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Web-magazine di prospezione sul futuro

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Idee & oltre

EUROPA ALLA DERIVA?

Numero 71 Febbraio 2019


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 71 - Febbraio 2019 Anno XXI

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Francesco Diacceto Michele Di Iorio Gianni Falcone Roberta Forte Giny Pièrre Kadosh Lino Lavorgna Sara Lodi Antonino Provenzano Angelo Romano Cristofaro Sola Andrea Torresi +

Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

LA “LEGITTIMA DIFESA” DEI POPOLI Che esista un diritto naturale degli individui alla difesa è pacifico fin dalla notte dei tempi. A tutte le latitudini ed in ogni epoca l'uomo libero, aggredito proditoriamente, ha goduto del sacrosanto diritto (e dovere verso coloro della cui incolumità fosse stato responsabile) di difendersi. Difesa che non significa necessariamente farsi giustizia da sé. Persino nell'Italia contemporanea, nonostante l'avvicendarsi di tanti governi di sinistra, ancora sussiste nell'ordinamento un diritto alla legittima difesa sia pure fortemente circoscritto. Forse il governo in carica riuscirà a rafforzarlo, almeno in parte. Lo stesso diritto, in misura enormemente rafforzata, sussiste per i popoli che, per tutelarlo, si dotano di eserciti, agenzie informative, guardie di confine e forze dell'ordine. Basta frequentare un qualunque aeroporto per rendersi conto di quanti sforzi si compiano per evitare l’"import/export" di persone o sostanze pericolose o indesiderabili. Ogni viaggiatore, pur dotato di documento di identità e regolare visto di ingresso per il Paese di destinazione, se vuole viaggiare è costretto alla spoliazione dei metalli, a "beccarsi" un piccola dose di radiazioni da scanner, a farsi radiografare i bagagli e, a campione, a sottoporsi ad oscuri test "epidermici". Inoltre, è costretto a rinunciare a portare con sé tutta una nutrita serie di beni ritenuti "pericolosi" compresa l'acqua ed una modica quantità di crema per le emorroidi. Come se non bastasse, mettendo piede in un aeroporto si espone anche ad un alto rischio di aggressione virale. Ora se ogni viaggiatore "regolare", a prescindere da nazionalità, razza, sesso e religione, deve sottostare a tali spiacevoli regole nel nome della sicurezza, ossia della legittima difesa di ogni nazione di destinazione non si comprende perché mai dovrebbe essere consentito a soggetti pervicacemente determinati a forzare i confini di un Paese e le sue regole di accoglienza di immigrare illegalmente, senza neanche l'attenuante di fuggire da una guerra. Pur di perseguire il disegno di entrare a forza in un altro Paese (in casa d'altri), guidati dal richiamo delle note di ancestrali tam-tam convertiti alle frequenze del 3 e 4G, in centinaia di migliaia sono pronti a pagare forti somme non a compagnie di viaggio, ma a trafficanti specializzati nella violazione dei confini altrui e nel contrabbando di massa ed a sfidare la sorte, a giocarsi anche, all'occorrenza, il tutto per tutto pur di raggiungere la loro meta, una meta che è spesso solo un tragico miraggio. Quanti degli italiani che hanno voluto o dovuto migrare dopo l'unità d'Italia, si sono mai sognati di entrare da clandestini negli Stati Uniti, in Belgio, in Australia, in Sudamerica. Mai uno solo.


EDITORIALE

Tutto l'Occidente, Europa molle in testa, è accerchiato da masse che premono sui confini determinate a violarli, spesso con la complicità di "anime belle" che agognano alla sostituzione etnica, che scricchiolano sotto un malinteso senso di colpa che le induce a farsi complici degli invasori per espiare, per riparare presunti "secoli di sfruttamento". Come se la storia non si fosse sempre alimentata del sopravvento dei forti sui deboli. Assiri contro Babilonesi, Ixos contro egiziani, Greci contro greci, greci contro Persiani, Macedoni contro i popoli d'Asia, Roma contro il mondo conosciuto, Cristiani contro musulmani, Mongoli contro asiatici, Spagnoli contro Indios, Inglesi contro nativi americani e asiatici, Arabi contro negri, Francesi contro tutti, Tedeschi contro tutti, Sovietici contro tutti, Statunitensi sopra tutti. Su questo punto, sulla difesa o meno dei comuni confini, quel poco di Europa che si è finora riusciti ad costruire nei settant'anni dalla fine della guerra rischia di implodere, di polverizzarsi per poi andare alla deriva. Che senso avrebbe rinunciare alla difesa di un perimetro comune, finito e definito, per concentrarsi, ciascuno con scarsi mezzi e senza economie di scala, su quella delle singole frontiere interne di ogni Stato. Che follia! Ma l'Europa ne è ancora capace, come si capisce dalla assurda piega che va prendendo la cosiddetta Brexit, come si capisce dalla duplice intesa Francia - Germania, come si intuisce dal serpeggiante egoismo competitivo che ne ottunde le migliori menti. Angelo Romano

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EUROPA ALLA DERIVA? L'Europa è alla deriva e lo si può scrivere senza punto interrogativo. (Chiedo venia agli "evoluzionisti" del linguaggio, ma trovo orribile l'espressione "punto di domanda", alla pari di tante altre moderne forzature sintattiche che, dietro la maschera del nuovo che avanza, lasciano solo trapelare un difficile rapporto con le vecchie e chiare regole). Quando, poi, l'Europa non è stata alla deriva? Impero Romano, Impero Carolingio, successivi e variegati conati imperialistici, guerre mondiali, progetti federativi post-bellici che antepongono gli interessi economici all'unione politica, evidenziano una continua disgregazione continentale, solo a tratti labilmente fronteggiata da singoli individui, non sempre definibili "spiriti eletti", autori di progetti destinati a grossolani fallimenti, come meglio vedremo in seguito. L'Europa, mentre da un lato "illuminava il mondo" grazie alle sue eccellenze in tutti i campi dello scibile umano, dall'altro si è degradata, secolo dopo secolo, fino a trasformarsi in una vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli, contraendo le peggiori infezioni ideologiche, per lo più culminanti in "ismo", volendo sorvolare sulle altre: rivolte medievali dei Comuni; decadenti e oscene monarchie nazionali; massoneria; esaltazioni irrazionali delle masse, che spesso hanno preso lucciole per lanterne, scambiando i nemici per amici e viceversa. Come è stato possibile tutto questo? UN PO' DI STORIA Un po' di storia partendo dalla leggenda, non fosse altro per richiamare alla mente un concetto che accomuna tante leggendarie origini, dell'uomo e di luoghi, tutte - diciamo così - "eticamente discutibili". Europa, principessa fenicia, fece perdere la testa a Zeus, che si trasformò in toro, la rapì e la trombò a raffica in quel di Cnosso, rendendola madre di tre figli, Minosse, Radamanto e Serpedonte, poi adottati dal marito mortale e cornuto, Asterione, re di Creta. Il nome "Europa", con il quale furono designati i territori occidentali, avrebbe la sua genesi, pertanto, in uno stupro. La leggenda, infatti, ancora oggi definita con fastidiosa leggerezza "il ratto di Europa", genera l'immagine di una donna spaventata, presaga di essere preda di uno stupratore. Tanti grandi pittori, invece, con un approccio più realistico, hanno raffigurato la giovane principessa sorridente e ben felice di volare in groppa al toro. Se è lecito ritenere, infatti, che nessuna donna saprebbe resistere alle avances di tipi come Brad Bitt, George Clooney o Cristiano Ronaldo, stendendo un velo pietoso su quelle che la danno allegramente anche a porci bavosi, anche vegliardi, purché detentori di un qualche potere, risulta davvero difficile credere che ve ne fosse


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una capace di dire "no" a un DIO. Il primo documento scritto in cui compare il termine Europa, in realtà, risale a un poemetto greco dell'800 a.C., denominato "Inno ad Apollo", nel quale il poliedrico Dio afferma testualmente: "Qui ho deciso di costruire un tempio glorioso, un oracolo per gli uomini, e qui porteranno offerte pubbliche coloro i quali vivono nel ricco Peloponneso, coloro che vivono in Europa". Trecento anni dopo, grazie al geografo Ecate di Mileto, si ha la distinzione netta tra Asia in Oriente ed Europa in Occidente. IL CONCETTO DI EUROPA NELL'ANTICHITÁ Quando si parla di progetti federativi, soprattutto a soggetti intrisi del più malsano nazionalismo, una delle obiezioni ricorrenti è la differenza sostanziale che caratterizza i popoli europei, a loro dire impossibile da armonizzare. Inconsapevolmente, di fatto, compiono un salto indietro nel tempo di ben XX secoli, perché già Strabone distingueva gli europei delle pianure, pacifici e inclini allo studio delle arti, dagli europei montanari, forti e propensi alla guerra. Contrariamente a quanto asserito da molti storici, poi, non si può parlare di Roma come elemento di coesione tra i popoli assoggettati: il termine "assoggettato", di fatto, stride fortemente se associato a "coesione", che invece indica il legame profondo da cui deriva univocità di sentimenti e di atti. Lo stesso discorso vale per il Cristianesimo, che apparentemente "creò un forte legame politico e spirituale tra i popoli", secondo la visione di coloro che amano narrare i fatti storici come avrebbero voluto si fossero verificati, senza tenere conto delle guerre di religione, della Riforma e della Controriforma, dell'Inquisizione, dell'oppressione di interi popoli. DAL XIII AL XVI SECOLO Occorre distinguere bene, pertanto, le azioni dei vari popoli europei, intesi come masse di cittadini e classi dominanti, dalle "visioni e suggestioni" di singoli soggetti, veramente esigui, propositori di una Europa immaginifica, che non ha mai trovato oggettivo riscontro in un progetto politico. Già Dante, nel "De Monarchia", pur nella palese forzatura relativa alla presunta "volontà divina", con la quale aveva giustificato anche l'espansione romana, riserva all'Europa il compito di formare un impero universale destinato "ad una missione comune di ordine, di civiltà e di armonia". Peccato che questo nobile proposito sia stato costantemente smentito dai fatti accaduti negli otto secoli successivi e risulta difficile credere che ciò sia scaturito da una cattiveria di Dio, foriera delle sanguinose lotte intestine e addirittura della netta contrapposizione ideologica tra i suoi credenti, molti dei quali preferirono seguire il teologo di Eisleben che, con novantacinque tesi, smontò una parte consistente della dottrina cristiana. Contemporaneo di Martin Lutero era un bizzarro teologo olandese, il cui pensiero, non dissimile da quello dantesco per quanto concerne l'importanza tributata alla componente religiosa, esalta il concetto di patria comune per l'Europa cristiana: "Non gli inglesi, né tedeschi, né francesi; perché ci dividono questi stolti nomi, quando il nome di Cristo ci ricongiunge?" Nessuno, ovviamente, diede ascolto a Erasmo da Rotterdam, lasciandolo nella triste condizione di chiunque si senta un incompreso, per di più esasperata dai giudizi tranchant di chi, non avendo la capacità di vedere il grigio, sceglie

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solo tra il bianco e il nero. Erasmo, invece, pur restando cattolico, condivideva molti punti della riforma protestante, della quale però non accettava quello cruciale, relativo alla negazione dell'esistenza del libero arbitrio: condizione ideale per essere inviso sia ai cattolici, che lo consideravano luterano, sia ai luterani, che non tolleravano la sua volontà di mantenersi neutrale per conferire un impulso più autorevole alla riforma della religione, scegliendo il meglio delle due parti. Quando le posizioni di qualcuno sono di difficile comprensione si fa più presto a cancellarle del tutto e così avvenne con Erasmo, i cui libri furono dati alle fiamme a Milano, nel 1543, insieme con quelli di Lutero. Per cinque secoli di lui si sono interessati solo eruditi studiosi ed accademici; nel 1994, però, un certo Silvio Berlusconi, affermando che si era ispirato a lui quando decise di entrare in politica, perché "le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia", lo ridestò dall'oblio, inducendo il popolino che incantò con il suo istrionismo a fare incetta de "L'elogio della follia". Previgentemente, però, aveva provveduto ad acquistare la casa editrice che deteneva i diritti dell'opera (Einaudi), in modo da essere il primo beneficiario del massiccio successo editoriale. IL XVII SECOLO Tra il XVI e il XVII secolo l'Europa precipitò in un periodo ancora più buio dei precedenti, caratterizzato da una lunga guerra che, dopo l'iniziale contrasto tra stati protestanti e cattolici, vide coinvolte quasi tutte le grandi potenze e fece riemergere la rivalità franco-asburgica per l'egemonia continentale. Nel 1568 iniziò la guerra tra le sette province unite, che oggi costituiscono il territorio dei Paesi Bassi, e la Spagna; nel 1618, poi, il conflitto si estese al resto audacia temeraria igiene spirituale d'Europa (guerra dei trenta anni). La pace di Vestfalia, nel 1648, pose fine a ottanta anni di macelleria continentale, segnati da non meno di dodici milioni di vittime, tra militari e civili. Nondimeno fu proprio in quel periodo che, il visionario di turno, concepì il "GRAN DISEGNO". Massimiliano di Béthune (1559-1641), duca di Sully, già potente ministro delle finanze, alla morte di Re Enrico IV di Borbone, nel 1610, fu nominato membro del Consiglio di reggenza. Ben presto, però, entrò in contrasto con la vedova del sovrano, Maria de' Medici, la cui politica estera, del tutto opposta a quella del defunto marito (la cui morte molti storici imputano proprio a lei), fu improntata al riavvicinamento con la Spagna, che favorì addirittura con due matrimoni: il figlio Luigi con l'infanta Anna e la figlia Elisabetta con l'infante Filippo, che divenne re di Spagna nel 1621. Costretto alle dimissioni, il duca si ritirò nel suo stupendo Hôtel de Sully, non distante dalla Piazza della Bastiglia, ed ivi redasse il progetto federativo, conferendone però la paternità a Enrico IV, non si sa se dicendo la verità o mentendo per rendere più esaltante la figura di un sovrano che, evidentemente, amava molto. Aggiunse anche che Enrico IV aveva elaborato il progetto grazie a un'idea della regina Elisabetta d'Inghilterra, da lui incontrata nel 1601. Il "Gran Disegno" consisteva in un Consiglio d'Europa composto da cinque monarchie elettive (Sacro Romano Impero Germanico, Stati Pontifici, Polonia, Ungheria, Boemia) e quattro repubbliche sovrane (Venezia, Italia, Svizzera e Belgio). I propositi si possono riassumere nella volontà di dirimere le controversie tra gli Stati e i contrasti interni tra il Sovrano e il popolo. Il tutto condito


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dalla necessità di elaborare progetti comuni per il perfezionamento della Repubblica Cristiana. Nel 1693, William Penn (1644-1718), con il suo "Essay towards the Present and Future Peace of Europe by the Establishment of an European Diet, Parliament or Estates", propose ai sovrani d'Europa un'assemblea legislativa con il compito di emanare norme giuridiche vincolanti per gli Stati aderenti, che prevedeva sanzioni punitive nei confronti dei sovrani inadempienti. Anche il suo progetto era ancorato al primato della Cristianità, ma non difettava di principi senz'altro forieri di un serio processo unitario: eliminazione delle spese di guerra e ovviamente risparmio di vite umane (l'unione avrebbe annullato sul nascere ogni possibile conflitto); possibilità di viaggiare tra i vari Stati con un semplice lasciapassare: nasce così il prototipo del futuro passaporto. IL XVIII SECOLO Nel XVIII secolo il primato dei progetti federativi destinati a restare lettera morta, in un continente che continua a scannarsi in guerre fratricide, ritornò alla Francia grazie al "Memoire pour rendre la paix perpetuelle" dell'abate Ireneo Castel di Saint-Pierre (1658-1748), che riprese il "Gran Disegno" di Enrico IV (o del Duca di Sully), perfezionandolo e arricchendolo con una nutrita serie di articoli, tutti protesi a creare una più marcata coesione tra i popoli e a favorire "la pace perpetua". Ne ometto l'articolata esposizione per amor di sintesi, rimandando il lettore agli "Scritti politici" di Jean-Jacques Rousseau, che all'abate e alle sue tesi dedica ampio spazio, mettendone in risalto i limiti, l'ingenuità congenita e l'impossibilità di una pratica attuazione, considerato che "in Europa c'è troppa gente interessata alla guerra in vista di personali profitti. Una pace perpetua non farebbe che estendere gli stessi vantaggi economici a tutti, mentre ognuno è invece sempre alla ricerca di beni esclusivi". Un cardinale la sa più lunga di un abate e ciò traspare evidente nel pensiero di Giulio Alberoni (1664-1752), che paventa l'unione spirituale del Continente e ne parla nel suo studio intitolato "DIETA PERPETUA PER MANTENERE LA PUBBLICA TRANQUILLITÀ". Punto cruciale del suo pensiero è che non potrà esservi pace in Europa sino a quando i singoli Stati non avranno soddisfatto i loro appetiti espansionistici. Ergo: occorreva liquidare in fretta l'Impero ottomano e dividere i territori tra i vari Stati europei. Il pragmatismo cristiano, come sempre, è ineguagliabile, tanto meglio se suffragato da dati di fatto oggettivi: "I turchi non possiedono nel mondo un piede di terreno che non sia stato conquistato a forza di sacrilegi, imposture, minacce e oppressioni". Pure Dio Onnipotente avrebbe dovuto chinare il capo al cospetto dei ragionamenti del suo servo terreno che, tra l'altro, con lungimiranza degna di un raffinato stratega, nella concezione del nuovo equilibrio europeo non assegnò al Papa nemmeno uno straccio di territorio eventualmente strappato ai turchi: voleva rappacificare Cattolici e Protestanti all'insegna di un nuovo spirito di tolleranza e quindi era necessario "porre gli interessi de' Protestanti ad una condizione medesima con li Cattolici", con quanta gioia per il pontefice e quante effettive possibilità di successo è facilmente intuibile. L'ultimo visionario del XVIII secolo è l'abate fiorentino Scipione Piattoli (1749-1809), che fece

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fortuna in Polonia come influente consigliere di re Stanislao. Soggetto quanto mai singolare e di difficile decantazione, vede ancora oggi molti storici, forse con ragione, mettere in dubbio la sua effettiva adesione all'ordine degli Scolopi. In effetti la vocazione religiosa sembra in netto contrasto con un marcato laicismo e l'adesione alla massoneria. Fu anche un importante esponente dell'illuminismo polacco, che però si differenziava sostanzialmente da quello diffusosi nel resto d'Europa. Legatissimo alla corte imperiale russa, ricevette dallo Zar Alessandro l'incarico di trovare una soluzione definitiva al problema europeo. Non è che avesse molto spazio di manovra senza far venire l'ulcera al committente e pensò bene, quindi, di redigere due progetti che assegnavano alla Russia il ruolo primario nel nuovo assetto politicogeografico: considerato che la naturale zona d'influenza era l'Asia, poteva reggere la politica generale d'Europa garantendo un equilibrio sostanziale in virtù del fatto che non aveva interessi diretti da difendere. Ovviamente era il primo a considerare una grande bufala ciò che aveva scritto, ma occorre avere una statura non comune per rinunciare a cuor leggero alla pagnotta assicurata da un imperatore. E che imperatore, poi! VISIONI EUROPEE POST CONGRESSO DI VIENNA Il XIX secolo si apre con l'Europa che deve riprendersi dal tornado napoleonico, i cui guasti furono discussi nel famoso Congresso di Vienna, che avrebbe dovuto sancire il principio dell'equilibrio e della pace e che, invece, vide solo prevalere le rispettive rivalità, con forte rigurgito di nazionalismo. La Francia, in tema di nuove idee per l'Europa elaborate da singoli soggetti, e quindi destinate adtemeraria arricchire solo le pagine dei libri di storia, si riprese prepotentemente la audacia igiene spirituale scena con un filotto portentoso, ancorché velleitario e destinato a perdersi nel tempo, come le famose lacrime nella pioggia. Il conte Claude-Henri de Saint Simon (1760-1825), nel 1814 elaborò un progetto che intitolò "DE LA REORGANISATION DE LA SOCIETÉ EUROPEENNE", sviluppando quello dell'abate di Saint-Pierre, del quale mise in luce i pregi e i difetti, ricalcando quanto già fatto da Rousseau. Riteneva impossibile convincere i sovrani ad unirsi in una confederazione che limitasse il loro potere, essendo tutti pervasi da logiche egoistiche. Con un'alchimia normativa farraginosa e lacunosa, e quindi inevitabilmente destinata al fallimento, affermò che l'unione europea poteva realizzarsi conferendo a Francia e Spagna il compito di stipulare un accordo fraterno, valido per tutti. Per salvaguardare gli egoismi nazionali ogni stato avrebbe preservato il proprio Parlamento, sia pure riconoscendo la supremazia di un Parlamento generale istituito al di sopra dei governi nazionali e investito del potere di giudicare le loro controversie. Egli stesso si rese conto che un principio enunciato, ancorché valido, per essere recepito ha bisogno di conquistare i cuori prima della mente e spiegò, pertanto, che l'istituzione avrebbe funzionato solo sviluppando una più grande generalità di vedute capace di trasformare il patriottismo nazionale in patriottismo europeo. Il Parlamento europeo prevedeva due camere: della prima avrebbero fatto parte magistrati, negozianti, sapienti e amministratori. "Per ogni milione di uomini in Europa che sappiano leggere e scrivere, dovranno essere mandati alla Camera dei comuni del grande parlamento un negoziante, un dotto, un amministratore e un


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magistrato. Così, supponendo che in Europa vi siano sessanta milioni di persone che sappiano leggere e scrivere, la camera sarà composta di 240 membri". Ciascun parlamentare doveva possedere non meno di 25.000 franchi di rendita in terreni, al fine di garantire la sua piena indipendenza e incorruttibilità, eccezion fatta per coloro che, pur privi di beni, si fossero distinti per talento e ingegno. Al re, posto al vertice del Parlamento europeo, spettava la scelta dei membri che avrebbero composto la Camera dei Pari. Come fare a scegliere il re cui conferire cotanto prestigioso incarico? Non lo sapremo mai perché Saint-Simon rimandò la soluzione a un'opera successiva, che però non scrisse mai. Il pensiero di Saint-Simon, nel suo insieme, non presenta alcun tratto passibile di pratica attuazione e, di fatto, venne stroncato da tutte le correnti sociali. Di lui ha dato una importante e caustica definizione l'urbanista italiano Paolo Sica (1935-1988), nel saggio "Storia dell'urbanistica": "La dottrina sansimoniana diviene la veste filosofica e culturale della tecnocrazia (sia di marca autoritaria che connaturata al liberismo) e questo sarà anche il destino personale di gran parte dei seguaci del maestro". Questo concetto è utile per presentare colui che gli funse da segretario dal 1817 al 1824, per poi tentare di brillare di luce propria. In effetti Auguste Comte è riuscito a conquistarsi il suo posticino nella storia, nonostante avesse indotto e ancora induca milioni di studenti universitari, costretti a studiare le sue astruse e bislacche teorie, a maledire quella guardia reale che, nel 1827, lo salvò dalle gelide acque della Senna, nelle quali si era buttato per porre fini ai suoi giorni, avendo scoperto la deliziosa disponibilità della consorte nei confronti di chiunque le chiedesse di aprire le gambe. Non poteva essere altrimenti, del resto, dal momento che Caroline Massin, di basso ceto sociale ("grisette" in francese), zoccola lo era di mestiere, con postazione fissa nei pressi del Palazzo Reale e tanti clienti rinomati, tra i quali proprio il filosofo positivista, che poi sposò nel 1825. Ai dotti lettori di CONFINI non è il caso di ribadire le sue elucubrazioni dottrinarie e quindi, solo per dovere di cronaca, mi limiterò a citare esclusivamente il progetto federativo, che naturalmente conferiva alla Francia un ruolo prioritario in quanto "centro dell'Europa". Voleva poi istituire una sola flotta militare, una moneta unica e stringere una forte alleanza con l'America. Il più noto europeista del XIX secolo è Victor Hugo, autore di un memorabile discorso all'Assemblea Costituente, il 21 aprile 1849, nella sua veste di Presidente del Congresso della Pace: "L'edificio del futuro si chiamerà, un giorno, Stati Uniti d'Europa. Giorno verrà in cui la guerra sembrerà tanto assurda e tanto impossibile tra Parigi e Londra, tra Pietroburgo e Berlino, tra Vienna e Torino, come oggi lo sarebbe quella tra Ruàn e Amiéns, tra Bopston e Filadelfia. Giorno verrà in cui Francia, Russia, Italia, Inghilterra, Germania o non importa quale altra Nazione del continente, senza perdere le loro qualità peculiari e la loro gloriosa individualità, si fonderanno strettamente in una unità superiore e costituiranno la fraternità europea. Giorno verrà in cui le pallottole e le bombe saranno rimpiazzate dai voti, dovuti al suffragio universale dei popoli. Un Senato sovrano sarà per l'Europa quello che il Parlamento è per l'Inghilterra, la Dieta per la Germania, quello che l'Assemblea legislativa è per la Francia. Giorno verrà in cui si

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vedranno questi due gruppi immensi, gli Stati Uniti d'America, gli Stati Uniti d'Europa, uno di fronte all'altro tendersi la mano attraverso i mari". Belle parole. Prima di passare al XX secolo e ai giorni nostri dedichiamo poche righe, per completezza informativa e senza bisogno di scendere nei dettagli, ai progetti federativi concepiti in Italia, i cui autori, emulando i francesi in tema di autoreferenzialità, a seconda della matrice culturale, conferivano un ruolo guida o alla Chiesa o alla nazione. Antonio Rosmini (1797-1855) fu un convinto assertore di una "società teocratica" che guardava precipuamente a una comunanza morale e religiosa sotto l'egida del Papa, che doveva fungere da guida spirituale e politica. Il ruolo guida spettava all'Italia perché, nel concerto europeo, "fu sempre il migliore e più fedele sostegno del Papato". Emblematica la chiosa: "L'interesse della Religione e della Santa Sede Apostolica vuole che si salvi l'Italia a preferenza di ogni altra nazione". Per Vincenzo Gioberti (1801-1852) la supremazia italiana scaturisce dal Papato: "La dittatura del Pontefice, come capo civile d'Italia e ordinatore d'Europa, è richiesta a fondare le varie Cristianità nazionali". E' l'Italia, quindi, che deve guidare "quella lega di Nazioni che chiamasi Europa". Per Cesare Balbo (17891853), l'Europa costituisce un "tutto, una repubblica complessa da venticinque e trenta secoli in qua". Nel suo libro "Le speranze d'Italia" descrive l'interdipendenza degli Stati europei che, di fatto, costituiscono una unità continentale governata da leggi i cui pilastri sono il diritto internazionale e il Cristianesimo. Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), diplomatico a tutto campo che teme le rivoluzioni in quanto disgregatrici degli assetti da lui ritenuti validi, individua nella Polonia e nel Piemonte, quest'ultimo quale espressione della Nazione italiana, i punti di riferimento per un assetto politico dell'Europa basato sulla pace e sull'equilibrio. La Polonia "antemurale contro il moto lentamente invasore della potenza moscovita" e l'Italia con lo stesso scopo contro la potenza austriaca. Lo spazio tiranno consente solo la citazione di altri personaggi che, a vario titolo, completano il quadro dei "visionari europeisti", ciascuno con la propria ricetta, purtroppo sempre condizionata e quindi inficiata dalla mancanza di una seria progettualità che sancisse un esclusivo primato dell'Europa Unita, senza riferimenti a stati guida: Terenzio Mamiani (17991885); Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888); Gian Domenico Romagnosi (1761-1835); Giuseppe Ferrari (1811-1876). Un discorso a parte meriterebbero Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo, che però non può essere affrontato esaustivamente in questo contesto. IL XX SECOLO Le lacerazioni delle due guerre mondiali crearono i presupposti per una presa di coscienza protesa a tutelare, innanzitutto, la pace. Nel 1946 si riunirono a Hertenstein, in Svizzera, federalisti europei appartenenti a diverse nazioni. Per la prima volta fu affrontato il problema del trasferimento di sovranità a un organismo federale. Nello stesso anno Winston Churchill propose la creazione degli "Stati Uniti d'Europa". I successivi passi, con la nascita della CECA, della CEE, dell'EURATOM, dell'UNIONE EUROPEA, della moneta unica e dei trattati ancora oggi in vigore,


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costituiscono la storia che noi contemporanei abbiamo vissuto direttamente, nel bene (poco) e nel male (tanto). La realtà della vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli la patiamo quotidianamente ed è proprio in virtù di questa realtà che possiamo affermare, serenamente, che l'Europa è alla deriva. E altrettanto serenamente possiamo affermare, alla luce di quanto scritto nelle pagine precedenti, che alla deriva è sempre stata. Una deriva che scaturisce dai limiti della natura umana, che portano l'individuo a considerare come centro del mondo se stesso, il proprio quartiere, la propria città, la propria regione e talvolta, ma non sempre, la nazione nella quale vive. Pensare che la stragrande maggioranza dei cittadini europei possa sentirsi a casa propria, in qualsiasi angolo dell'Europa, come accade a pochi grandi, grandissimi uomini, è mera utopia. I progetti federativi che si sono succeduti nel corso dei secoli oggi ci appaiono quasi tutti patetici e ridicoli, ancorché concepiti da uomini sicuramente colti, ma incapaci di allargare i confini mentali e di conseguenza quelli geografici. Con questo retaggio, dove vogliamo andare? Dietro ogni azione si cela la qualità di chi la pone in essere. E gli uomini che sono al potere oggi, in Europa, li conosciamo. Onestamente, per pensare che un serio progetto federativo possa prendere corpo con loro e che siano capaci di trascinare entusiasticamente settecento milioni di persone verso l'unità politica, occorre avere più fantasia di quella che ha consentito a Tolkien di concepire le sue opere. Cosa accadrà, quindi? La sfera di cristallo non la possiede nessuno, ma è lecito ritenere che l'attuale stagnazione, senza prospettive risolutrici, andrà avanti ancora a lungo, peggiorando gradualmente. Contrariamente al ritornello di una canzonetta degli anni sessanta, cantata da Rita Pavone, "un popolo affamato "non" fa la rivoluzione", ma cerca di tirare a campare. Gli esempi, in tal senso, non mancano. Le prossime elezioni europee daranno sicuramente un forte scossone al canceroso establishment comunitario, ma da qui a sperare che le cose cambieranno in modo radicale, ce ne corre. Negli anni cinquanta del secolo scorso non si è avuto il coraggio di anteporre l'unione politica a quella economica, creando i presupposti per i successivi disastri. Gli europei non erano ancora pronti a ritrovarsi sotto un'unica bandiera, con un presidente, un unico esercito, un governo federale, un parlamento vero dotato di veri poteri. Non erano ancora pronti, insomma, per gli STATI UNITI d'EUROPA e non lo sono neppure ora. Vi è da considerare, altresì, che dal 1941, anno in cui Altiero Spinelli concepì il famoso "Manifesto di Ventotene", vi è stato un lungo periodo di "buio ideologico", che ha visto solo dilatarsi smisuratamente il primato dell'economia sulla politica. Nel manifesto di Spinelli, tra l'altro, la definizione di STATI UNITI d'EUROPA non compare proprio. Occorrerà attendere ben settantadue anni, affinché, nel 2013, un vecchio europeista fondasse un movimento politico denominato "EUROPA NAZIONE", dotandolo del più bel progetto federativo mai concepito nel continente. Più bello proprio perché sancisce il primato dell'Europa, vero faro del mondo, grazie a un organigramma istituzionale che prevede compiutamente la realizzazione degli STATI UNITI d'EUROPA. Uniti nella diversità, certo, perché la storia non si cancella, ma capaci di guardare avanti sorridendosi e tenendosi per mano,

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avendo consapevolezza che, se davvero unita, l'Europa è imbattibile: economicamente e militarmente. Culturalmente non serve scriverlo perché lo è da sempre, nonostante tutto. Sembrerebbe tutto facile, ma così non è, perché quel movimento, creato da un visionario del quale non val la pena nemmeno citare il nome, dovrebbe avere proseliti in tutti i paesi d'Europa e invece può contare solo su un esiguo numero di adepti, al massimo buoni per convegni di alto profilo culturale. Con questi presupposti, di cosa vogliamo parlare? Cara vecchia baldracca, continua pure a puttaneggiare nei nuovi bordelli. Vi sono nuove infezioni che ti aspettano. Sono così virulente che non bastano i profilattici per arginarle. Senza contare che a te, da sempre, piace un sacco infettarti. Nessuna speranza, quindi? No! Continuare a sognare non costa nulla, magari cantando sempre lo stesso ritornello: "Da Praga a Stettino, da Roma a Berlino, un sol grido si leva, un solo grido si leva: Europa, Nazione sarà; Europa, Nazione sarà; Europa, Nazione sarà". Lino Lavorgna


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L’AMBIGUITA’ DELLA TRAMONTANA Questo è il mio secondo articolo in questo numero della rivista e lo voglio sottolineare perché la successiva conoscenza dell'argomento di fondo mi ha portato quasi a sentire un inatteso colpo di vento in una giornata piovosa. Già, perché nel primo pezzo, senza scavare troppo a fondo, la conclusione della malinconia che lascia trasparire è che l'Europa sia alla deriva. Senza punto interrogativo. E non ti aspetti di rispondere ad una domanda sulle sue sorti perché l'hai sempre trattata infarcendo i tuoi scritti di critiche e di rimpianti di ciò che avrebbe potuto essere e che non è. E mai se potrebbe ancora essere quella vagheggiata nelle tue fantasie giovanili, quella che infiammava i teneri animi, quella che faceva premio delle guerre intestine e operava il miracolo di vedere il nemico di un tempo come il fratello dell'oggi e del domani. Ma il colpo di vento ti costringe ad alzare gli occhi al cielo e chiederti, da inesperta della rosa, se le nuvole gravide, sia pur alla lunga, si diraderanno per portare il sereno. E, se ci tieni a saperlo, ti costringe a ricorrere al telefonino, all'applicazione 'meteo' per vedere le previsioni, o al computer per scansionare il relativo sito, quando non alla voce suadente di un Weather Man o Woman. O, se preferisci, ai tanti opinion leader che pensano di aver capito tutto della vita, di conoscere l'animo umano e di prevedere il suo comportamento. Perciò, diciamocela tutta, non è che queste previsioni siano attendibili. Perché il tempo, in quest'ultimi periodi, fa i capricci, un po' come l'economia che non è altro che la risultanza del nostro 'fare', agisca lo Stato o agiscano i singoli. Essa, infatti, è il risultato dinamico e drammatico di mille azioni checché ne dica la Scuola di Vienna o i vati di Wall Street, della Trilateral o della Bilderberg. Così il tempo che non è più prevedibile nemmeno da raffinati modelli matematici: vuoi per i milioni di tonnellate di anidrite carbonica scaricate in atmosfera dalle industrie e dai trasporti nonostante la regolamentazione del Gas emission trading, vuoi per l'abbattimento di milioni di ettari di foresta pluviale amazzonica, vuoi per lo spostamento dell'asse terrestre o vuoi per la concomitanza dei tre fattori. Eh! Sì. Viviamo in un clima (mo' ci vuole) d'incertezze. E tale è la situazione dell'Unione Europea, al pari dell'andamento del tempo e dell'economia. Certo è che se dovessimo rispondere volgendo il capo all'indietro la risposta sarebbe scontata: dell'ultima gestione, quella di Juncker, potremmo dire, ad essere buoni, che è stata crepuscolare, visto l'atteggiamento tenuto di fronte a rilevanti problemi che hanno attentato e attentano la dignità se non il livello di vita di intere popolazioni: i marò, i migranti, la crisi finanziaria, i gap sociali, le problematiche ambientali, gli accordi commerciali, i dazi, sono alcuni dei contorti,

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annosi problemi registrati senza un'azione forte e determinata. Ma, ad esser sincera, non è che le precedenti gestioni, dove più e dove meno, abbiano brillato per iniziative positive. Mi rendo conto che la sua costruzione lascia alquanto a desiderare tutta incentrata sul possibilismo e sulla soggettiva opportunità quando non sul laissez faire. Del resto, i padri fondatori, nella loro filosofia, ne impostarono il cammino con la sintetica, esemplificativa, espressione: come si può, quando si può e con chi si può. E così è stato per i tanti anni intercorsi dalla posa della prima pietra nel '57 a Roma, fino ad arrivare a Maastricht, nel '92, alla stesura del trattato sull'unione monetaria. Durante tutto quel periodo, si può dire che di Europa non è mai morto alcuno. Nemmeno l'introduzione nel '79 dell'elezione a suffragio universale dei parlamentari europei ha spostato il barometro posizionato su calma piatta, non avendo quell'istituzione alcun potere di iniziativa legislativa, lasciata interamente nelle mani della Commissione Esecutiva. Una espressione di popolo che viene subordinata ad una espressione amministrativa. E, per dirla tutta, neppure la dotazione di maggiori poteri al Parlamento con l'Atto Unico dell'86 cambiò la condizione: nessun potere d'iniziativa prima e nessun potere dopo. Si ampliò semplicemente la sfera della sua competenza, ovviamente in seconda battuta. Col '92, tuttavia, s'ingigantisce il potere della Commissione Esecutiva con l'annessione del compito di censurare gli Stati e le loro politiche al fine dichiarato di far rispettare i parametri di bilancio ed è lì che cominciano i dolori. Non sto a ripercorrere tutta la casistica delle doglianze ma, con quel poco di economia che so, voglio ribadire (avendolo sottolineato più volte nel corso della vita della rivista) che non mi è sembrata buona la scelta di varare una moneta unica tra Paesi con economie differenti, senza una politica per uniformare, sia pur alla lunga, tassi, prezzi e fiscalità, senza alcuna considerazione ai fini sociali degli effetti prodotti dal cambio della propria valuta col nascente euro. L'accordo di Schengen, poi, ha dato il colpo decisivo: con la libera circolazione di merci, denaro e persone, senza un'armonizzazione e senza un controllo su tale libertà. Col risultato che mille miliardi di dollari, frutto anche della finanza creativa, stazionano quotidianamente sui mercati finanziari europei, pronti a dirigersi dove maggiore è il lucro da acquisire nel più breve tempo. A danno di risparmiatori, imprese o Stati, non ha importanza. Ed è inutile rimarcare che a distanza di vent'anni dal varo dell'euro, i problemi paventati a suo tempo manifestano, in tutta evidenza, la loro forte minaccia alla tenuta dell'Unione. C'è da rilevare, un po' umoristicamente a dire la verità, che ad inizio d'anno, durante la plenaria di Strasburgo dell'europarlamento per la celebrazione del ventennale l'emanazione della moneta unica, sia Draghi che Juncker hanno affermato che il futuro presenterà, con sempre maggiore frequenza, sfide che difficilmente un Paese potrà affrontare da solo ed io, nella mia pochezza, penso che ambedue siano nel vero. Certo, c'è la comprensibile retorica per la prossima conclusione del loro incarico ma, soprattutto Draghi, ha dimostrato che senza l'intervento della BCE, alcuni Paesi, in un passato relativamente recente, avrebbero rischiato il default per la devastante crisi finanziaria se il quantitative easing non fosse stato fortemente voluto ed attuato, nonostante i dubbi (e siamo buoni) della Germania.


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Il fatto è che solo Draghi, appunto, ha ritenuto di effettuare un intervento in un momento drammatico della vita dell'Unione. Ed è doppiamente da rimarcare il fatto perché, paradossalmente, si potrebbe dire che con quell'azione è venuto meno allo spirito istitutivo della BCE. Ci sto scherzando sopra ma non più di tanto perché (da qui il paradosso) la Banca centrale europea nasce con lo scopo preciso della lotta all'inflazione mentre, tanto per dare un esempio, l'americana Federal Reserve System, nella patria del più frenato liberismo, opera per la lotta alla disoccupazione, con tutte le implicazioni di questo compito. E, tanto per farci una risata, che cosa ci sarebbe stato di meglio per un Paese di una bella decelerata economica e finanziaria per frenare l'inflazione? Mi rendo conto che è un umorismo sconveniente ma l'aspetto più esilarante è stato che la BCE, nella sostanza, non ha fatto niente di più che operare come agivano un tempo le Banche centrali nazionali: acquistando il debito del rispettivo Paese per non esporlo alla speculazione internazionale. Tant'è. Quindi, certo … la coesione per le sfide del domani, ma spinta o sostenuta da cosa? Nell'occasione della celebrazione del ventennale lo stesso Juncker ha riconosciuto che di solidarietà, da parte della Commissione ad esempio, ce n'è stata e ce n'è poca ed ha citato a riprova come è stata trattata la Grecia. D'accordo. Cos'è, però, che dovrebbe indurre gli Stati membri ad essere coesi, a sostenersi l'un l'altro, a ritenere che l'interesse dell'uno sia anche l'interesse proprio e quello di tutti? Inoltre, e anche questo va detto sia pur col massimo rispetto, in Europa non abbiamo più uomini della tempra di Kohl o di Mitterrand; di uomini, cioè, che, al di là degli interessi del proprio Paese, o magari proprio nell'interesse di questo, hanno saputo imprimere al cammino europeo i giusti impulsi per superare riottosità, indecisioni e paure. Oggi, invece, la grettezza la fa da padrona. Sempre senza offesa. E, mi spiace dirlo, a guidare la classifica sono i Paesi dell'Europa centro-orientale dove la vecchia sinistra, ieri succuba del sol dell'avvenire, si è riconvertita al nazionalismo fino a diventare la nuova 'destra' e addirittura a ritenere che sia 'più democratica' la NATO nella quale sono stati subito ammessi. Senza vincoli né sacrifici. E, va aggiunto, neppure senza sostanziosi aiuti nella fase di pre-adesione. Oh! Ma, capiamoci, non è che le vecchie democrazie scherzino. L'abbiamo visto nella guerra nei Balcani, nella prima guerra del Golfo, nella caduta di Gheddafi, nella gestione della successiva crisi libica nonché, come dicevo all'inizio, nella delineazione della strategia contro la crisi finanziaria (Wolfgang Schäuble insegna), nella gestione della drammaticità delle migrazioni, nelle posizioni sui dazi, nell'accaparramento delle imprese con le facilitazioni fiscali e amministrative, e ancora, e ancora, e ancora a dimostrazione dell'individualismo e dell'egoismo di ciascuno. Per cui, l'unico processo di coesione lo riscontriamo in stragrande prevalenza nelle attività economiche senza alcuna considerazione, tuttavia, delle diverse basi di partenza e dei differenti sistemi di ripartizione del reddito e fiscali. Semplicemente, non è previsto dai trattati. Ma …. allora …. l'Europa è davvero alla deriva? A vederla ora, la risposta sarebbe affermativa, a conferma di quella tratteggiata, a dritta e a manca, nei tanti precedenti scritti. Sì … quest'Europa è alla deriva. Ma non è detto che l'Europa non serva, non sia utile, non possa effettivamente essere la casa comune per 500 milioni di persone e che, al di là della retorica, non possa

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effettivamente divenire uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia. E, questo, a cominciare dalle prossime europee le quali non solo rinnoveranno il Parlamento ma, come al solito, coincideranno anche con il rinnovo della Commissione Esecutiva. Il Consiglio, in parte già rinnovato, continuerà ad esserlo mano mano che le elezioni politiche interverranno nei diversi Paesi. Sì. È proprio l'occasione giusta ma, a questo punto, per essere sincera fino in fondo con me stessa, una domanda me la devo porre. Ma noi, noi italiani, noi elettori che abbiamo affidato le nostre sorti prima alla DC e al PSI, poi al PDS, a Forza Italia, ai DS e, infine, alla Lega ed ai Pentastellati, siamo certi di volere un'Europa rinnovata, un'Europa diversa? E, ancora. Siamo certi che coloro che intercetteranno il nostro voto interpreteranno correttamente eventuali nostri ideali europeistici? Per lunghi anni l'Europa è stata per noi il cimitero degli elefanti, dove mandare politici spompati o fastidiosi: si prendevano i soldi e non si lavorava. Era anche un modo per collocare uscieri e autisti. Neppure a cercarlo un dirigente, uno di quelli che predispongono gli atti, che compiono le analisi, che forniscono ipotesi. Poi c'è stata l'Europa dei maggiori poteri del Parlamento e della Commissione ma, di fronte ad un tale stato di cose non abbiamo pensato neppure lontanamente di adeguarci, di rafforzare la nostra presenza, di fare gioco di squadra. No. Ci siamo semplicemente adeguati al volere dei ragionieri, muovendo le virgole, impegnandoci a dimostrare di essere sempre coperti e allineati, e cercando collocazione nei gruppi parlamentari per partecipare alla ripartizione delle cariche. Non abbiamo voluto sapere che il lavoro a Bruxelles si ripercuote sul Paese a distanza di due o tre anni, che i Parlamenti nazionali oggi per l'80% dei loro impegni lavorano per inserire nell'ordinamento legislativo le leggi (regolamenti e direttive) giunte da Bruxelles. Né, ovviamente, abbiamo tenuto rapporti con i parlamentari per guidarli, per indirizzarli, per supportarli. Di ministeri in contatto con i rappresentanti popolari in Europa neppure a parlarne. E, di conseguenza, non abbiamo informato l'elettorato del rilevante compito che i parlamentari (quelli che s'impegnano) svolgono giornalmente. Già. Quelli che s'impegnano. Perché non ce n'è fregato niente di quelli che non s'impegnano, di quelli che vanno solo a Strasburgo per la plenaria, di quelli che Bruxelles e il lavoro nelle commissioni neppure lo conoscono. Tanto lo stipendio corre lo stesso. No. Non ce n'è fregato niente se non per le demenziali, demagogiche inchieste giornalistiche in prossimità delle elezioni su chi fa più assenze, su quanto prendono e qual è l'ammontare delle indennità. Un populismo diffuso, di bassa lega, che non solleva lo sguardo al di sopra della punta del proprio … naso. Ora, da qualche anno, c'è l'Europa del malessere, delle destre, nuove e vecchie che vorrebbero cancellarla, distruggerla, così da ritornare alle contrapposizioni tra Stati, come se uno Stato, anche il più forte, sarebbe attualmente in grado di gestire le problematiche sociali, economiche, finanziarie, politico-strategiche che alitano sul mondo (vedi le realtà odierne economiche e sociali di Francia e Germania) e dalle quali nessuno può dirsi escluso o indenne. Figuriamoci uno piccolo. Eppure, un intento del genere serpeggia tra i ventisette Paesi rimasti. A seguirlo sarebbe un errore madornale, peggiore di quello di Cameron col referendum sulla Brexit.


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Così come sarebbe un errore, tipico di nuove-vecchie ibride realtà interpretare l'Europa solo come entità a sé stante, un po' come attualmente la comunità sente lo Stato; un'entità alla quale solamente contrapporsi per dimostrare al colto e all'inclita di avere gli attributi per rintuzzare vere o presunte soverchierie. In Europa occorre lavorare, tessere relazioni tra appartenenti a tradizioni e culture diverse, compenetrarsi nelle altrui filosofie, ragionare per varare provvedimenti che possano soddisfare esigenze plurime e distanti tra loro. E per farlo serve esperienza. L'Italia, unica tra i grandi Paesi ha una legge elettorale che determina un turn over insensato: ogni cinque anni, circa il 70% dei parlamentari cambia a causa di una legge impostata sul proporzionale puro che agisce su 5 enormi collegi elettorali su quali, per fare una campagna degna di questo nome, occorrono centinaia di migliaia di euro. Inoltre, lavorare in Europa significa essere assenti nei collegi per cui la gente non ha il piacere di vedere con la frequenza che vorrebbe l'eletto e, perciò, non lo rivota nonostante abbia lavorato proficuamente nelle sedi istituzionali. Ne deriva che la percentuale rieletta paradossalmente può contenere una buona parte di coloro che non lavorano. La soluzione che l'Italia non ha mai voluto sposare, tipica della maggior parte dei Paesi europei ad iniziare dalla Germania, dalla Francia e dalla Spagna, è una legge elettorale a lista bloccata. I posti in lista, a cominciare dal numero 1, vengono decisi dal partito in esito all'impegno manifestato in Europa. Le liste tedesche addirittura risentono del placet del Lander, a significare una conferma del consenso verso l'opera del parlamentare, in Europa e non sul territorio. La soluzione, peraltro, non sarebbe completa se in Italia l'apparato governativo, nazionale e regionale, non si avvalesse dell'opera del parlamentare. Sarebbe un modo, peraltro, per saggiarne ulteriormente le capacità e stabilire di conseguenza e con maggiore cognizione il suo posto in lista. Ma queste sono, al momento, pie speranze. Quello che avverti è il colpo di vento che lascia intuire un cambiamento. Sarà la tramontana che spazza via le nubi pregne d'acqua per far finalmente apparire il sole oppure, nella sua ottusa persistenza, porterà il paralizzante gelo? Roberta Forte P.S. In ogni caso, l'unica cosa che in Europa non serve è un fondamentalismo demagogico e populista. Gli altri, a prescindere dal Paese e dal colore, non lo capirebbero.

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EUROPA FUORI ROTTA L'Europa va realmente alla deriva? Per rispondere correttamente bisogna innanzitutto intendersi sul concetto di deriva. Essa sta ad indicare uno spostamento, una deviazione da una linea di percorso in opposizione AL SUO CONTRARIO inteso invece come stabilità di rotta. Il punto di domanda lascia inoltre trasparire in filigrana una qualche forma di preoccupazione o almeno di malcelato disappunto. Bisognerebbe però chiedersi: "l'Europa ha una manifesta rotta da seguire? Ne ha mai avuta una?". Personalmente, ritengo di no. Secondo me tale preoccupazione risulterebbe del tutto fuori luogo nel momento in cui si riservasse una, seppur superficiale, attenzione alla storia del nostro Continente. Ma intendo proprio "superficiale-superficiale", senza alcuna necessità di ponzare corposi trattati di scienze politiche. No! Basterebbe scorrere appena un "bignamino di storia" di salvifica, studentesca memoria per avere conferma di come, su una qualsivoglia "stabilità di rotta", il nostro amato Continente non abbia mai dato cenno alcuno di volersi incanalare. O meglio, affinché si possa rilevare (per un determinato periodo di tempo ed in una qualche forma) una sua stabilità di marcia sarebbe necessario riferirsi alla potenza politico/militare dell'impero romano che, gestore di uno stabile governo centrale, era ben in grado di controllare e contenere le centrifughe forze socio-politico-culturali delle varie regioni; ma ciò, sempre e comunque, all'unico fine di accrescere e consolidare la potenza della città eterna; mai per un qualsivoglia concetto di sviluppo geopolitico del Continente come tale. Insomma, unicamente, per la gloria di Roma e del "suo" impero. Il successivo medioevo fu l'altro momento storico in cui l'Europa (quella cristiana questa volta) si trovò ad avere nuovamente in Roma, e dunque in Italia, il proprio centro di riferimento di identità, sia culturale che religiosa. Naturalmente, con il Papato in cattedra e l'Impero in subordine. Al riguardo, per sintetizzarne le condizioni generali basterebbero le parole dell'Alighieri, diretto testimone del tempo, che descriveva così la sua patria (al contempo culla ed erede dell'intera civiltà greco-romano-cristiana) : "ahi serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di province, ma bordello". La successiva costituzione degli Stati nazionali europei alla metà del 1600, (a seguito della fase storica rinascimentale, evento questo, in tutti i campi, sublime e becero, geniale e contraddittorio e perenne fonte di grandi e piccoli conflitti continentali) cantò il definitivo "de profundis" su ogni, pur se del tutto teorica e remotissima, possibilità di una qualsiasi forma di


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unità politica dell'Europa continentale. Da allora, soltanto guerre fratricide tra europei, conflittuali sortite di dominio e rapina in terre altrui con le uniche e peraltro necessitate, eccezioni del paio di coalizioni contro il Turco. Il tutto per concludersi con l'"apoteosi" dei nefasti scontri del "secolo breve" con il conseguente calo di una definitiva pietra tombale su quell'Europa come fino ad allora conosciuta e certamente portatrice - almeno nei secoli XVIII e XIX con i sovrani tutti imparentati tra di loro - di una informale, ma concreta, omogeneità culturale delle classi superiori che si riconoscevano esplicitamente in un condiviso sentire di stampo continentale . Alla fine del secondo conflitto mondiale si capì dunque che era inevitabile fare "tabula rasa" e ricostruire il tutto da zero. Ciò sarebbe stato tuttavia fattibile soltanto in un'ottica di stretta natura materialistica, anche se necessariamente ricoperta da effluvi di vuota retorica europeistica. I padri fondatori, nel secondo dopoguerra, sapevano infatti molto bene che le spore della millenaria capillarità conflittuale intereuropea erano ancora ben vive sotto le macerie della guerra e pronte a risorgere non appena rimessa in piedi la casa. Ed ecco l'idea, in quel momento oggettivamente geniale: dagli aulici pensieri ispiratori di una grande casa comune europea dei vari Spinelli, De Gasperi, Monnet, Shuman, Adenauer, Spaak si plana invece, molto saggiamente, sui servizi primari, di "cantina", della ipotizzata costruzione: "che si garantiscano innanzitutto al neonato embrione d'Europa unita, il carbone e l'acciaio (!)" attraverso un relativo cordone sanitario posto anche ad argine di eventuali, vaghe nostalgie di prevaricazione da parte di almeno un paio dei principali soci del progetto. Ed ecco la CECA. Successivamente, dalla - e per alcuni versi inaspettata - tumultuosa crescita economica dell'intero continente nel primo decennio postbellico scaturiscono, quasi fisiologicamente ed in successione, la Comunità Economica Europea, l'Unione Europea e quindi l'EURO. Probabilmente, non si poteva forse fare altrimenti. Tuttavia non può non rilevarsi che la messa in opera di un ipotetico condominio per il quale si ritenga comunque prioritario: 1) garantire innanzitutto il rifornimento energetico ed assicurare la disponibilità in cantina di materie prime atte a fare funzionare un complesso ancora tutto da progettare e costruire 2) redigere un corposo e minuzioso regolamento per i futuri fruitori di tale "nuova" struttura, peraltro non ancora del tutto convinti di volervi abitare 3) dare forma ad una facciata (di mero contenimento economico-commerciale) chiamata Euro ed atta più ad ingabbiare e condizionare in modo asfissiante i vari inquilini - soprattutto i più indisciplinati - piuttosto che favorirne le individuali potenzialità di crescita economica, mostra tutte le caratteristiche di un organismo/progetto ancora tutto in divenire, prettamente tecnico e mirato unicamente ad amministrare una convivenza tra individui che a stento si sopportano tra loro in quanto non si capiscono e che, di conseguenza, non sono in condizione di capirsi proprio in quanto non si sopportano. La dolorosa ironia della costruzione europea sta infatti in un'involontaria, ma esiziale, sorta di "svista" storico/culturale anche se effettuata con indubbia buona fede.

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L'idea di fondo che ispirò, nel secondo dopoguerra, i nobili padri fondatori della "comunità" europea fu soprattutto quella di creare un sistema che neutralizzasse, dopo secoli, l'endemica conflittualità dei popoli del continente. Tale encomiabile finalità ha fatto però scivolare nella pia illusione che una nuova nazione potesse artificialmente sorgere da colloqui pacifici di buona volontà conclusi con un tratto di penna. Il risultato oggi è purtroppo sotto i nostri occhi. Per esorcizzare possibili, futuri scontri intereuropei, si sono però, nel contempo, neutralizzate le vere, autentiche, sanguigne, dolorose matrici di tutti gli stati: appunto e purtroppo, battaglie, rivoluzioni e guerre. Certamente non può disconoscersi che si era appena venuti fuori da una tragico conflitto figlio di un' ideologica, cruenta guerra civile europea e qualcos'altro di diverso, forse, non si poteva immaginare. Tuttavia la Storia con il suo freddo cinismo è insensibile, sorda ed amorale e non tiene in alcun conto le eventuali, ottime ragioni che possano aver ispirato l'agire umano. Un "errore", purtroppo, è un "errore", e basta. La Storia pretende che si valutino soltanto i concreti risultati sul campo, ricordandoci altresì che la via per l'inferno è spesso lastricata di buone intenzioni. Ciò che ne è scaturito - l'attuale Unione Europea - è dunque un individuo fiacco, grasso, molle, miope, oggettivamente "stupido" e per giunta affetto da una patologia neoplastica (fortunatamente, - ma per quanto tempo ancora? - di tipo non maligno) di abnorme superfetazione di regole giuridiche, amministrative e burocratiche che appesantiscono inutilmente il funzionamento fisiologico dell'organismo stesso. Plastica forma di tale dolorante equivoco è proprio il documento cartaceo costitutivo dell'unione Europea custodito in una teca di cristallo che un giorno ebbi modo di osservare. Un malloppo rilegato in pelle bianca di almeno 25 centimetri di spessore e del peso di parecchi chilogrammi. Un corposo e minuzioso mattone di natura tecnica da cui non traspare alcun afflato morale. Un involontario? (forse) monumento alla sfiducia reciproca ed alla congenita diffidenza tra i suoi redattori. La Costituzione degli Stati Uniti d'America - 243 anni di età splendidamente portati occuperebbe forse non più di un paio di paginette del predetto, impressionante malloppo. Nel documento del 1776 si trovano principi semplici condivisi in modo naturale da gente affine accomunata da quella reciproca fiducia derivante da una convinta condivisione di una forte idea d'origine. Non invece, come nel caso europeo, dal desiderio/esigenza di voler applicare artificialmente una "pezza a colore" come velleitario rimedio a millenni di conflitti, reciproche incomprensioni e sanguinose tragedie. Inoltre gli Stati degni di questo nome non nascono mai in punta di penna ad opera di eleganti signori in doppiopetto seduti intorno ad un tavolo. No, gli stati degni di tale nome e pronti di conseguenza a sfidare i secoli, nascono, purtroppo, in punta di baionetta intinta nel sangue. Soltanto a cose fatte si ricorre ai "doppi petti" ed alle rispettive penne per florilegiare ornate costituzioni a cui però non sfugge mai la consapevolezza da cosa esse stesse siano state realmente generate. Sensi di colpa e relativa buona volontà di futuristiche prospettive di pertinenti sanatorie non


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sono mai stati alla base della nascita di alcuna Potenza. La riprova?: lo Stato di Israele. Anch'esso vede formalmente la luce a valle di corposi condizionamenti psicologici e per opera di signori in doppiopetto riuniti in una sala di conferenze internazionali, ma immediatamente dopo l'occasionale frusciare di carte e grattare di penna, ecco l'inevitabile battesimo del fuoco con la stura ad un feroce conflitto campale da cui Israele, nel corso dell'ultimo settantennio, non è ancora riuscito a districarsi. Esplicito esempio questo di come una determinazione aprioristica di creazione di uno stato sovrano attraverso un trattato internazionale NON possa trovarsi scollegata da un relativo conflitto "cruento" affinché una vera Potenza regionale possa realmente vedere la luce. Per la cronaca, va comunque tenuto presente che, nel caso specifico, penna e baionetta si erano scambiati la fisiologica tempistica dei rispettivi ruoli di appena una manciata di settimane. Sono convinto che fino a che la vera natura degli uomini (al netto di artificiali superfetazioni cerebrali) rimarrà purtroppo quella di sempre, e cioè di un sostanziale "homo homini lupus", i recinti di convivenza umana artificialmente costruiti continueranno ad aver bisogno di un cordone di sicurezza sotto forma di "Potenza". E' certamente triste il doverlo ammettere, ma temo che la sincera onestà intellettuale dei sognatori (velleitari?) padri fondatori di un idea di Europa unita, ma priva di un preliminare Stato/Potenza a garanzia della sua stessa sopravvivenza, potrà oggi ben poco contro la coalizione di cinquecento milioni di singole, fameliche individualità europee la cui angoscia esistenziale non trae al momento sufficienti riassicurazioni dagli attuali scenari geopolitici planetari. Mi domando allora: la nave dell'Europa/Stato sta realmente andando alla deriva ovvero, più realisticamente, essa non è mai uscita dal porto, se non addirittura dal bacino di carenaggio? Antonino Provenzano Mercoledì 30 gennaio 2019

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ATTUALITA’ DEL MANIFESTO DI VENTOTENE Le valutazioni spesso nascono dalla percezione dei riflessi che l'osservatore matura sull'osservato in ragione del proprio vissuto, unitamente alle aspettative personali che potrebbero scaturire dalle possibili evoluzioni; pertanto le considerazioni sono comunemente relegate ad un'ineluttabile visione di parte maturata in un determinato momento storico e condizionata da specifiche contingenze, quindi mutevole e soggettiva, spesso umorale. Sembra quindi normale udire, in un qualsivoglia consesso, tesi ed antitesi come fosse il frutto eccelso della democrazia da cui attendersi, invano, un reale compromesso teso al bene comune. Purtroppo si sente spesso parlare del nulla, figuriamoci poi quando il confronto è vissuto in fasce della popolazione più povere in tutte le declinazioni del caso. Una cosa però è sempre garantita, il mugugno. Evito di addentrarmi troppo nelle considerazioni sulle implicazioni che questa accettazione passiva ingenera nel compimento della vita di tutti i giorni, è manifesto il malessere che la gente lamenta circa la qualità della vita sociale e pertanto anche lavorativa, della condizione in cui versa la natura con tutto ciò che ne consegue, dello scarso spessore etico che i nostri delegati ad amministrare la cosa pubblica sovente dimostrano, della violenza fisica e mentale come scorciatoia effimera per raggiungere lo scopo e l'elencazione potrebbe continuare. Si potrebbero definire vecchi problemi nel mondo odierno, così come lo sono le nuove forme di schiavitù che nascono sempre dagli stessi impulsi ma che si attuano per mezzo dei nuovi strumenti disponibili. La sensazione è che l'Europa vada alla deriva e che tutti siano in altre faccende affaccendati, nessuno al timone sembra mantenere la rotta dapprima immaginata già nel XIX secolo da alcuni e poi ben delineata nel Manifesto di Ventotene esteso da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, manifesto programmatico che non poteva non analizzare nella contemporaneità ostacoli, resistenze e pericoli del processo. E' palese che in questi ultimi quarant'anni ci sia stata una compressione delle libertà individuali, uno svuotamento sostanziale dell'apparato democratico, pertanto una involuzione della democrazia che cede velocemente il passo a tecnocrazia ed oligarchie sottostanti al potere finanziario. Volendo far esempi di democrazia effettiva è indubbio che oggi sia ancora possibile, per chi ne nutra interesse, collaborare con una libera rivista dovendo perciò ringraziare, oltre all'Editore, delle avanguardie illuminate che in passato hanno combattuto e perso la vita perché desiderosi di condividere un metodo di lavoro a loro ben noto, condividere pertanto un metodo e


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non anche una soluzione. In altri termini, molto di quanto oggi possiamo fare e dire non sarebbe stato possibile prima del '700, le condizioni storiche non lo consentivano, si era sostanzialmente sudditi e non cittadini. Pur tuttavia e paradossalmente, si può anche dire che la nutrita considerazione dell'esistenza umana fosse più elevata allora di quanto non lo sia oggi. Ma sorge un dubbio, questa inedia democratica si manifesta per colpa o per dolo? Può "qualcuno" aver operato ed operare tutt'ora per modificare la rotta? E se così fosse, per indirizzare dove? Chi, come e perché potrebbe o dovrebbe opporsi a queste forze in campo? Probabilmente è sia l'ignavia del popolo che il dolo di pochi potenti a favorire lo stato delle cose, quest'ultimi agendo ammantati da apparenze democratiche spesso agiscono strumentalmente per far sprofondare ancor più nel caos paesi o nazioni per poi assurgere al ruolo di salvatori avendo così nel frattempo avanzato verso il risultato atteso. Qualunque analisi che favorisca una risposta tesa a concepire un progetto originale e realizzabile, prima di medio e poi a lungo termine che implichi una reazione allo stato delle cose, deve necessariamente essere elaborato con sguardo oggettivo finalizzato ad un bene comune che non debba però necessariamente essere condiviso da tutti e cosa ancor più difficile, con uno sguardo temporale potenzialmente più lungo della vita degli ideatori. Fucine di questa natura ne esistono ancora, se ne accennava prima, la difficoltà è nella visione con la quale si concepisce il progetto e la potenza ed affidabilità degli strumenti attuativi. La sensazione è che si stiano ponendo le basi affinché questi sussulti tendano a scomparire sommersi da falsi feticci e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, a Ventotene nel 1941 veniva scritto che il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma - come avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Purtroppo, come sempre accade, le conclusioni sono contenute nelle premesse, l'Unione Europea nasce da subito e senza troppi veli per finalità economicistiche e tecnocratiche, non ha mai vissuto seriamente processi d'integrazione democratica, l'unica cosa indiscutibilmente in comune è la moneta. Priva di una banca centrale europea sottostante ad un dipartimento del tesoro, l'Europa non si è dotata di un esercito comunitario e l'unica linea di difesa sovranazionale è costituita dalla NATO. Per ulteriore conferma dello stato dell'arte potrebbe giovare sapere, per quanto riguarda la NATO e l'Alleanza Atlantica, che il Comitato Atlantico Italiano, che svolge da oltre 60 anni attività di ricerca, formazione ed informazione sui temi di politica estera, sicurezza ed economia internazionale relativi all'Alleanza Atlantica con particolare riferimento al ruolo dell'Italia nella NATO, ha avuto stanziati dal Parlamento italiano contributi pubblici per il 2014 per € 168.000, per il 2015 per € 131.000, per il 2016 € 47.950, per il 2017 € 4.001, per il 2018 € 15.000 e per il 2019 € 150.000. E' opportuno anche sottolineare che i fondi stanziati nei sei anni presi in esame oltre a dover

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consentire la sopravvivenza e le normali attività dell'ente, hanno costituito l'unica fonte repubblicana di sostentamento per le attività istituzionali in seno all'Atlantic Treaty Association (ATA), organismo internazionale di raccordo tra la NATO e le pubbliche opinioni dei Paesi membri dell'Alleanza Atlantica, che per i due trienni 2015-2017 e 2018-2020, vedono l'Italia alla presidenza. Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge così diverso da tutto quello che si era immaginato, scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie tra i giovani. Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno scorto i motivi dell'attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l'eredità di tutti i movimenti di elevazione dell'umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere o dei mezzi come raggiungerlo. Il testo sopra riportato è tratto dalle ultime righe del Manifesto di Ventotene, a distanza di quasi 80 anni e con un mondo che sembra essere del tutto cambiato, quanta attualità vive in queste parole!!! Andrea Torresi


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LA PARANZA DEI GATTOPARDI "Salus populi suprema lex esto" "La salute del popolo sia la suprema delle leggi." (Cicerone, De legibus, 3,3)

Il Mezzogiorno non è mai stato particolarmente capace di auto-tutelarsi. Lo ha dimostrato nel corso dei secoli con la miopia dimostrata nella cura dei propri interessi, con i facili entusiasmi con i quali ha accolto ogni risma di conquistatori e di mestatori autoctoni, con il demenziale autolesionismo manifestato nel concorrere ad abbattere, col tradimento diffuso, il proprio florido Regno in favore delle mire annessionistiche di un vorace Piemonte, retto da regnanti "montanari" incomparabilmente più gretti e avidi dei Borbone. Dei regnanti che comprarono la loro corona non avendo mai avuto la tempra di conquistarne una. Né il Sud ha dimostrato alcuna resipiscenza successivamente. Sole attenuanti la cancellazione sistematica della memoria e la scientifica opera di spoliazione economica e marginalizzazione politica. Difatti è stato terra di clientela, di corruzione, di malaffare congiunto alla politica, di facile rapina per ogni "Masaniello" che si è accreditato agli occhi di un popolo inconsapevole, credulone e troppo facile audacia temeraria igiene spirituale all'entusiasmo. Oggi l'innamoramento tende ad incanalarsi verso la Lega di Salvini dopo l'ennesima, e per ora parziale, delusione "pentastellare". Sarà l'ennesimo sberleffo? Il respiro "nazionale" acquisito dalla Lega appare credibile negli atti dichiarativi e nel presenzialismo ubiquo del "Capitano", molto meno nei fatti concreti, visto che la stella polare leghista resta l'emancipazione del nord, come sembrerebbe confermato dal processo di autonomismo rafforzato in corso per Lombardia, Veneto ed Emilia e dagli interventi parlamentari che raramente riguardano "questioni meridionali". Un punto dirimente per capire le vere intenzioni leghiste verso il Sud è la qualità delle prossime candidature e, quindi, della futura classe dirigente, atteso che quella esistente è la risultante di scelte necessariamente provvisorie, raffazzonate ed emergenziali fatte per vincere comunque, alle scorse elezioni, la scommessa della presenza al Sud. Tale scommessa ha implicato il non andare troppo per il sottile in tema di qualità delle scelte, in tema di spessori umani e di precedenti appartenenze e compromissioni. E qualche avvisaglia di presenze "imbarazzanti" c'è già stata... così come comincia a intravedersi sull'orizzonte delle europee - con chiarezza per chi ha memoria - il lento (e attentamente pianificato) ricoagularsi, intorno alla Lega, di vecchi gruppi di interesse e di potere che nulla hanno mai fatto per il Sud e molto per le proprie personali ambizioni.

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Si tratta della "paranza dei gattopardi", un'imbarcazione tipica dei mari del Sud, immarcescibile e idonea a sfidare qualunque mare e sempre piena di gente pronta a disporsi in favore di vento, pronta darsi da fare nel vasto mare del consenso clientelare, pronta a prostrarsi subdolamente, a blandire e circuire i "capitani" di turno, ad offrire favori, entrature e consenso, a baciare mani e piedi pur di restare a galla, di accreditarsi come "nuova" classe dirigente - e per questo vanno bene figli, nipoti, amanti, compari di matrimonio, clientes -, pur di continuare a issare le reti sempre gonfie di bottino e che il popolo ignorante si fotta! Oggi la sfida della credibilità per la Lega al Sud si gioca sul fronte della qualità, dello spessore culturale, dell'impegno fattivo e tangibile, della capacità progettuale di fornire soluzioni praticabili per avviare il Sud verso un destino diverso e, soprattutto, su quello della volontà a voler speronare e affondare la "paranza dei gattopardi". Ne avranno contezza i vertici della Lega, ne avranno interesse e motivazione? Saranno capaci di spurgare le loro liste? Questo sarà il metro per giudicarli da Sud. Pièrre Kadosh


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UN NOME INAPPROPRIATO Il direttore mi perdonerà se non aspetto la sua indicazione sull'argomento cardine del numero di febbraio ma, al pari dello scorso anno, non potevo lasciar passare le Feste senza farci sù una riflessione, senza un riverbero che catalizzi la nevrosi che timidamente si affaccia a fine ottobre e, in un crescendo rossiniano, travalica il Natale, raggiunge il culmine a Capodanno per scemare, infine, con l'Epifania, senza che nella maggior parte di noi si sia realizzata né una Natività né, tantomeno, una Manifestazione. Eh! Sì. Se c'è una festa ormai subdola e disincantata, quella è il Natale e il suo seguito: i giorni, come al solito, si sommano ai giorni in un affannato rituale mercantilistico, il traffico sempre in perfetto orario, più caotico e demenziale che mai, barrisce nella savana urbana, mentre stucchevoli e melensi canzoni ti affogano di noia. In sostanza, una carnevalesca celebrazione contornata da bonari omaccioni barbuti rossovestiti, abeti variamente addobbati quando non miseramente spelacchiati e improbabili diorama di una stalla con tanto di bue e di asinello a rappresentare l'Evento in un'arida terra, eppure reso con tanto di muschio, corsi d'acqua, vegetazione lacustre e ponticelli, cascatelle e mulini, pastorelli con greggi al seguito, fabbri, falegnami, massaie e giovinetti sorridenti. No … no. Non ce l'ho col Natale. È che vorrei, alquanto utopisticamente, che l'apparente clima di bontà, di solidarietà e di dolcezza che in questo periodo sembra aleggiare sulla quotidiana aria rarefatta della brutalità, della prevaricazione, dell'indifferenza e del menefreghismo, dell'ottusità addobbata a saggezza, della pochezza decorata a sapienza, dell'odio razziale e religioso, lasciasse qualche seme da annaffiare. Ma non c'è verso, la policroma umanità procede imperterrita nelle sue caleidoscopiche, astruse, manifestazioni. C'è chi vorrebbe costruire, al modico costo di 5 miliardi di dollari, un muro lungo diverse centinaia di chilometri per tenere 'fuori' migliaia e migliaia di possibili migranti i quali, si potrebbe pensare, vogliono occupare il Paese di Bengodi: chissà cosa potrebbe scrivere il Boccaccio1 di fronte ad una situazione del genere e cosa metterebbe in bocca a Maso del Saggio, a Bruno e Buffalmacco, per raggirare il credulone Calandrino, attratto dalla fantomatica elitropia. E poco sembra importare che quel Paese sia tra quelli di maggiore evidenza tra i pochi che hanno tanto e i tanti che hanno poco o punto: eppure c'è una specie di riffa per accaparrarsi le sue idee e le sue iniziative. Chissà, forse la tanto decantata protezione spaziale servirà a difendere i meno abbienti dallo sbarco di renne natalizie. Chissà quale effetto potrebbero produrre tanti campanelli sui depressi e gli angosciati.

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Ma non disperiamo: a darci motivo di sognare ci ha pensato, stavolta, il Celeste Impero e la Luna. Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i 2 deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? . Nell'atmosfera natalizia, al di là della depressione leopardiana, abbiamo potuto sognare la sonda Chang'e-4 che è andata a tenerle compagnia; peraltro, nel lato che, poverino, non ha mai ricevuto le attenzioni degli innamorati, quello oscuro. Beh! È stato davvero uno splendido pensiero. C'è da chiedersi cosa mai possa pensarne Murdoch, con tutti i suoi satelliti, visto che il futuro sarà sempre più incentrato sulle telecomunicazioni. Comunque, non dobbiamo darci pensiero: l'economia di quel Paese rallenta e i più accreditati centri di rilevazione economica ci dicono che la sua corsa sta per esaurirsi: sembra per troppa carne sul fuoco, dal deficit al 250% del PIL, alla riconversione interna, ai dazi americani, al cosiddetto 'mercantilismo 2'. Quindi, cosa mai potrà arrivare da quel Paese se non involtini primavera e ravioli alla piastra oltre alle contraffazioni e alle paccottiglie per i tanti store cinesi nelle città? Oddio! Ma siamo sicuri? No, perché alla mia veneranda età non vorrei fare uno sforzo inane per apprendere gli ideogrammi. Ho già penato tanto con l'inglese. Allora, siamo proprio certi? Nonostante abbiano in mano un'ingente riserva valutaria, una rilevante quota del debito americano e l'immensa entità del risparmio delle famiglie? Boh! Stiamo a sapere … E, mentre ponderando le rassicurazioni stai per sollevare il calice con una fetta di panettone in mano, a rovinare la festa ai bambini ecco la Lagarde, la potente direttrice esecutiva del FMI che bacchetta l'Italia per essere 'uno dei principali elementi di rischio della crescita globale'. Oh! Maronn! E chi 'o ssapeva? Non la Cina, decretata prossima alla fermata, non gli USA attualmente a velocità ridotta nonostante la fine dello shutdown più lungo della storia, non la Germania con le banche e una economia traballante e con un governo consunto. Non la Francia alle prese con i gilet gialli che sembrano aver trovato un nuovo sport nazionale col boicottaggio di ogni iniziativa presidenziale. Non l'Inghilterra che, in un paradossale gioco di parole, non riesce ad uscire dalla Brexit. No. Niente di tutto questo. È l'Italia ad essere stata dichiarata nientepopodimeno 'elemento di rischio della crescita globale'. Mi domando, col cuore palpitante: sono attendibili simili affermazioni? E non perché non creda all'importanza dell'Italia quanto perché mi arrovella un piccolo dubbio sulla concretezza della bollatura. Ma non è stata la Lagarde, subentrata a Dominique Strauss-Kahn per strane disavventure, insieme al suo mentore Sarkozy e la Merkel, accompagnati da Barroso e da Trichet a stabilire, nel 2010, la 'cura' da cavallo alla Grecia? E non è vero che a distanza di poco più di un biennio è stato affermato che la 'cura' ha finito per deprimere la poca economia che era rimasta? E non è altrettanto vero che, nella recente celebrazione del ventennio dell'euro, a Strasburgo, persino Juncker è arrivato a dichiarare che: "… c'è stata dell'austerità avventata, … Non siamo stati sufficientemente solidali con la Grecia e con i greci" durante la crisi del debito."? Meglio tardi che mai, qualcuno potrà dire, ma ai greci nove anni di angosciosi patemi chi potrà sanarglieli?


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E, poi, a dar retta al quotidiano digitale 'affaritaliani' dello scorso 24 gennaio, la moralità della Lagarde non sembra adamantina. Metastasio scriveva: "Perché l'altrui misura / ciascun dal proprio core.3 . Sarà vero? E chi lo sa? Comunque, la televisione non ha detto nulla al riguardo e, come sappiamo, la tele è sempre puntuale nell'informazione. Nella vastità del suo insegnamento, ci ragguaglia persino sulla nascita di nuovi, attempati guru che, nella loro ampia ed approfondita conoscenza delle cose terrene, ci danno lezioni natalizie di misericordia. Eeeh! La direzione del festival di San Remo è un pulpito troppo importante per non affiancare, sia pur con umiltà, l'opera altamente meritoria del Papa. La vicenda dei migranti nella gestione italiana sarebbe una farsa, almeno secondo il senso delle parole emerse dal nuovo oracolo. Ora, la misericordia è un sentimento onorevole che fa bene allo spirito e fa guadagnare punti per l'aldilà ma mi domando: come si fa ad esercitarla, sia pur su sollecitazione della novella voluspa, se la nave sulla quale sono imbarcati i migranti staziona nel porto di La Valletta a Malta con il divieto di sbarcare? Oh! Mamma. Che significa? mi chiedo angosciata. Mi toccherà andare là per dar luogo alla mia compassione? Perché, se così fosse, qualcuno dovrebbe informare l'attempato guru che l'auspicio di stati di grazia, specie sotto Natale, è da rivolgere meritatamente a tutti: autoctoni e forestieri, politici e amministratori, capi di stato e di governo nazionali e stranieri, nonché ai supremi reggitori dell'Unione. In ogni caso, vogliamo mettere da un lato il 'cazzo' pronunciato da Crozza qualche anno fa nello smanceroso clima del festival sanremese che ha picchiato contro la castità dei padiglioni auricolari e la cristallina moralità del pubblico e degli organizzatori facendo subito scattare la contestazione corale e la reprimenda e, dall'altro, il 'passerotto'? Peraltro, l'adorabile fiabesco volatile, in uno con lo scenario da Biancaneve e Cenerentola, accompagnato da riflessioni del vecchio saggio sotto costante restyling, fa immagine buona, si concilia col Natale, si lega perfettamente alle immarcescibili Last Christmas degli Wham, a All I Want For Christmas Is You di Mariah Carey e via cantando. E tu ti senti struggere … quasi quasi, avvertendo la RAI, vado a cantargliene quattro ai quei torvi maltesi. Purtroppo, però, il risentito stupore che provi è accresciuto di lì a breve: il Molleggiato nazionale, tradotto in un cartone animato, prova a darsi, con toni predicatori, una veste sessantottina, sociale ed ecologista. Non ho avuto il dispiacere di vederlo ma ho letto che ciò che ne ha ricavato, insieme a Mediaset, è stato un drastico calo dell'audience sin dalla seconda sera e una seria presa di posizione da parte di Noiconsumatori di Napoli sembra per una serie di gratuite e dannose offese rivolte alla città e ai suoi abitanti. Perché, dopo una gratificante carriera di canzonette, questi strambi profeti non riescono a trovare la saggezza? Dio mio, che periodo. Almeno alcuni sindaci hanno provato a salvare la faccia: di parte sono e di parte restano e, non sapendo cosa cavalcare per mancanza di direttive e di fantasia, hanno puntato sulla disobbedienza civile: non nell'elargire, al di là delle norme, sovvenzioni alle tante famiglie bisognose della loro città; non nel dare le migliori cure ai tanti malati urgenti al di là delle liste d'attesa; non nel lottare contro la vasta micro criminalità attraverso la promozione dello sviluppo locale senza aspettare leggi nazionali e regionali di programmazione.

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No. Hanno scoperto, da progressisti gesuitici in veste natalizia, Hannah Arendt e la sua Disobbedienza civile e hanno ritenuto di applicarne i principi ricusando l'attuazione delle norme del decreto sicurezza di recente emanazione. Beh! Forse non hanno letto bene o hanno male interpretato perché la Arendt, da grande filosofa ebrea tedesca, naturalizzata statunitense, aveva altro per la mente che la carenza per qualcuno dei riflettori e della scena. È nella sua opera l'esemplificativo richiamo a Socrate e a Thoreau4. Non sto a citare i relativi passi perché sarebbe un inutile dispendio di spazio e di tempo e chi vuole può facilmente soddisfare la curiosità. Basti sapere, al momento, che dalle pagine dell'opera della Arendt nessuno dei due personaggi aveva in mente di rifiutare l'applicazione della legge per la quale uno ha scelto di morire e l'altro di andare in galera; semmai, la loro riserva era nei confronti dei giudici. Oh! Cielo. Ma … allora se ne può tranquillamente dedurre, senza arrivare a più drastiche ipotesi, che la migliore azione di disobbedienza civile, la più eclatante, che quei sindaci avrebbero potuto fare sarebbe stata quella di dimettersi? Poverini, forse non lo sapevano. E mentre sei lì che ti struggi nel dubbio di aver visto sprecare un'occasione, sotto Natale peraltro, pensi ai giudici. Già … i giudici. Chissà se la magistratura di quei Paesi che hanno rifiutato di prestare soccorso a navi ONG in difficoltà, trasportanti migranti, o pur concedendo approdo hanno vietato lo sbarco, aprirà un procedimento contro i rispettivi capi di Stato e di governo. E chissà se, non facendolo, si sostituirà ad esse l'Aia con l'imputazione di crimini contro l'umanità. No, perché, capiamoci … specie sotto le Feste, i reati ipotizzati sarebbero da Tribunale Internazionale dell'Aia con il compito di giudicare l'operato di chi, pur avendo la competenza essendo i confini dell'Unione affidati ad una autorità superiore, ha omesso di emanare stringenti direttive al riguardo. Fortunatamente, a ricondurre le umane vicende in un percorso noto ci pensano le organizzazioni sindacali che, proprio durante le Feste, hanno indetto per metà febbraio una manifestazione nazionale per protestare contro la manovra economica. Ora, per dirla tutta, al posto dell'attuale governo, mi sarei presa un anno sabatico e 'quota 100' e il 'reddito di cittadinanza' l'avrei varate nel 2020: del resto, tra il capirci qualcosa della complessa macchina dello Stato, tra la necessità di destinare maggiori risorse agli investimenti e l'attesa del cambio dei componenti della Commissione Europea, un anno ci stava tutto. Già ma io non sono il Governo e che cosa ne posso sapere delle attese che le Europee possono generare? Ma, comunque, anche così, qual è il motivo di dissenso nei confronti della manovra? In una veste ecologista, si oppongono alla green tax per le nuove automobili? Scherzo. Oppure, vorrebbero non mandare in pensione la gente a cominciare da quella penalizzata dallo scalone Fornero? O, invece, vorrebbero che non venisse erogato il 'reddito di cittadinanza' alle tante persone bisognose? Insomma, contro cosa manifestano? No, perché, capiamoci anche qui: da manifestare ci sarebbe. Anzi, avrebbero dovuto cominciare a manifestare una decina d'anni fa. Per cui, la seconda domanda è: dove sono stati un quest'ultimo decennio? Nel rapporto Oxfam di giusto un anno fa, alla vigilia del Forum di Davos, si denunciava senza mezzi termini che l'1% più ricco della popolazione mondiale detiene più ricchezza del restante


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99%. Per l'Italia, la situazione è risultata in linea con l'analisi complessiva: a metà 2017 il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66% della ricchezza nazionale mentre il successivo 20% ne controllava poco meno del 19%, lasciando al 60% più povero appena il 15%. Ed è stato da ridere apprendere che nel periodo 2006-2016 la quota di reddito nazionale del 10% più povero degli italiani è diminuita del 28%, mentre oltre il 40% dell'incremento di reddito complessivo registrato nello stesso periodo è fluito verso il 20% dei percettori di reddito più elevato. Ora, a tramortirci, tra Capodanno e la Befana, è sapere che a distanza di un anno la situazione non è mutata. Anzi. Il rapporto Oxfam di quest'anno afferma che il solco si è allargato: le fortune dei super-ricchi sono aumentate del 12%, al ritmo di 2,5 miliardi di dollari al giorno, mentre 3,8 miliardi di persone hanno visto decrescere quel che avevano dell'11%. Anche in Italia la situazione si è aggravata: il 20% più ricco degli italiani detiene il 72% della ricchezza nazionale contro il 66% di un anno prima, mentre il 60% più povero deve accontentarsi appena di poco più del 12%. Già. Dov'erano gli strenui difensori dei diritti acquisiti in oltre un secolo di battaglie, di sacrifici, di sangue e di sudore? E, visto che ci siamo, dov'erano gl'imbonitori di destra e di sinistra che si sono alternati alla guida di questo Paese, i salvatori della Patria, i difensori delle famiglie, i paladini dei giovani, i protettori delle tutele sociali e della giustizia redistributiva? Dov'erano i progressisti, privi di narici e di mete, e gli illuminati sedicenti liberali ancora alla ricerca di una lanterna? Dov'erano gli gnostici cristiani che hanno smarrito la via tra le tante labirintiche allocazioni? Forse, siamo davvero alla farsa ma non certamente quella predicata dal nuovo guru sanremese. Da dubbiosa alquanto, ho apprezzato il Santo Padre che, nella prima udienza generale del nuovo anno, ha inteso tuonare contro gli ipocriti arrivando ad affermare: "Meglio non andare in chiesa, vivere come ateo. Se tu vai in chiesa vivi come figlio, come fratello. Non dare una contro testimonianza, ma una testimonianza". Un'espressione che non ha precedenti; peraltro, non è indirizzata ai non credenti, agli atei appunto, ai quali implicitamente riconosce una qual sorta di coerenza e, quindi, di dignità bensì ai falsi credenti, a coloro che hanno la sola necessità di mostrare il vestito, che ipocritamente 'frequentano' per convenzione. Ohibò! C'è da uscire di senno. Poveri ragazzi, che riserverà il futuro per loro? Ad aiutarli (si fa per dire) c'è l'inconsapevolezza. Non sanno come eravamo e, pertanto, non possono sentirne la mancanza. Ma l'aspetto più deprimente è che non hanno orizzonte. Quest'anno, dopo aver acquistato una bustina, venduta come coccarda, mi sono trovata a contemplare l'ingarbugliato oggetto non avendo la più pallida idea di come trasformarlo nell'articolo desiderato. Tornata nel negozio per i necessari lumi, la ragazzetta alla cassa mi ha guardato come fossi una marziana; poi, con sufficienza, ha tirato con decisione due lembi ed ecco, come per magia, la coccarda che mi è stata restituita con aria spavalda. "Ma non potevano metterci le istruzioni?" ho mormorato perplessa. "È una questione di deduzione" mi ha laconicamente risposto la ragazzetta con aria scocciata, girandosi verso la signora che, dietro un carrello straripante, manifestava segni d'impazienza. Già. Una questione

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di deduzione, accompagnata da una nemmeno tanto velata accusa di rincoglionimento precoce, efficacemente espressa dalla mimica facciale. Beh! Precoce … Il fatto è che, alla mia pur veneranda età, non mi sento in alcunché rincoglionita e capisco perfettamente l'amaro umorismo della situazione: la ragazzetta ha la capacità di comprendere che, tirando due lembi, può far apparire una coccarda ma non vede che, alla sua età, la collocazione migliore sarebbe stata in un'aula universitaria piuttosto che dietro la cassa di un supermercato con un orizzonte limitato al bancone. Così, dopo un iniziale risentimento, mi sono ritrovata a compatirla e ad augurarle, in cuor mio, che in futuro si laurei col massimo dei voti, che i genitori abbiano le risorse per sostenerla nel cammino e che riesca a trovare un lavoro gratificante e in linea con la sua formazione. Ah! Dimenticavo … che si scordi come si fa a far apparire una coccarda senza istruzioni. Poi, mesta, me ne sono tornata a casa per il rituale festaiolo. I giorni si sono sommati ai giorni e, ormai, siamo a gennaio inoltrato e le 'feste' ce le siamo lasciate alle spalle. A proposito …. perché questo periodo è definito 'feste'? A me il nome sembra veramente inappropriato. R.F.

Note: 1 Giovanni Boccaccio – Decamerone – III novella – VIII giornata – Calandrino e l'elitropia 2 Giacomo Leopardi – Canto notturno di un pastore errante dell'Asia 3 Pietro Metastasio - Issipile, atto I, scena VI 4 Hannah Arendt – Disobbedienza civile – Chiarelettere editore 2017 – pp. 40 e seg.


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COSA ATTENDERSI DALLE URNE DELLE EUROPEE Tra tre mesi i popoli dell'Unione europea si recheranno alle urne per rinnovare il Parlamento comunitario. Non si tratterà di una stanca operazione di routine o, peggio, di ludi cartacei. Non questa volta. Mai come adesso è in gioco il futuro dell'Unione, sono messe seriamente in discussione le ragioni dello stare insieme dei popoli europei. Fuori dall'ipocrisia del politicamente corretto secondo cui l'Unione europea dovrebbe essere un totem intangibile, un dogma inviolabile, una professione di fede nella missione salvifica dell'europeismo provvidenziale, la realtà ci restituisce la fotografia di un'entità sovranazionale che sebbene riesca ancora a tenersi sulla linea di galleggiamento imbarca acqua da tutte le parti. L'Unione europea non è il paradiso in terra immaginato, o semplicemente sperato, dai suoi padri fondatori. Tuttavia, non è neppure l'inferno descritto dai suoi più ostinati detrattori. Allora, cos'è? La definizione che ritengo più appropriata sia di "átopon" un "non-luogo". Preciso meglio, l'Unione europea è un insieme di Stati nazionali strutturato sul piano giuridicoeconomico che vive di una sua propria dinamica pienamente in grado d'influenzare la vita dei suoi cittadini. Essa, però, non ha un'anima comunitaria, un idem sentire che la caratterizzi quale protagonista coattoriale sulla scena globale. L'organismo europeo è vitale ma, per usare le parole di José Ortega y Gasset, la sua vitalità "si nutre di questa sproporzione fra la grandezza dell'attuale potenzialità europea e i limiti dell'organizzazione politica in cui deve agire". Accetta che sopravvivano e si espandano al suo interno nazionalismi e imperialismi, ma ha negato a se stessa la possibilità di costruire un proprio nazionalismo o un'idea di imperialismo che riassorbisse per intero quelli esistenti e operanti nella maggior parte dei Paesi membri. Già, perché la grande bugia di questo tempo storico che le élite europee provano a propinare alle classi sociali dominate è che esista un solo europeismo bello, libero, colto, illuminato e progressista pronto a fare muro a tutte le ideologie sovraniste, populiste, razziste che starebbero tornando in Europa grazie alle destre. La verità è che esistono soltanto nazionalismi e imperialismi vincenti contro altri perdenti. È forse il presidente francese Emmanuel Macron un sincero europeista oppure lo si deve considerare un pericoloso sciovinista? Alla luce dei suoi comportamenti concreti non ho personalmente dubbi su cosa rispondere. Altrettanto la signora Angela Merkel. Il suo progetto politico non è stato forse focalizzato sull'idea di mettere la Germania e l'interesse tedesco al primo posto anche dell'azione dell'Unione europea, nella malcelata speranza di realizzare per vie economiche e finanziarie la conquista della "lebensraum" che non riuscì lo scorso secolo con

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l'impiego degli eserciti e dei cannoni? E quello che è accaduto in Europa in questi anni di politiche dell'austerity mirate esclusivamente a tenere a bada l'inflazione nell'interesse esclusivo della capacità produttiva della Germania non è forse la realizzazione in versione aggiornata del famigerato "Piano Funk", dal nome del ministro dell'Economia del Terzo Reich? Dunque, ciò che attende gli europei con le prossime elezioni comunitarie non riguarda la lotta ontologica tra il Bene (europeismo) e il Male (sovranismo), ma più banalmente il conflitto di potere e d'interessi tra Stati, gestito con mezzi più pacifici ma non meno cruenti delle guerre del passato. ***** Il sogno d'Europa è tutt'altro che giovane. Esso affonda nella Roma imperiale che per prima stabilì in ambito continentale la base delle relazioni interstatuali e di convivenza tra i popoli che vi appartenevano, consegnando alla posterità un patrimonio tradizionale fatto di metodo, di cultura e di senso delle istituzioni pubbliche. Segno che vi è un destino, sopravvissuto a duemila anni di lotte intestine, di guerre, di inimicizie, che chiede di essere compiuto. Nessuno, che abbia un minimo senso prospettico riguardo al divenire della Storia dell'umanità, può negare la fondatezza della costruzione dell'unità sostanziale, formale e morale degli europei. Parafrasando Benedetto Croce, oggi non possiamo non dirci europei. Ciononostante, il processo d'integrazione non avanza, al contrario rischia d'impantanarsi. La comune vulgata assegna ai sovranisti il merito o la colpa di aver fermato il cammino della Storia. Non è così ma, nel tempo dell'abiura alla primazia del ragionamento, il semplicismo delle sintesi demagogiche la fa da padrone. Il problema che avvertono i cosiddetti sovranisti, interpretando un sentimento crescente tra i popoli dell'Unione, non afferisce all'esistenza dell'Europa comunitaria ma, esclusivamente, ai modi con i quali la si sta realizzando. Che sono modi palesemente sbagliati. Cos'è che non va? Una comunità di destino, per essere tale, deve scaturire dalla consapevolezza di tutti i suoi membri di far parte di un progetto comune, condiviso, nel quale ciascuno vi apporta il proprio contributo in base alle proprie capacità senza che per questo possa essere emarginato o penalizzato. Il principio della pari dignità tra Stati membri deve essere considerata la pietra angolare della costruzione comunitaria. Ora, nell'ultimo decennio è cresciuta la sensazione che, in spregio alle premesse costitutive, sia stia dando vita ad un'Unione a cerchi concentrici, dove quelli periferici, più ampi, sono obbligati a gravitare attorno al nucleo ristretto attraverso il quale passa l'asse portante dell'intera costruzione comunitaria. Per dirla in parole semplici, la fotografia che riflette l'odierna realtà dell'Unione è quella di un insieme disomogeneo di Paesi di serie A e di Paesi di serie B. I primi essendosi autoproclamati migliori tendono a sottomettere gli altri, tacciati d'inaffidabilità, ai propri indirizzi strategici e progettuali. Naturalmente, ai cittadini appartenenti ai cosiddetti Stati di serie B tale classificazione, che mira a precostituire un discrimine antropologico meta-politico, non è accettata. La reazione che ne consegue tende a convertire il disagio avvertito in contestazione/ribellione alla natura stessa dell'Unione, sfumata negli aspetti argomentativi ma


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vibrante e demolitrice nei risvolti propagandistici. Li si chiami sovranisti o euroscettici, la sostanza è che la protesta di cui si fanno portatori sta facendo breccia, provocando non poche ansie a coloro che, sentendosi dalla parte giusta della Storia ad agire in base a schemi di potere consolidati, hanno ritenuto di doversi difendere arroccandosi nella cittadella fortificata delle élite nell'attesa che l'onda barbarica passi e poi si ritiri nei propri alvei naturali senza aver provocato danni irreparabili. È tutta qui la questione che spiega i molti fenomeni bizzarri ai quali abbiamo assistito di recente e che sono destinati a intensificarsi con l'avvicinarsi del giorno del giudizio elettorale. Vi sembra normale che il capo di un minuscolo gruppo di europarlamentari notoriamente posti al servizio delle lobby e dei grandi comitati d'affari possa dare impunemente, nel corso di una seduta del massimo organo rappresentativo dell'Unione, del burattino al capo di governo di uno Stato fondatore europeo? È accaduto al presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, durante un suo intervento a Strasburgo. Ma, quando si tratta d'Italia, gli esempi in tal senso sono innumerevoli. Il problema degli ultimi dieci anni è principalmente venuto dalla Germania, non senza complicità della Francia. Ad un certo punto della Storia il processo d'integrazione ha deviato dalla traiettoria originaria. Il Governo tedesco dell'Era di Angela Merkel, forte dei risultati riportati dal proprio sistema produttivo, ha ritenuto che l'Unione potesse avere futuro solo se condizionata dal potere del suo fattore trainante: la Germania. Gli altri Stati avrebbero dovuto adeguarsi alla visione imposta da Berlino. Diversamente, sarebbero stati sanzionati con l'emarginazione portata nei casi più gravi all'isolamento. L'Italia dell'ultimo decennio è stata lo scolaro discolo al quale dover impartire una lezione per rimetterlo in riga. La sanzione si è chiamata Governo Monti. La messa in punizione, invece, è stata garantita da un guardiano affidabile, postosi al servizio dei nuovi padroni, che dal suo ufficio sul colle più alto di Roma, il Quirinale, ha garantito che dopo Mario Monti si susseguissero al comando una sequenza di governi collaborativi con gli organismi sovranazionali che non passassero per il vaglio e la sanzione del voto popolare. Quel tal guardiano della stalla a cui mi riferisco è Giorgio Napolitano. I governi kapò di cui parlo sono quelli del centrosinistra di Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Ma non essendo stata del tutto abrogata la democrazia e, soprattutto, valendo ancora il principio costituzionale della sovranità appartenente al popolo, era ovvio che prima o dopo si dovesse tornare dagli elettori. Cosa che è accaduta lo scorso 4 di marzo. Sappiamo com'è andata. Il malessere dei cittadini per la loro condizione, attribuito in buona parte alle politiche scellerate imposte da una Commissione europea asservita alla volontà di potenza della Germania, si è trasformato in un voto per le forze politiche che incarnano i valori del populismo e del sovranismo. Tali forze non correvano assieme ma, dopo il voto, è bastato poco perché prendessero coscienza delle affinità per mettersi insieme e dare un governo in controtendenza con i desiderata dei padroni del vapore europeo. Da quel momento è come se l'Italia fosse salita sulle montagne russe. Non c'è stato giorno in cui non si sia fatta sentire in un modo o nell'altro la pressione esterna contro gli "alieni" italiani. Tuttavia, per quanti sforzi l'establishment dell'Unione abbia fatto per affondare

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prematuramente la navicella italiana, il Governo Giallo-blu di Lega e Cinque Stelle è ancora sulla cresta dell'onda e si avvicina a grandi bracciate al passaggio elettorale delle europee. Intanto gli eretici italiani, che hanno osato sfidare il potere dei più forti franco-germanici, a poco a poco, stanno diventando degli eroi e degli esempi per le altre comunità emarginate dell'Unione. È la sindrome di Davide contro Golia che ha preso il posto, in Italia, della più sgradevole e pericolosa sindrome di Stoccolma, da cui era affetta la precedente classe di governo della sinistra nostrana. Si è cominciato con la questione dell'immigrazione a dire no ad un modello d'accoglienza forzata che l'Unione aveva scelto per gli italiani, in base al quale il nostro Paese sarebbe dovuto diventare il campo profughi dell'Europa pronto ad accogliere la migrazione da tutta l'Africa e da un pezzo dell'Asia. Quel no sostanziato di concreti atti di governo dal ministro dell'Interno Matteo Salvini ha mandato in tilt le cancellerie europee. Spiazzati dalla fermezza italiana, i campioni del progressismo illuminato si sono dati alle peggiori contumelie e agli insulti rivolti all'indirizzo del governo italiano. Lebbrosi, vomitevoli, inumani, sono solo alcuni dei convenevoli elargiti negli ultimi tempi all'indirizzo dei ribelli di Roma. Segno di forza o di debolezza delle élite europee? Propendo per la seconda. Anche perché nel conflitto in corso non si è accennato alla presenza del convitato di pietra che, alla fine, è il vero obiettivo da proteggere per gli uni, da colpire per gli altri. Parlo della globalizzazione economica che ha accelerato la distruzione di tutti i modelli produttivi tradizionali i quali, seppure con diversa efficacia, avevano nei secoli sorsi garantito la tenuta della coesione sociale all'interno dei singoli Stati nazionali. L'avvento del mercato unico senza frontiere, con il sovrapprezzo dell'ideologia mercatista che l'accompagna, ha prodotto nelle classi sacrificate alle logiche del neo-liberismo una reazione respingente della globalizzazione tout court e, contestualmente, la riscoperta di un anelito sovranista che più di farsi portatore di una volontà di potenza è espressione di un bisogno di prossimità con la propria storia, la propria terra, le proprie tradizioni, nell'articolazione delle dinamiche all'interno delle comunità autoctone del vecchio continente. Sembrerà banale, ma sono convinto che è questo che entrerà nelle urne del prossimo maggio. La volontà di riappropriarsi di un destino, individuale e collettivo, che per un momento è parso perdersi nelle fumose atmosfere dell'indistinto della globalizzazione. Come entrerà nelle urne il processo alla concezione liberale della società e dell'economia che, dopo anni di caos creativo, attende una necessaria messa a punto. Infranto il tabù che debba essere il mercato a regolare se stesso, c'è bisogno di riscrivere un nuovo patto sociale che consolidi il principio in base al quale un individuo cresce se tutto il contesto in cui si trova ad operare e a interagire cresce con lui. Una libertà, particolarmente economica, che deve fare i conti con la responsabilità, è un inedito per i liberisti di tutte le sponde della civiltà occidentale. A cominciare da quei campioni dell'astuzia che sono i liberali americani. Con le loro scuole di pensiero ci hanno riempito la testa di teorie assolutiste circa l'annullamento del ruolo dello Stato nella regolazione del mercato, nella mano libera al privato perché perseguisse il suo unico scopo: il profitto. La pressione è stata tale che noi della vecchia Europa li abbiamo presi sul serio, provando a


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scimmiottarli nell'applicazione radicale del liberismo. Peccato, però, che quando le cose si sono messe male proprio gli statunitensi, quelli della patria della libera iniziativa economica senza vincoli e responsabilità, sono mutati in protezionisti e isolazionisti a proposito della difesa delle produzioni autoctone, con tanti saluti alle teorie della Scuola di Chicago e dei liberisti di tutto il mondo. Sono convinto che nelle urne di maggio si troverà anche la risposta al più drammatico degli interrogativi del nostro tempo storico: si troverà insieme in Europa un modo per difendere gli interessi comuni dall'assalto degli altrui egoismi? La vittoria dell'uno o dell'altro fronte indicherà la direzione verso la quale l'Unione svolterà nel prossimo futuro. Che, poi, a bene vedere è un risultato per il quale ci vale tutto il fastidio di recarsi alle urne in un'assolata domenica di tarda primavera. Cristofaro Sola

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UN’AFFERMAZIONE AVVENTATA Recentemente, in un dibattito organizzato dalla Cisl, il responsabile economico della Lega ha affermato che 'se l'UE resta tossica' dopo le prossime elezioni europee, l'unica soluzione è uscire. Nel senso che se ci saranno i 'soliti mandarini' guidati dalla Germania ad impostare le 'politiche economiche, sociali e migratorie', a 'nostro danno', 'io dirò di uscirne'. Ora, un'affermazione del genere fatta dal 'responsabile economico' di un partito che si accinge a divenire di maggioranza mi sembra alquanto azzardata. E non perché non sia vero, nella sostanza, il 'monopolio' tedesco fino a non molto tempo fa ma è anche vero che, allo stato dei fatti recenti, il pressing della Germania sulle 'non politiche' UE si è fortemente attenuato. Del resto, la revisione della crescita che quel Paese ha subito (dal previsto 1,8% all'1%) ha già lasciato e continua ad approfondire il segno. Peraltro, l'attuale governo è nel viale del tramonto, per diretta dichiarazione della cancelliera, e lo scenario prossimo futuro è tutto da disegnare. Sembra, tuttavia, certo che quel Paese non abbia alcuna intenzione, sentiti gli umori, di ridotarsi di un nuovo Schäuble in quanto, scottata dalla Brexit, non sembra avere alcuna intenzione di bruciarsi con l'Italia, visto il volume di export verso il nostro Paese. E una 'bruciatura' della Germania, ora, sarebbe problematica per tutta l'Europa, senza alcun bisogno che 'responsabili economici' paventino ritirate sull'Aventino. Anzi, forse sarebbe il caso di incrementare e di estendere il 'nostro' pressing. Cosa che, fino ad un recente passato, non abbiamo mai fatto. In sostanza, si tratta di essere presenti sugli eventi senza che fuochi d'artificio di una notte di mezza estate intimoriscano gli animi. Il recentissimo accordo franco-tedesco, a cinquantasei anni dalla firma del Trattato dell'Eliseo, porterà la Grancia e la Germania a confrontarsi preventivamente in vista di importanti riunioni a livello europeo per assumere posizioni comuni su tematiche come difesa e sicurezza. Inoltre, con quell'accordo, vi è l'impegno della Francia a riservare un seggio permanente per la Germania alle Nazioni Unite. È pur vero che la posizione del presidente francese non è, al momento, delle migliori e che quella del cancelliere tedesco è volta all'esaurimento ma resta il fatto che, comunque, talune impostazioni restano e producono effetti anche se i promotori di quelle stesse impostazioni non dovessero più esercitare il loro peso. Per cui, non si tratta di vedere se ci saranno nuovi 'mandarini' agli ordini della Germania e, valutato il 'numero' (?) uscire, quanto impegnarsi perché le future valutazioni europee e i conseguenti nulla osta non siano partigiani. Nel senso che, al di là delle politiche migratorie e di quelle sociali, non ci sarà da attendere per vedere quali potranno essere gli effetti di quell'accordo perché questi sono già in atto: la vicenda


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di Fincantieri, protrattasi tra il 2017 e il 2018, insegna. E non tanto per il disinvolto atteggiamento tenuto al riguardo dal presidente francese che è arrivato a nazionalizzare un'impresa già acquisita a maggioranza delle quote, previo accordo con precedente governo. No. Non si tratta, quindi, del nuovo accordo intervenuto con il governo Macron che ha comportato la perdita della maggioranza per gli italiani. Né si tratta della nuova acquisizione italiana, quella di Chantiers de l'Atlantique francese, con l'avallo di quel governo il quale, subito dopo, ha chiesto unitamente alla Germania l'intervento dell'Antitrust europeo che, con immediatezza, ha bloccato l'acquisizione per le 'necessarie verifiche'. Né si tratta del comprensibile interesse tedesco a favore di Meyer Werft, il più grande competitore tedesco di Fincantieri. Né, peraltro, si tratta del fatto che, per volume di fatturato, quell'acquisizione, stante l'art. 22 par. 1 del Regolamento UE sulle concentrazioni, non avrebbe dovuto suscitare il benché minimo interesse della Commissione Europea. E nemmeno si tratta del fatto che precedenti acquisizioni francesi avrebbero ben dovuto trovare una sia pur minima attenzione da parte dell'Organismo di controllo europeo. No. Qui si tratta del fatto che non c'è stata voce italiana che si sia levata per una sia pur timida richiesta di chiarimenti (non mi viene altro sinonimo). Si tratta del fatto che il progetto dell'industria Europea della Difesa sarà destinato a coinvolgere altre aziende Italiane, portatrici di importanti competenze complessive per il sistema paese, di occupazione di qualità, ricerca e sviluppo funzionale alla crescita tecnologica, di design authority su sistemi e prodotti e soprattutto di un indotto qualificato. Un settore, questo, che conta in Italia oltre duecentomila occupati ed è tra i primi nella capacità di generare esportazione. Di questo si tratta. E non di 'uscire' perché se Dio non voglia decidessimo di farlo non è da pensare che gli accordi economici a nostro sfavore si fermerebbero. Anzi, sarebbe il momento di intensificarli visto il danno che potremmo procurare soprattutto agli amici teutonici. Proprio di questo si tratta: cioè di quale ruolo noi, intendendo per 'noi' il Governo, i componenti della Commissione da questo prossimamente designati, e i parlamentari europei prossimamente eletti, vorremo, unitariamente, sottolineo unitariamente, tenere in Europa. Si tratta, cioè, non di cosa faranno gli altri bensì di cosa saremo capaci di fare noi, a prescindere dagli strumentali, tristi, commentatori a sostegno del recente risentimento francese per l'incontro con i gilet gialli. Francesco Diacceto

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FRANCE, MON AMOUR PREMESSA Il presidente Macron, lo scorso 7 febbraio, sentendosi offeso "per gli attacchi senza precedenti del governo italiano", ha richiamato in patria l'ambasciatore. Non ha digerito, di fatto, l'incontro tra il ministro Di Maio e alcuni esponenti del movimento "Gilet Gialli". Gli ha fatto da eco Nathalie Loiseau, ministro degli esteri, che invita il Governo italiano a "far prevalere la preoccupazione per gli affari del proprio Paese, del benessere della propria popolazione e di fare in modo di avere buone relazioni con i vicini". Di Macron ricordiamo tutti le volgari e reiterate ingiurie nei nostri confronti; di Nathalie Loiseau, invece, è opportuno citare quanto asserito in occasione del World Economic Forum, tenutosi a Davos dal 22 al 25 gennaio 2019, che vide il solo presidente Conte formulare una proposta sensata: "All'ONU vi sia un solo seggio che rappresenti l'Unione Europea e non un seggio per ogni stato". La Francia di Macron, per bocca del suo ministro degli esteri, replicò testualmente: "Non giochiamo a chi è più stupido", lasciando chiaramente intendere che non se ne parla proprio di favorire il processo d'integrazione europea con un segnale dal forte valore simbolico, rivelando in tal modo il vero volto dei falsi europeisti. In psicologia esistono seri studi per inquadrare le patologie di chi sia aduso a imputare agli altri le proprie azioni sconce, per lo più racchiuse nei concetti di "gaslighting" e "proiezione". Il primo termine indica una sporca tattica di manipolazione protesa a distorcere la percezione della realtà, insinuando dubbi che possono diventare tanto più forti quanto più autorevole è il ruolo di chi la metta in pratica. La "proiezione", invece, evidenzia la meschina incapacità di acquisire consapevolezza delle proprie mancanze e la propensione a riscontrarle negli altri. Apparentemente il gaslighting potrebbe essere recepito come uno strumento maligno razionalmente utilizzato per fini biechi, mentre per la proiezione risulta più evidente la matrice psico-patologica. In realtà anche il gaslighting va considerato alla stregua di una malattia mentale: chi lo pratica, infatti, in linea di massima è avviluppato totalmente nel proprio pensiero e nei propri convincimenti. Quando la Loiseau afferma "non giochiamo a chi è più stupido", non pronuncia una frase con la consapevolezza di chi sappia di giocare sporco ma con la convinzione di "avere ragione". Per lei, infatti, come per tanti altri falsi europeisti, è inconcepibile una vera Europa Unita e una Francia priva del suo potere di veto all'ONU. Stiamo parlando, quindi, di soggetti che, a prescindere dai limiti etico-culturali che li rendono inadeguati al delicato ruolo ricoperto, sono dei sociopatici affetti da gravi disturbi mentali, tipici dei narcisisti vendicativi e degli psicopatici che adottano comportamenti disadattativi nelle


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proprie relazioni. Sono dei malati, di fatto, che andrebbero innanzitutto curati da bravi psicoterapeuti. E' importante sottolineare questo aspetto perché non è giusto, per loro colpa, inficiare gli stretti legami che, da sempre, affratellano due popoli. LETTERA APERTA ALL'AMBASCIATORE DI FRANCIA E AL DIRETTORE DE "LE FIGARO" Egregio Ambasciatore Christian Masset, Gentile Direttore Alexis Brézet, per rigida disposizione medica devo stare lontano dalle fritture, dagli insaccati, dai grassi saturi e dai cretini di ogni ordine e grado, soprattutto da quelli di alto grado che, rispetto ai cretini ordinari, sono molto più dannosi. Per distanza non s'intende solo quella fisica ma anche mentale e pertanto, non potendo indirizzare direttamente questo messaggio al più grande tra i cretini che popolano il vostro meraviglioso paese, lo affido a voi, in modo che gli sia recapitato. Sarei felice, inoltre, di vederlo pubblicato affinché fosse letto soprattutto da quella parte colta e illuminata del popolo francese che, sin dal 1826, trova nel quotidiano "Le Figaro" un solido e serio punto di riferimento mediatico. Mi sia consentito di accompagnare la richiesta di pubblicazione con una dedica a un glorioso giornalista della testata, nonché grandissimo storico e prezioso mentore di tanti giovani europei che, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, ebbero la capacità di capire il mondo meglio di quanto non fosse riuscito ad altri, scattando in avanti, e non di poco, rispetto ai tempi. Quei giovani, che ora hanno i capelli bianchi e con i quali ho condiviso mille battaglie, ancora oggi costituiscono il patrimonio più prezioso di questa sgangherata Europa che stenta a trovare la strada maestra. Grazie, Jean-Calude Valla, per tutto ciò che ci hai insegnato. Se tu fossi ancora vivo faresti senz'altro sentire la tua autorevole voce per mettere in riga i cretini, sulla scia di ciò che sempre hanno fatto i grandi francesi, in ogni epoca. Egregio Ambasciatore, gentile Direttore, chi scrive, sin da quando indossava i pantaloni corti, della Francia ama tutto: il suo incantevole territorio, parte del quale raggiunge livelli di suggestione che trascendono la bellezza e sconfinano in una magia travolgente, capace di far perdere ogni cognizione spazio-temporale; la cultura, che trasuda da ogni contesto e quindi non solo dai testi dei grandi romanzieri; la musica, che grazie alla poetica degli chansonnier alberga ancora oggi su vette irraggiungibili dai comuni mortali; il cinema, che ha donato al mondo la straordinaria bravura di registi e attori ineguagliabili, meritevoli occupanti di quell'Olimpo indegnamente popolato da troppe mezze cartucce graziate dalle mistificazioni, artate e involontarie, di quel variegato e disordinato caleidoscopio umano che gravita intorno alla settima arte. In questo sviscerato amore so di essere in buona compagnia, non solo tra i confini del mio Paese. La Francia, per chiunque sappia volare da vetta a vetta senza scendere a valle, è sempre stata e sempre resterà una terra incantevole. E non è certo un caso, tra l'altro, se uno tra i più grandi uomini mai nati su questo pianeta, se non il più grande in assoluto, in un celebre saggio, argutamente argomentando, sostanzialmente scrisse che la Germania può sempre vincere una guerra contro la Francia, ma culturalmente non potrà mai sconfiggerla. (Friedrich Nietzsche, "Considerazioni Inattuali", capitolo I). Per decenni, le vicende interne, anche quando hanno generato aspetti sociali non condivisibili,

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non hanno mai condizionato i reciproci buoni rapporti. Parimenti non hanno mai fatto testo le sortite degli zelanti soggetti improvvidamente definiti "intellettuali" o addirittura "nuovi filosofi", tipo Bernard-Henry Lévi che, recentemente, nel programma televisivo condotto da Lucia Annunziata, dopo aver sputato fiele sul Governo Conte, ha avuto l'ardire di indicare Matteo Renzi, Carlo Calenda ed Eugenio Scalfari come fulgidi esempi della "buona élite". Ora, però, il cretino che occupa le meravigliose stanze nelle quali un tempo si sollazzavano Madame de Pompadour e i suoi amici, sta dando troppo fastidio. "Certo - direte voi - è un cretino, ma ha preso oltre 20milioni di voti, espressi proprio da quel popolo che dici di amare tanto e quindi la colpa è principalmente dei francesi se oggi accadono certe cose". Parole sante, ovviamente, e inconfutabili, soprattutto da uno come me, che per decenni ha visto il suo popolo delegare il potere alla peggiore congerie di rifiuti umani. Sul comportamento delle masse nelle varie epoche storiche sono state scritte pagine memorabili, che non devo certo ricordare a voi. La democrazia ha sempre fatto i conti con le debolezze umane e con l'ignoranza dei più: è così sin dai tempi di Pericle e con questa triste realtà dovremo convivere fin quando il sole non si stancherà di illuminarci e, spegnendo la luce, spegnerà tutte le nostre vacue illusioni. Nel frattempo è opportuno che ci si sforzi per dare un senso alle nostre azioni. Si può sbagliare, si può cadere, ma l'importante è porre rimedio agli errori e rialzarsi: quando ciò non accade ci si trasforma in zombi, ossia in morti viventi. Sia ben chiaro che, di là da ciò che traspare sui social, gli italiani di peso, con solide radici e grande valenza culturale, non si sentono minimamente offesi per le squallide e volgari esternazioni del cretino, dal momento che gli tributano la stessa considerazione tributata a una cacca di mosca. Nondimeno, tuttavia, siccome non tutti conoscono i fatti nella loro essenza più recondita e complessa, per amor di verità va ben spiegata la "proiezione" di cui parlavo in premessa. Pazienza se i fatti narrati colpiranno non solo lui e potranno ferire l'amor patrio di tanti di voi: la verità a volte fa male, ma non per questo può essere sottaciuta. Per il cretino dell'Eliseo noi saremmo "irresponsabili, vomitevoli, cinici". Quale meraviglioso esempio di proiezione perfetta! "Irresponsabile", infatti, è un termine che si addice benissimo a chi ha bombardato la Libia per mera gelosia nei confronti dell'Italia in virtù del rapporto privilegiato che con essa intercorreva, creando le premesse per il disastro dell'invasione migratoria; "cinico", casomai, è chi manda la Gendarmerie a Ventimiglia per respingere con modi bruschi qualsiasi straniero tenti di entrare nel vostro "sol sacré", magari sconfinando anche in territorio italiano; "vomitevole", e non solo, è chi sfrutta indecorosamente l'Africa stampando moneta per quattordici nazioni, beneficiando del signoraggio e "cinicamente" sfruttando il lavoro di bambini nelle miniere. Dal Niger, per esempio, proviene il 30% dell'uranio che serve per le centrali nucleari, mentre il 90% della popolazione nigerina vive in condizioni miserrime, senza nemmeno l'energia elettrica. Scegliete voi, infine, il termine più adatto per dei governanti che offrono ospitalità a una quindicina di terroristi, negando la loro estradizione. Può, dunque, un Paese come la Francia essere rappresentato da una cacca di mosca che parla a


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vanvera e ha più rogna addosso di quanto non se ne trovi in un canile mal curato? E voi, non vi vergognate un po' per essere parte integrante di un sistema così marcio? Il "romanticismo" di un amore per le tante cose belle che la Francia ha prodotto e continua a produrre resta intatto, ma sarebbe ora di porre fine alle cose brutte, che fanno male. A tutti. Il popolo francese ha il dovere di fare ammenda dei propri errori, come in parte già sta avvenendo, e creare i presupposti affinché il cretino sia rimosso nel più breve tempo possibile, lasciando campo libero a chi possa veramente agire al servizio del Bene, stoppando l'indecorosa, sporca e criminale politica estera, soprattutto per quanto concerne le vicende africane. Questa non è ingerenza, ma tutela dei nostri interessi, perché le scelleratezze dei vostri governanti condizionano la vita dell'intera Unione Europea e risultano oltremodo dannose proprio per noi italiani. Chiunque eserciti un qualsivoglia potere, in qualsiasi contesto, pertanto, si assuma le proprie responsabilità al cospetto non solo del suo popolo ma del mondo intero. Il non farlo vuol dire rendersi complici di malandrini affetti da turbe psichiche, indegnamente insigniti di un potere che non meritano e che non sono in grado di esercitare in modo corretto. Fate in fretta, quindi. Non vediamo l'ora di ritornare a pensare alla Francia senza disgusto. Lino Lavorgna

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ANGELA ROMANO: L’INNOCENZA INFRANTA INCIPIT 3 gennaio 1863, Castellammare del Golfo, contrada Fraginesi. Angela Romano, nove anni, figlia di Pietro e di Giovanna Pollina, fu fucilata dai bersaglieri del generale Pietro Quintino insieme con sei concittadini: Maria Crociata, anni trenta, analfabeta; Marco Randisi, anni quarantasei, bracciante agricolo, storpio, analfabeta; Benedetto Palermo, anni quarantasei, sacerdote, agonizzante per più di un'ora, finito con un colpo di baionetta alla gola; Angela Catalano, anni cinquanta, contadina, zoppa, analfabeta; Angela Calamia, anni settanta, disabile, analfabeta; Antonino Corona, anni settanta, disabile. Furono tutti considerati dei pericolosi briganti. Nel registro dei defunti della Chiesa Madre di Castellammare del Golfo è riassunta la triste fine della povera Angela: "Romano Angela filia Petri et Joanna Pollina consortis. Etatis sua an.9 circ.Hdie hor.15 circ in C.S.M.E Animam Deo redditit absque sacramentis in villa sic dicta della Falconera quia interfecta fuit at MILITIBUS REGIS ITALIE. Eius corpus sepultum est in campo sancto novo". Non sapremo mai se i caratteri maiuscoli utilizzati per scrivere che fu uccisa dai soldati del Re d'Italia volessero significare, nella mente di chi redasse la nota, rispetto per il ruolo ricoperto, e di converso rispetto per il sovrano, oppure il disgusto e il disprezzo per un gesto ignobile compiuto da adulti, in rappresentanza di un Re, nei confronti di una povera bambina. CONOSCI TU LA TERRA DOVE FIORISCONO I LIMONI? (Goethe) Sono tanti i luoghi ameni della nostra penisola e tra di essi figura Castellammare del Golfo, meta prediletta di turisti raffinati, estasiati dai suggestivi panorami su un mare cristallino, che s'infrange sulla lunga costa la cui bellezza è sacra anche agli Dei. Nel 1718 la Sicilia era al centro della contesa tra Filippo V di Spagna e Amedeo di Savoia, entrambi con ambizioni dinastiche per il suo possesso. Il 13 luglio, cinque navi inglesi, giunte in soccorso dei piemontesi, stavano per colare a picco un bastimento spagnolo, che cercò riparo in un'insenatura nei pressi del castello, di fatto mettendosi in cul-de-sac. Il fuoco congiunto dei cannoni inglesi atterrì i cittadini, che già presagivano una triste sorte. All'improvviso, però, una figura femminea di bianco vestita, seguita da una schiera di angeli, prese forma sulla sommità del monte delle Scale, abbagliando l'intero tratto di mare presidiato dalle navi inglesi, i cui comandanti, spaventati, ordinarono subito di invertire la rotta. Resta da capire come mai le Alte Sfere dell'Onnipotente, dopo aver dato cospicua mano alle pretese di Enrico V, assegnarono poi la corona a Vittorio Amedeo di Savoia.


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Ma queste sono cose cui nessuno può dare risposta e che non vanno nemmeno discusse. A prescindere dall'esito finale della guerra di successione spagnola, comunque, ancora oggi, con cadenza biennale, si tengono riti di ringraziamento per la "Madonna del Soccorso" e rievocazioni storiche dell'evento, dal forte richiamo turistico. Nel 1863, purtroppo, sempre per gli inspiegabili motivi di cui sopra, nessuna divinità venne in soccorso di quei poveri e inermi cittadini massacrati dalle forze governative, assurti a un'imperitura fama della quale avrebbero fatto volentieri a meno. I FATTI Nel 1861 fu varata la legge che prevedeva la leva obbligatoria, assente nel Regno Borbonico, invisa ai poveri contadini meridionali, costretti ad abbandonare per ben sette anni il lavoro nei campi, unico sostentamento familiare. La legge prevedeva l'esonero per i giovani rampolli dell'alta borghesia, definiti "cutrara", ovvero possessori della "coltre" del potere grazie al "collaborazionismo" prestato prima e dopo la conquista del regno. Nei primi due giorni di gennaio si ebbe una sommossa fomentata dai "surci" filoborbonici, che presero d'assalto le case dei notabili e gli edifici pubblici. Gli scontri furono violenti e generarono numerosi morti da ambo le parti, ivi compresi il commissario della leva e il comandante della Guardia Nazionale. Il Governo reagì duramente inviando un cospicuo numero di bersaglieri, al comando del generale Pietro Quintino, la cui ferocia e soprattutto il "disprezzo" per i meridionali erano ben noti. Con uno spiegamento di forze adatto a un vera guerra contro nemici di pari livello, il compito assegnatogli si trasformò in un gioco da ragazzi. I briganti, al di là dell'alone leggendario che accompagna le loro gesta, erano poveri cristi delusi, affamati e male armati e solo alcuni di loro potevano vantare qualche esperienza militare nell'esercito borbonico. Nella fattispecie, per i fatti di Castellammare, è addirittura improprio definire "briganti" le vittime della repressione. Gli atti concernenti il processo, purtroppo, sono andatati quasi tutti distrutti e sono disponibili solo poche notizie, dalle quali si evincono le accuse rivolte ai prigionieri: sostegno ai rivoltosi e omertà per non aver svelato il loro nascondiglio, che ovviamente non conoscevano: non siamo certo al cospetto di "eroi" pronti a sacrificare la vita per difendere i propri ideali. La pena di morte fu decisa direttamente da Pietro Quintino e pur volendolo considerare il più bieco tra gli uomini è davvero azzardato ritenere che la condanna riguardasse anche la piccola Angela, per la cui sorte si sono formulate varie ipotesi, tutte senza prove concrete. Quella più plausibile, tuttavia, è che la bimba avesse visto qualcosa che non doveva vedere, nella villa che fu teatro dell'esecuzione, e quindi fu aggiunta all'elenco dei condannati per farla tacere. Per meglio comprendere il clima sociale di quel periodo fa testo il giudizio espresso dal generale Giuseppe Govone, che giustificò il massacro affermando che "la Sicilia non è ancora uscita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni dalla barbarie alla civiltà". Govone era un altro carognone ancora più spietato di Quintino, inviato in Sicilia nel 1862 e subito distintosi per la sua ferocia, che gli valse l'accusa di "criminale di guerra".

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Il Parlamento, però, dopo alcune sedute di facciata lo assolse e, tanto per far comprendere quale fosse la reale considerazione dei territori annessi, lo gratificò con una promozione. COSA INSEGNA QUESTA STORIA Ho indossato la prima divisa di bersagliere all'età di sei anni, dono di compleanno del mio adorato Papà, soldato d'Italia tempratosi tra le assolate dune libiche. Dei bersaglieri ho sempre sentito decantare le gesta eroiche e pertanto, a venti anni, indossarne la divisa, presso il più glorioso dei battaglioni, mi sembrò la cosa più naturale del mondo. Districare la complessa matassa della nostra storia non è impresa facile, soprattutto se si abbia la pretesa di codificare uomini, epoche ed eventi senza contestualizzarli, utilizzando un metro di giudizio valido oggi, che però è fonte solo di fallaci generalizzazioni se rapportato al passato. Questo errore si commette con metodica frequenza, generando una sequela impressionante di falsità e leggende, spesso volutamente, per adattare la storia alle esigenze di chi la scrive o a quelle dei suoi padroni; a volte, però, la distorsione non è frutto di malafede e quindi risulta ancora più pericolosa: non vi è nulla di più pericoloso, infatti, dell'essere convinti di avere ragione. Conosciamo tutti, poi, l'orgogliosa fierezza dei militari e il rispetto tributato alla propria divisa, al corpo di appartenenza. So bene quanto siano forti questi sentimenti perché, da giovane, ne ero pervaso anche io. Solo l'esperienza maturata nel faticoso incedere lungo i sentieri della vita ha reso possibile mettere ordine nel retorico ginepraio che abbaglia la vista e annebbia la mente: una divisa è solo della stoffa, magari di buona fattura, lavorata in modo da essere indossata per svolgere determinati compiti, a volte molto terribili. Una divisa non va onorata; vanno onorati gli uomini che la indossano "con onore". E' l'uomo la misura di tutte le cose ed è solo lui che va giudicato, nel bene e nel male, per le azioni che compie. La mia fierezza per aver servito la Patria indossando la divisa di bersagliere rimane immutata, ma solo perché non ho mai tradito i precetti di civiltà che ogni essere umano, con o senza divisa, dovrebbe sempre rispettare. Altri uomini, che pure l'hanno indossata, macchiandosi però d'immani crimini, non posso sentirli in alcun modo vicini e prenderne le distanze, senza riserve, è doveroso. Con i bersaglieri che si sono trasformati in assassini, durante la repressione post-unitaria, non ho nulla a che vedere e voglio ribadirlo con chiarezza. La verità, come sempre, rende liberi. Lino Lavorgna


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FRANCESCO PETRARCA A NAPOLI Napoli città cosmopolita sempre visitata da illustri viaggiatori in ogni epoca, artisti e scrittori di gran fama che ne hanno accresciuto il prestigio.Tra Francesco Petrarca. Nato in Toscana, ad Arezzo, all'alba del 20 luglio del 1304 il giovane Petrarca visse con la famiglia paterna a Avignone, Francia, dal momento che il padre era notaio alla Corte papale. Nel 1320 si iscrisse all'Università di Bologna. Nel periodo di studi visitò molte città della penisola. Protetto dal cardinale Giovanni Colonna e dal fratello principe Giacomo Colonna di Stigliano, patrizio romano e di Napoli, a Roma venne incoronato Sommo Poeta nel Palazzo del Senato da Roberto d'Angiò detto il Saggio, sovrano di Napoli. Per conto del Cardinale Colonna e di Papa Clemente VI nell'estate del 1343 partì da Roma per Napoli, città che aveva già visitato 2 anni prima. Re Roberto d'Angiò era morto, ed ebbe l'incarico ratificare la reggenza del Regno di Giovanna Durazzo, appena 16 anni, e di ottenere in cambio la liberazione di alcuni prigionieri politici, i tre fratelli Giovanni, Pietro e Ludovico Pipino, rinchiusi nelle segrete di Castel Nuovo, accusati di ribellione. Pare che Petrarca durante i tre mesi del suo secondo soggiorno napoletano fosse ospite nel palazzo dei principi Colonna di Stigliano e frequentasse il Maschio Angioino, accolto con lusso e onori alla corte angioina. Scrittore e poeta, studioso di storia e opere classiche, Francesco Petrarca era anche appassionato numismatico e botanico. Girò per i chiostri dei conventi e per giardini, visitò le ricche biblioteche napoletane. Amava il clima, le bellezze di Napoli e lo splendido Golfo. Fece molte escursioni nei dintorni, soffermandosi nei si ti archeologici. Rimase però deluso dalla corte reale, degenerata e corrotta dopo la morte del sovrano, dominata da reggenti avidi e da affaristi. La cattiva giustizia, l'assenza di cultura. Il disordine e l'abbandono della città e della popolazione, la sporcizia lo facevano inorridire, tanto che rimpiangeva la Napoli conosciuta due anni prima. Gli amici di Napoli erano cordiali, affettuosi, ma indiscreti, pettegoli, esuberanti, donnnaioli. Tra questi quello che credeva suo buon amico, il nobile Barbato da Sulmona, gli copiò dei versi inediti e li diffuse a suo nome. Petrarca rimase profondamente amareggiato. Una volta fu portato ad assistere ad un incontro di lotta vicino la chiesa di Santa Caterina a Formello: con suo grande orrore il perdente venne ucciso a pugnalate mentre il vincitore veniva acclamato dal popolo. Era colpito negativamente anche dalle leggende sinistre di fantasmi che infestavano la città, e temeva pure i cultori dell'occulto che si trovavano in ogni dove. La

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predizione del terribile maremoto che colpì Napoli, fatta da un astrologo molto seguito dal popolo e dalla corte angioina fu il colmo per lui: stanco di tutti questi aspetti della città, troppo distanti dal suo modo di vivere. La notte del 24 novembre 1343 preannunciato da fragorosi boati, il mare in burrasca si rivoltò affondando navi e barche, quasi distruggendo l'antico porto e il faro. Le acque arrivarono sulla terraferma invadendo le strade, le fogne scoppiarono. Vi furono molte vittime tra quelli che non riuscirono a mettersi in salvo verso luoghi più alti. Francesco Petrarca, inorridito da questo scenario da tregenda, soffocato dalla puzza che si levava da ogni dove, terrorizzato fuggì in carrozza per Gaeta e di lì si imbarcò per Livorno, quindi risalì in carrozza verso Parma. Di questa esperienza atroce sul già deludente secondo soggiorno a Napoli, scrisse descrivendo il suo stato d'animo nei Familiares. Michele Di Iorio


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KORAKRIT ARUNANONDCHAI Fino al 31 marzo 2019 - Spazio Maiocchi - Via Maiocchi 5/7 - Milano - spaziomaiocchi.com KALEIDOSCOPE è lieto di annunciare una mostra personale dell'artista Korakrit Arunanondchai. Nata in Tailandia e basata a New York, l'artista Korakrit Arunanondchai (nata nel 1986) fa uso di video, scultura, pittura e performance per riflettere sulla dualità dell'animismo e della tecnologia, attivando emozioni collettive attraverso un insieme cerimoniale. Con elementi simbolici presi in prestito dalla mitologia buddista, e personaggi tratti dalla cerchia familiare e di amici, la pratica di Arunanondchai è un flusso in cui ogni lavoro si nutre di quello precedente, costruendo un linguaggio generale in cui animismo, tecnologia, storia e filosofia sono legati insieme . In primo piano sulla copertina del numero attuale di KALEIDOSCOPE, Arunanondchai interseca il suo ecosistema personale con narrazioni storiche - dalla morte del Re di Thailandia all'episodio di notizie dei ragazzi delle caverne - navigando tra il tempo non lineare e gli spazi intermedi per esplorare un corpo collettivo di coscienza. In questa mostra allo Spazio Maiocchi, una recente video-opera (Storia in una stanza piena di persone con nomi divertenti 4, 2018) e due sculture simili a totem (Workshop for Peace, 2018) evocano la mutevolezza e la metamorfosi del nostro mondo materiale, espandendo sulla preoccupazione dell'artista per l'estinzione e l'annientamento della specie umana a causa dell'iper-evoluzione. KALEIDOSCOPE è oggi la rivista più innovativa di arte contemporanea e cultura visiva, fondata nel 2009 al centro di uno studio creativo con un approccio chiaramente curatoriale e interdisciplinare. Da ottobre 2017, lo studio e lo spazio espositivo di KALEIDOSCOPE sono ospitati dallo Spazio Maiocchi di Milano. Spazio Maiocchi è un nuovo spazio sociale in cui arte, design e moda si fondono per dare forma a nuove esperienze culturali. Nato dalla convergenza dei soci fondatori visionari Carhartt WIP e Slam Jam, Spazio Maiocchi presenta un programma interdisciplinare di mostre ed eventi in un ex complesso industriale nel centro di Milano. Giny

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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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