulla pelle del prossimo, tenta di bloccare le iniziative del legale, inviandogli centinaia di scatole piene di documenti: l'intento è quello di dimostrare

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volontà collaborativa e, nello stesso tempo, indurlo a desistere spaventandolo con la mole enorme di documenti da consultare. Robert, però, non demorde e si dedica alla certosina lettura dei documenti, trovando numerosi riferimenti a una sostanza chimica definita "PFOA", della quale non vi è traccia nei testi scientifici e in rete. Solo dopo accurate indagini scopre che si tratta dell'acido perfluoroottanoico, necessario per la preparazione del teflon, a sua volta utilizzato per la produzione delle pentole antiaderenti. L'acido e i suoi composti, se ingeriti, si accumulano lentamente nell'organismo, generando tumori e altre malattie gravi, come ben noto alla DuPont sin dagli anni settanta del secolo scorso, senza però che tale letale scoperta, tenuta ignominiosamente segreta, ne abbia determinato la messa al bando. Non solo: oltre a contribuire alla produzione delle padelle antiaderenti, dannosissime per la salute, l'azienda continua a smaltire centinaia di barili di fango tossico nei corsi d'acqua dell'area, tutti affluenti dell'imponente fiume Ohio, a sua volta affluente del Mississippi. Anche i coniugi Tennant, intanto, si ammalano di cancro e dopo qualche tempo Wilbur, purtroppo, paga con la vita l'immorale condotta della multinazionale. Robert invia le prove al Dipartimento di Giustizia e all'EPA e quest'ultimo ente commina alla DuPont una multa ridicola per un'azienda di quella portata, colpevole di così gravi reati: 16,5 milioni di dollari. (Fatturato annuo medio intorno ai 21 miliardi di dollari; 35mila dipendenti). Lo stress per il duro lavoro svolto, intanto, incomincia a minare seriamente la salute del tenace avvocato, al quale, oramai, non sfugge il criminale cinismo con il quale vengono trattate decine di migliaia di persone, destinate ad ammalarsi progressivamente, in modo irreversibile. Decide, pertanto, di chiedere il monitoraggio medico per tutti loro, promuovendo una class action. Continuando ad agire senza scrupoli, la DuPont replica con una lettera rassicurante, minimizzando gli effetti deleteri del PFOA. Gli avvocati della multinazionale, infatti, con artifizi concepiti ad arte, cercano di giungere alla prescrizione del processo, in modo da consentire agli assistiti di continuare serenamente la letale attività produttiva. Dai documenti analizzati, Robert aveva scoperto la concentrazione massima di acido che poteva essere diluita nell'acqua senza procurare danni, stabilita proprio dai chimici della DuPont. Al processo, però, con l'ausilio di una scienziata corrotta, gli avvocati dell'azienda dichiarano che, grazie a studi successivi, la soglia di sicurezza è stata elevata di ben 150 particelle! Una vera mostruosità, in quanto si partiva da una sola particella per una certa quantità di acqua, già di per sé al limite della soglia di sopportabilità. La vicenda, finalmente, conquista la ribalta della cronaca nazionale e la DuPont accetta di patteggiare un risarcimento di settanta milioni di dollari, sempre bazzecole per una azienda di quella portata. Per legge, inoltre, è tenuta a effettuare un monitoraggio medico solo se gli scienziati dimostrano che il PFOA causa i disturbi e così viene nominata una commissione scientifica indipendente, con il compito di analizzare gli elementi chimici utilizzati dall'azienda e verificarne l'eventuale pericolosità per la salute pubblica. Servono anche i dati dei cittadini e Robert induce la gente del posto a sottoporsi alle analisi del sangue, condizione ineludibile per ottenere il risarcimento:


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circa 70.000 persone accettano di sottoporsi al prelievo. Ancora una volta, però, il forte potere corruttivo della DuPont incide pesantemente sull'attività di verifica e così passano sette anni senza che nulla accade. Robert è sempre più isolato e la salute ne risente. Giunge più gradita che mai, quindi, la telefonata di una componente del team incaricato di effettuare la valutazione scientifica, che gli riferisce i risultati: il PFOA causa tumori multipli e altre gravi malattie. La DuPont sembrerebbe all'angolo, ma, grazie anche al sostegno del governo e dei poteri forti, ritratta l'accordo. In pratica, dopo sette anni di attesa, appurate le responsabilità aziendali, vi è il serio rischio che tutto venga affossato e i settanta milioni di dollari patteggiati restino lettera morta. Robert, a questo punto, agguerrito più che mai, decide di promuovere delle singole azioni legali contro il colosso aziendale e ben 3.535 cittadini aderiscono all'iniziativa. Siamo nel 2000 e, all'inizio del processo, il giudice non può esimersi da una battuta: "Al ritmo di quattro-cinque cause all'anno, non termineremo prima del 2890, se saremo fortunati". La determinazione di un indomito "eroe", però ha il sopravvento: nella prima causa Robert ottiene un risarcimento di 1.600.000 dollari; nella seconda 5.600.000 dollari; nella terza 12.500.000 dollari. La DuPont, a quel punto, capisce che ancora una volta Davide ha sconfitto Golia e si arrende, chiudendo tutte le restanti cause con un risarcimento di 670.700.000 dollari. La cifra, ancorché cospicua, non è certo tale da impressionare l'azienda, ma comunque serve a dare un po' di sollievo alle tante vittime. Il PFOA è presente nel sangue di ogni essere vivente del pianeta e grazie al lavoro di Robert Bilott sono nate molte organizzazioni che si battono per bandirlo dai cicli produttivi, insieme con le altre sostanze tossiche. A distanza di venti anni dall'inizio della battaglia, Robert, più agguerrito che mai, continua ancora a lottare: nel 2018 ha presentato una class action chiedendo un risarcimento a favore di "tutti" i cittadini degli USA da parte delle aziende 3M, DuPont de Nemours. La vertenza è in itinere e si può ben immaginare quanto possa essere difficile vincere anche questa partita. Ma è bello sognare. IL FILM Il 20 febbraio scorso è uscito in Italia il film "Cattive acque", diretto da Todd Hayne, con Mark Ruffalo nei panni di Robert Bilott. Nelle prime due settimane di programmazione ha incassato la miseria di 445 mila euro, il che vuol dire che è stato visto da non più di sessantamila persone. Non può essere addotta a scusante la chiusura dei cinematografi a causa del Covid-19, stabilita l'8 marzo, perché in quindici giorni i cinepattoni e altri filmetti insulsi sono capaci di incassare anche 30-40 milioni di euro. La disaffezione (gravissima) del pubblico italiano nei confronti del cinema d'autore e del cinemainchiesta è storia vecchia ed è inutile ribadirla. Il film è attualmente in programmazione sulla piattaforma Sky e merita davvero di essere visto da quante più persone possibile. Sarebbe il caso, poi, di effettuare un sopralluogo nella credenza, perché in circolazione vi sono ancora tante padelle realizzate con teflon e sarebbe il caso di smaltirle, avendo l'accortezza di

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considerarle rifiuti speciali. Attenzione alla "disinformazione" che, soprattutto in rete, abbonda. Con l'occasione, poi, sarebbe anche il caso di informarsi adeguatamente sui cibi spazzatura e pericolosi e monitorare accuratamente la dispensa, che sicuramente ne conterrà a iosa. Possa essere questo, quindi, l'inizio di un percorso di ravvedimento: le multinazionali sono senz'altro dirette da soggetti senza scrupoli, ma se noi ci facciamo avvelenare in allegria, da vittime ci trasformiamo in complici. Complici molto stupidi, tra l'altro. Robert Bilott da venti anni si sta sacrificando per tutti noi. Forse è il caso di aiutarlo ad aiutarci. Lino Lavorgna


DA LEGGERE

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GEOPOLITICA

Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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