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Aeromensile di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Nuova serie - Numero 25 Giugno 2014 - Anno XVI

DEGRADO E FERMENTI

: STA FARESE I V I T ER PPE T T N I A L’ IUSE G A G I M D O

UR A M

PRIMO PIANO: LA DESTRA CHE NON C’E’ DI ANGELO ROMANO


www.confini.org

Confini Aeromensile di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 25 - Giugno 2014 - Anno XVI

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettore: Massimo Sergenti +

Hanno collaborato a questo numero: Giovanni Caprara Anna Patrizia Caputo Gianni Falcone Giuseppe Farese Roberta Forte Giny L’Infedele Pierre Kadosh Enrico Oliari Pennanera Gustavo Peri Angelo Romano Cristofaro Sola

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Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

+ Registrato presso il Tribunale di Napoli n. 4997 del 29/10/1998

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

LA DESTRA CHE NON C’E’ Capisco le ragioni delle tante aperture verso Renzi, ma non le condivido. L'avvento di Renzi rappresenta il ritorno della politica e, quindi, l'allontanamento del "sogno costituente", particolarmente caro a chi scrive (inoltre il "riformatore" è Lui e nessun altro, gli altri solo comparse). Un ritorno, quello della politica, che potrebbe non essere un male se si trattasse di buona politica, tuttavia mi è difficile credere che Matteo Renzi - che ha liberamente scelto di militare nelle file del vecchio PD (DS- PDS- PCI) - appartenga autenticamente ad una cultura diversa, quando anche fossero vere le sue parole di sfondamento a destra ed efficaci i cambiamenti annunciati. Una cultura che ha generato i Vicerè alla Bassolino (Bagnoli, le ecoballe, la truffa della città cablata, il deficit di comune e regione e consulenze professionali da capogiro), i Bassanini e le strumentali e deleterie riforme della P.A. che hanno dato il via al bengodi degli enti locali con le partecipate, i dirigenti a contratto, gli staff, la scelta a piacere dei segretari comunali, i fondi ai Gruppi politici ed alla transumanza nei ranghi della Pubblica amministrazione del personale dei partiti, i Greganti, le Coop rosse, l'"abbiamo una banca" e il disastro del Monte Paschi, la spesa sconsiderata e l'immane debito pubblico, lo strapotere sindacale, i magistrati troppo spesso in politica, l'incivile consuetudine di azzerare puntualmente, sotto elezioni, le casse degli enti locali governati e a "rischio" di alternanza e quella ancora più incivile di disfare metodicamente ciò che hanno fatto i governi di segno opposto, l’insopportabile quanto infondato: “noi siamo diversi e migliori degli altri” (che proprio Renzi incarna e perpetua). Per non parlare del ruolo e dei disegni degli inquilini del Colle di stessa matrice culturale. A riprova dell’imprinting culturale di Renzi: il trattamento che ha riservato a Letta, il fatto che come quasi tutti gli altri politici ha approfittato della legge per farsi pagare contributi e stipendio dallo Stato, salvo a rinunciare quando lo hanno "beccato" (legge che non ha detto di voler abrogare o cambiare pur costando tantissimo), la regalia elettorale degli 80 euro ai soliti "protetti", i contenuti della legge elettorale, l'orribile riforma del Senato che cristallizza un regionalismo deleterio, che santifica il doppio incarico (sindaci e consiglieri regionali anche senatori (in distonia con le norme che regolano il Parlamento Europeo), che non garantisce maggior efficienza (sarebbe bastato specializzare le due Camere per materie) e che sottrae al popolo “sovrano” un ulteriore brandello della scarsa sovranità che gli viene riconosciuta (complice Forza Italia che appare incapace di andare oltre il naso dell’ex cavaliere).


EDITORIALE

Se questo è il "buon giorno" forse non ci sarà il mattino che molti auspicano, nonostante il piglio decisionista, alcune buone intenzioni, le grandi aperture di credito da parte dei poteri forti e dei media e qualche mossa azzeccata. Per far risorgere la buona politica meglio lavorare alla costruzione della “Destra che non c'è”. Una Destra nuova, capace, ariosa e moderna, nella quale i valori si praticano e non si predicano, meritocratica, responsabile, rinnovata e innovatrice, orientata alla cultura e alla scienza, capace di distillare soluzioni avanzate per determinare quel futuro migliore che gli italiani meritano, di valorizzare pienamente il genio italiano, la sola reale risorsa del Paese, di realizzare l’Italia che tutti sogniamo: avanzata, competitiva, civile, accogliente, equa, solidale, attenta alla qualità della vita dei suoi cittadini ed in grado di tutelarne la dignità. Gianfranco Fini ritorna all’impegno. Non è un uomo nuovo, ma che senso ha “rottamare” il talento e l'esperienza? Questo sport suicida meglio lasciarlo praticare alla sinistra. A noi piace “rottamare” i vizi, mai le virtù. Fini è un uomo cambiato, rigenerato, ritemprato anche dall'autocritica, più consapevole ed è, forse, il solo che può dar vita alla “Destra che non c'è”, per la lungimiranza, l'attenzione ai contenuti, il senso di responsabilità, il genuino amor di patria, l’onestà adamantina - checché ne dicano i suoi prezzolati detrattori - comprovati da una vita di impegno e in prima linea senza che mai sia stato solo sfiorato da un sospetto o da un avviso di garanzia. Se fosse stato come tanti altri, se avesse voluto approfittare del suo ruolo si sarebbe arricchito, invece è Il solo leader che ha saputo garantire al suo partito, AN, finché lo ha governato, stabilità finanziaria, consistenza patrimoniale e merito creditizio, tant’è che oggi, i colonnelli che lo hanno tradito - e che hanno dimostrato alle europee quanto valgono in termini di consensi - possono anche munificamente dilapidare quelle risorse senza correre il rischio di essere stigmatizzati dalla” stampa amica”. Il 28 giugno, a Roma (Palazzo dei Congressi dell'Eur, dalle ore 10 - Iscrizioni a parlare e informazioni: www.partecipa.info) si accenderanno i riflettori, se son rose, fioriranno. Angelo Romano

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DEGRADO E FERMENTI La perdurante crisi di questi ultimi sei anni ci consegna l'immagine di un'Italia frustrata nelle sue originarie aspirazioni e impoverita nei fondamentali economici e morali che l'hanno retta almeno negli ultimi cinquant'anni. Il dato di crisi che osserviamo mostra l'evento saliente dell'implosione del cosiddetto ceto medio. Quello stesso ceto medio che ha fatto da sostegno al consolidamento del moderatismo politico in Italia. L'ideologia moderata che ha prevalso in Italia è stata impersonata da due differenti, e consecutivi, soggetti-partito i quali hanno occupato il centro della scena politica sia nella vita della cosiddetta "Prima Repubblica", sia in quella della "Seconda Repubblica". Si tratta della Democrazia Cristiana, prima, e di Forza Italia, dopo. Si potrebbe asserire che la seconda sia nata letteralmente dalle ceneri della prima allo scopo di arginare la valanga che avrebbe condotto al governo della nazione una sinistra egemonizzata dai propugnatori del comunismo, applicato alle società capitalistiche dell'Occidente libero. Ad un'analisi critica, voler sostenere che l'operazione di contenimento, alla fine, sia riuscita è quanto meno azzardato. La verifica storica racconta altro. Pur tuttavia, l'esistenza di un centrodestra organizzato, tanto nella sua fase iniziale come partito-azienda del leader autocratico, quanto, a partire dal 2008, attraverso il tentativo di inglobare tutte le correnti presenti in campo in un unico contenitore, qual è stata l'esperienza breve del PdL, ha comunque consentito che la società italiana non venisse definitivamente egemonizzata dalle forze di sinistra. Bisogna riconoscere, però, che proprio la sinistra, nonostante non riuscisse a prevalere nelle urne, abbia di gran lunga vinto la battaglia per l'egemonia nel controllo dei gangli vitali dello Stato, ottenuta grazie al perseguimento incessante della politica di occupazione delle "casematte" del potere, delineata da Antonio Gramsci e scientificamente pianificata da Palmiro Togliatti. Dalle fabbriche, in costante successione, il personale politico, accuratamente selezionato dai centri studi finanziati dal Partito Comunista, ha occupato i luoghi naturali dove è stato progettato e guidato lo sviluppo di una società, oltre i domini dell' economia. Cultura ed etica sono stati due termini ampiamente sfruttati nel lessico domestico della sinistra. Università, scuole, giornali, tribunali e, in genere, ambienti artistici e culturali sono stati gli spazi occupati "militarmente" dall'ideologia comunista, ben prima che maturasse il tempo, con l'avvento della seconda Repubblica, della gestione capillare della Pubblica Amministrazione, in particolare delle sue ramificazioni territoriali. Certamente vi sono stati, nella Storia della seconda metà del Novecento italiano, eventi che hanno rappresentato i punti chiave di svolta di un contesto comunitario sostanzialmente


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refrattario ad avventure ideologiche di tipo marxista il quale, tuttavia, si ritrova oggi a sentirsi perfettamente rappresentato, forse inconsapevolmente, dagli eredi di quella tradizione un tempo avversata come nemica. Gli eventi a cui ci riferiamo sono stati altrettanti indicatori di un cambiamento della coscienza profonda della società che la sinistra ha saputo cogliere e interpretare, adeguando i propri linguaggi alle circostanze, molto più di quanto abbia fatto la destra. Ciò in parte spiegherebbe del perché la destra unificata con l'avvento della seconda Repubblica, benché riuscisse a conquistare il consenso elettorale, non sia stata mai realmente in grado di operare quelle trasformazioni scritte nel suo programma politico. Di quali eventi parliamo? A partire dagli anni cinquanta-sessanta, vi è stata la vasta campagna di scolarizzazione ai livelli medi e superiori che avrebbe condotto le nuove generazioni a maneggiare gli strumenti del sapere, attraverso i quali giungere all'acquisizione di una piena coscienza dei diritti individuali e collettivi, portato naturale della forma di stato democratico. Passaggio chiave è stato il '68 che ha segnato, nel bene e nel male, le coscienze molto più di quanto abbia inciso nella sfera della politica. Se la parità di genere oggi è un fattore consolidato nel nostro costume sociale, ancor prima che alla norme e alle "quote rosa", lo si deve alla tempesta del'68. Come pure la presa di coscienza delle giovani generazioni di poter contribuire in prima persona allo sviluppo della società in quanto soggetto collettivo portatore autonomo di valori innovanti, deve essere ascritta a quella "rivoluzione". Tuttavia, ciò che ha luccicato non è stato soltanto oro. Anche altre "libertà" originano in quel medesimo periodo, in particolare quelle che hanno sconfitto rapporti gerarchici e scale assiologiche, tradizionalmente presenti dentro e fuori l'istituzione sociale della famiglia e, in generale, della comunità. Anzi, nel tempo storico del '68 affondano le loro radici i processi che ci conducono, nell'odierna congiuntura, a considerare la struttura elementare della società: la famiglia, secondo paradigmi, ruoli funzionali e partecipazioni, assolutamente inapplicabili, forse anche impensabili, fino agli anni sessanta. Famiglie multigenitoriali, unigenitoriali, omogenitoriali, rapprentano modalità applicative di una categoria concettuale totalmente riconfigurata nei suoi fondamenti etici e religiosi. Altro punto chiave è stato in questi decenni il rapporto tra Stato e Chiesa. In particolare, un capitolo a parte andrebbe dedicato al ruolo proattivo che anche la Chiesa, a cominciare dal varo al suo interno dell'era della "dottrina sociale", ha svolto nel processo di "emancipazione" della società, segnatamente nell'affermazione di un relativismo culturale destinato all'annullamento delle differenze in nome di una convinta ideologia dell'uguaglianza evangelica. Al punto che, in un rovesciamento tolemaico della morale universale, la diversità è assurta al ruolo di archetipo della Giustizia mentre l'identità, nel senso di appartenenza identitaria, è stata precipitata negli inferi del peccato e del "politicamente scorretto". Nella società del meticciato, che è stato il grande terreno d'incontro e di reciproca innervatura del moderno cattolicesimo pauperista con l'ideologia comunista della lotta di classe, parole quali "stirpe", "sangue" e "terra dei padri", suonano come retaggio di una spregevole "biologia" razzista contro la quale si abbatterebbe la condanna senza appello del dio della cristianità. Per la verità, si tratterebbe del medesimo Dio che oggi agisce in totale riforma del suo stesso pensiero, atteso che nei precedenti duemila anni,

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a detta dei suoi più autorevoli interpreti e portavoce, le idee guida sulle quali la sua Chiesa si è mossa erano alquanto diverse. La mescolanza culturale è il nuovo verbo che anima la post- modernità. Il passato, invece, è ridotto a una putrescente carcassa da rimuovere dal dibattito corrente perché non intralci il nuovo corso morale e religioso. Il fatto, però, di propugnare questa neo-religione inclusiva, frutto di sintesi di certo cattolicesimo romano e dell'ideologia tardo comunista, non è che faccia necessariamente il bene dell'umanità. Un conto è proclamarlo, altro è praticarlo. Naturalmente vanno distinte le cose. Si prenda, come esempio, la triste vicenda degli sbarchi degli immigrati clandestini. La politica dell'accoglienza a tutti i costi, voluta all'unisono dalla Chiesa e dalla sinistra, ha dato un falsa speranza a centinaia di migliaia, se non milioni, di poveri disperati che s'illudono di salvarsi fuggendo dalle loro realtà. Costoro quotidianamente sfidano la sorte affidandosi ai peggiori scarti del genere umano: i trafficanti di esseri umani. Le precarie condizioni con le quali tentano di approdare sulle nostre coste, ha determinato la morte crudele e drammatica di tanti di loro. Una diversa politica di rigoroso respingimento, accompagnata da un'effettiva azione di solidarietà verso i disperati per offrire loro opportunità nei luoghi natii, avrebbe evitato il massacro a cui assistiamo. Non basta, quindi, una benedizione per assolvere quei tanti, laici e chierici, che, in nome di un novello principio di sintesi etico-ideologica, non si pongono minimamente il problema dell'ecatombe che stanno consentendo con la pratica di un peloso "buonismo". Vi è un perverso criterio criminogeno che si afferma ogni qual volta una persona o un gruppo di individui autoproclama la propria verità come l'unica reale. Attribuirsi da se stessi la patente di promotori del bene contro un male che starebbe sempre da un'altra parte, audacia temeraria igiene spirituale fa di costoro degli incoscienti procacciatori di sciagure. Financo la contabilità crescente delle morti causate da questa folle politica, nel loro orizzonte visuale altro non sarebbe che la conferma della giustezza del credo professato. I tanti morti, uccisi dal buio, dal freddo, dalla sete e dalla paura, e dati al mare perché disponesse dei loro corpi, e forse anche delle loro anime, costituiscono i danni collaterali di una crociata dell'accoglienza che deve andare avanti per il fatto stesso che " Gott mitt uns", Dio è con noi. Altro punto chiave nella svolta che ha condotto allo sdoganamento definitivo dell'ideologia comunista in Occidente, sebbene rettificata rispetto ai suoi fondamenti storici, è stato il crollo del muro di Berlino, nel 1989, seguito dal sostanziale sgretolamento dell'impero del socialismo reale impostosi ai primi del secolo in Russia e, progressivamente in tutti i Paesi satelliti, a Est come a Ovest, della potenza sovietica e nel sub-continente cinese. Il collassamento del comunismo che è imploso ha provocato, da un lato, la caduta della ideale frontiera esistente tra due mondi fisicamente separati dall'odio verso i rispettivi modelli esistenziali; dall'altro, il dilagare anche a oriente del "pensiero unico" del capitalismo, in luogo del soccombente comunismo, quale solo orizzonte valido per il futuro dell'umanità. La scorciatoia aperta dalla Storia, ha consentito alla libertà economica, che si è fatta scudo della libertà di pensiero e di quella politica, di occupare il campo senza doversi scomodare a fare i conti con i propri errori e con le proprie storture. La stessa forma-capitale ha potuto evolvere


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liberamente senza tenere conto dei limiti, a un tempo di natura strategica e sociale, posti a una parte della produzione industriale. Essa, infatti, fino al momento topico del "crollo del muro" aveva richiesto una "territorializzazione", obbligata non soltanto dal contenimento dei costi ma anche dagli equilibri interni ai rapporti di classe e dallo stato effettivo delle scoperte scientifiche e tecnologiche applicabili ai contesti produttivi. Senza l'avvento degli strumenti telematici e delle reti informatiche, l'universalizzazione del mercato, avrebbe avuto natura prettamente fisica. Il suo contrappeso sarebbe stato altrettanto materiale e sarebbe consistito nell'internazionalizzazione delle istanze della forza-lavoro, come somma di movimenti e organizzazioni sparsi all'interno del sistema capitalistico ma sostenuti e coordinati non da uno Stato ma da un complesso blocco di apparati burocratici e militari, strutturati secondo i princìpi portanti del comunismo marxista-leninista di matrice Terza-Internazionalista. La liquefazione di quel mondo oscuro, fondato sulle privazioni delle libertà individuali e collettive e sul controllo in senso totalitario delle sottostanti società civili, ha di fatto agevolato la trasformazione del capitale, e di conseguenza, del mercato. Tramontato il tempo dei produttori, è andato affermandosi quello dei consumatori. Il capitalismo lasciato libero di crescere a dismisura si è fatto parte attiva nel processo di modificazione, in senso antropologico, dell'individuo il quale è entrato nei target del mercato esclusivamente per ciò che rappresenta alla percezione capitalista: un fruitore acritico destinato a consumare tutto quel che viene creato, indipendentemente da dove sia collocato il luogo di produzione, affinché il ciclo economico che genera ricchezza non s'interrompa. E' la ragione per la quale l'odierno benessere viene posto in relazione con la domanda di consumo. Tuttavia, la progressiva contrazione capitalista, impersonata dall'"espansionismo" geopolitico delle multinazionali, ha consentito spazi di opposizione alle forze del defunto comunismo, sopravvissute nell'Occidente sviluppato a seguito di una mutazione del sembiante genetico. Il "crossing over", in termini di biologia della politica, è avvenuto con la proposizione iniziale, negli anni ottanta, dell'"Eurocomunismo", quale via occidentale, autonoma e alternativa, all'affermazione del pensiero marxista sotto altre spoglie. Successivamente, con il "crollo del muro", la transizione si è compiuta nel senso dell'occupazione strutturale del terreno che un tempo era presieduto dall'ala socialista del fronte di sinistra. La conversione ha trasformato i vecchi comunisti in moderne espressioni di un riformismo impegnato nel sostenere politiche sociali di welfare e di equa redistribuzione della ricchezza prodotta, in particolare verso le categorie più deboli e più esposte alla nuova mobilità del capitale, facendo forza sulla leva fiscale e sulle politiche keynesiane di spesa pubblica. La necessità di dare rappresentanza alle forze produttive in un contesto nel quale la forma-capitale non ha avuto il tempo di analizzarsi e aggiustare da se stessa le storture e le contraddizioni accumulate, ha rimesso in gioco a tutti gli effetti quella componente politico-ideologica che avrebbe dovuto soccombere sotto le macerie del muro di Berlino. Altro punto chiave che ha consentito la mutazione della sinistra comunista è stato l'avvento, con l'ingresso del nuovo millennio, del fenomeno della mondializzazione. La soppressione delle frontiere, antica aspirazione del capitale, ha permesso che l'economia nel suo complesso, dalla

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dimensione internazionale, approdasse a quella globale. Non si tratta della mera contabilizzazione di una maggiore quantità di spazi di mercato occupati, piuttosto di una "presa totale" che annulla tutto ciò che potrebbe collocarsi al di fuori del sistema. In parole semplici l'effetto globalizzante azzera lo spazio per "l'altrove"di cui una comunità, che aspira a possedere altri valori oltre a quelli derivati dal dominio dell'economia, non dovrebbe privarsi. Il mercato unico globale punta, invece, sugli effetti dello sradicamento, a cominciare dalla liquidazione dell'idea di obbligatorietà della "territorializzazione" dei sistemi produttivi. Il vecchio capitalismo doveva fare i conti con le comunità che "ospitavano" le fabbriche, era dunque necessario che si creasse un processo osmotico nel quale entrambe i soggetti, fabbrica e territorio, interagivano scambiandosi non soltanto risultati economici. In gioco rientravano, come valore aggiunto prodotto, le azioni proattive per la difesa dell'ambiente e la diffusione di "cultura" nell'accezione ampia del termine. Per la piccola porzione industriale che sopravvive nei territori tradizionali questo approccio resta valido. Diversamente, per la maggioranza della grandi e medie imprese, il nuovo credo a cui giurare fedeltà si chiama "delocalizzazione". Ne consegue che anche il capitalismo finanziario e speculativo, convenzionalmente legato al sostegno alla manifattura, risolva una volta per tutte i rapporti che lo associavano, insieme alla consistenza degli apparati industriali, all'idea stessa di nazione. La perdita poi di peso delle regolamentazioni nazionali, seguita alla contrazione di sovranità dei singoli Stati, ha aperto la porta all'affermazione della logica della profittabilità sopra ogni altro valore professabile. Il profitto, dunque, svolge la funzione di indicatore del grado di espansione del principio del libero mercato. Il capitalismo, potendo liberamente, dispiega il suo tratto saliente nella audacia temeraria igieneoperare spirituale distruzione del vecchio, dell'antiquato e del tecnologicamente obsoleto per sostituirlo con nuove metodologie nell'organizzazione e nella gestione dei processi produttivi e con l'utilizzo di tecnologie più avanzate. Con la mondializzazione il capitalismo finalmente consegue il principale scopo statutario: creare ricchezza rottamando il passato. Soltanto che, grazie alla svolta liberista impressa dagli avvenimenti geopolitici della fine del secolo, con il mercato unico globale, il capitalismo ha messo il turbo, per usare la felice espressione coniata da Edward Luttwak. Ciò vuol dire che la deregolazione degli scambi, accompagnata dall'assenza di vincoli protezionistici cogenti nel reclutamento e nell'utilizzo della forza-lavoro nella maggioranza dei Paesi, in particolare di quelli che presentano ritardi di sviluppo, ha prodotto un'impressionante accelerazione del ciclo di costruzione/demolizione delle manifatture. La conseguenza per le economie tradizionali, a rischio di competitività, si sta abbattendo con effetti devastanti sulla sfera sociale. Il fatto che interi sistemi produttivi possano essere smantellati e impiantati in altri luoghi, più vantaggiosi, ha avuto l'indubbio merito di demolire antiche rendite di posizione che gravavano come piombo sulle ali del capitale, tuttavia ha sottratto ogni potere contrattuale alla forza-lavoro e ogni capacità di dialogo alle comunità di riferimento. E ciò si è dimostrato non essere un bene. La necessità, dunque, di proteggere le fasce sociali esposte agli effetti della mondializzazione, ingaggiando un confronto con la controparte capitalista, ha di fatto giustificato la sopravvivenza di un apparato politico orientato a rivitalizzare gli elementi


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equitativi e di riequilibrio distributivo della ricchezza prodotta, propri di un'ideologia altrimenti sconfitta dalla storia. Si potrebbe azzardare che l'esplosione liberista del dominio economico abbia rimesso in corsa, in forza di un principio di bilanciamento naturale nelle comunità sociali, coloro che ne avevano avversato l'espansione attraverso la lotta di classe. Questo scenario da "primavera dei mercati" reca l'impronta del pensiero liberista applicato al mondo reale da statisti di alto profilo, quali furono indubbiamente Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Le loro politiche furono classificate di destra. Ne sorse un'immediata identificazione per cui, già dagli anni Ottanta dello scorso secolo, le parole d'ordine che iniziavano a farsi strada nel dibattito politico- ideologico richiamavano l'idea di una sostanziale contrazione della presenza dello Stato nella vita dei cittadini in favore di maggiore libertà d'intrapresa per i privati. "Più mercato, meno Stato" è forse lo slogan più evocato di quegli anni. La riduzione drastica della mano pubblica avrebbe consentito un minore prelievo fiscale e, quindi, più ricchezza disponibile per i privati. E' vero, però, che ridurre il ruolo dello Stato avrebbe significato circoscrivere gli effetti "solidaristici" dei sistemi di welfare ai soli soggetti solvibili. Constatato il successo del liberismo, la Destra si vedeva inchiodata a una visione dello sviluppo della società e dei rapporti tra gli individui che era propriamente quella modellata dall'idea, di matrice anglosassone, "mercatista" e "consumista" dell'economia. In Italia, in verità, questo processo di sintesi, altrove spinto alle estreme conseguenze, non ha mai totalmente attecchito. Per una somma di ragioni. In primo luogo perché il nostro Paese ha conosciuto, nella prima metà del Novecento, il fascismo. Questa forma di totalitarismo egemone aveva costruito un modello di società a base corporativa nel quale la dignità dei ceto meno abbienti era salvaguardata dal ruolo di garanzia dello Stato "etico" attraverso un complesso sistema di norme volte alla protezione dei lavoratori e delle fasce deboli mai conosciuto prima, nella Storia. Inoltre si deve considerare, per il caso italiano, il peso politico avuto dal sindacalismo nella difesa dei diritti dei lavoratori, dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. Negli anni del boom economico, di massima espansione del capitale tradizionale, la presenza di una componente sindacale molto forte e articolata territorialmente ha fatto da freno agli istinti "selvaggi" della componente padronale. Ci sono voluti decenni perché il sistema delle relazioni industriali divenisse un costruttivo luogo di confronto. D'altro canto il movimento sindacale si è reso protagonista della trasformazione democratica del Paese, collaborando in alcuni momenti particolari della Storia alle politiche riformatrici dei governi della "prima repubblica", come nel caso, nel 1970, dell'approvazione dello Statuto dei lavoratori e allo stesso tempo respingendo ogni tentazione di rottura rivoluzionaria che pure ha serpeggiato a fasi alterne nella storia del movimento operaio. Soprattutto ha impedito che la partita mai chiusa della guerra civile italiana combattuta a ridosso della caduta del fascismo si chiudesse a distanza di tempo con un nuovo bagno di sangue, come sarebbe stato nelle intenzioni dei promotori del terrorismo rosso nei cosiddetti "anni di piombo". Sebbene oggi il movimento sindacale non sia più quello di una volta, e non si scorgano all'orizzonte figure dello spessore ideale e politico di Giuseppe di Vittorio, al quale non fu mai

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riconosciuto pubblicamente il merito di aver tenuto a bada la masse lavoratrici comuniste pronte all'azione all'indomani dell'attentato a Palmiro Togliatti nel luglio 1948, esso continua a esercitare la sua influenza nelle meccaniche di sistema. Vi è da dire che anche il sindacato, in quanto sovrastruttura, è specchio della società che in esso si riflette. Quindi, la corruttela dilagante come gli eccessi di un burocratismo del tutto autoreferenziale degli apparati, ne fanno uno strumento obsoleto e sempre più scarsamente rappresentativo degli interessi reali dei ceti popolari. Ciò nonostante il movimento sindacale nel suo complesso continua a essere collettore di consensi soprattutto per la sinistra ex-comunista che la cinghia di trasmissione, attiva un tempo tra partito e rappresentanza sindacale, non ha mai inteso recidere. Rappresentazione visibile di questo legame strutturale è data dalla prassi consolidata di riservare una collocazione ai vertici del Partito, un tempo P.C.I., poi Pds e ancora DS, fino all'attuale PD, dei segretari generali della CGIL all'atto in cui lasciano la carica sindacale. Il sindacato ha finito per imporre, da soggetto istituzionale, la sua egemonia, negli anni della "seconda repubblica", mediante la sacralizzazione del sistema della "concertazione", il meccanismo perverso grazie al quale esso ha potuto esercitare il potere di veto sulla pianificazione degli interventi, in sede locale, di incentivazione agli investimenti produttivi. Il sindacato, in concorso con la controparte datoriale, la burocrazia della P.A. e la politica consociativa del finto bipolarismo, ha di fatto controllato la rete delle risorse economiche destinate allo sviluppo orientandone la destinazione a beneficio delle proprie categorie di riferimento. Per questa ragione il movimento attualmente subisce la crisi di consensi in quanto viene accomunato, nella percezione dell' opinione pubblica, all'insieme dei poteri forti che hanno soffocato le capacità di ripresa del Paese. Bisogna, peraltro, riconoscere che la sopravvivenza della sinistra a se stessa si sia realizzata grazie al fatto che dal dopoguerra, durante l'intero arco di tempo contrassegnato dalla guerra fredda dei blocchi contrapposti, il Partito Comunista italiano ha rappresentato la forza numericamente più significativa del comunismo nell'Occidente democratico. Il PCI è stato forza egemone nelle cosiddette regioni rosse del centro-Nord Italia e in alcune roccaforti del radicamento urbano della classe operaia, come nel caso della città di Torino. Ma ha saputo costruire un forte consenso anche nelle regioni meridionali, parlando ai diseredati del Sud con un linguaggio affatto diverso da quello riservato alle aristocrazie operaie del triangolo industriale del nord-ovest. Le forze moderate e del socialismo democratico riformista hanno contrastato a lungo la marcia d'avvicinamento al potere del PCI, cercando di far valere una "conventio ad excludendum" dai ruoli di governo politico ed economico. L'incompatibilità del partito comunista con gli assetti istituzionali di un moderno Paese occidentale era determinata, principalmente da un fattore di geopolitica. La sussistenza del legame a filo doppio con l'Unione Sovietica rendeva la forza politica italiana una spina nel fianco dell'Alleanza atlantica. Per questa ragione, le forze di sicurezza e di intelligence statunitensi hanno dedicato, nei decenni corsi tra gli anni cinquanta e la fine degli anni Ottanta, una particolare attenzione all'evoluzione degli equilibri interni al quadro politico italiano. Nel tempo, la pressione esercitata dall'apparato interno del PCI nella silente e ordinata collocazione di propri fidelizzati negli snodi delle principali


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istituzioni pubbliche, come già abbiamo avuto modo di rilevare in precedenza, ha fatto aggio sulle sempre più flebili resistenze per cui, dopo un primo tentativo esperito nella stagione del "compromesso storico", ogni ostacolo è venuto meno nel momento in cui, sotto la guida di Enrico Berlinguer, il PCI operava il famoso "strappo" da Mosca, convertendosi alla necessità per l'Italia di fare parte dell'Alleanza Atlantica, all'interno dei ranghi della NATO. La marcia trionfale verso il potere si sarebbe conclusa felicemente a favore della "gioiosa macchina da guerra", nel 2004, se, nella Storia politica d'Italia, dopo l'azzeramento della vecchia guardia moderata e riformista annientata dalla vicenda di tangentopoli, non avesse fatto irruzione nell'agone elettorale un singolare personaggio giunto dal mondo dei tycoon dell'etere, pronto a formare una"invincibile armada" di destra, nel proclamato intendimento di fermare l'avanzata dei comunisti camuffati sotto le mentite spoglie di novelli socialisti democratici. Ultimo elemento d'analisi nella ricerca delle cause che hanno consentito la sopravvivenza della sinistra ex-comunista nel nostro tempo storico, è il cosiddetto fattore geopolitico. In particolare, il sostanziale mutamento d'atteggiamento intervenuto nell'approccio alle questioni dello scacchiere mediterraneo da parte delle amministrazioni statunitensi, a partire dalla fine della guerra fredda. Non vi è dubbio che dagli anni della fine del secondo conflitto bellico, la potenza USA abbia dovuto subire non poco le oscillazioni tattiche dei suoi alleati europei i quali tentavano azioni di smarcamento, il più delle volte per alzare il prezzo della fedeltà alla causa atlantica. Negli anni non sono stati pochi i "no" che la Casa Bianca ha dovuto sentirsi dire dagli amici d'oltreoceano. Talvolta anche in maniera brusca, ai limiti dell'incidente diplomatico. Fu, ad esempio, il caso del rifiuto che il premier Bettino Craxi oppose a muso duro a un infuriato Ronald Reagan, in ordine alla consegna del commando palestinese ritenuto responsabile del dirottamento dell'"Achille Lauro". Gli italiani ricordano la "lunga notte di Sigonella" quando carabinieri e "fantaccini" della VAM si trovarono a fronteggiare, armi in pugno, le unità scelte della Delta Force americana, rischiando lo scontro a fuoco. La fine di una "guerra fredda" vissuta sulla contrapposizione di due blocchi ideologici, ha prodotto negli ultimi due decenni un progressivo disimpegno statunitense dallo scacchiere europeo. La strategia di progressivo allontanamento, tuttavia, non è stata costante. Vi sono stati dei picchi d'interventismo politico-militare degli USA in Europa a volte necessitati dalle circostanze, come è stato nel caso della guerra nel Kosovo e, prima ancora, nella definizione di un equilibrio di pace tra le regioni della ex Jugoslavia, in lotta tra loro. In un altro momento, invece, l'interventismo dell'amministrazione di Washington è stato dettato da una lettura errata delle dinamiche all'interno del mondo arabo che hanno provocato riflessi sugli assetti geopolitici europei. Quest'ultimo caso ha riguardato il quadrante mediterraneo con la sciagurata vicenda del sostegno offerto dagli occidentali alle cosiddette "primavere arabe". A parte gli episodi specifici, il trend degli ultimi venti anni è stato quello di una sostanziale riduzione dell'impegno americano nel vecchio continente, resa visibile dal declassamento dell'impegno militare USA e dalla soppressione di alcune basi europee, un tempo considerate strategiche per la difesa degli interessi statunitensi. In realtà, l'attenzione delle più recenti

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amministrazioni insediate alla Casa Bianca è andata in direzione di altri scenari sensibili. Gli sforzi sono stati concentrati nel quadrante asiatico, in particolare dell'estremo Oriente, dove un player di prima grandezza si sta affermando in questo tempo storico: la Cina. Con il gigante orientale gli USA hanno adottato un approccio totalmente diverso rispetto a quello del periodo della "Guerra fredda". Molto più collaborativo. La partecipazione della potenza ancora dichiaratamente comunista al flusso degli scambi sul mercato globale, cioè l'accettazione da parte dei dirigenti cinesi del sistema capitalistico quale strumento regolatore dei rapporti economici internazionali, ha consentito che gli "States" considerassero cessata la minaccia alla civiltà del benessere di matrice occidentale condotta, un tempo, dalle forze del comunismo internazionale. L'ingresso della Cina e, prima ancora, delle altre "tigri asiatiche" nell'Organizzazione Mondiale del Commercio ha rappresentato l'abbattimento dell'ultimo diaframma prima di convertire tutte le economie nazionali alla logica del mondialismo del mercato unico globale. La libertà assoluta di movimento dei capitali ha permesso che, nel giro di pochi anni, il governo cinese acquistasse parte del debito sovrano degli Stati Uniti. E la cosa non ha destato alcuno scandalo come, invece, sarebbe accaduto nel passato di fronte ad incidenti di ben più modesto rilievo. L'intensificarsi delle sinergie su scala planetaria ha intessuto una fitta rete di interrelazioni che, pensare a una rottura degli equilibri, anche solo tra due partner equivarrebbe a mettere in crisi l'intero sistema. Il ché, alla luce degli odierni sviluppi della finanza globale, appare un'opzione assai remota, per non dire impossibile a verificarsi. E' del tutto evidente che, essendo crollata ogni pregiudiziale politica nei confronti degli imperi comunisti e anche di quelli che un tempo lo erano stati, come la Russia, sarebbe stato illogico continuare a mantenere dei veti all'ingresso delle forze ex-comuniste dei Paesi europei nei governi nazionali. Tanto più che tali forze avevano per tempo provveduto a risistemare gli aspetti formali, anche quelli estetici, più ruvidi, cambiando denominazione, ridisegnando i loghi, eliminando dall'iconografia ufficiale falci, martelli e soli dell'avvenire per sostituirli gradualmente con immagini di piante mediterranee e abrogando tutti i riferimenti simbolici che, in qualche modo potessero richiamare anche solo in effigie la vecchia ideologia d'appartenenza. Le nuove classi dirigenti dei movimenti riformati vennero poste, per un primo periodo, sotto osservazione dagli alleati d'oltreoceano i quali si mostravano sinceramente incuriositi nel conoscere il modus agendi di coloro che, fino a qualche tempo prima, erano considerati nemici irrudicibili. Si ricorderà, nel corso degli anni Novanta, la sequela d'inviti promossi dalle università americane a esponenti della sinistra ex-comunista italiana a tenere presso i loro atenei incontri, lezioni e convegni. Un caso riguardò proprio l'attuale presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che fu tra i primi dell'ex PCI a ottenere il visto per recarsi negli Stati Uniti dove avrebbe tenuto un ciclo di conferenze. Non è escluso che gli americani, sensibili al fascino dell'eleganza mediterranea, dovettero restare impressionati dallo stile "british" di un signore che parlava correntemente l'inglese, si esprimeva in toni pacati e ostentava un look sobrio ed elegante da vecchio gentiluomo conservatore. Niente a che vedere con l'idea del trinariciuto bolscevico, mangiatore di bambini della propaganda anticomunista. Eppure Napolitano era


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stato iscritto fin da giovane alla direzione centrale del PCI, proprio come Enrico Berlinguer. Per inciso, il clamoroso abbaglio valutativo tra la forma e la sostanza del profilo degli ex-comunisti a cui gli americani si sono prestati con sorprendente ingenuità, lo stiamo pagando tutt'ora, nell'ambito della comunità internazionale, nel differenziale di credibilità esistente tra una destra soccombente e una sinistra portata sugli scudi proprio dagli alleati d'oltreoceano. L'insieme delle motivazioni sopra citate ha determinato il meccanismo in forza del quale una ideologia, sconfitta dalla Storia, ha potuto, attraverso una complessa dinamica evolutiva, cambiare pelle e riproporsi come offerta politica moderna in grado di gestire la complessità dei processi di trasformazione della società civile al tempo della terza rivoluzione industriale. L'esatto contrario di quanto sia avvenuto dall'altra parte del campo, nell'area propria della Destra italiana. Quest'ultima, in realtà, è rappresentabile come una specie di "matrioska", la bambolina che, aperta, ne contiene un'altra del tutto uguale se non nelle dimensioni più ridotte che, a sua volta, ne contiene un'altra ancora con le medesime caratteristiche. Così a rompere il primo guscio si scopre che di Destra, in Italia, non ve n'è stata una soltanto, ma a una destra politica ha fatto da contraltare una destra economica. E anche la destra politica non ha goduto il privilegio dell'unicità. Dal XIX secolo in poi, possono essere elencate molteplici forme di manifestazioni ideologiche riconducibili alla categoria concettuale della "Destra". Da quella storica, che ha avuto i più significativi addentellati con il pensiero conservatore, a quella propriamente reazionaria, alla destra dell' integralismo clericale, legata a doppio filo con le posizioni della Santa Sede e delle gerarchie ecclesiastiche, alla destra rivoluzionaria che ha spianato la strada al fascismo, e in genere alle soluzioni totalitariste nella lotta per l'egemonia nel governo dello Stato. L'elenco prosegue con la destra del liberalismo politico e garantista che propugna la creazione di uno stato ausiliario del cittadino e si conclude con quella cosiddetta radicale che si ispira a una visione di "Stato organico", regolato dal principio elitario di gerarchia, opposta a una destra popolare toccata da suggestioni e parole d'ordine di "sinistra". Anche nel campo della destra economica le divisioni non sono mancate. Da quella corporativa alla destra del sindacalismo rivoluzionario, sul modello di Sorel; dalla destra degli agrari a quella industriale, entrambe diverse dalla destra della grande finanza speculativa; dalla destra dirigista fino alla più recente destra liberista. Tutte queste forme di espressione fondate su differenti presupposti ideologici sono vissute nella stessa parte del campo e, sovente, si sono combattute l'una con l'altra. Tuttavia, esse non sono mai state capaci di dialogare in misura sufficiente da produrre sintesi nelle condotte politiche affinché la complessità della società sottostante potesse trovare in un'unica corrente di pensiero le risposte adeguate allo scopo di far funzionare sia lo Stato quanto i processi indotti dalle dinamiche sociali. Un esempio per comprendere meglio. E' noto che l'impresa fiumana di D'Annunzio abbia favorito l'avvento del fascismo. Anche l'apparato simbologico, fatto di gesti, formule e miti, che aveva sostenuto l'azione degli arditi a Fiume, era stato integralmente eridato dal fascismo. Eppure, come rivela Giuseppe Prezzolini, nella celebre intervista sulla Destra:

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"Mussolini…seppe tenersi buono D'Annunzio, ma scavandogli la fossa sotto i piedi". In realtà, questo è lo spirito che ha animato i protagonisti politici di due secoli di Storia. Costoro hanno preferito scannarsi per la supremazia nel comando, piuttosto che costruire una visione della società, dello Stato, dei rapporti di produzione e, in definitiva, del futuro dell'umanità che fosse coerente con gli elementi archetipici dai quali sarebbe dovuta discendere l'identità di destra. Dalla selezione operata col setaccio della Storia resta, appunto, la questione centrale dell'identità unificante un'area politica. Nello specifico della situazione italiana bisogna osservare che la più grande difficoltà alla sintesi è venuta dalla sostanziale separazione delle strategie adottate dalla destra politica da quelle riconducibili alla componente economica. Tranne alcuni momenti chiaramente individuati di sovrapposizione degli interessi dell'una con quelli dell'altra, il cammino percorso nella tessitura delle alleanze, in difesa dei propri interessi, dalla destra economica non ha avuto alcun rapporto con le pulsioni ideali e i sentimenti della destra politica. Tuttavia, è vero che il limite disperante della destra storica, chiamata alle responsabilità di governo, è stato quello di dover, obtorto collo, fare i conti con politiche di contenimento della spesa per scongiurare il pericolo dell'accumulazione del debito pubblico. Giacché, come nota Giulio Tremonti nel suo ultimo libro, " Bugie e Verità": "i grandi debiti pubblici non sono mai entità puramente economiche…ma sono essenzialmente entità politiche", le ricette applicate nel corso degli anni, in particolare i primi dall'Unità d'Italia, hanno portato lo Stato a risanarsi e la popolazione a soffrire le conseguenze sociali del risanamento. Ciò non ha certo giocato a favore di un'immagine positiva della destra. Mentre, sul fronte opposto, il consenso ottenuto attuando politiche di spesa pubblica a debito ha sempre riscosso l'inconsapevole simpatia, soprattutto dei ceti più disagiati. Questa difficoltà spiega in parte il perché la destra abbia mancato di appeal per un'opinione pubblica desiderosa di vedere lo Stato, con i cordoni della borsa ben aperti, porsi alla testa del progetto di rilancio economico del Paese, mediante una vasta campagna d'investimenti nella costruzione di opere pubbliche e nella gestione diretta dei principali presidi industriali nei settori strategici. E' un fatto che, dopo la drammatica conclusione della parantesi di potere fascista, dal secondo dopoguerra fino al nuovo millennio, nell'era dell'Italia repubblicana, la destra politica non abbia mai toccato palla e la destra economica, invece, si sia resa trasparente lasciando libere le proprie forze di riposizionarsi, dal punto di vista politico, secondo una logica di trasversalismo che partendo dalle posizioni del conservatorismo liberale si concentrassero al centro dello schieramento moderato, nello spazio occupato dal partito-Stato della Democrazia Cristiana per spingersi, lungo le linee della sinistra riformista, fino alle propaggini "miglioriste" del partito comunista. Il fatto che un numero consistente di capitalisti italiani oggi sia comodamente assiso all'interno degli organismi del Partito Democratico, erede della tradizione comunista, non deve stupire. La storia della marcia d'avvicinamento del capitale alle ragioni dei partiti di classe data già dai tempi dell'esperienza unificante della resitistenza anti-fascista. Inoltre, la confluenza dell'ala dossettiana del cattolicesimo politico nell'ambito della sinistra ha fatto sì che la nidiata di boiardi di Stato, "grand commis" dell'industria pubblica, alla Romano Prodi per intenderci, una volta


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dismessi i panni dei tecnici-manager pubblici, trovassero del tutto coerente spendersi in politica dalla parte sinistra/progressista dello schieramento. La vera occasione per la destra di riguadagnare peso nella lotta politica è venuta, come già accennato, dall'iniziativa di Berlusconi d'inventarsi un rassemblement di forze che in qualche modo si riconoscessero in analoghe offerte programmatiche. E' stato un sogno, un bel sogno, ma si è scontrato con il limite che annichilisce l'immaginazione: la realtà. I "cartelli"coalizionali, messi insieme negli anni della "seconda repubblica", hanno avuto vita effimera. Sono stati utli supporti per vincere alcune prove elettorali ma non per governare il Paese. Alla prova dei fatti, il centro-destra raccolto intorno alla figura dell'uomo - solo - al - comando ha deluso le aspettative mancando la prova dei fatti. Benché quel progetto avesse potuto contare sullo spostamento a destra del tradizionale blocco moderato del ceto medio, venutosi improvvisamente a trovare privato di rappresentanza politica a seguito degli eventi legati a Tangentopoli, non sono bastati i pochi anni dell'inizio secolo per dare il tempo di consolidare la costruzione di una società radicata nei valori scaturiti dal confronto costruttivo dei diversi progetti proposti dalle destre presenti, in quota, nel grande contenitore del "centro-destra" berlusconiano. L'incapacità a imboccare una strada unica e coerente ha prodotto, come conseguenza negativa, che la dialettica deperisse ancora una volta in frazionismo esasperato per cui ogni occasione di scontro si è trasformata in un pretesto per separarsi nuovamente e segnare le distanze l'uno dagli altri. Ciò spiega, a partire dalla metà dello scorso decennio, il progressivo sfaldamento della coalizione che è tornata a essere plurale per effetto di una mitosi indotta dalla incompatibilità valoriale e caratteriale dei suoi rappresentanti. Tuttavia, se la destra politica mancava la sua missione, il processo di mondializzazione recava, anche in Italia, già dagli anni Novanta del secolo scorso, l'affermazione del principio liberista nel dominio dell'economia. La vittoria cercata, e mancata, dalla politica tornava con l'avvento del mercato unico globale che abbatteva barriere, cancellava frontiere e scioglieva i polsi al capitalismo finalmente posto nelle condizioni, secondo i suoi più autorevoli sostenitori, di creare benessere diffuso per l'intera umanità. La logica di mercato ha fatto piazza pulita delle comunità di senso che hanno perso di significato. I consumi hanno preso il posto dei valori. E le fondamenta solide delle società tradizionali sono state fuse per dare spazio alle correnti magmatiche della "società liquida", connotativa dell' ultima modernità post-industriale. Il nuovo mondo, con la sua porzione di terra promessa, non è giunto quindi dai territori vasti dell'ideologia, ma dai paradisi virtuali di un'economia volatile che corre lungo la rete informatica, consentendo potenzialmente a tutti gli esseri umani di vivere nel medesimo momento l'unicità dello stesso presente, come si dice in gergo, "in tempo reale". Tutto perfetto, quindi? Niente affatto. Come si poteva prevedere la panacea del liberismo aveva in sé un'elevata quantità di veleno, sufficiente a contaminare la falda del sistema globale messo in piedi dalla logica del mercato unico. E' così che la crisi finanziaria esplosa nel 2007. Da un angolo sebbene importante del pianeta essa si è diffusa a macchia d'olio facendo collassare le economie di una pletora di Stati nazionali. Tra questi l'Italia.

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Ora, le ragioni del rischiato default del sistema produttivo italiano sono molte e complesse. Non è questa la sede per discuterne. Valga soltanto la constatazione che l'esplosione del debito sovrano accumulato dal nostro Paese ha prodotto effetti sociali devastanti, e ancora continua a produrne. Tuttavia, le ricette applicate che prevedono austerità nella finanza pubblica non funzionano e rischiano seriamente di compromettere quel poco che ancora resiste. In compenso, le difficoltà del momento hanno convinto buona parte della popolazione che il liberismo economico così come è stato configurato e applicato crea danni irreversibili alla nostra società. Quindi è una strada che va dichiarata impercorribile, se non ampiamente rivista e puntellata da misure di protezione per la popolazione. In tale scenario, la sinistra che ha, negli ultimi anni, cinguettato con il capitalismo globale corteggiandolo e favorendolo in ogni modo, ora con spregiudicata ipocrisia si ricorda che la filosofia liberista è di "destra", ergo, "se siamo nei guai è la destra che li ha procurati". Dimenticano, gli smemorati, che le più importanti decisioni che hanno condotto l'Italia a subire il peso di una globalizzazione imposta, l'hanno assunte in sede internazionale proprio quegli stessi leader che, in Italia, hanno portato in alto il vessillo della sinistra. Da Ciampi a Prodi, passando per D'Alema, c'erano loro al timone quando in Italia, e in Europa, sono state adottate procedure di deregolamentazione degli scambi commerciali e sono state annullate tutte le protezioni apprestate per la difesa dei prodotti locali dall'aggressione della concorrenza sleale recata dai Paesi in via di sviluppo. Sempre loro erano al potere quando sono state decise misure per agevolare la delocalizzazione delle imprese italiane in contesti più profittevoli. La desertificazione industriale del nostro Paese è figlia primogenita di quelle politiche "liberiste" prodotte a sinistra. Nello svolgersi complessivo del dramma della nazione, nei tempi bui dell'austerità, un possibile aspetto in qualche modo positivo che sta emergendo può essere ricondotto all'opportunità che si offre alla destra politica di giungere a riscrivere il proprio programma politico, depurato di tutti quegli elementi contraddittori che hanno mostrato la loro fallacia sul campo, come il caso della filosofia "liberista" spinta alle estreme conseguenze. Riscoprire, inoltre, la necessità di dare precedenza ai valori sui consumi rappresenta un altro tassello del mosaico da ricomporre. Al pari della rivendicazione del diritto all'identità territoriale come antidoto alla "fede" nella contaminazione propugnata dal relativismo culturale, imperante a sinistra. Quelli citati sono esempi di spunti argomentativi che una destra purificata dalla lezione dura della crisi strutturale potrebbe porre all'ordine del giorno delle sue prospettive future. La destra, in tutte le sue componenti, deve interrogarsi innanzitutto sul modello di umanità che intende promuovere. E se dovesse rinverdire il suo spirito conservatore, lo dicesse senza infingimenti e senza la paura di turbare il "politically correct". Non si abbandoni al fatalismo, ma ritrovi quella componente pragmatica che l'ha connotata nella Storia. Perché allora non dirsi conservatori? Perché nascondersi dietro le sottane larghe del moderatismo centrista di marca nostrana? Che male c'è a professarsi conservatore, ancora meglio se conservatore, rivoluzionario e futurista. Qualcuno potrebbe obiettare che si corre il rischio di non essere capiti dall'opinione pubblica, la


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quale potrebbe esserne spaventata. E forse per questo che si preferisce la locuzione più morbida di centro-destra, all'affermazione secca, qualificativa di Destra: punto e basta! Le persone sono preoccupate perché non sanno in realtà cosa sia davvero un conservatore. Glielo si potrebbe spiegare con le lucide parole del solito Prezzolini, autore del "Manifesto dei conservatori" e redattore della mappatura genetica in 53 punti identificativi del paradigma del conservatore ideale. Egli scrive: "Un conservatore preferisce… gli adattamenti, le modifiche, le evoluzioni, gli assaggi, i ritocchi almeno nei punti essenziali della coesistenza sociale. Il rispetto delle consuetudini non nasce nella mente del conservatore dal pensare che esse siano perfette; tutt'altro: nasce dal fatto che le considera come meno imperfette, poiché esistono, di quelle che ancora non esistono; per fare esistere le quali ci vorrebbe uno sforzo che sarebbe più opportuno applicare a far funzionare meglio quelle esistenti". Non si tratta della firma sotto un'opera d'arte perfetta, piuttosto quella di Prezzolini è la pietra d'angolo su cui cominciare la ricostruzione della casa comune di cui il popolo di destra si sente privato da troppo tempo per sopportare oltre ogni indugio o ritardo nell'inizio dei lavori. Cristofaro Sola

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MAURO MAGATTI Profonde trasformazioni investono la nostra società interessando, in particolare, la famiglia, il campo delle relazioni sociali e il mondo del lavoro. Mutamenti scaturiti, in taluni casi, dagli effetti di una prolungata crisi economica che ha portato con sé disoccupazione e disagio sociale "La crisi che ha colpito l'Europa e l'Italia ha causato enormi sofferenze sociali ma può diventare, nel tempo, un'occasione per costruire equilibri economici e sociali migliori di quelli passati". Ne è convinto Mauro Magatti, ordinario in Sociologia generale all'Università Cattolica di Milano, e in questa intervista a Confini ne spiega le ragioni. Editorialista del Corriere della Sera, componente del Comitato di indirizzo dell'Istituto Luigi Sturzo di Roma, ha scritto da ultimo "L'infarto dell'economia globale (Vita e Pensiero, 2014). Professor Magatti, la famiglia tradizionale appare sempre più in crisi. Coppie di fatto, famiglie allargate, unioni omosessuali e separazioni sono ormai all'ordine del giorno. Quali sono le cause della crisi dell'istituzione familiare? Le cause sono molteplici. Ma prima di ogni altra, c'è un contesto culturale che tende a slegare qualunque tipo di relazione, comprese quella affettiva. A tale contesto, caratterizzato da soggettivismo e individualismo, si affianca un'organizzazione della vita quotidiana che rende oggettivamente difficile il mantenimento dei legami. Così anche il matrimonio diviene, sempre di più, instabile e precario. In Francia e in Gran Bretagna si è avuta la svolta in favore dei matrimoni gay. In Italia si discute, da lungo tempo, sulla necessità di legiferare in tema di unioni civili. Pur facendo prevalere il favor familiae, riconosciuto dall'articolo 29 della nostra Costituzione, è auspicabile che anche nel nostro Paese si proceda al riconoscimento giuridico di altri modelli familiari? Vi è innegabilmente, da diversi decenni, un filone culturale che mira a riconsiderare tanti aspetti legati alla famiglia tradizionale. Penso ad esempio alla legislazione sul divorzio e a quella sull'aborto. Non ritengo, tuttavia, auspicabile il riconoscimento giuridico di altri modelli familiari, seppur reputi inutile alzare barricate ideologiche verso tali modelli. Per le forme alternative al matrimonio, laddove esistano le condizioni, si può pensare ad una regolamentazione che produca effetti civili. L'importante, a mio avviso, è che venga mantenuta una netta distinzione tra matrimonio tradizionale e altri tipi di unione, evitando di utilizzare le stesse parole per definire istituti profondamente diversi. Al contrario accade che, in nome di un principio di non


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discriminazione, si continui a richiederne l'uguaglianza formale e sostanziale: ritengo, però, che delle differenze esistano e come tali vadano trattate. Non può essere, infatti, tralasciata la funzione storica e sociale che la famiglia eterosessuale e tradizionale mantiene all'interno della nostra società. In un recente articolo sul Corriere della Sera, lei ha parlato di crisi della paternità. La figura paterna appare assente e incapace di trasmettere valori e indirizzo ai figli. In che modo i padri possono recuperare un ruolo guida all'interno della famiglia? La crisi della paternità è sicuramente figlia delle profonde trasformazioni sociali e culturali cui accennavo all'inizio della nostra conversazione. Un tempo la figura del padre era strettamente collegata all'autorità della legge che rinviava a valori e norme profondamente radicati nelle istituzioni e nella società. Venuto meno con il tempo questo insieme di valori, che il padre in qualche modo rappresentava, la figura maschile si è indebolita e ha finito col perdere il suo ruolo tradizionale. Su tale mutamento ha influito senza dubbio anche la spinta, sempre più vigorosa, delle rivendicazioni femminili. L'attuale crisi della paternità può trovare una soluzione solo se il padre torna ad essere identificato come testimone di un desiderio di vita che i figli devono necessariamente coltivare. Tale desiderio, che è l'esatto opposto del senso di angoscia e di morte che alberga in tanti ragazzi, deve nutrirsi di obiettivi sani e sensati e della volontà di non disperdere la propria esistenza in forme di dipendenza patologiche. Guardando alla famiglia da un punto di vista economico e demografico, è ipotizzabile che il quoziente familiare, legato al numero dei figli, divenga un criterio dirimente per la fiscalità? Certamente, purché si comprenda che la famiglia generativa è un bene che interessa l'intera società italiana. In tal senso è assolutamente ragionevole prevedere una fiscalità orientata a rendere più sostenibile la vita familiare. Oggi, al contrario, la famiglia appare abbandonata a se stessa ed è, sempre più spesso, oggetto di una sterile disputa ideologica. Nonostante la Costituzione riconosca a tutti i cittadini il diritto al lavoro, la forte disoccupazione rappresenta la più grande piaga sociale del nostro tempo. E' solo una questione di congiuntura economica oppure vi è anche una componente di ritardi strutturali e di mancate riforme di cui il nostro Paese soffre? I drammatici dati sulla disoccupazione, in particolare quella giovanile, sono la dimostrazione che da ormai quindici anni il nostro Paese non cresce e che, dal 2008 in poi, è addirittura in una fase di decrescita. Direi che siamo in presenza di una crisi di carattere profondamente strutturale più che congiunturale. L'Italia è caratterizzata da un profondo stato di immobilismo che si manifesta nell'incapacità di far fronte alle sfide del nostro tempo. Per uscire da questa prolungata stagione di crisi c'è bisogno di determinazione e competenza, nella consapevolezza che ci vorrà del tempo per riavviare la macchina economica. L'importante è agire subito, senza perdere altro tempo prezioso.

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Non c'è dubbio che il mondo del lavoro sia, da qualche tempo, in veloce trasformazione. Scompaiono le fabbriche e gli uffici, si allentano gli orari fissi e si afferma, sempre di più, il lavoro a distanza supportato dalle nuove tecnologie. Come giudica tali processi? Vede, la crisi che colpisce l'Europa e l'Italia porta con se drammi e sofferenze sociali ma può anche diventare l'occasione per costruire equilibri economici e sociali migliori di quelli passati. Credo, ad esempio, che sia arrivato il momento di superare la teoria secondo la quale l'economia si regge unicamente sui consumi e che la ripresa dipende, unicamente, dal rilancio di questi ultimi. C'è bisogno, piuttosto, di investimenti pubblici e privati su comparti determinanti per il futuro del Paese, penso ad esempio alla scuola, alla ricerca e alle infrastrutture. Così come è urgente rivedere l'intera organizzazione della pubblica amministrazione, provando a combatterne inefficienze e sperperi di denaro. Ecco, in suddetto contesto, il graduale passaggio verso nuove forme di organizzazione del lavoro improntate ad una maggiore flessibilità può diventare un vantaggio. A proposito di flessibilità, anche la stagione del posto fisso sembra lentamente destinata ad esaurirsi unitamente alle maggior tutele per coloro che sono già occupati. Dovremo abituarci ad un mercato del lavoro che abbia i suoi capisaldi nella flessibilità e nella formazione continua, secondo il modello di flexsecurity che proviene dal Nord dell'Europa? Sul tema della flexsecurity, le porto un esempio che credo sia particolarmente calzante. Mio figlio collabora da qualche anno con uno studio associato di ottanta architetti a Losanna. Nell'ultimo periodo le difficoltà legate alla crisi economica hanno comportato una riduzione del personale , e così sette professionisti sono stati lasciati a casa. La direzione dello studio ha però incontrato ciascuno di loro, nell'ottica di un trattamento improntato alla civiltà anche nel momento dell'interruzione del rapporto di lavoro. Lo Stato, al contempo, assicura ai temporanei disoccupati un sussidio economico per due anni, pari al 75% dello stipendio. Mi sembra un ottimo esempio di flexsecurity, laddove vi è un'organizzazione che si adegua all'andamento della domanda garantendo, al contempo, sicurezza sociale per le categorie più deboli, dentro e fuori il mercato del lavoro. E'in sostanza un modello che opera una mediazione tra esigenze delle imprese e sopravvivenza delle persone con un forte messaggio sociale per le categorie più deboli che non vengono lasciate sole di fronte alle intemperie della vita. Tocca naturalmente allo Stato far si che si possa creare l'interesse convergente tra le parti, creando le condizioni sociali ed economiche per il raggiungimento di obiettivi comuni. In una fase storica in cui lo Stato fatica a trovare risorse per supportare i meno abbienti, assicurare assistenza agli anziani ma anche garantire la tutela dei beni culturali, la sussidiarietà può essere lo strumento giusto per difendere la coesione sociale e, al contempo, il patrimonio storico-artistico della Nazione? I ripetuti crolli verificatisi a Pompei e tutti gli altri casi di abbandono e incuria di monumenti e aree di interesse storico, sono un chiaro segnale che l'attuale sistema di tutela e promozione dei


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beni culturali non funziona. Pesa sicuramente la scarsezza di risorse economiche che scaturisce da una lunga stagione di sprechi di denaro e da un carico pregresso legato all'enorme debito pubblico. Ma non solo. Vi sono, purtroppo, innegabili colpe tra coloro che, a livello dirigenziale, hanno la responsabilità della gestione e della conservazione dei beni culturali. La strada per svoltare, allora, può essere rappresentata dal coinvolgimento delle comunità locali nella gestione di piccoli e grandi siti di interesse culturale. D'altronde, nella maggior parte dei casi, tali siti appartengono direttamente alla storia e alla tradizione delle comunità. In tal senso, con un'operazione improntata alla sussidiarietà, si possono mettere in campo risorse umane, risorse private e risorse pubbliche con l'obiettivo di conservare e promuovere il bene culturale. Attualmente ci sono tanti esempi, in giro per l'Italia, di piccole comunità che portano avanti progetti di tutela e promozione di monumenti e piccoli siti. In tal modo il bene in questione diviene un volano economico e sociale per la comunità, oltre ad esserne un naturale punto di riferimento. E' ciò che accade, ad esempio, a Napoli dove Don Antonio Loffredo, parroco del Rione Sanità, è riuscito a coinvolgere i ragazzi del quartiere in un progetto di lavoro e promozione culturale. Con l'aiuto di sponsor privati ha dato vita ad una cooperativa, in cui lavoro venti giovani, che gestisce il patrimonio archeologico-monumentale delle Catacombe di San Gennaro che sono state riaperte e rese fruibili al pubblico dei visitatori. Con il supporto di altre associazioni ha favorito, poi, la rinascita di altri siti culturali del quartiere. Ecco, sono questi gli esempi virtuosi in cui al recupero e al rilancio del bene prezioso si unisce la finalità sociale. Al di la degli strumenti già esistenti, penso ad esempio al 5 per mille e al servizio civile, in che modo si può incentivare la crescita dell'economia sociale e del variegato mondo del terzo settore all'interno della nostra società? Per compiere il salto di qualità, il mondo del non profit deve superare la dipendenza dal settore pubblico. Deve trasformare, cioè, il suo ruolo da terzista per gli enti pubblici ad operatore in forma pubblica e con funzioni sociali. Affinché ciò avvenga, c'è bisogno di allargare gli spazi in cui l'impresa sociale può agire secondo criteri di efficienza economica ma con obiettivi sociali e pubblici. Tante cooperative del Nord stanno già muovendo in tale direzione, aumentando i proventi derivanti da attività di carattere privato/sociale. Anche perché, con il trascorrere del tempo, si vanno allentando i tradizionali confini tra attività economica tradizionale, sociale e pubblica che tendono, sempre di più, a mescolarsi. Dovrà essere senza dubbio lo Stato a creare nuove opportunità (penso alla detraibilità delle donazioni a favore delle imprese non profit o alla formazione professionale nel settore dell'economia sociale) e spazi in modo da favorire questo processo di evoluzione. Giuseppe Farese

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IL PALINDROMO Non ce l'ho con Renzi però, più tempo trascorre dalla sua assunzione al soglio e più emergono perplessità nella sua azione, per nulla mitigate da quel 41,5% del quale è stato beneficiato alle recenti europee. Anzi, quel dato, tutto sommato, denota ancor più quel malessere già evidenziato dall'altissima percentuale di astensioni. Se si osservano i flussi di voti, si noterà che hanno votato PD elettori che, inizialmente avevano idealmente appoggiato la scissione di Alfano all'interno del Popolo delle Libertà e che, in altri tempi ed in contesti differenti, avrebbero sicuramente confermato il loro appoggio ideale con la scelta elettorale. Si veda il caso del Ministro Lupi, uomo di spicco di Comunione e Liberazione il quale, con tutto il peso di un Ministero di livello come quello delle Infrastrutture e dei Trasporti e con un'organizzazione imprenditoriale capillare alle spalle, riesce a malapena a "tirare" 46.000 voti. Analogamente, è il caso della Lorenzin, ministro della sanità in carica, la quale non va più in là di 33.000 preferenze, nonostante il rilevante peso del suo ministero, in ogni caso inutili perché l'NCD” non ha raggiunto il quoziente nella circoscrizione centro e non ha preso seggi. Eppure, lo ha raggiunto la Lega che si è permessa stranamente il lusso di candidare al centro, con successo, un soggetto "scomodo" come Borghezio, torinese doc, tradizionale parlamentare del nordovest, molto acculturato ma politicamente sguaiato. E se qualcuno dubitasse della trasmigrazione di voti da NCD al PD, c'è la cartina di tornasole: il Nuovo Centro Destra, a livello regionale, ha una con-sistenza di ben 58 consiglieri i quali, evidentemente, non sono riusciti a fare presa sul loro elettorato che ha, appunto, preferito il PD. Certo. Con una NCD totalmente appiattita sul Governo, perché non votare il "bravo ragazzo", ingiustamente oggetto degli strali di Crozza? Ma poi, come fa un uomo di sinistra come Crozza a dileggiare il suo "capo"? Non teme di finire come Forattini che, per aver disegnato un paio di baffetti e un paio di stivali, si è ritrovato a fare l'emigrante, sia pur di lusso? Evidentemente, è il "gioco delle parti", un po' come gli intellettuali col Min-culpop, pagati perché schernissero il regime. Già, non può che essere così: bene, allora votiamo il partito del "giovane coraggioso" e diamogli la forza per portare avanti le sue riforme, intanto in Europa, questa cattiva matrigna che va messa in riga una volta per tutte. Non possiamo affidare questo intento a Grillo e alle sue urla inconcludenti. L'abbiamo già fatto una volta e mal ce ne incolse: una valanga di voti congelati tra streaming allucinanti, restituzioni di rimborsi, espulsioni e vaffanculi.


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Del resto, l'insoddisfazione è dimostrata dalla perdita di oltre un milione e mezzo di voti. Se ripetesse quelle sceneggiate in Europa, ci ritroveremmo col sedere a terra. Come faremmo senza l'euro? I vati della Rai hanno detto che l'inflazione galopperebbe, i risparmi si perderebbero, le materie prime andrebbero alle stelle e la miseria serpeggerebbe per le città ridotte a South Bronx. Renzi, invece, bacchetterà sonoramente, ma con stile e garbo, quegli astiosi burocrati e li indurrà a più miti ragioni. Ma… E il povero Alfano? Che volete che vi dica… tornerà sicuramente con Berlusconi, il quale, pur avendo avuto maggioranze bulgare nel decennio complessivo di governo, si è ben guardato dal fare qualsivoglia riforma. Quindi, è inaffidabile. E questo, invece, è l'ultimo treno per farle e, non potendo contare su Alfano per esercitare pressioni su Renzi né, men che meno, su Berlusconi, qualora Alfano decidesse il ritorno alla "maison", noi, uomini di destra moderna, diversamente europeista, sufficientemente laicista e moralista, votiamo il "bravo ragazzo" che ha avuto il coraggio di scuotere dalle fondamenta il pachiderma pidino. Tanto non è poi così di sinistra. Bene. Forse non è letteralmente questo il ragionamento che ha fatto l'elettore di destra non berlusconiana ma, in pratica, non credo che siamo lontani dalla verità. Così, il Matteo nazionale, il D'Artagnan della sinistra, può vantarsi di aver arrecato beneficio al suo partito di oltre un milione e mezzo di voti in più rispetto alle ultime elezioni politiche; un risultato che quasi eguaglia quello ottenuto da Veltroni, peraltro in un contesto simile: gli amorosi sensi col Cavaliere. Per inciso, qualcuno potrebbe pensare che il milione e mezzo di voti presi in più dal PD siano di provenienza M5S; in realtà, la perdita registrata da Grillo è andata ad ingrossare l'astensionismo, a conferma della presa d'atto dell'inutilità del precedente consenso dato a quel partito. Tutto ciò posto, quando capirà il Nuovo Centro Destra che l'appoggio incondizionato alle politiche renziane gli fa correre il rischio d'estinzione anticipata? Se non avesse fatto l'apparentamento con l'UDC, sarebbe fuori dalle aule brussellesi e, analogamente, lo sarebbe l'UDC. Ma quell'unione è finalizzata a sopperire una necessità contingente e, a mio modesto avviso, non può essere esportata nella politica nazionale per apparentamenti stabili. E, nel contempo, come fa Forza Italia, dichiaratamente all'opposizione, a sostenere fattivamente l'azione di governo? In nome di una stabilità? Di chi e per cosa? Perché non pensare, invece, ad una uscita dal governo da parte dei ministri centro-destristi e ad una opposizione seria da parte di Forza Italia? Perché non pensare ad una loro ri/unione lasciando il PD e il presidente del consiglio a dilettarsi con l'ultima boutade di Grillo che ha recentemente offerto possibilità d'intese a Renzi, dopo tanti rifiuti e scherni? Grillo ha motivato la sua offerta, forse indotta dallo scadimento del consenso, con la scusa che il presidente del consiglio è stato incoronato dal voto e, quindi, è divenuto un soggetto col quale si può parlare perché, si pensi, "espresso dal popolo". Quando? Dove? Per il voto alle europee? Da ridere. Comunque, se effettivamente lo pensa, stringa, allora, fattive intese con l'esecutivo e si sobbarchi l'onere di sostenere e varare le tanto sbandierate riforme a cominciare da quella del

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Senato che è quanto di più assurdo e antidemocratico possa esistere, al punto da incontrare, addirittura, una forte opposizione da parte di elementi dello stesso PD. Accolga una riforma della Pubblica Amministrazione che, invece di "punire" i dirigenti per incompetenza, prevede la mobilità del personale fino a 50 Km dal luogo di residenza; che, invece di semplificare procedure e consentire una complessiva governance telematica, lascia immutate le annose procedure e l'incomunicabilità tra dicastero e dicastero e tra questi e le strutture pubbliche e para-pubbliche sul territorio. Lo faccia e cerchi di spiegare al suo elettorato perché accettare una spending review che lascia inalterati i veri centri di spesa come le regioni, le società partecipate soprattutto regionali, le inutili authority, i poco più di cento commissari per oltre quattrocento società private, remunerati, ormai come sinecura, ognuno con centinaia di migliaia di euro all'anno, gli enti parco che non controllano, le comunità montane che non provvedono, le strutture diplomatiche e consolari alle prese con carenze progettuali circa l'impiego dei loro budgets che dissipano in futili attività e, con esse, i concomitanti Istituti italiani di cultura all'estero che, generalmente, più di feste danzanti e corsi di lingua italiana non fanno. Faccia l'accordo e giustifichi l'aberrante "regalo" degli 80 euro per i quali il governo non è neppure riuscito a trovare né una definizione giuridica né una equanime erogazione. Se lo farà, sarà un modo per levarcelo più velocemente dai cabasisi, direbbe Camilleri. Intanto, Renzi sta assumendo sempre più l'aspetto del palindromo più famoso, il cosiddetto Sator, che ogni tanto si incontra su qualche muro, su qualche roccia, su qualche parete di chiese. Essendo un palindromo, appunto, il Sator ha la prerogativa di essere letto indifferentemente da destra a sinistra e dall'alto in basso. Le menti più brillanti si sono scervellate nel cercare di capirne il vero significato, al di là di quello apparente, nel presupposto che, essendo in auge al tempo dell'Ordine dei Pauperes commilitones Christi templique Salomonis, meglio noti come cavalieri templari, una qualche nascosta importanza debba averla. E così il nostro famoso fiorentino, che avendo sponsor di rilievo interni ed esterni una qualche valenza dovrà pur possederla. Non vorrei che, al pari del Sator, la linea renziana serva come il miglio per gli uccelli, il richiamo per le allodole, l'esca per i pesci; per tutto, meno che per le finalità che espone. A me, come detto all'inizio, importerebbe poco se, per dirla con Guicciardini, non fosse stato per lo mio particulare; se, cioè, non fossi cittadino di questo Paese, non tenessi ad esso, non fossi sensibile alle problematiche sociali e critico verso l'assenza di democrazia, politica ed economica, se non avessi sperato, al pari di altri, che la pseudo rivoluzione renziana potesse innescare una benefica rivoluzione cultural/politica. Purtroppo, le mie speranze e le mie aspettative sono ancora tutte in essere ma, mea culpa, non confido più nel Salvatore fiorentino. Spero, invece, che il PD, nell'interesse del Paese, faccia chiarezza al suo interno per ritrovare una sua chiara identità ma, soprattutto, spero che un processo costruttivo di riaggregazione del mondo della destra, Lega compresa (l'unica forza che ha dimostrato finalmente chiarezza di percorso) serva finalmente a darle un volto riconoscibile e apprezzabile. Iddio mi perdoni, senza Berlusconi. L'infedele


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VENDITORI AMBULANTI Mi chiedo se gli addetti all'informazione sappiano fare il loro mestiere. Forse, sì ma certo è che la loro professionalità è rivolta a cercare le espressioni, i titoli, i passaggi più sensazionali piuttosto che la verità. E' il caso dei recenti ballottaggi e, neanche a farlo apposta, ecco i titoli: una battuta d'arresto per il PD, terminato l'effetto Renzi, il riscatto del centro destra, tre al prezzo di uno, puro cotone ritorto, non ve lo do per cento….. Sembrano più dei venditori ambulanti che professionisti della notizia anche perché, nel caso dei ballottaggi, significa fermarsi a Livorno e Perugia e non vedere il resto. Da che mondo è mondo, del resto, alle elezioni amministrative si è sempre votato "con il portafoglio" piuttosto che "col cuore", come si diceva una volta. Ed ha poca importanza che il "cuore" sia andato perduto tra le fumisterie, i ladrocini, le approssimazioni, le vane promesse, i rampantismi: resta il "portafoglio". Nel senso che le amministrazioni comunali sono più soggette ad un giudizio oggettivo da parte della popolazione, a prescindere dal colore politico. Infatti, proprio Livorno è la cartinaigiene di tornasole. Non conosco il sindaco Cosimi ne so della qualità audacia temeraria spirituale della sua amministrazione ma, dal momento che gli operai e i portuali livornesi non hanno votato a sinistra, la sua gestione non deve aver brillato. E, a personale avviso, non c'entra nulla il fatto che, in sua sostituzione, il PD abbia proposto un trentanovenne, Marco Ruggeri, per cui gli elettori non gli hanno dato credito per la giovane età. Perché la si può mettere come si vuole ma a Livorno si è svolto un vero e proprio referendum il cui quesito sostanzialmente era: volete un'ulteriore giunta di sinistra? Una domanda rivolta ad elettori in massima parte proprio di sinistra i quali hanno risposto "No". E, poiché di sinistra restano, a prescindere dalla discutibile o meno opera degli uomini, non hanno votato per il centro destra bensì per un grillino, Filippo Nogarin, quarantaquattrenne, ingegnere aerospaziale che ha incassato l'appoggio di liste di sinistra, appunto, e di centrodestra. Come dire, non si può votare tout court il centro destra ma, in attesa degli eventi, si può votare per una auspicabile catarsi. E' indiscutibile, infatti, che l'odierno PD abbia assoluta necessità di ridefinire la sua immagine, il suo portato, le connotazioni della sua azione, a prescindere dall'effetto Renzi, perché ciò che va aggettivata non è soltanto l'opera del governo centrale che, già di per sé, ha bisogno di spessore e concretezza a prescindere dall'effetto annuncio, quanto quella sul territorio, quella delle regioni e, appunto, delle città. E tutti e due i livelli, centrale e periferico, hanno assoluta necessità di politiche inequivocabilmente di sinistra.

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Non mi riferisco, ovviamente, ai precorsi storici, alle tesi scaturite dal famoso congresso del 19 gennaio 1921 presso il teatro Goldoni di Livorno, in occasione del XVII congresso del PSI, e alla fuoriuscita di Amedeo Bordiga e dei suoi per dare contestualmente vita al Partito Comunista d'Italia: un riferimento che, in ogni caso, non fosse altro che sul piano storico, dovrebbe avere la sua importanza. Sembra, invece, che non ne abbia alcuna, neppure sul piano culturale. Perciò, mi pare evidente che ad un partito, evolutosi sull'onda del capitalismo d'assalto che ha sbriciolato i bastioni ideologici di Mosca, perse conseguentemente le vecchie connotazioni rivoluzionarie, protratta la sua esistenza ultraventennale solo sull'antiberlusconismo, occorrano urgentemente nuove, seppur tardive, definizioni della sua esistenza: un'opera, questa, che da solo Matteo Renzi non può svolgere, ammesso che ne abbia capacità e forza, perché agli uomini sul territorio non basta emularlo nell'annuncio per suscitare consensi: abbisognano, invece, di concretezze palpabili, di realtà visibili, di effettività operative. Non solo, abbisognano di tornare a colorare la loro azione, se non di rosso, con qualsivoglia altro colore, purché abbia senso e profondità culturale. Mi rendo conto che, alla luce dei fatti elettorali, recenti e passati, qualcuno potrebbe pensare che una rivisitazione cultural-politica interna del PD non sia così impellente. Anche perché, si potrebbe ritenere, le amministrazioni si conquistano e si perdono; e ciò in piena sintonia con la cosiddetta democrazia dell'alternanza. E' vero: del resto, il PD ha aumentato il numero delle amministrazioni controllate. Eppure, già si potrebbe obiettare che la sconfitta è la risultante di una gestione sgradita senza considerare, poi, che finora tale alternanza è la dimostrazione palese della drammatica indistinguibilità dei due fronti e dell'assenza di fidelizzazione. Si vota nella speranza che cambiando si migliori. Per cui, se per la prima volta, a distanza di ventitré anni dalla Bolognina, il PD vestisse finalmente i panni del socialismo riformista non solo farebbe a se stesso un gran bene, non solo motiverebbe e indirizzerebbe l'azione dei suoi dirigenti e amministratori, non solo fidelizzerebbe un consenso che, in quest'ultimo ventennio, ha fluttuato senza costrutto e senza coscienza da una parte all'altra ma anche, cosa parimenti non da poco, darebbe decorosa motivazione storica alla strategica cancellazione del PSI. Fare i conti con la storia potrebbe apparire non importante, non utile mentre, in realtà, è doveroso. Per l'esattezza, non mi riconosco in alcuna delle attuali formazioni politiche, più sodalizi da Risiko che partiti; però, non posso non notare che alle formazioni di sedicente destra sono state chieste dimostrazioni di democrazia, atti di riconoscimento e di apprezzamento dei fondamenti repubblicani, quali le lotte partigiane, di abiura dell'operato di uomini e di idee del passato, mentre alle formazioni di sedicente sinistra non è stato chiesto alcunché. Eppure, il percorso, per entrambe, è stato simile: ambedue hanno cambiato nome e dato vita a percorsi aggreganti. Le seconde, però, figlie di abomini come le prime, non hanno pagato prezzi per la loro riconversione, se non quello, numericamente modesto, di vecchi comunisti che nel febbraio del 1991 hanno pianto calde lacrime.


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Faccia, il PD, i conti con la sua storia. Non solo: dica a questo Paese che gli anni di piombo non sono trascorsi invano, spieghi fino a dove si sarebbe spinto in ossequio alle direttive sovietiche cancellando così gli inquietanti ricordi delle formazioni Gladio e del Piano Solo, motivi culturalmente lo strame della politica fatto da Mani Pulite e, in conseguenza, provi a spiegare perché, nonostante tutto ciò, l'Italia sia ancora alle prese con la corruzione e il malaffare, a causa di un sistema consociativo che, a differenza del passato, non preclude intenti consociativi da qualsivoglia parte provengano. In ultima analisi, se lo facesse, indurrebbe le altre parti, quelle dichiaratamente contrapposte, ad adeguarsi alla bisogna, a darsi anch'esse un volto e un comportamento e così, forse, la politica tornerebbe ad essere il più nobile impegno dell'essere umano e non un'occupazione, peraltro lucrosa, per chi non sa fare, non ha idee né cultura. Sarebbe inutile chiederlo alle sedicenti forze di destra: sono frantumate in cespugli con speciosi distinguo, non hanno background culturale, quelle che ce l'avevano hanno preferito accantonarlo, ripudiarlo, ignorarlo, scegliendo di sposare tematiche altrui, al livello di blaterazione, piuttosto che rinverdire, rielaborare, evolvere le proprie. Non a caso, alcune formazioni di quella parte sono arrivate a condividere platealmente le tematiche di sempre della Lega, paradossalmente nel momento in cui quel partito, fortunatamente, comincia ad abbandonarle per potersi proiettare in ambito nazionale, e non più solo Nord, e internazionale. Diversamente, si continuerà nella farsa dei venditori ambulanti dove la politica fa da grossista e l'informazione da dettagliante. La produzione? Non mancano i pupari. Roberta Forte

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IL LAVORO DI CITTADINANZA E' intollerabile che cittadini italiani debbano annegare nel mare della disperazione senza vie d'uscita e nell'indifferenza dello Stato, ossia della comunità nazionale, che debbano, adulti o giovani che siano, dolorosamente porsi a carico dei genitori, dei nonni o dei parenti più stretti, che siano costretti ad accodarsi, in file che si allungano ogni giorno di più, davanti alle mense della Caritas o a frugare nei cassoni dell'immondizia, senza che lo Stato senta il dovere di farsene carico, che debbano essere costretti a scegliere la strada amara dell'emigrazione, a sognare di essere cittadini di un'altra nazione, di un altro Stato. Gli 80 euro di Renzi dovevano servire ad alleviare questo stato di cose, a restituire un minimo di dignità di cittadinanza a chi la ha perduta o la sta perdendo e non ad elargire una regalia elettorale che certamente non rilancerà i consumi. Anche il miraggio del reddito di cittadinanza, sbandierato da Grillo, è in sostanza una regalia senza corrispettivo a carico dei contribuenti. E' tempo di intervenire, cominciando a dare un minimo di sostanza attuativa al primo articolo della Costituzione ed offrendo, nel contempo, a tutti i cittadini la concreta possibilità di non perdere speranza e dignità. Così agisce un Paese civile. E’ tempo di istituire il "volontariato sociale". Va prevista una norma che riconosca ad ogni cittadino italiano, abile al lavoro e privo di occupazione e di reddito, il diritto, se lo richiede, di svolgere, in qualità di volontario sociale, lavori di pubblica utilità. Tali attività, in deroga alle norme sul lavoro, vanno configurate come attività di volontariato sociale con lo scopo di tutelare la dignità di cittadinanza e di prevenire il disagio sociale da inattività forzata. A nessuna condizione, neanche di continuità temporale o specificità professionale, possono costituire titolo o presupposto per un rapporto di lavoro, stabile o temporaneo, con la pubblica amministrazione, né possono dar luogo a diritti previdenziali ad esclusione della copertura assicurativa contro gli infortuni a carico dello stato a massimali predeterminati. Il compenso su base giornaliera e per un massimo di 300 giornate annue andrebbe parametrato al valore minimo delle pensioni sociali e dovrebbe è esente da prelievo fiscale, dovrebbe essere determinato per legge ed erogato tramite la corresponsione di speciali buoni di acquisto o accreditato su apposite carte di credito ricaricabili. La pubblica amministrazione, d'intesa con gli enti locali, avrebbe il compito di elaborare piani annuali per i lavori di pubblica utilità volti alla manutenzione ed alla valorizzazione del


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patrimonio pubblico ed all'erogazione di servizi ai cittadini avendo cura di capillarizzare gli interventi sul territorio. Nel caso di luoghi di intervento particolarmente decentrati l'amministrazione provvederebbe al trasporto o all'erogazione di appositi titoli di viaggio sui mezzi pubblici. Dovrebbe provvedere anche a dotare ogni cantiere degli attrezzi e dei materiali necessari ed a nominare uno o più responsabili di cantiere in funzione della loro ampiezza e della complessità delle opere, scelti tra i dipendenti pubblici. Questi risponderebbero del buon uso dei materiali e delle attrezzature, della qualità delle opere, del rispetto dei cronoprogrammi e potrebbero, in caso di necessità, emanare provvedimenti di sospensione temporanea dei volontari dalle attività. Il Genio civile, il Genio militare, il Corpo Forestale dello Stato, le Soprintendenze, i Servizi sociali o gli Uffici tecnici degli Enti locali, sarebbero tenuti a stilare i progetti di dettaglio rientranti nelle loro sfere di competenza ed a supervisionare le attività e l'operato dei responsabili. Ogni progetto portato a compimento nei tempi previsti e con la qualità richiesta, come certificato dall'Ente supervisore, determinerebbe il riconoscimento di un punto in capo a ciascun volontario sociale che vi ha partecipato senza incorrere in sospensioni. Analogamente per ogni anno di servizio volontario prestato senza provvedimenti di sospensione. Tale punteggio dovrebbe avere validità nei concorsi della pubblica amministrazione. Il finanziamento necessario stimato è di 4,5 miliardi l'anno per milione di volontari (di cui 4 md per compensi). Le coperture potrebbero provenire dalla revisione di spesa a carico dello Stato per la cassa integrazione (attualmente 1,6 miliardi), da apposito vincolo di destinazione sui ricavi da concessioni di beni pubblici (1,8 miliardi), dai risparmi di spesa relativamente alle manutenzioni del patrimonio pubblico, al minor costo di alcuni compiti della protezione civile e di salvaguardia ambientale, dai risparmi di spesa relativi ad alcuni servizi ai cittadini, dal maggior gettito del patrimonio valorizzato messo a reddito e dal suo correlato incremento di valore in caso di dismissione programmata. Pennanera

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SOCIETA’

IL GENIO DELLA SPECIE Per Artur Schopenhauer il genio della specie era l'impulso riproduttivo, la molla dell'accoppiamento, la vera ragione agente dietro l'illusione dell'amore. Posto che tale "genio" esista, esso non può agire nella sola direzione del favorire la riproduzione. Nel caso in cui la specie fosse in pericolo per eccesso riproduttivo, allora il genio della specie dovrebbe agire di conseguenza, disincentivando la riproduzione, operando in favore della denatalità, addirittura smascherando l'illusorietà dell'innamoramento. In tal caso l'umanità non dovrebbe temere la "catastrofe Malthusiana" (risorse insufficienti a garantire la sopravvivenza di tutti) e men che mai l'avverarsi della teoria del "Giorno del giudizio" che fissa, probabilisticamente, la fine dell'umanità tra novemila anni. Il prezzo da pagare sarebbe, tuttavia, lo smascheramento dell'amore finalizzato alla natalità, il depotenziamento delle pulsioni riproduttive. Che la crescente affermazione dell'orgoglio gay sia un'astuta mossa del genio della specie in tale direzione? Fatto sta che oggi l'umanità pesa per sette miliardi sul pianeta e, secondo le stime Onu, peserà per nove miliardi nel 2050 (salvo che il genio della specie non provveda a: guerre annientatrici, nuove pandemie, carestie o mancanza stabile di risorse alimentari ed energetiche, gravi sovvertimenti climatici). Sempre le stime Onu al 2050 (vedi tabella nella pagina seguente) ci dicono che il 78% della popolazione mondiale sarà assiepata in Asia ed Africa (attualmente il 75%), che in Europa residuerà il 7,3% (attualmente il 10,5%) se non ci si accoppierà di più, Nord America, America Latina e Oceania resteranno stabili rispettivamente al 5%, 8,7% e 0,5%. L'analisi delle stime genera molti interrogativi sul futuro, a prescindere da come si comporterà il genio della specie. La prima evidenza è che il peso complessivo del ceppo europeo si riduce a poco più del 7% e quello di derivazione prevalentemente europea (Nord America, Oceania, parte neolatina del Sud America ed europea dell'Asia) si attesta intorno all'13%. In un rapporto complessivo di 1 a 4 rispetto agli altri ceppi (indocinese, africano, altri). Europei e popoli di derivazione europea occupano circa il 50% delle superfici continentali, molto di più se si escludono dal computo le zone desertiche, producono circa il 50% del Pil globale (223 miliardi di dollari). Va ancora rimarcato che l'un per cento della popolazione detiene il 43% della ricchezza totale e che i 300 uomini più ricchi del pianeta posseggono più di quanto detengono i tre miliardi di più poveri e


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Anno

Mondo

2010 6 830 283

Africa

Asia

Europa

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America Latina

USA e Canada

Oceania

984 225 (14,4%) 4 148 948 (60,7%)

719 714 (10,5%)

594 436 (8,7%)

348 139 (5,1%)

34 821 (0,5%)

2015 7 197 247 1 084 540 (15,1%) 4 370 522 (60,7%)

713 402 (9,9%)

628 260 (8,7%)

363 953 (5,1%)

36 569 (0,5%)

2020 7 540 237 1 187 584 (15,7%) 4 570 131 (60,6%)

705 410 (9,4%)

659 248 (8,7%)

379 589 (5,0%)

38 275 (0,5%)

2025 7 851 455 1 292 085 (16,5%) 4 742 232 (60,4%)

696 036 (8,9%)

686 857 (8,7%)

394 312 (5,0%)

39 933 (0,5%)

2030 8 130 149 1 398 004 (17,2%) 4 886 647 (60,1%)

685 440 (8,4%)

711 058 (8,7%)

407 532 (5,0%)

41 468 (0,5%)

2035 8 378 184 1 504 179 (18,0%) 5 006 700 (59,8%)

673 638 (8,0%)

731 591 (8,7%)

419 273 (5,0%)

42 803 (0,5%)

2040 8 593 591 1 608 329 (18,7%) 5 103 021 (59,4%)

660 645 (8,0%)

747 953 (8,7%)

429 706 (5,0%)

43 938 (0,5%)

2045 8 774 394 1 708 407 (19,5%) 5 175 311 (59,0%)

646 630 (7,4%)

759 955 (8,7%)

439 163 (5,0%)

44 929 (0,5%)

2050 8 918 724 1 803 298 (20,2%) 5 217 202 (58,5%)

653 323 (7,3%)

767 685 (8,6%)

447 931 (5,0%)

45 815 (0,5%)

che le nazioni più ricche nel secolo scorso erano solo tre volte più ricche delle altre, che dopo il colonialismo lo erano 35 volte ed oggi 80 volte. E' un modello che può reggere? Certamente no sul piano di un principio di giustizia, men che meno sul piano degli urti che verranno, con o senza il genio della specie, se non si cambiano le regole. Il principio dell'accumulazione capitalistica è giusto, ma sarebbe altrettanto giusto porre un "limite sociale" a tale accumulazione. Che un uomo possa accumulare ricchezze sufficienti a vivere una, due, tre intere vite negli agi e nello sfarzo è, in qualche modo legittimo, oltre diventa discutibile. Questo vale anche per le società e per gli Stati, altrimenti è solo homo homini lupus ed avrebbe ragione Schopenhauer sul fatto che nulla ha senso. Pierre Kadosh


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GEOPOLITICA

UCRAINA: SEGNALI DI DISTENSIONE In occasione delle cerimonie per il D-Day, per le quali si sono ritrovati in Normandia una ventina di capi di Stato, il presidente russo Vladimir Putin ha incontrato la cancelliera tedesca Angela Merkel. I due si sono visti in un hotel di Deauville e sono apparsi distesi ai molti fotografi e giornalisti che li hanno attesi all'uscita dell'incontro: Merkel e Putin non si vedevano dall'inizio della crisi della Crimea. Ma sono altri i segnali di distensione che si intravedono dai vari gesti e dalle dichiarazioni, basti pensare che se il Cremlino ha deciso di rispondere in egual misura alle sanzioni impartite da Washington, va detto che la reazione nei confronti dei paesi dell'Unione europea è stata assai più morbida: non è solo una questione di gas, che come gli europei hanno la necessità di acquistarlo, così i russi hanno la necessità di venderlo, bensì è stata posta in atto una rete importante di relazioni commerciali, economiche, culturali e diplomatiche che per prima Mosca non vorrebbe vedere indebolita. Ad esempio, il 26 novembre a Trieste Vladimir Putin, accompagnato da 11 ministri, ha incontrato l'allora premier Enrico Letta con i ministri corrispondenti per firmare una trentina fra accordi e trattati assai più remunerativi ed interessanti di quanto possa essere l'economicamente disastrata Ucraina. Proprio in quell'occasione Putin fece notare che l'Ucraina doveva alla Russia qualcosa come 30 miliardi di euro, di cui solo un terzo per le forniture di gas: il rifiuto di Kiev di aderire all'Unione doganale ideata dal presidente russo, unitamente alla montagna di debiti, verrebbe così ad essere compensato con l'annessione della Crimea, dove Mosca ha la base della Flotta del Mar Nero. E forse più che un'"annessione", si è trattato di una "cessione", che accontenterebbe, alla fine, tutti, con l'Ucraina e il Kosovo che passerebbero sotto l'influenza di Bruxelles, Kiev, che vedrebbe risanata una parte del suo debito e Mosca che non sarebbe più chiamata a versare l'affitto per la base di Sebastopoli. Resterà quindi da far ragionare il nuovo presidente ucraino Petro Poroshenko, il quale ha già affermato che con lui ci sarà "il ritorno della Crimea all'Ucraina e la difesa degli ucraini che vivono in Crimea". Le insurrezioni nelle regioni di Lugansk e di Donetsk sarebbero quindi spontanee, strumentalizzate dal Cremlino per tenere alta la tensione e distogliere l'attenzione dalla Crimea. Ad avvalorare la tesi della ricerca della distensione da parte di Putin sono anche altri segnali,


GEOPOLITICA

come il ritiro delle truppe russe dal confine con l'Ucraina, la dichiarazione di apertura del deposto presidente Viktor Yanukovich al risultato elettorale ("Non importa la percentuale di popolazione che è andata alle urne, rispetto qualsiasi scelta abbiate preso, una scelta compiuta nel momento più difficile per la nostra patria") e la disponibilità di Putin a incontrare il nuovo presidente Poroshenko e a inviare al suo insediamento un proprio rappresentante. Sempre a margine delle celebrazioni per il 70mo dello sbarco in Normandia, Vladimir Putin si è poi visto con Barak Obama, in un incontro durato circa un quarto d'ora presso la hall del castello di Bénouville: era presente anche il presidente ucraino Petro Poroshenko e, anche in quest'occasione, vi era la cancelliera Angela Merkel, la quale verrebbe così ad essere la mediatrice naturale del mini-vertice. Come ha precisato Ben Rhodes, uno dei consiglieri di Obama, si è trattato tuttavia di "una conversazione informale e non di un meeting bilaterale". Putin e Poroshenko si sono detti entrambi favorevoli a fermare al più presto "lo spargimento di sangue" nell'Ucraina orientale. Una distensione che converrebbe a tutti, fuorché agli Stati Uniti, che forse nell'accrescersi delle tensioni speravano di esportare, come avevano annunciato, in Europa il loro gas. Enrico Oliari Direttore di Notizie Geopolitiche, quotidiano on-line

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LA MISSIONE DELLA NAVE ELETTRA: A RISCHIO LE RELAZIONI CON PUTIN? La condotta di equilibrio sostenuta dalla Farnesina nella crisi in Ucraina, è valsa all'Italia il riconoscimento ufficiale dell'Ocse come mediatore. Ma l'atto politicamente sensibile del Governo Renzi di inviare la nave da supporto polivalente "Elettra" nel Mar Nero, sarà destinato a conferire una diversa connotazione alla partecipazione italiana ai tentativi di ristabilire l'ordine in Ucraina. Con la definizione di "supporto polivalente" si intende spionaggio elettronico, o meglio Elint, acronimo di electronic signals, una specializzazione del Sigint, signal intelligence. È l'attività di raccolta di informazioni con l'intercettazione e l'analisi dei segnali emessi da persone o apparati elettronici o anche della combinazione di questi. Le operazioni Sigint si avvalgono di strumenti di criptoanalisi e la raccolta dati è incentrata ai sistemi di difesa avversari. Pertanto: radar guidamissili, batterie anti aeree, radar di puntamento e scoperta ed ancora unità di superficie e postazioni comando ubicate a terra od in volo. La metodologia è imperniata sulla identificazione dei segnali captati e della loro successiva catalogazione. Si confrontano i parametri raccolti con le banche dati ed in caso di riscontri negativi, l'emittente ed il contenuto vengono classificati come nuovi. La finalità principale è quella di acquisire l'esatta posizione dei sistemi d'arma e delle postazioni di comando e controllo avversarie, in tal modo da agevolare i decisori nell'evitare i siti strategici nemici dotando gli incursori delle contromisure elettroniche più adatte, od agevolando l'elusione dei radar di scoperta avversari con i sistemi di jamming più idonei. Naturalmente, gli strateghi potranno considerare l'opzione di eliminare i sistemi di difesa con un attacco preventivo. L'Elint è valutata come la migliore applicazione nella dottrina della guerra net-centrica. L’Elettra è una unità della MMI, classificata come Nuova Unità Polivalente di Supporto, equipaggiata per assolvere compiti di supporto elettronico, di comandi complessi e multiforze. Entrerà nel Mar Nero il 15 giugno p.v. dove permarrà per un massimo di 21 giorni, come previsto dalla Convenzione di Montreaux, che limita la navigazione in quelle acque alle unità da battaglia non appartenenti alle nazioni rivierasche. Al momento nessuna dichiarazione al riguardo è trapelata dal Governo italiano e dal Copasir. La missione è stata dissimulata dalla richiesta di transito presentata dalla MMI alle autorità turche, alle quali devono essere segnalate le navi che desiderano transitare negli stretti del Bosforo e Dardanelli.


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L’Elettra, probabilmente, avrà la finalità di intercettare le forze militari russe e le milizie secessioniste filo russe nel Donbas. Questo per agevolare le possibili azioni militari contro la popolazione russofona dell'Ucraina orientale e distruggere, interdire, degradare ed usurpare le reti di mappature delle forze di Donetsk e Lugansk, attuando quello che è definito come il conflitto asimmetrico dell'informatica, che risultata essere una minaccia tecnologica e geopolitica: una testa di ponte digitale, da cui i dati indebitamente rilevati verrebbero trasferiti sotto il controllo dell'Alleanza Atlantica. Di fatto, se la notizia sarà confermata, avrà un impatto negativo sulla credibilità dell'Italia come mediatore e porrà l'Esecutivo in grave imbarazzo a causa del grossolano tentativo di nascondere la missione della nave Elettra. In conclusione potrebbe incrinare i rapporti con la Russia. Giovanni Caprara Redattore di Notizie Geopolitiche, quotidiano on line

L’ ELETTRA - SCHEDA Numero: Nome: Anno: Base: Costruttore: Dimensioni: Dislocamento: Propulsione:

Autonomia: Velocità: Equipaggio: Compiti:

Armamenti: Radar:

A5340 Elettra 2003 La Spezia Fincantieri presso Riva Trigoso (GE) e Muggiano 93 metri x 15,5 m x 4,83 m 2.960 tonn. a pieno carico sistema diesel-elettrico basato su 2 generatori diesel GMT Wärtsilä-CW 12V200 da 2.785 KVA, 2 motori elettrici di propulsione a magneti permanenti (MEMP) ABB da 1.500 KW ciascuno. Il particolare sistema di propulsione impiegato durante la navigazione e l'impianto di stabilizzazione installato di tipo passivo a cassa flume permette all'unità di avere una segnatura acustica estremamente ridotta. Sono infine presenti due diesel generatori ISOTTA-FRASCHINI di porto da 700 KW ciascuno e un generatore elettrico di emergenza. L'impianto di governo è composto da due timoni Rolls Royce, manovrabili in maniera indipendente, e di due eliche a pale fisse riportate. 8.000 miglia alla velocità di crociera di 12 nodi 16 nodi massima varia a seconda della missione, tipico 30 militari e 65 specialisti e tecnici il compito principale dell'unità è il SIGINT (Signal Intelligence), ovvero quello di intercettare, analizzare e valutare segnali radio ed emissioni elettromagnetiche al fine di ricavarne informazioni da fornire all'intelligence, alla squadra navale e/o a supporto di operazioni speciali. Grazie alla ridotta segnatura acustica è in grado di avvicinarsi ad obiettivi sensibili senza farsi notare, intercettare le informazioni e riferire. Ulteriori compiti sono la sorveglianza marittima e svariati compiti scientifici quali investigazioni del fondale marino e ricerca idro-oceanografica ed acustica subacquea. 2 mitragliere OtoBreda-Oerlikon KBA 25/80. 2 radar in banda-X, radar di navigazione in banda I

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Mezzi gru: Sistema di navigazione:

1 gru da 180 tonn, 1 gru da 55 tm e 2 gru per imbarcazioni di servizio EM registro di bordo, Ecosonda, 2 girobussole, Pilota automatico, sistema di distribuzione dati nave, Sistema di comunicazione GMDSS Programma/cronistoria: nave basata su una rielaborazione del vecchio progetto dell'unità per ricerche della NATO "Alliance" costruita per il Saclant Underwater Research Center, sempre realizzato da Fincantieri. La nave è stata ordinata il 1 dicembre 1999, il taglio della prima lamiera è avvenuto nel marzo del 2000 e il varo è avvenuto il 24 luglio 2002. E' la prima unità di superficie ad essere dotata di una propulsione con motori elettrici a magneti permantenti. E' stata consegnata (commissionata) alla Marina Militare il 2 aprile 2003 alla presenza della Principessa Elettra Marconi mentre la bandiera di combattimento è stata consegnata il 7 ottobre 2005 a Gaeta, Curiosità: è considerata una tra le navi della Marina con la più alta presenza femminile; a tal fine può ospitare fino a 28 militari donne di cui 4 Ufficiali, 8 Sottufficiali, 8 Sergenti e 8 del ruolo truppa. Ciò anche in virtù del fatto di essere stata costruita dopo l'istituzione del servizio militare femminile. L'ammiraglio Biraghi ha dichiarato alla cerimonia del 7 ottobre 2005: "La nave non ha missili né cannoni, tranne quelli per autodifesa, ma (…) è dotata di occhi e orecchie giusti per guardare e sentire lontano" Costi: 207 M€, di cui 40,8 M€ per la piattaforma navale con completamento nel 2006.


CULTURA

THE TREE OF LIFE The Tree of Life è un film del 2011 diretto dal regista statunitense Terrence Malick, è stato distribuito dopo un'attesa di quasi due anni, la sua uscita era inizialmente prevista per il dicembre 2009. Principali attori protagonisti sono Brad Pitt e Sean Penn. È stato presentato in concorso al 64º Festival di Cannes, nel maggio 2011, dove ha vinto la Palma d'oro per il miglior film. La storia è narrata per mezzo di flashback, ed è tutta accompagnata da un flusso di musica costante. Il film racconta la vita di Jack O'Brien, un ragazzo del Texas, e dei suoi fratelli. Il padre dà ai figli un'educazione severa per insegnar loro ad avere successo nella vita. La madre, invece, fa conoscere loro il valore dell'amore e dei sentimenti. Nella mente di Jack i due genitori simboleggiano la natura (la forza talvolta brutale del padre) e la Grazia (la purezza dell'amore della madre). Gli O'Brien sono una famiglia texana di ceto medio e rigorosamente cristiana degli anni cinquanta. Il padre di Jack impone duramente il proprio modello educativo ai figli e, spesso, li punisce fisicamente, causando profondo scontento alla moglie con cui discute violentemente, accusandola di essere una donna debole. Jack, divenuto adolescente, rinnega l'esistenza di Dio, giunge a desiderare la morte del padre ed intraprende un percorso interiore confuso. La morte del fratello alla prematura età di diciannove anni determina un ulteriore grave disagio nel suo stato di angoscia e incertezza. Da adulto Jack è un'anima persa nel mondo moderno nel quale non riesce a trovare se stesso ed il senso della propria esistenza: il suo tormentato pensiero fluisce come un "io narrante" in cerca di risposte. Il regista texano utilizza nell'opera la voce fuori campo, diventata un suo segno distintivo. Dopo lo stupore con cui le prime sequenze del film ci conducono per mano in una dimensione di pura emozione collegata ad una trama, la lunga seconda parte del film è priva di un'ossatura narrativa convenzionale. Infine, nell'ultimo quarto d'ora Malick ci immerge completamente in una dimensione mistica e atemporale. Il film si conclude con una toccante visione onirica e, dopo una sorta di resa, viene finalmente "varcata" una soglia: Jack "ritrova" sua madre e i suoi fratelli, raggiungendo una consapevole riconciliazione con il padre, che in una scena fondamentale del film ammette di aver sbagliato a puntare nella sua vita sull'ambizione e riconosce che la cosa migliore della sua vita sono i suoi figli. Il film valorizza l'importanza della Bellezza e della Solidarietà tra gli esseri viventi. Interrogativi Quali emozioni evidenzia "The tree of life"? La ricerca di una sensibilità peculiare, una fluidità dell'immagine in movimento, una ricerca del senso della vita nei suoi continui movimenti che richiedono continue elaborazioni del lutto

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CULTURA

inevitabile, perdite connesse alla evoluzione e al cambiamento. Una sensibilità evolutiva che travalichi la staticità della fotografia, la dimensione statica dell'immagine, per connettersi ad immagini in movimento, accompagnate dalla musica, di una vita spesso dolorosa. Destinati a breve vicenda, per cosa ci affanniamo a costruire? La vita è veloce quanto una folata di vento che alza via la polvere nel deserto. E' questa un'immagine del film, che segue proprio le parole "è la vita... e l'hai vissuta", pronunciate dal Padre a uno dei figli per insegnare la brevità dell'esistenza. Dov'è l'evoluzione? Il finito può essere infinito? La morte è solo sparizione? Crescere significa perdere e trasformarsi, ma dove vanno i nostri pezzi lasciati? I nostri istanti vissuti e trascorsi? Dove sono finiti i dinosauri ? forse in una gemma-cellula che come un germe ci accompagnerà nell'elaborazione della perdita e ci farà accedere al senso dell'evoluzione. Si pongono interrogativi infiniti senza risposta: perché il dolore mi attanaglia il cuore? Perché la sofferenza mi spinge nel buio? Perché il sole mi acceca gli occhi? Perché perdo lo sguardo di un bimbo che osserva con meraviglia il fluire delle alghe? Perché muore un figlio prima di una madre? Qual è il senso della vita? Come mai la risposta non c'è, ma è possibile riportare solo la domanda? "Ci sono due vie per affrontare la vita che si presentano ai nostri occhi, sono del tutto agli antipodi. Esse sono la condotta dell'esistenza dell'intera realtà di questo mondo e la condotta dei modi d'esistenza del singolo. Per il singolo: un accudimento protetto, un posto sicuro come il ventre di una madre, un alimento quotidiano. Giorno dopo giorno la madre si prende cura del figlio e di tutte le sue necessità, senza dimenticarlo neppure per un istante, fino a che egli acquisirà la forza di uscire all'aria della nostra terra che è colma di difficoltà. La vita gli concede forza e vigore e, come un eroe armato, anziano ed abituato, egli va ad aprire cancelli e sfondare mura. Vive un intenso e doloroso struggimento per il mantenimento della sua esistenza. La madre continua ad abbracciarlo fino a che lo rende idoneo alla sua realtà e lui incontrerà la via della natura durante tutto lo svolgimento della sua esistenza. Come nel caso dell'uomo, così succede nella specie animale e nella specie vegetale, tutti sono sorvegliati meravigliosamente, in modo da assicurare la loro esistenza, cosa risaputa da tutti gli scienziati della natura. Come percepire l'eternità? Tensione ad una disponibilità ed una fluidità che ci vede proiettati sotto forma di onde sonore e marine per ritrovare e rinnovare le origini di tutte le specie e quindi quelle di ognuno di noi. Odio ed amore ci saranno sempre in un'intricata alternanza, in una dimensione di guerra in cui ogni singolo individuo combatterà senza tregua e senza pacificazione. Nella direzione della sopravvivenza, nel fluire della vita, ogni perdita è fertilizzante per il domani. Cosa conduce Jack alla contemplazione estatica? È un percorso interiore, un monologo in cui il sole parla con le piante ed il mare con i pesci mentre la pioggia irriga i campi e le lacrime velano il mio sguardo. Anna Patrizia Caputo


TERRITORIO

IL BANCO NEGATO Vi ricordate la vecchia barzelletta, un po' razzista, del negro che si iscrive all'università e alla domanda: "Quale ramo sceglie", risponde: "Ma perché il banco non me lo date?". E' diventata realtà nell'Università di Napoli, Facoltà di Medicina. Gli studenti del primo anno, dopo i faticosi ed astrusi test cui si sono sottoposti, dopo aver pagato le pesanti tasse di iscrizione, si ritrovano a dover seguire i corsi in piedi o seduti, con il vuoto davanti, per carenza di banchi. Ci sono le sedie ma i banchi sono stati privati dei piani d'appoggio, chi arriva tardi deve prendere appunti, seduto e col block-notes sulle ginocchia e, nella stessa postura ergonomica, fare i compiti scritti. Quelli che abitano più vicino hanno gioco facile per accaparrarsi un posto, i più ricchi mandano la colf o pagano qualcuno per presidiare le sedie, quelli che vengono da lontano e che devono fare ogni giorno i conti con un trasposto pubblico cronicamente non puntuale e che funziona a singhiozzo e con strade tanto piene di buche da rompere le balestre anche ad una Jeep militare, sono condannati a lavorare di ginocchia e ad infiammarsi le schiene. Immaginate la cocente delusione di questi giovani, appena usciti dal liceo, che sognavano di andare all'Università, la terra del sapere, la Thule delle competenze e della ricerca, il crogiuolo dei talenti e che, invece, si ritrovano a dover compiere lo sforzo di apprendere in condizioni da terzo mondo. Eppure sono stati versati fiumi di inchiostro sul valore dell'imprinting, su come il primo approccio ad una realtà condizionerà i comportamenti e gli atteggiamenti futuri. Ma ai Baroni cosa importa, loro si son costruiti la più fastosa Aula magna del mondo e tanto basta. Gustavo Peri

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RUBRICHE/ARTE

IL MONDO SEGRETO ESISTE Istambul, Rampa, Seirr Nedim Caddesi, 21. Dal 4 giugno al 12 luglio Artisti: Etel Adnan, Hüseyin Bahri Alptekin, Francis Alÿs, Otto Berchem, Attila Csörgo, Ergin Çavusoglu, Cengiz Çekil, Gure Nilbar, Berat Isik, Çagdas Kahriman, Yasemin Özcan, Funda Özgünaydyn, Öztat & Zisan, Kiki Smith, Ali Taptik. Curatori: Lara Fresko, Esra Sarigedik Öktem “Mondo segreto”, prima mostra collettiva di Rampa. Un mondo che esiste proprio lì, in pubblico. La mostra prende il titolo da una scena del film di Noah Baumbach: Frances Ha e sottolinea come, quando la comunicazione non è mediata, l’amore è possibile e diventa visibile. La mostra riunisce opere provenienti da diverse storie e geografie. Tre opere centrali esplorano le molteplici sfaccettature di un viaggio, l'attraversamento delle frontiere, la creazione di canali di comunicazione, solidarietà. In The Loop (1997) Francis Alÿs prende un percorso inaspettato per andare da Tijuana a San Diego senza attraversare la frontiera Messico/Stati Uniti. In modo simile, Hüseyin Bahri Alptekin nel suo Black Sea Mappa, Kéraban (1999) segue testardo un mercante di tabacco di Jules Verne in un viaggio tutto intorno al Mar Nero, al fine di arrivare alla costa asiatica di Istanbul senza attraversare il Bosforo. Un residuo di quello che è diventato un progetto incompiuto dell'artista di creare reti di comunicazione solidali. Iz Öztat & Zisan presentano un disegno dell'Isola del Paradiso. L’interazione tra spazio e luogo è trattata in due di quadri astratti di Etel Adnan. Gli schizzi di Attilla Csörgo, relativi alla quadratura del cerchio (2012) e a studi geometrici sono evocativi del fascino del grande architetto di Sinan e della comunicazione col divino. Otto Berchem con “Tenda come struttura” proietta astrazioni cromatiche su cartelli di protesta in bianco e nero di mobilitazione sociale. Cengiz Çekil mette in discussione la credibilità stessa delle immagini. Soap Opera, sinossi di Yasemin Özcan, impianto del 1997, è stato ricostruito nella parte posteriore della galleria ed emana un suono che ossessiona la nostra psiche. La mostra esplora ancora gli incontri momentanei di Frances, le fotografie di Taptik Ali raffiguranti la flora urbana, i disegni di animali di Kiki Smith, i collage umano-animali di Funda Özgünaydyn, le figure Donna Ragno di Nilbar. Riunendo Opere che modificano la nostra percezione, la mostra si propone di creare uno spazio dove il mondo segreto esiste. Giny


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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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