LeSiciliane n. 60

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A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare? Pippo Fava

Storie dalle città di frontiera 3 – Editoriale Grazie Greta, Grazie ragazzi di tutto il mondo Graziella Proto

6 –Ciancio: “rapporto continuativo con esponenti di Cosa Nostra” Giolì Vindigni

8 – Sebastiano Gulisano Ma quale informazione, catanesi siamo 11 – Antonio Mazzeo Ricerca Libera? No Grazie! 15 – Cosa ereditiamo dal 1992? Umberto Santino 17 – Tutti sapevano che era un pupo vestito Graziella Proto 21– Giovanna Regalbuto Come restituire Potere al Popolo 24 – Maria Grazia Rando Eritrea: fuggire ad ogni costo 29 – Giovanna e Angelo, l’alba e l’imbrunire Brunella Lottero

31 – Franca Fortunato Donne che fanno tremare la ’Ndrangheta 34 – Sciascia e le ragioni delle donne Nunziatina Spatafora

36 - Eventi di Frontiera: !F Iniziativa Femminista – Milano 37 - Comunicati dalle città di frontiera: comitato NO TRIV

Per la copertina si ringraziano i ragazzi di tutto il mondo del Fridays for Future Direttore Graziella Proto – protograziella@gmail.com - Redazione tecnica: Vincenza Scuderi - Simona Secci - Nadia FurnariEdizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Lillo Venezia


Graziella Proto Immagini incredibili, fantastiche e di grande partecipazione, quelle di qualche giorno fa. All’insegna di “Cambiamo il Sistema non il Clima”, tema declinato in vari modi su striscioni, magliette, manifesti, cartelloni approntati alla meno peggio e urlando la loro voglia di cambiamento climatico, milioni di studenti di tutto il mondo sono scesi in piazza. È stata una inondazione di gioventù, passione, leggerezza, allegria. Impegno politico anche per i più giovani. Certamente anche emotività e sentimento, perché il ghiacciaio che crolla addolora, coinvolge e preoccupa. I giovani non sanno cosa sia il cinismo e lottano solo per quei sogni che

potrebbero rendere felice la società, quello per la difesa dell’ambiente e del clima oltre che sogno è una battaglia concreta e realizzabile. Il miracolo di Greta si è avverato. Adesso anche i giovanissimi come i loro nonni hanno un sogno da inseguire. Ragazzi, non fatevelo sfuggire di mano. Rivendicatelo! Reclamatelo! Difendetelo! È vostro, perché vostro è il mondo che cercherete di rendere più pulito, più vivibile. Più umano. Tuttavia i ragazzi del Fridays For Future da alcune parti sono stati accolti con sufficienza. Anzi quasi con sfottò. Intellettuali di grido e mai pentiti hanno

voluto continuare ad autocelebrarsi. O, come in qualche caso di demenza senile, a insultare. A questi diciamo che il loro/nostro tempo è scaduto. Bisogna cedere il passo ai giovani, e sì, ci sarà il momento della scienza, della politica, del pragmatismo e della programmazione. L’ecologismo e l’ambientalismo, lo sappiamo, sono cose serie. Ma la passione che tutti questi ragazzi mettono sul campo è qualcosa di cui il mondo non può fare a meno. Questa è una opportunità per tutti per ricominciare a sognare. Uscendo così dal cinismo, dalle tattiche, dai personalismi, dal triste grigiore partitico che ci ammanta. Dentro questo sogno non sono previsti orticelli privati. L’ambiente è uno solo. Ci si lamenta che i giovani sono


grandi ideali, ma… un sogno da abbracciare, proteggere, cercare di realizzare. E così abbiamo tentato di fare. RESTIAMO UMANI. NON DISPERDIAMOCI Ci credevamo, abbiamo fatto tante campagne, alcune le abbiamo vinte altre No. Tanti errori sono stati fatti, in buona fede o no – e li abbiamo pagati. Ma per quanto mi riguarda non mi sono mai pentita. Rifarei tutto. E il pensiero di quei giovani di allora, appassionati, spavaldi e coraggiosi ancora oggi mi riempie il cuore. Tutto perso? Non credo, anzi parecchio di quelle lotte è rimasto, impegniamoci a renderlo ancora più costruttivo. I giovani pensano che tutto ciò che hanno trovato sia dovuto e che esista da sempre… Non è così, bisogna dirlo con forza. Dietro ci sta tanto lavoro, tanto impegno, tante lotte politiche, quelle del ’68, degli anni Settanta. Tanta passione. Tanta amarezza. Tanta guerra anche dentro le famiglie. E questa consapevolezza deve essere stimolo per tutti a lottare per raggiungere l’obbiettivo.

lontani dalla politica, e i giovani la trovano vecchia, che non interagisce con loro, non li rappresenta. Finalmente i ragazzi hanno trovato il loro sogno politico: sbracciamoci tutti per dare loro una mano a realizzarlo. Ognuno con le proprie competenze. Ognuno nel proprio piccolo. Ognuno con la propria quotidianità. Tutti con modestia e serietà, perché l’obiettivo del sogno è concreto e appartiene a tutti. Noi adulti, nonni o genitori, quel

giorno – venerdì 27 settembre – eravamo tutti lì, emozionati a guardare i nostri nipoti e/o figli andare alla loro – per moltissimi – prima manifestazione. Certamente la generazione degli attuali nonni è stata una generazione fortunata. Avevano l’ambizione utopistica di cambiare il mondo. Io ero ossessionata dal desiderio di cambiare il mondo. Che presunzione – mi disse una volta una mia amica. In effetti era un sogno troppo grande, chimerico, di

Tutti vediamo e sappiamo che il mare è pieno di plastica, l’atmosfera satura di CO2, le falde acquifere ricche di metalli pesanti. Vaste zone di territorio in nome e per conto del profitto consegnate alla distruzione certa. Il consumismo e la sovrapproduzione inquinante imperano. Non solo si distrugge l’ambiente circostante, l’intero pianeta, la forbice tra ricchi e poveri si ingrandisce a dismisura. I valori sono scomparsi. I poveri – sembrerebbe qualcuno abbia deciso – non devono mangiare. Non possono emigrare dai luoghi dove il clima ha già fatto tanti danni. Non hanno diritto di vita. Perché di questo si tratta. Per


non parlare dell’inaccettabile impoverimento di valori e soprattutto di diritti.

A chi dare la colpa se non al sistema capitalistico? In Italia dentro una situazione

sociale ed economica per lo meno critica la Sicilia vanta un posto sul podio per le sacche di povertà (i più alti tassi di disoccupazione giovanile in Europa), per l’inquinamento “aggiunto” e del quale si potrebbe fare a meno. Penso alla militarizzazione dell’isola, al MUOS a Niscemi che crea inquinamento da onde magnetiche, allo sfruttamento del territorio con conseguente distruzione dei siti più belli e più caratteristici. E però bisogna stare attenti nell’affrontare tutte le questioni accennate, perché altrimenti sei catastrofista come la giovane Greta a cui tutti – visto il grande impulso che dà a vecchi e giovani – dobbiamo dire semplicemente GRAZIE!

*Foto di Maurizio Parisi


Ciancio: “rapporto continuativo con esponenti di Cosa Nostra” Giolì Vindigni Ultima udienza del processo di secondo grado sui beni di Mario Ciancio, ex direttore del quotidiano La Sicilia. Il patrimonio dell’editore-direttore qualche anno addietro è stato posto sotto sequestro perché secondo l’accusa nella sua ascesa economica ci sarebbe un patto con Cosa nostra. Rapporti e canali preferenziali con alcuni soggetti quantomeno discutibili, amici pronti – secondo il pentito Squillaci – a organizzare finti attentati a dimostrazione che il cavaliere era solamente una vittima senza alcuna pericolosità sociale. Contro il sequestro e la confisca dei suoi beni disposto dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Catania, Mario Ciancio ha deciso di appellarsi perché, sostengono i suoi legali, si tratterebbe di un clamoroso errore giudiziario. Un copione già visto. La società Dittaino Development s.r.l. viene costituita nel maggio 2006, presso lo studio del notaio Vincenzo Ciancico. Vincenzo Viola, già parlamentare europeo per il Patto Segni, viene nominato legale rappresentante della società. Il 23 novembre dello stesso anno Viola, in qualità di rappresentante legale della Dittaino Development, presenta al Comune di Agira richiesta per ottenere la concessione edilizia e commerciale per la realizzazione di un parco commerciale. Il consiglio comunale, in meno di due settimane, approva all’unanimità l’atto di indirizzo politico-amministrativo relativo all’espletamento di tutte le attività finalizzate alla variazione di

destinazione, da “zona E-Agricola” a “zona per attività commerciali”, dell’area oggetto di richiesta ed al successivo rilascio della licenza commerciale. Nel settembre del 2007 il consiglio comunale approva la variante urbanistica e nella stessa delibera esonera la Dittaino dal pagamento degli oneri di urbanizzazione. Frattanto tra la fine del 2006 e maggio del 2007 la società Dittaino Development s.r.l. aveva acquistato vari terreni nel territorio di Agira per un importo che si aggira sui 400/500mila euro. Tutti gli atti di compravendita, redatti dal notaio Vincenzo Ciancico, recano la seguente condizione: “il presente atto è

sospensivamente condizionato acché entro il termine del 31 dicembre 2007 il proprietario della particella 7 del foglio 95 del comune di Agira, dichiari la disponibilità a vendere l’intera superficie riguardante detta particella”. La particella 7 non è nella zona interessata al progetto ed è un terreno di soli 500 mq rispetto ai 370.000 mq dell’area in cui sorgerà il parco commerciale. La particella 7 è stata acquistata da un commercialista catanese, Michele Micale. Il commercialista nel 2000, appena trentenne, ha iniziato a collaborare con il gruppo Ciancio e nel 2005 è diventato dipendente del gruppo, negli anni seguenti ha ricoperto


ruoli in alcune delle società del gruppo: consigliere d’amministrazione, sindaco, ed oggi è, tra l’altro, anche amministratore delegato di una delle società di Ciancio. Micale nel 2007 ha rivenduto la particella 7 alla Dittaino Development s.r.l., di cui Ciancio è uno dei principali soci. I Pm Agata Santonocito e Antonino Fanara hanno chiesto al commercialista i motivi di questa “operazione” durante l’udienza del processo a Ciancio in cui sono stati ascoltati i testi “sull’affaire” Outlet di Agira. Facciamo un breve passo indietro. Michele Micale nei primi anni ’90 era un giovanissimo studente universitario che combatteva la mafia, insieme al padre e ai fratelli, da attivista del Movimento La Rete. Sul banco dei testi in un processo per mafia probabilmente non si trova a suo agio, risponde balbettando alle domande dei Pm, incalzato spiega che aveva comprato la particella 7 per conto di Ciancio e poi quando gli è stato ordinato l’ha rivenduta; continua a raccontare che in questa transazione ha agito come prestanome di Ciancio e che quando rivendette il terreno trattenne i 2.000 euro del ricavato come compenso per il suo disturbo; racconta inoltre che Ciancico allora era il notaio di riferimento del gruppo Ciancio (fino a quando, nel 2011, non fu arrestato e poi condannato per truffa e peculato – n.d.r.). Mettendo ordine. Il possesso della particella 7, grazie alla clausola sospensiva, consentiva a Mario Ciancio di avere una posizione predominante all’interno della Dittaino Development.

TI HA UCCISO LA MAFIA? NIENTE NECROLOGIO

successivamente IN.CO.TER) e una ditta riconducibile a Sandro Monaco (su consiglio di Rabbito) – La Dittaino Development s.r.l. è costituita da varie società tra cui la che successivamente risulteranno Svim di Ciancio e Viola, che aveva vicine a Cosa nostra e verranno poste sotto sequestro. Durante la tra i soci anche Giovanni Vizzini, costruzione dell’outlet saranno fratello di Carlo (Psdi) più volte tante le imprese riconducibili a ministro, Tommaso Mercadante (figlio di Giovanni, ex deputato Ars Basilotta e Monaco che riceveranno appalti e subappalti e arrestato proprio nel 2006 perché in generale, come constatato dai accusato di essere collegato a carabinieri, saranno tantissime le Bernardo Provenzano, e nipote di imprese vicine alla mafia che Tommaso Cannella boss di Prizzi, entrambi condannati per fatti di cui lavoreranno. Sandro Monaco è persona vicina a all’art. 416 bis c. p.), inoltre sin Vladimiro “Mirello” Crisafulli, il dalla costituzione della Dittaino è cui figlio Maximiliano presente, in qualità di procuratore era in società con Sandro Monaco speciale di uno dei soci, l’ex deputato Gaetano Rabbito – (uomo nella gestione della sala giochi e vicinissimo a Vladimiro “Mirello” scommesse “Formula Gioco”. Quando Crisafulli fu eletto Crisafulli) allora Presidente senatore, i due comprarono casa a dell’Asi e già indagato per Roma nello stesso stabile, e con associazione a delinquere, truffa e due rogiti stipulati dallo stesso turbativa d’asta – che avrà una funzione preminente in tutte la fasi notaio nel medesimo giorno. dell’affare, dalla compravendita dei Vincenzo Basilotta, invece, lavora con le sue imprese alla terreni alla realizzazione dell’Outlet, sino alla gestione delle realizzazione del centro commerciale Porte di Catania (altro assunzioni. affare in cui “il dominus” è Mario Nel dicembre del 2008, a progetto Ciancio) ed era direttamente definitivamente approvato, la interessato al progetto per la Dittaino Development vende i realizzazione, in contrada Xirumi terreni al Gruppo Percassi per una cifra che si aggira sui 17 milioni di di Lentini, dell’insediamento euro, si costituisce la società Sicily abitativo da destinare ad alloggi dei militari statunitensi di stanza a Outlet Village che si occuperà Sigonella, progetto promosso dalla innanzitutto di costruire l’outlet e società Scirumi s.r.l., direttamente successivamente della sua riconducibile a Mario Ciancio. commercializzazione (vendita e affitto dei locali e gestione L’ultima udienza si è occupata di commerciale). Della società farà parte per un 10% anche la Svim di ascoltare anche Dario Montana, fratello di Giuseppe, detto Beppe, Ciancio, Viola e soci, che indicherà commissario di polizia ucciso dalla come consigliere mafia nel 1985. Al signor Luigi d’amministrazione Gaetano Montana padre di Beppe venne Rabbito. Subito dopo inizierà la costruzione rifiutato, direttamente per ordine di Mario Ciancio, come Luigi dell’outlet. La Percassi affida in Montana ha sempre sostenuto, il subappalto i primi lavori, quelli necrologio per il trigesimo della realizzazione del muro dell’omicidio del figlio. perimetrale, a due ditte siciliane – la fratelli Basilotta s.p.a. (divenuta Ma questa vicenda merita un ulteriore approfondimento.


Ma quale informazione, catanesi siamo Sebastiano Gulisano Palazzolo Acreide: l’occasione è – come ogni anno – il compleanno del suo cittadino più famoso, Giuseppe Fava. La cornice è un barocco spettacolare. Organizzatori i ragazzi dell’associazione Dahlia. Il tema “Il vizio della giustizia – omicidio Fava tra processi e depistaggi”. Depistaggi dovuti all’azione della Procura, di alcuni pentiti ammaestrati, della stampa locale La Sicilia di Ciancio. Trentasei anni dopo l’omicidio mafioso di Giuseppe Fava, Mario Ciancio sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa, il suo impero economico ed editoriale – inclusa La Sicilia – confiscati dallo Stato. «Io ho un insegnamento: al processo Tortora a Napoli c’erano tre catanesi, killer delle carceri, Andraus, Nino Faro e Marano. Andai a parlare con loro, dietro le sbarre. Loro erano accusati di associazione camorristica e mi dissero: “Ma quale camorra, ma quale mafia, noi catanesi siamo”. Cioè, da allora mi è rimasta questa etichetta qua, secondo cui Catania soffre di un’enorme, pericolosissima criminalità, ma che chiamarla Cosa nostra mi pare un po’ fuori posto». Queste parole di Tony Zermo, inviato del quotidiano La Sicilia, pronunciate nel 1996 al processo per l’omicidio di un altro giornalista, Giuseppe Fava, fondatore del mensile I Siciliani, condensano la linea del giornale diretto da Mario Ciancio, sull’esistenza di Cosa nostra a Catania e sui continui depistaggi mediatici attuati da lui e dal suo giornale sull’omicidio di Pippo Fava. Una linea che non era stata

scalfita nemmeno dalla storica intervista che Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto di Palermo, aveva rilasciato a Giorgio Bocca, pubblicata su la Repubblica del 10 agosto 1982, in cui il generale, tre settimane prima di essere assassinato, puntava gli occhi su Catania: «Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?». Ma quale mafia?! Noi catanesi siamo! Infatti, nell’ottobre dell’82, quando tutta la stampa nazionale riportò la

notizia del mandato di cattura dei giudici palermitani nei confronti di Nitto Santapaola (poi assolto) per l’omicidio del prefetto, La Sicilia tacque il fatto ai propri lettori: li informò il giorno successivo, minimizzando lo spessore criminale del capo di Cosa nostra etnea. Nell’ultimo editoriale scritto per I Siciliani, nel novembre del 1983, Fava raccontò le impressioni maturate dopo la messa in scena della sua più recente opera teatrale, che parla di scandali e corruzioni tra i potenti: «Anteprima dell’Ultima violenza, nella sala ci sono tutti i rappresentanti del potere nel territorio, i buoni e i cattivi, i giusti e gli iniqui, i galantuomini e i mascalzoni. Sulla scena per tre ore sfilano i personaggi equivalenti». Alla fine è un’ovazione collettiva, tutti applaudono, tutti si complimentano. E Fava commenta così: «Il clima morale della società


è questo. Il potere si è isolato da tutto, si è collocato in una dimensione nella quale tutto quello che accade fuori, nella nazione reale, non lo tocca più e nemmeno lo offende, né accuse, né denunce, dolori, disperazioni, rivolte. Egli sta là, giornali, spettacoli, cinema, requisitorie passano senza far male: politici, cavalieri, imprenditori, giudici applaudono. I giusti e gli iniqui. Tutto sommato questi ultimi sono probabilmente convinti d’essere ormai invulnerabili». Questo senso d’invulnerabilità è documentato da una serie di fotografie. I MAFIOSI ERANO DI CASA L’allergia verso il sostantivo “mafia”, La Sicilia l’ha fatta valere anche nei necrologi, tanto che nell’ottobre del 1985 la famiglia Montana si vide rifiutare quello che ricordava il loro congiunto, Beppe, il commissario di polizia ucciso a Palermo tre mesi prima. Una linea “antimafia” che lo stesso Ciancio, nei primi anni Novanta, impose a un cronista che aveva osato definire “mafiosa” la famiglia Ercolano: il capoclan si presentò in redazione – hanno ricostruito i giudici del processo “Orsa maggiore” –, il direttoreeditore lo ricevette e, in sua presenza, convocò il cronista e gli intimò di «non definire più mafiosi gli Ercolano, nemmeno se la fonte è giudiziaria». Gli Ercolano, imparentati con Santapaola, sono noti mafiosi e uno dei rampolli, Aldo, è stato condannato, con Santapaola, per l’omicidio di Giuseppe Fava, ucciso il 5 gennaio del 1984. Ma quale mafia?! Noi catanesi siamo! Proprio sul caso Fava, La Sicilia ha dato il “meglio” di sé in diverse occasioni. Subito dopo il delitto,

uno zelante Tony Zermo sostenne che fosse «un colpo sferrato da chi ha interesse a distruggere gli equilibri catanesi». Insomma: un complotto palermitano contro la città. Scartata l’ipotesi che Fava fosse stato ammazzato per il lavoro di giornalista e per le inchieste pubblicate su I Siciliani, poiché «ha fatto i nomi che facevano tutti» (ancora Zermo) e perché era «un poeta, un sognatore, un Don Chisciotte». Invece, fin dal primo numero, un anno prima, il mensile di Fava aveva rotto il silenzio sull’intreccio mafia-politicaimprenditoria-giustizia a Catania indicando i quattro maggiori imprenditori cittadini – Mario Rendo, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Francesco Finocchiaro, sui quali già indagava dalla Chiesa e facilmente individuabili nell’intervista a Bocca – come collusi con i clan, coniando l’espressione «i quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa». Nomi che sul quotidiano di Ciancio

nessuno aveva mai letto in quei termini, bensì come fulgido esempio di imprenditoria di livello europeo, e che non leggerà nemmeno dopo che saranno travolti dalle inchieste giudiziarie. Nell’estate del 1984 La Sicilia fa uno “scoop” senza eguali nella storia del giornalismo: annuncia che «Un detenuto “pentito” della malavita catanese svelerà i nomi degli uccisori di Giuseppe Fava». Mai successo – né prima, né dopo – che la collaborazione di un criminale sia anticipata prima che i magistrati lo abbiano interrogato. Nell’articolo, corredato di foto segnaletica del detenuto, sono indicati il carcere in cui l’uomo è recluso e il suo indirizzo di casa, dove vivono i familiari. Quando arriva il pm il “pentito” gli mostra l’articolo e fa scena muta. Dieci anni dopo, nel giugno del 1994, si pente Maurizio Avola, killer del clan Santapaola, indica mandanti ed esecutori dell’assassinio del direttore dei Siciliani (Nitto Santapaola, Aldo Ercolano e altri, oltre a se stesso), incluso il cavaliere Graci, morto durante le indagini. La Sicilia scrive che Avola si è autoaccusato di essere «il killer di dalla Chiesa e di Fava», ma all’epoca del primo delitto «aveva appena ventuno anni» e, dunque, non è credibile. L’articolo è firmato da un collaboratore messinese. Sul Giorno, lo stesso articolo, con le stesse parole e identici refusi, è firmato da Zermo. Due pm della Dda etnea, Mario Amato e Amedeo Bertone, smentiscono, in altrettante interviste, che l’ex killer abbia parlato del generale e denunciano «un’operazione studiata a tavolino per screditarlo». Ma il giorno dopo La Sicilia e il Giorno (sempre Zermo), ribadiscono che Avola «ha confessato» entrambi i delitti.


E SE NON CI FOSSE MAI STATO QUESTO GIORNALE? (!!!!!!!!) A quel punto la Dda, con un gesto senza precedenti, convoca una conferenza stampa e chiarisce che Avola non c’entra con l’omicidio dalla Chiesa, ma si è autoaccusato di avere fatto parte del commando che uccise Fava; secondo un occasionale cronista di Ciancio, invece, i magistrati avrebbero «smentito categoricamente le clamorose “falsità” attribuite al pentito sui delitti dalla Chiesa e Fava». Anche Salvatore La Rocca, cronista di giudiziaria del quotidiano etneo, è stato protagonista di un episodio tutt’altro che edificante: durante un’udienza del processo, nel 1996, si offrì a uno dei legali dei killer per suggerirgli «le domande che deve fare a Claudio Fava», figlio della vittima e parte civile, che in

provincia. In quell’occasione, il Cdr del quotidiano aveva difeso La Rocca, ottenendone il reintegro alla cronaca giudiziaria. Senza, però, fiatare sulle false notizie reiteratamente pubblicate sull’omicidio mafioso di un collega. Ma quale mafia?! Noi catanesi siamo! Nel 1998, Zermo scelse il giorno successivo all’anniversario dell’omicidio di Pippo Fava, per recriminare sulla scomparsa dei cavalieri, così bravi e potenti «da attirare non solo ammirazione, ma anche invidia, tanto che qualcuno, negli anni bui li soprannominò “i quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa” come se i mali della città dipendessero da loro». Fava derubricato a “qualcuno”, “invidioso”. Due anni dopo, in occasione del diciottesimo anniversario dell’omicidio, sulle pagine de La Sicilia, il solito Zermo intona i peana per evocare

stata semmai, e per lungo tempo, una risacca di impunità». Un’impunità garantita da un sistema che Giuseppe Fava aveva ben individuato e raccontato su I Siciliani fin dal primo numero. Un sistema mafioso che ha potuto contare sulla benevolenza, la complicità e i depistaggi mediatici dell’unico quotidiano della città, del suo editore-direttore e del suo giornalista di punta (per circa un trentennio), quel Tony Zermo che – e chiudiamo – nella primavera del 2009, dopo un’inchiesta su Catania di Report, la nota trasmissione giornalistica di Rai 3, in cui – meglio tardi che mai – si parlava ampiamente di Mario Ciancio e dei suoi rapporti con la mafia, difendeva così La Sicilia e il proprio editore: «Ma smettiamola di addossare al giornale le colpe dei buchi neri della città, perché obiettivamente non ce lo meritiamo. E aggiungo: ve lo immaginate se non ci fosse

Al centro di ogni foto c’è Nitto Santapaola, assieme a lui, di volta in volta, c’è il sindaco, il presidente della provincia, il questore, il prefetto, un deputato regionale dell’Antimafia, un segretario di partito, qualche giornalista, il rampollo di uno dei quattro cavalieri, il genero di un altro cavaliere… Quelle foto sono la prova più evidente delle collusioni denunciate da Fava. Lui non sapeva della loro esistenza. In Procura, invece, lo sapevano benissimo: le avevano rinvenute durante una perquisizione, nella cassaforte di un mafioso ammazzato. E le avevano nascoste. Finché uno scrupoloso capitano dei Carabinieri non ne consegnò copia al giudice Giovanni Falcone, a Palermo. Stanno agli atti del maxiprocesso, quello scaturito dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta. quel momento era sul banco dei testimoni. La Rocca è stato censurato dall’Ordine siciliano dei giornalisti. Due anni prima, in un rigurgito di dignità, dopo avere verificato in Procura le falsità che il suo giornale intendeva attribuire ad Avola ed essersi battuto affinché non fossero pubblicate, si era scontrato con Zermo, fautore della pubblicazione del falso, ed era stato dirottato alle pagine della

«la grande imprenditoria dei cavalieri del lavoro spazzati dall’ondata giustizialista seguita al delitto Dalla Chiesa». Solo la voce di Claudio Fava, allora eurodeputato dei Ds, si levò contro le mistificazioni del quotidiano di Ciancio: «Quell’onda giustizialista a cui si riferisce Zermo non è mai esistita nei confronti di Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro. C’è

mai stato questo giornale? I vostri padri non saprebbero tutti gli eventi accaduti dopo la guerra in Sicilia e altrove; voi stessi non potreste sapere che cinema ci sono, chi è morto, oppure tutti i dettagli del calcio nostrano (corsivo nostro, ndr). Noi lavoriamo per dare un servizio alla città, che questo sia chiaro». È chiarissimo, egregio Zermo: Ma quale mafia?! Noi (giornalisti) catanesi siamo!


NO GRAZIE Antonio Mazzeo 15 milioni di dollari americani del Dipartimento della Difesa USA, US Army, US Air Force e US Navy per sovvenzionare programmi, sperimentazioni, conferenze, workshop e scambi internazionali delle università e dei più noti centri di ricerca nazionali. Catania con un milione e centomila dollari si colloca all’ottavo posto tra le università italiane beneficiate. I concorsi truccati ma anche gli AFFARI CON I SISTEMI (SPAWAR E C4ISR) che operano nel settore di guerra, sorveglianza sottomarina e operazioni di spionaggio e intelligence contro obiettivi nazionali ed esteri. Certamente la ricerca in Italia è una Cenerentola, ma non ci piace la militarizzazione delle scuole. Non ci piace che la ricerca italiana sia condizionata da chi ha o mette più denari. E che sia sempre più finalizzata allo sviluppo di armi e tecnologie belliche con il “generoso” contributo delle forze armate degli Stati Uniti d’America. E che non si dica, alla fine, che non si guadagna nulla a vivere e operare accanto alla principale installazione di guerra nel Mediterraneo della Marina militar e degli Stati Uniti d’America. Taluni sindaci hanno ottenuto che un paio di marines muniti di scope e sacconi di plastica liberassero piazze e giardini da foglie secche ed erbacce. Qualche dirigente scolastico è riuscito invece a impiegare i “volontari” a stelle e strisce a imbiancare i muri di aule e palestre. Cose di poco conto si dirà, e forse è vero. Di ben altra portata è invece la sempre più invasiva presenza delle forze armate USA nelle attività e nei

programmi di ricerca di più di un dipartimento scientifico dell’Università degli Studi di Catania. Stando, infatti, ai data base del Governo di Washington relativi ai contributi finanziari o ai contratti sottoscritti dal Pentagono con laboratori, enti e centri accademici italiani, appare più che mai centrale il ruolo assunto oggi dagli accademici etnei. Conti alla mano, in meno di due decadi più di un milione e centomila dollari sono stati elargiti all’Università di Catania dal Dipartimento della Difesa o dai maggiori comandi della Marina militare USA. Relativamente alle sovvenzioni a titolo gratuito delle

forze armate statunitensi, Catania si colloca all’ottavo posto tra i centri accademici italiani beneficiari con 372.500 dollari nel periodo 2010-2018, al primo posto però tra le università con sede nel mezzogiorno d’Italia. In verità a incassare quasi integralmente il grant della più grande macchina da guerra planetaria è stato il Dipartimento di Ingegneria Elettronica e Informatica, grazie ad alcuni programmi di ricerca scientifica di base e applicata. Il maggiore di esso – per il valore complessivo di 240.000 dollari – è stato finalizzato allo sviluppo delle fonti energetiche (Advanced Nonlinear Energy Harvesters in


The Mesoscale: Exploiting a Snapthrough Buckling Configuration, for The Autonomous Powering of Electric, la denominazione) ed è stato condotto nel periodo compreso tra il luglio 2016 e il maggio 2018. Altri 120.000 dollari sono stati donati da US Navy al Dipartimento di Ingegneria Elettronica e Informatica per lo sviluppo delle nanotecnologie sempre in ambito energetico ed elettronico (Development of Novel Micro and Nanosystems for Energy Harvesting in Autonomous Electronic Devices), nel periodo compreso tra il luglio 2011 e il settembre 2015. Infine il Pentagono ha contribuito con 12.500 dollari alla partecipazione dell’Associazione “Angelo Marcello Anile” di Catania alla 18^ Conferenza europea sulla matematica per le industrie (giugno 2014). L’associazione è stata istituita per ricordare la figura dell’omonimo scienziato ed ha

tra i centri di ricerca accademici di tutta Italia. Purtroppo sono scarnissime le informazioni sulla tipologia e le finalità degli studi effettuati: si indica infatti solo genericamente la voce Physical Sciences – Basic Research e il valore del contratto annuo: 35.000 dollari nel 2013; 135.000 nel 2012; 35.000 nel 2011; 25.000 nel 2010. UNIVERSITÀ A BRACCETTO CON MUOS E SIGONELLA Solo per l’anno fiscale 2009 il Dipartimento della Difesa riporta la voce del servizio in contratto: la «ricerca applicata sui sistemi elettronici e di comunicazione» (250.000 dollari). A firmarne l’affidamento all’Università di Catania in quest’ultimo caso è stato lo SPAWAR - Space and Naval Warfare Systems Command di San Diego, California, il comando di ricerca e ingegneria di US Navy che opera nel settore dei sistemi di guerra e C4ISR e dello sviluppo dei sistemi spaziali e

sede presso il Dipartimento di Matematica e Informatica dell’Università. Ben undici, invece, i contratti a titolo oneroso sottoscritti dal Pentagono con l’Università di Catania dal 2001 al 2013, per un valore complessivo di 798.750 dollari, uno dei più alti in assoluto

sorveglianza sottomarina. SPAWAR è anche uno degli enti militari maggiormente coinvolti nelle operazioni di spionaggio e intelligence contro obiettivi nazionali ed esteri. Costituito nel maggio 1985 come Echelon II Command sotto il controllo della CIA e della National Security

Agency – NSA (la più potente centrale spionistica al mondo), il Comando per i sistemi di guerra spaziale e navale di San Diego ha gestito il famigerato sistema Echelon che i servizi segreti degli Stati Uniti hanno implementato per intercettare e decifrare conversazioni telefoniche e radio, fax, e-mail, Internet, ecc. a livello mondiale. Coincidenza vuole infine che lo Space and Naval Warfare Systems Command sia proprio l’ente che abbia curato la progettazione, sperimentazione ed implementazione della rete di telecomunicazione satellitare MUOS (uno dei terminali terrestri è stato attivato all’interno della base di Niscemi, Caltanissetta, dipendente dal Comando navale USA di Sigonella). Negli anni fiscali 2001, 2002 e 2005 è stato invece il Dipartimento d’Ingegneria elettrica, elettronica e dei sistemi (DIEES) dell’Università di Catania a sottoscrivere con il Pentagono tre contratti per complessivi 118.750 dollari per non meglio specificati progetti di ricerca. Il DIEES di Catania compare infine tra i partecipanti all’IDRILAB (Renewable Hydrogen R&D Projects Lab), il laboratorio di ricerca sugli impianti di generazione da fonti rinnovabili non programmabili (solare ed eolica) e per la produzione d’idrogeno, insieme con Ecoenergy, la divisione ricerca e sviluppo della società Lageco di Parisi Adriana S.r.l. di Catania, la stessa che per conto di US Navy ha contribuito alla costruzione del terminale terrestre MUOS a Niscemi e alla realizzazione di altre importanti infrastrutture all’interno della stazione aeronavale di Sigonella. Va inoltre rilevato come, a seguito dei gravi danni causati dall’alluvione che colpì NAS


(Naval Air Station) Sigonella il 13 dicembre 2005, l’Università di Catania ha eseguito in collaborazione con la società d’ingegneria The OK Design Group di Roma, uno studio sui rischi locali d’inondazione (Flood Hazard Study) e sulle possibili misure di prevenzione. Il contratto fu assegnato nel 2007 dal Pentagono nell’ambito di un appalto integrato che prevedeva pure una serie di interventi a Sigonella (Repair Utilities, Mechanical System Upgrades ed «eliminazione delle infiltrazioni d’acqua» nell’ospedale navale), per un importo di 15 milioni di euro circa. The OK Design Group vanta una propria filiale a Virginia Beach (USA) ed è la società che ha anche firmato il progetto preliminare ed esecutivo della nuova stazione MUOS di Niscemi, partecipando inoltre alla progettazione e direzione dei lavori del cosiddetto MEGA 2, il maxipiano d’ampliamento e potenziamento delle infrastrutture della grande stazione aeronavale siciliana. AMERICANIZZAZIONE E MILITARIZZAZIONE Ancora nel 2007 (mese di luglio), fu firmata una convenzione con durata quinquennale tra l’Università degli Studi di Catania e il Comando US Navy di Sigonella per consentire il riconoscimento dei crediti universitari al personale italiano di stanza nella base statunitense. A porre la loro firma sulla convenzione furono al tempo il rettore Antonino Recca (tra gli indagati nella recente inchiesta sui concorsi truccati in alcuni atenei siciliani) e il comandante di NAS Sigonella, Thomas J. Quinn, arrivato nell’Isola appena un mese prima. Il 5 novembre 2018, cronisti,

professori e studenti hanno potuto verificare in prima persona quanto il processo di americanizzazione e militarizzazione abbia investito i maggiori centri didattici dell’ateneo catanese. Nell’aula magna del Dipartimento di Scienze politiche e sociali si è tenuta infatti una lectio magistralis su 75 anni di relazioni Italia-USA: una prospettiva geopolitica dallo sbarco ad oggi della professoressa Victoria De Grazia, docente di Storia alla Columbia University e di Civiltà contemporanea alla James R. Barker University. L’iniziativa è stata organizzata dalla prof.ssa Pinella di Gregorio, presidente del corso di laurea magistrale in Storia e cultura dei Paesi mediterranei, in collaborazione con il Consolato Generale degli Stati Uniti d’America a Napoli. A porgere i saluti ai partecipanti all’incontro, il prof. Giuseppe Vecchio, direttore del Dipartimento di Scienze politiche e la Console generale USA Mary Ellen Countryman (già console generale a Firenze ed ex vicesegretaria stampa della Casa Bianca e direttrice Ufficio stampa presso l’NSC – National Security Council). In questi ultimi anni sono cresciute a vista d’occhio pure le partnership tra dipartimenti e docenti universitari catanesi e il 41° Stormo dell’Aeronautica militare italiana, anch’essa di stanza nella grande base da guerra di Sigonella. Nel novembre 2008, ad esempio, una delegazione della Facoltà di Ingegneria Meccanica, composta dai professori Massimo Oliveri, Gabriele Fatuzzo e Gaetano Sequenza, ebbe modo di visitare i reparti aerei italiani e formalizzare con l’allora comandante col. Antonio Di Fiore un «rapporto di collaborazione fra le due istituzioni, con l’obiettivo precipuo

di organizzare degli stage di formazione per gli universitari presso le strutture della base e con la possibilità nel contempo di riconoscere dei crediti ad eventuali studenti militari». Sei anni più tardi, il Dipartimento di Matematica e Ingegneria dell’Università di Catania s’incaricò di organizzare il Sicily Drone Day 2014, «con l’obiettivo di fare il punto sulle attività di volo dei velivoli a pilotaggio remoto sul territorio siciliano con l’analisi, nel contempo, dei relativi aspetti tecnici, normativi e di ricerca». Durante l’evento fu pure realizzato uno spazio espositivo con dimostrazioni pratiche all’uso dei droni e un workshop con l’allora comandante del 41° Stormo, il col. Vincenzo Sicuso sull’impiego dei velivoli a pilotaggio remoto in ambito militare. «In particolare, il comandante Sicuso ha descritto i requisiti operativi, le capacità e l’impiego dei Predator in operazioni di sicurezza nazionale così come avvenuto a l’Aquila durante il G8, durante l’operazione Mare Nostrum nel Mediterraneo e nelle operazioni internazionali per il mantenimento della pace (Iraq Afghanistan - Libia)», si legge nel comunicato emesso dall’Ami. «Il colonnello Sicuso, infine, ha descritto il valore aggiunto dato al Potere Aereo dagli APR e come l’Aeronautica Militare italiana sia divenuta leader nel mondo nella gestione e nella condotta degli stessi». SIGARETTE ELETTRONICHE PER IL 41° STORMO Nel maggio 2015, i reparti di guerra aerea nazionali hanno partecipato ad un evento didattico organizzato dal Dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologiche dell’ateneo di Catania, avente come tema gli


aspetti della funzione dell’apparato vestibolare ed in particolare quelli legati al cosiddetto “disorientamento spaziale”. Relatore ancora una volta il comandante di Sigonella Vincenzo Sicuso. Agli studenti del corso di laurea in Scienze Biologiche e ad una rappresentanza di militari del 41° Antisom di Sigonella, «il colonnello Sicuso ha relazionato sul ruolo e sulla missione dell’Aeronautica Militare, soffermandosi ad illustrare le professionalità che vi operano e lo

cittadini di domani per poter mostrare quello che facciamo e come lo facciamo». Lo scorso anno, il 41° Antisom (di Sigonella) è anche entrato a far parte del gruppo di lavoro promosso dall’Università di Catania e dalla LIAF-Lega Italiana Antifumo onlus per la “sperimentazione clinica” delle controverse sigarette elettroniche. «Lo studio in un primo gruppo di 150 partecipanti ha dato buoni risultati; infatti le sigarette elettroniche risultano un utile

sviluppo della loro sensibilità nei confronti della solidarietà, della cultura, della collaborazione e del lavoro di squadra», riporta l’ufficio stampa del Comando italiano di Sigonella. «Questa iniziativa nasce dalla voglia di far conoscere ai ragazzi cos’è l’Aeronautica Militare, perché non dobbiamo dimenticare che questa gioventù è l’ossatura dell’Italia di domani. Un’iniziativa che nasce perché trasparenza, passione, etica, preparazione sono i pilastri che muovono l’Aeronautica Militare e quale ambito migliore potrebbe mai esistere se non quello dell’Università che sta formando i

strumento per aiutare il fumatore a ridurre il numero di sigarette tradizionali e in alcuni casi perfino per smettere», scrivono gli avieri di Sigonella. «L’Aeronautica Militare ha accettato di collaborare al progetto: si prevede ora l’arruolamento volontario di militari fumatori del 41° Stormo, a cui verranno dati in dotazione i kit sigarette elettroniche e che verranno seguiti con una serie di controlli. Lo scopo è valutare la sicurezza e l’efficacia della sigaretta elettronica in termini di riduzione del numero di sigarette fumate e di stabilirne l’utilità nella lotta al tabagismo». Peccato che

dall’altra parte dell’oceano, scienziati e università avessero stigmatizzato da tempo il fumo elettronico, rilevandone la sospetta tossicità e finanche i rischi cancerogeni di alcuni additivi. Dulcis in fundo, la compartecipazione ad alcuni progetti del complesso militareindustriale nazionale. Nel gennaio 2019 è stata data comunicazione della stipula di un accordo di collaborazione tra l’iCTLab (spinoff dell’Università di Catania) e Cy4Gate S.r.l. «allo scopo di integrare le rispettive aree di competenza scientifica e professionale per rispondere in modo efficace alle emergenti necessità della cyber Intelligence». L’accordo punta in particolare «all’integrazione delle competenze di CY4Gate (una joint venture tra la romana Elettronica S.p.A, leader internazionale nel campo delle guerre elettroniche ed Expert System, azienda modenese leader nel settore del Cognitive Computing), con gli innovativi strumenti di analisi di contenuto multimediale (immagini, audio e video) e le funzionalità di riconoscimento facciale della iCTLab». I laboratori della spin-off sono stati promossi dal gruppo di ricerca IPLAB (Image Processing LAB) guidati dal prof. Sebastiano Battiato, ordinario del Dipartimento di Matematica ed Informatica dell’Università degli Studi di Catania.


Cosa ereditiamo dal 1992? Umberto Santino L’occasione la crea Cittàinsieme. La cornice è quella del salone della parrocchia di S. Pietro e Paolo a Catania. Il tema – Cosa ereditiamo dal 1992? – oltre che ricco di spunti è anche particolarmente spinoso e delicato, perché arricchito dalle nuove rivelazioni sulla strage di via d’Amelio e le dichiarazioni di Fiammetta Borsellino. Tanti i relatori. Con un lungo e appassionato discorso, Umberto Santino ha buttato sul tavolo alcune considerazioni e tanti spunti per fare riflettere. Proponiamo una sintesi. La vicenda giudiziaria – esordisce– è di per sé molto complessa, sia per quanto riguarda la strage di Capaci sia per quella di via D'Amelio. Finora abbiamo avuto più domande che risposte. Ma la domanda «è solo mafia?» non è una novità. Si è presentata per tutti gli omicidi che vengono definiti politico-mafiosi e per le stragi che hanno condizionato la vita del nostro Paese. Si è detto che la strage di via D’Amelio è «la più clamorosa falsificazione della storia della Repubblica», «Il più grande depistaggio della storia nazionale», ma allora così è stata Portella della Ginestra? E quello che è avvenuto per l’assassinio di Peppino Impastato che altro era se non depistaggio? Il depistaggio nel nostro Paese ha una storia, si può dire che sia una costante che si è replicata fino ad oggi. Ma il tema dell’incontro riguarda il

1992 e in particolare la strage in cui sono caduti Borsellino e gli agenti della scorta. La prima domanda da porsi è: Arnaldo La Barbera e i poliziotti del suo gruppo hanno operato il depistaggio, ma i magistrati che cosa facevano? Perché gli hanno rilasciato una delega in bianco? Come hanno fatto a non accorgersi che Scarantino era solo un ragazzo di borgata che non aveva niente a che fare con Cosa nostra? Quando il capo mandamento di Porta nuova Salvatore Cancemi ha dichiarato che lui quel ragazzo non l’aveva ma visto, che non era un mafioso, la vicenda Scarantino doveva chiudersi lì. Pare che l’unica che avesse capito cosa stessa accadendo sia stata Ilda Boccassini, ma dopo avere per tre mesi avallato la credibilità di Scarantino. In ogni caso il suo messaggio d’addio, prima del ritorno a Milano, non è stato

accolto. Se i magistrati inquirenti hanno continuato a percorrere quella pista, che è arrivata fino alla sentenza definitiva in Cassazione (e quindi non ci sono solo i magistrati di Caltanissetta a dover essere chiamati in causa) le spiegazioni possono essere due. La prima: avevano fretta di chiudere l’inchiesta per dimostrare l’efficienza della giustizia di fronte a un’opinione pubblica sconvolta da una strage dopo l’altra? La seconda: volevano volare basso per non tirare in ballo responsabilità oltre Cosa nostra? Con il processo in corso si sta profilando sempre di più che la spiegazione era la seconda. Ma gli imputati sono “pesci piccoli”, soltanto esecutori. Francamente non so fino a che punto si arriverà in sede giudiziaria. Si farà luce su quella “convergenza di interessi” tra mafiosi e soggetti istituzionali,


servizi segreti cosiddetti “deviati”, eventuali responsabilità a livello internazionale – si è parlato di una “manina” americana? Basteranno gli scarni accenni di Giuseppe Graviano che, parlando con Spatuzza, gli diceva che Berlusconi («chi, quello di canale 5?») e Dell’Utri, «u paisanu nostru», avevano consegnato il Paese nelle mani di Cosa nostra? E quindi erano necessarie le stragi di Firenze e di Milano, che Spatuzza non riusciva a capire, poiché colpivano persone che non c’entravano niente, come i bambini; com’era stata necessaria la strage di via D’Amelio. Necessari per chi e per che cosa? Per portare Berlusconi al potere o che altro? In ogni caso, per chiudere per sempre la bocca a Borsellino che aveva capito che tra Stato e mafia si era avviata la “trattativa”? Fiammetta Borsellino – le abbiamo fatto un’intervista che abbiamo proiettato nei locali del No Mafia Memorial – è, tra i familiari, quella che vuole andare fino in fondo, senza guardare in faccia a nessuno, ma non so se riuscirà nel suo intento. Per Peppino Impastato, dopo avere ottenuto la condanna dei mandanti dell’assassinio, per il depistaggio ci siamo rivolti alla Commissione parlamentare antimafia e abbiano ottenuto una relazione in cui si dice che il procuratore capo del palazzo di giustizia e l’allora maggiore Subranni hanno depistato le indagini e coperto i mafiosi. Successivamente ho chiesto alla Commissione di fare quello che era stato fatto per Peppino Impastato per i grandi delitti e le stragi su cui non c’è una verità giudiziaria, o è solo parziale e inadeguata. Dicevo: si potrebbe cominciare con dei casi esemplari, storici come Portella della

Ginestra, o più recenti come le stragi di piazza Fontana, di Brescia, di Bologna. La richiesta non è stata accolta e fino ad oggi la relazione sul depistaggio per il delitto Impastato rimane un caso unico nella storia dell’Italia repubblicana. Rispondendo alla domanda: Cosa ereditiamo dal 1992? Ereditiamo una storia in cui la violenza stragista, dopo gli anni del terrorismo, ha sconvolto la storia del nostro Paese e le nostre vite. Abbiamo reagito, in qualche modo, con le manifestazioni, dettate da una grande emozione, abbiamo continuato nel nostro impegno come società civile, ma il quadro politico ha avuto un’involuzione preoccupante. Prima Berlusconi e adesso Salvini. Una crisi della democrazia, un imbarbarimento dei comportamenti e del linguaggio, un’ostentazione quotidiana di intolleranza, razzismo, i migranti additati come nemico pubblico numero uno, il nazionalismo-sovranismo, con gruppi fascisti che non temono di presentarsi come tali, una sinistra inesistente, che per strappare consenso scimmiotta la destra, si converte al neoliberismo. L’elaborazione del lutto per l’implosione del cosiddetto “socialismo reale” ha significato buttare il bambino e tenersi l’acqua sporca. Si dice che destra e sinistra non esistono più, che viviamo nel post-ideologico, ma la destra c’è, e si vede; il qualunquismo, per cui si muta politica a seconda della convenienza, c’è pure; quella che non c’è, se non per frammenti residuali, è la sinistra. E una maggioranza crescente che neppure va a votare, perché non crede più a niente e a nessuno. Libero Grassi parlava di «qualità del consenso», ma non poteva prevedere quello che è accaduto dopo. Per uscirne abbiamo

certamente bisogno di verità ma pure di una credibile e praticabile alternativa. Nell’antimafia ci sono problemi: la frammentazione, la chiusura nel proprio recinto, nel culto del proprio “santo patrono”. Le esperienze dei coordinamenti, il primo nel 1984, il secondo dopo le stragi del ’92, si sono arenate, perché sono prevalsi settarismi e appartenenze. Il 23 maggio, nel ricordo della strage di Capaci, si sono replicate le divisioni. Per un certo tempo, il 23 maggio ha visto una partecipazione plurale nell’organizzazione delle iniziative, poi si è deciso di farne un rito istituzionale, compensato dalle migliaia di ragazzi che giungono a Palermo con la nave della legalità. Sappiamo perfettamente che Giovanni Falcone era un uomo delle istituzioni, che però ha vissuto e subìto tutte le contraddizioni delle istituzioni. Dopo la mafia, i suoi nemici sono stati i suoi colleghi. Tutto questo nelle liturgie ufficiali viene accantonato. Nei giorni dopo il 23 maggio ho aperto un dibattito, facendo delle proposte per un impegno unitario, nel rispetto della storia di ciascuno. Anche il Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia – No Mafia Memorial –, che ha cominciato la sua attività, tra mille problemi ma pure con buoni risultati (per le mostre che esponiamo abbiamo moltissimi visitatori e molti sono interessati al nostro lavoro), vuole essere un progetto unitario, in cui i familiari delle vittime, le associazioni, i comitati, semplici cittadini si ritrovano in un impegno comune di studio, di riflessione, di progettazione di una strategia di mutamento. Speriamo di riuscirci. O almeno di aprire la strada per un percorso che sappiamo lungo e difficile.


Tutti sapevano che era un pupo vestito Graziella Proto (dal n. 59 de Le Siciliane) Una relazione della commissione regionale antimafia e un grido di dolore, quello di Fiammetta Borsellino. Una ulteriore richiesta di giustizia e verità. Dietro la strage di via d’Amelio ci sono solo mafiosi o ci sono altri soggetti ad oggi non identificati? Un dubbio angosciante, e il paese doveva essere rasserenato. Tranquillizzato. È stata solo la mafia, Cosa nostra. Questa è la verità che hanno tentato di far passare, e ci erano quasi riusciti a “rifilarla” alle famiglie delle vittime e a tutto il paese. Una verità semplice propinata da un pupo vestito. Una mezza tacca che chi di dovere, i servizi segreti e un gruppo di manipolatori di verità della procura di Caltanissetta, avevano individuato e messo sulla scena. Oggi a Caltanissetta c’è un processo in corso contro tre poliziotti del gruppo speciale di inchiesta Falcone-Borsellino guidato da Arnaldo La Barbera e voluto dal procuratore Tinebra. Siamo fiduciosi, speranzosi, ottimisti. Ci uniamo al grido di verità di Fiammetta. Chi sono i mandanti occulti della strage? Chi ha ordito il depistaggio? Chi ha coperto i veri responsabili? Domande senza risposta. Dopo l’attentato che tolse la vita a Paolo Borsellino e ai cinque agenti della sua scorta si sono succedute tante inchieste e altrettanti processi. Si aspettano ancora le risposte. Quelle vere. Quelle scomode. Non pilotate, non manipolate. La storia investigativa e giudiziaria sulla strage di Via d’Amelio è molto complessa e per certi versi anche inquietante. I processi che ne sono scaturiti sono stati articolati e difficili. Non solo, i

tredici processi finora celebrati non si sono svolti in maniera ordinata uno dopo l’altro, ma si sono intrecciati fra loro e hanno ingarbugliato ulteriormente la vicenda. La strage del giudice Paolo Borsellino e la sua scorta – Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Valter Cosina, Claudio Traina – è stata trattata ed affrontata con modalità quantomeno discutibili se non addirittura in alcune occasioni fuori da ogni regola. Il filo conduttore dei vari processi è stato spudoratamente condizionato e sono emersi – ormai è risaputo – errori giudiziari

clamorosi, negligenze investigative, violazioni delle regole procedurali che hanno molto probabilmente favorito il depistaggio. Per anni e anni depistaggio sì, depistaggio no. Pentiti falsi e pentiti veri. Collaboratori… un enorme dilemma, con un folto corollario e tantissimi interrogativi. Per esempio: come è possibile che, mentre a Caltanissetta il procuratore capo Tinebra affidava le indagini sulla strage di via d’Amelio a Bruno Contrada del Sisde, nello stesso identico momento a Palermo lo stesso funzionario era considerato un poliziotto colluso con Cosa nostra?


E che da lì a poco sarebbe stato arrestato? Intanto è successo: «…il procuratore Tinebra con una iniziativa personale assolutamente Sui generis (ma senza che alcuno dei suoi pm sollevi o registri obiezioni) il giorno dopo la strage convoca nel proprio ufficio il dottor Bruno Contrada all’epoca numero 3 del Sisde e gli chiede di collaborare direttamente alle indagini con la procura di Caltanissetta», si legge nella relazione della commissione antimafia siciliana. Il coinvolgimento nelle indagini – immediatamente e inopportunamente – dei servizi segreti nella strage di via d’Amelio quindi da un certo punto di vista è perfettamente legittimo, viene chiesto ai vertici dei servizi dai vertici della procura di Caltanissetta. Ma a parte il fatto che i servizi segreti non hanno regole precise, operano a 360 gradi, con finalità a volte verso esigenze istituzionali… e altre volte no, e che Bruno Contrada, pezzo forte dei servizi, in quel momento alla procura di Palermo è sotto indagine, il rapporto diretto tra esponenti della magistratura e servizi segreti non è legale. E tassativamente vietato dalla legge. Tutto ciò era noto sia al dott. Tinebra che al dott. Contrada. LO STATO “DEVIATO” Da lì tutto il resto. L’invenzione del – oggi sappiamo – famigerato gruppo investigativo speciale Falcone-Borsellino guidato dal capo della mobile di Palermo Arnaldo La Barbera (ex Sisde con il nome di battaglia Rutilius) e la costruzione di castelli di sabbia soggetti a sgretolarsi. Oggi tre componenti di quel gruppo sono sotto processo. Si tratta di Mario Bo, dirigente della polizia di stato, dell’agente

“MA CU LL'AVA VISTU MAI A CHISTU CCA?” Nel gennaio ’95 durante Borsellino 1 di primo grado (la sentenza arriverà nel ’96) viene effettuato a Roma un confronto fra Scarantino e i collaboratori Salvatore Cangemi, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera. Tre collaboratori di peso criminale non paragonabili con Scarantino di pochissimo peso criminale e senza alcuna risonanza. Salvatore Cancemi uomo d’onore che sedeva nella ristrettissima Commissione accanto a Totò Riina. Mafioso che ha partecipato alle riunioni dove sono state decise le stragi di Capaci e via d’Amelio, che ha ordinato centinaia di omicidi, partecipando attivamente ad alcuni di questi. Reggente di Porta Nuova, il 22 luglio del 1993 Cancemi si consegnò spontaneamente ai carabinieri e decise di collaborare. Santino Di Matteo è stato uno dei pentiti chiave nel processo sui mandanti della strage di Capaci. Per le sue rivelazioni il figlio Giuseppe venne rapito, ucciso e sciolto nell’acido nel 1996. Gioacchino La Barbera è colui che diede materialmente il segnale per far partire l’attentato della stage di Capaci. È uno dei testimoni chiave nel processo. Nel corso di questo confronto i tre collaboratori smentiscono totalmente il “pupo vestito” Scarantino, sia sul piano del suo peso criminale sia sul piano della ricostruzione che lui offre sulla strage di via d’Amelio: “ma cu ll'ava vistu mai a chistu cca?”. Michele Ribaudo, e dell’ispettore di polizia Fabrizio Mattei. Arnaldo La Barbera che li dirigeva è morto nel 2002. Nel suo letto. La sentenza del processo di revisione che si è celebrato a Catania in un certo senso ha messo fine a quella vicenda cominciata il 27 settembre 1992, quando il gruppo investigativo speciale Falcone-Borsellino guidato Arnaldo La Barbera ha arrestato Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino, i due picciotti della Guadagna. Su Scarantino è stato smontato quasi tutto ed ora vive in località segreta. I mafiosi coinvolti con quei reati non c’entravano. Lo Stato ha sbagliato. Tante scuse. Secondo Claudio Fava, presidente della commissione regionale antimafia, «…questa storia, queste storie, queste ed altre non possono essere affidate solo al lavoro dei

magistrati e quindi alle sintesi che i magistrati producono con le sentenze. La sentenza è un atto prezioso per ricostruire verità giudiziaria, verità processuale, verità storica. Ma una parte della verità. I magistrati devono valutare solo se alcuni comportamenti erano penalmente rilevanti, se penalmente non lo erano, sono completamente fuori dal lavoro dei magistrati, dal dibattimento processuale. Fuori dal cammino che le regole del gioco attribuiscono ai Giudici. Però resta il problema, il dubbio di quante altre responsabilità possono aver concorso a questo furto di verità su via D’Amelio e in altre occasioni… Noi abbiamo cercato di attivarci per mettere insieme questo percorso», spiega ancora in una affollata assemblea a Catania il presidente Claudio Fava, «questo censimento di responsabilità non penalmente rilevanti ma storicamente significative dal


punto di vista politico, istituzionale, processuale. Anche perché abbiamo ricevuto sollecitazioni forti da parte della famiglia Borsellino». L’ansia di verità di Fiammetta Borsellino e la sua legittima insistenza è un urlo di dolore. La sua richiesta di verità e giustizia non può rimanere inascoltata. Le sue e quelle dei suoi fratelli sono sollecitazioni che non dovrebbe recepire solo la commissione antimafia. La famiglia Borsellino, soprattutto per voce di Fiammetta, non chiede una verità qualunque essa sia. Oltre la verità, la famiglia vorrebbe avere degli interlocutori, e la possibilità d fare domande.

«Molte delle domande che Fiammetta ha posto formalmente alla nostra commissione non sono domande che necessariamente finiscono nel percorso di un processo», spiega ancora Fava. È STATA LA MAFIA. CHIARO. SEMPLICE. BANALE «Sono domande che restano lì in attesa di arrivare a destinazione ed essere offerte a chi può essere un interlocutore, chi ha il dovere o la capacità o la possibilità di una risposta», spiega ancora il presidente dell’antimafia siciliana. «Questo volevamo fare, raccogliere le domande e poi iniziare un ciclo di deduzioni affinché tutti coloro che da queste domande venivano chiamati a

offrire il loro contributo di verità, di memoria e ricostruzione potessero farlo: magistrati, giornalisti, politici, forze dell’ordine». Insomma, questo concorso di responsabilità nel determinare il depistaggio non è stato un fatto banale o casuale. Non è stata una svista o una inadempienza, è stata una scelta. Il falso pentimento di un falso pentito “costruito” ha portato a una conclusione che mette il paese in pace con se stesso. Il giudice Borsellino è stato ammazzato dalla mafia che si voleva vendicare. Falcone e Borsellino erano nemici giurati dalla mafia? Era normale


che dopo Falcone toccasse a Borsellino, che la vendetta si portasse a termine. Semplice. Un quadro chiaro. Semplice. Quasi banale. A fare la strage di via d’Amelio è stata solo Cosa nostra. Non altri appoggi. Altri complici. Niente menti raffinate. Occorreva semplicemente trovare il cosiddetto “pupo vestito”. Chi meglio di quel ragazzotto della Guadagna? Tutti avrebbero potuto rendersi conto che quel cartone animato non era all’altezza, ma quasi tutti hanno preferito girare la testa, accontentarsi di ciò che altri stavano mettendo su; o si fidavano dei capi, o faceva loro comodo… o peggio: tanto non mi interessa… sono tutti mafiosi. Ma per arrivare a Scarantino, di scarso peso criminale, e quindi a un depistaggio del genere, è ovvio che c’era davvero bisogno di menti raffinatissime. Non si tratta di semplice distrazione, di reticenza, di verbali non presentati, di dimenticanza, accordi a tavolino per fare carriera, ma di utilizzare tutto ciò perché bisognava chiudere la vicenda nel modo meno oneroso e doloroso per il paese. Paolo Borsellino era un uomo di stato, un uomo di legge, un uomo che rispettava le regole. Borsellino sa o pensa di sapere alcune cose sulla strage di Capaci e lo vorrebbe condividere con il procuratore della repubblica di Caltanissetta, si mette in coda e aspetta. Per 57 giorni resta in attesa di essere convocato. Ma ciò non accade. Sottovalutazioni, trascuratezze… dimenticanze… Qualcuno azzarda, visto che già si era a luglio inoltrato, che molto probabilmente Borsellino avesse

SCARANTINO RACCONTA… Scarantino racconta di una presunta riunione che si sarebbe tenuta tra la fine di giugno e l’inizio di luglio del ’92 presso la villa di Giuseppe Calascibetta, noto boss mafioso. Il picciotto della Guadagna racconta che avrebbe accompagnato suo cognato Salvatore Profeta (deceduto un anno fa), capomafia vecchio stile, amato e rispettato, così tanto che, durante la processione, pure la Madonna veniva fatta fermare davanti alla sua casa per un inchino ossequioso. Presso questa villa dove è in corso un summit ai massimi vertici per decidere l’uccisione di Paolo Borsellino, dove sono presenti noti capi della cupola mafiosa fra i quali Salvatore Riina, la riunione si teneva nel salone della villa con la porta aperta. Loro assistevano dalla stanza accanto. Scarantino entra per prendersi una bottiglia di acqua dal frigorifero e mentre attraversa la stanza sente Riina dire che quel porco di Borsellino doveva morire. E mai possibile che una riunione di tale peso si svolga a porte aperte e consentendo ad un ignaro e sconosciuto personaggio di entrare nella stanza? Dichiarazione inverosimile, illogica, grottesca, sconcertante. Svalutativa già appuntamento con Tinebra ma non ebbe il tempo di… L’ex maresciallo Canale smentisce categoricamente. Lui è la persona che stava a stretto contatto con il giudice. Stava sempre con lui. Lo accompagnava anche per gli interrogatori, era la sua ombra. Conosceva la sua agenda. Era la sua memoria di lavoro. L’ex maresciallo Canale, oggi

colonnello, che col giudice forse aveva anche rapporti personali, spiega che «Non c’era nessun appuntamento, io non ne sapevo niente. E mi sembra strano che un appuntamento così importante, che il dottore aspettava da tempo, lo tenesse nascosto a me che ero il suo stretto e fidato collaboratore».


Come restituire potere al Popolo

Come restituire potere al Popolo Giovanna Regalbuto Catania. Venerdì 20 settembre all’Auditorium del Monastero dei Benedettini è stato proiettato THE ORGANIZER, film-documentario che racconta dell’organizzazione ACORN e del suo fondatore Wade Rathke. Una organizzazione – secondo il suo ideatore – apartitica ma politica, in grado di intervenire nel dibattito e nella scena governativa e che ha segnato la storia civile, sociale ma anche politica dell’America. Le campagne condotte da Wade e dai suoi collaboratori, community organizer, sono partecipate, accorate, coinvolgenti, portate avanti da donne, uomini, bambini, tutti insieme fisicamente impegnati in un fronte comune e condiviso. Diritto alla casa, accesso al credito per i poveri di New Orleans prima di tutti. Classe 1948, originario di New Orleans, audace, pungente, radicale, in una parola sola: Wade Rathke, fondatore della più grande organizzazione politica di mobilitazione sociale che l’America abbia mai conosciuto, ACORN International (oggi acronimo di Association of Community Organizations for Reform Now, originariamente di Arkansas of Community Organizations for Reform Now). Lo abbiamo conosciuto a Catania, in occasione di un’iniziativa voluta e organizzata da un gruppo di associazioni attive nei quartieri della città e orbitanti intorno al gruppo di ricerca universitario del DICAR, il LabPEAT (Laboratorio

di Ricerca di Progettazione Ecologica Ambientale del Territorio), attivo dal 1994, che si occupa di avviare processi di sviluppo locale bottom-up. ACORN nasce a New Orleans negli anni ’70, promosso dall’idea di un giovane 19enne, seguace di Saul D. Alinsky, padre dei radicals, ideatore del “community organizing”, come strumento per restituire potere al popolo, così come si legge nel prologo tratto dal celebre libro di Alinsky Rules for Radical pubblicato nel 1971: «In questo libro parleremo del modo in

cui si crea un’organizzazione di massa e ci si impossessa del potere per consegnarlo al popolo; parleremo del modo in cui si può realizzare il sogno democratico di uguaglianza, di giustizia, di pace, di cooperazione, di pari e piene opportunità per l’istruzione, per un impiego utile, per la salute e per tutte quelle circostanze in cui


Come restituire potere al Popolo l’uomo ha la possibilità di vivere dei valori che diano senso alla vita. Stiamo parlando di un potere organizzato in mano alle masse che trasformerà il mondo in un luogo in cui ogni uomo o donna camminerà fiero, nello spirito di quel motto che fu della guerra civile spagnola: “Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”. Questo vuol dire rivoluzione». Alinsky ha interpretato la mobilitazione come uno strumento che aiutasse i poveri a far valere i propri diritti e «ad ottenere la propria rivincita sui ricchi». Può essere considerato uno tra i più grandi teorici e mobilitatori sociali d’America, organizzatore dei quartieri poveri e dei ghetti neri ha sposato le cause legate alla segregazione razziale e alla disuguaglianza sociale. La razionalità che muove l’azione di Alinsky è di natura pragmatica. Con Rules for radicals Alinsky consegna un breviario di suggerimenti per l’azione ai mobilitatori, ai radicali, a coloro che intendono impegnarsi per cambiare lo status quo. Il libro contiene le indicazioni sulle strategie da seguire per aiutare le comunità a emanciparsi e auto-organizzarsi affrontando disagi e ingiustizie legate alla loro condizione sociale. Quindi riporta una serie di esperienze di organizzazione dal “basso” di comunità impegnate nella lotta per la conquista di diritti primari (alloggi dignitosi, un’adeguata formazione scolastica, un’idonea assistenza medica), utilizzate come spunti di riflessione/azione per indicare come agire al variare dei contesti e delle circostanze. Tra i primi a raccogliere l’invito di Alinsky è il giovane Wade, cresciuto in una famiglia semplice, umile ma molto attenta alle tematiche dei diritti civili e alle questioni legate alla giustizia

sociale. CAMPAGNE CONCRETE E REALIZZABILI Comincia da subito ad operare nel proprio quartiere di New Orleans, mosso dall’ardente fuoco della giustizia sociale e dall’idea che sia possibile combattere il potere dominante: «c’è un intero modo di pensare in questo paese secondo cui non puoi mai battere il governo, io penso invece che si possa almeno competere con quel potere». Wade Rathke concepisce una organizzazione, la Arkansas of Community Organizations for Reform Now (che nel momento di massimo successo, quando valicherà i confini dell’Arkansas diventerà Association), che raccoglie le istanze delle fasce di medio-basso e basso reddito mettendo in campo campagne concrete e raggiungibili. Un’organizzazione che si rivolge a quanti hanno di voglia di battersi per ottenere i propri diritti elementari, conducendo battaglie e campagne concrete con la voglia di Vincere! Il motto di Wade “Until we win” (fino a quando noi vinciamo!) si traduce in una strategia precisa che mira a fornire strumenti e mezzi alla comunità di riferimento per contrastare il potere dominante e direzionare a proprio vantaggio le scelte governative. Diversamente dal suo padre culturale Alinsky, Wade ritiene che ACORN debba essere una organizzazione apartitica ma politica, in grado di intervenire nel dibattito e nella scena governativa. Il pragmatismo del fondatore di ACORN non consiste semplicemente nella struttura della propria organizzazione, nella sua articolazione e nel suo funzionamento ma anche nella incisività che avrà nel costruirsi un

consenso intorno via via crescente in modo da aumentare il suo potere contrattuale nel tavolo decisionale fino a determinare il successo elettorale persino del Presidente degli Stati Uniti d’America: Barack Obama. Ma andiamo con ordine. ACORN comincia ad acquisire soci quando inizia ad occuparsi dei temi della casa, dell’accesso al credito dei poveri di New Orleans. Le campagne condotte da Wade e dai suoi collaboratori, community organizer, hanno il sapore delle battaglie dei diritti civili, sono partecipate, accorate, coinvolgenti, portate avanti da donne, uomini, bambini, tutti insieme fisicamente impegnati in un fronte comune e condiviso. Il momento cruciale nella storia dell’organizzazione arriva quando New Orleans viene sconvolta dall’uragano Katrina. Siamo nell’agosto 2005, dall’atlantico si abbatte sugli Stati Uniti d’America uno dei cinque uragani più spietati che la storia statunitense ricordi, sconvolgendo gli stati confinanti con il Golfo del Messico, quindi la Costa degli USA. Le maggiori perdite di vite umane e danni si registrano in Louisiana a New Orleans, proprio laddove ACORN ha il proprio quartier generale. La gestione dello stato di crisi non è per nulla semplice: migliaia di persone senza tetto, tutta la città sommersa dall’acqua, tutte le abitazioni impraticabili. Il governo federale cerca di gestire la crisi, mettendo a disposizione pullman per trasferire le persone in altre aree degli USA. ACORN in questo momento diventa “l’infrastruttura immateriale” della gestione post-disastro, perché è l’unica organizzazione a possedere i contatti dei suoi membri – allora una decina di migliaia. Grazie alla sua partecipazione attiva riesce ad avere un ruolo non indifferente


Come restituire potere al Popolo nella “ricostruzione della localizzazione” degli appartenenti alla comunità di New Orleans disgregata, per ragioni legate al post-Katrina. Ma arrivano impietosi i “capitalisti dei disastri” ed è pronto già un grande piano di rigenerazione urbana nei luoghi colpiti dall’uragano, presentato da un forte gruppo di immobiliaristi, per la ricostruzione dei quartieri, che ovviamente prevede la sostituzione del ceto sociale preesistente: è il tempo delle ville e delle abitazioni per i redditi medio-alti, la meglio nota gentrification. Ecco che ACORN mette in atto la più grande delle campagne che abbia mai condotto: fermare il piano restituendo le case ai

occupano le case e cominciano a pulirle. Contestualmente i rappresentati della comunità i leader e i community organizer partecipano alle riunioni delle istituzioni locali, facendo leva sul potere elettorale dei loro iscritti in vista delle elezioni amministrative. Le case ripulite sono tante, il quartiere è pieno di cartelli ACORN, nelle sedi istituzionali l’organizzazione ottiene la determina di poter ritornare nelle case ripulite, escluse dal piano di rigenerazione urbana. L’azione era stata talmente capillare e pervasiva che il piano viene ritirato perché la società perde l’interesse economico. ACORN ha vinto! Troverà il modo per ricostruire le case in autocostruzione con l’aiuto di

legittimi proprietari. Come? Mediante i contatti posseduti vengono richiamate le persone interessate a intestarsi la battaglia della loro vita: ritornare nella propria casa, nel proprio quartiere, nella propria comunità. Vengono così tappezzate notte tempo tutte le abitazioni di cartelli rossi e bianchi che riportano la scritta: “Giù le mani dalle nostre case!” seguita ovviamente dalla firma dell’organizzazione in bella vista. Seconda azione: i militanti

Kenneth Reardon, allora Docente della Cornell University, che con i suoi studenti offre le competenze tecniche all’organizzazione nella fase di ricostruzione. Il successo di ACORN fa sì che diventi l’organizzazione più forte che la storia abbia mai conosciuto con un numero via via crescente di membri fino ad arrivare a oltre 500.000 membri. Adesso è internazionale e ha un peso consistente nelle elezioni del Presidente degli Stati Uniti

IL POST-URAGANO

d’America. Ma nel momento di massima ascesa, mentre il potere politico è assai preoccupato della gestione di ACORN, scoppia uno scandalo al suo interno: c’è un ammanco di molti soldi. Cominciano i dissidi interni. Wade si dimette da Presidente e lascia dopo 38 anni di attività la direzione dell’organizzazione. Dopo pochi anni dal 2008 viene dichiarata la bancarotta e ACORN chiude. Wade oggi continua la sua attività fuori dall’America, in India e in Europa. Al momento conduce campagne di organizzazione di comunità nell’Irlanda del Nord, in Francia, in Germania. E dal 16 al 21 settembre è stato con noi in Sicilia: all’Università di Catania (presso il DICAR, il Dipartimento di Ingegneria civile), al Simeto ospite del Patto di Fiume, ai Benedettini dove ha presieduto la proiezione del film-documentario The Organizer ispirato alla sua vita all’interno di ACORN International. Sabato 21 settembre ha tenuto un workshop nella sede di Trame di Quartiere, in Via Pistone 59, all’interno del quartiere San Berillo, con le associazioni che hanno promosso l’evento e assieme a quanti hanno voluto aderire. Anche oggi dall’America capitalista arriva un nuovo messaggio forte e chiaro di un socialismo universale praticabile, oltre ogni “accusa” di utopia: adesso sta a noi riflettere sul senso dell’azione oggi nei nostri territori, dovendo fare i conti con quell’insana abitudine consolidata, ben interpretata da Gaber nella celebre canzone “Qualcuno era comunista” quando cantava: “La rivoluzione? Oggi no, domani forse ma dopodomani sicuramente!” Wade oggi ha già risposto: “TIME IS NOW!”


: fuggire a qualunque costo Maria Grazia Rando Dall’Eritrea, ex colonia italiana, tutti vorrebbero scappare. C’è stato un periodo in cui scappavano a gruppi numerosissimi. Circa 4.000 al mese. Un esodo biblico. Il deserto, il mare con i barconi o barchini, i profughi affrontavano qualunque rischio. Poco in confronto a ciò che subivano o che avrebbero potuto subire. Il presidentepadrone non garantisce nulla del vivere civile. Nemmeno la sopravvivenza. Il servizio di leva per uomini e donne è a tempo indeterminato a causa dell’ossessione di una presunta invasione del nemico etiope. Per chi si ribella, torture mostruose e pesanti sanzioni. Il presidente Isaias Afewerki ha militarizzato e isolato il paese – piccolo paradiso sul Mar Rosso e fa scomparire tutti coloro che secondo lui rappresentano un pericolo. In galera anche il suo ex braccio destro, sua figlia, suo figlio, suo padre… Bisogna fuggire. A qualunque costo. I ricordi di una missione di lavoro. Era sera inoltrata quando l’aereo è atterrato ad Asmara, svolte le procedure di sbarco – abbastanza lente nonostante mi attendesse la macchina di servizio dell’ambasciata – mi avviai verso la residenza italiana dell’ambasciatore, Villa Roma. La villa mi è apparsa nella sua magnificenza. Di impronta palladiana, la sua forma arrotondata con la fontana a

ridosso dell’edificio al centro delle due scale, non incuteva timore, ma dava il senso di accoglienza con le sue due scale quasi in un abbraccio. Villa Roma è ed è stata sempre la sede italiana dell’ambasciata e dell’ambasciatore in Eritrea, inoltre vi è la foresteria dove vengono accolti gli ospiti e alcuni funzionari italiani che lavoravano per l’Ambasciata e il Consolato.

Non è così facile muoversi come si desidera in Eritrea, si dovevano richiedere i permessi al governo locale per poter andare fuori città, ed è ancora così. Inoltre necessitava pagare anche delle imposte prima del permesso, un dazio che per gli stranieri si doveva pagare in valuta estera, dollari o euro. Ovunque si volesse andare. Questo valeva anche per i locali, non si limitava agli


stranieri. L’Eritrea è sottoposta ad un embargo internazionale, non esporta e non importa niente e la sua popolazione è costretta ad adattarsi e organizzarsi per continuare a sopravvivere. Al mercato allora non si trovavano alimenti occidentali, giornalmente c’erano i pochi prodotti dei campi, in Ambasciata si trovavano solo i prodotti che si facevano arrivare direttamente dall’Italia. La Villa aveva un gruppo elettrogeno per il frigorifero, la luce e il pozzo di acqua, ma in città erano pochi ad avere la corrente elettrica, quindi nemmeno il frigorifero, né tanto meno varietà di alimenti, solo prodotti degli orti, poca carne di capra molto difficile da trovare, piccoli polli e uova. Un popolo povero, ma dignitoso. In giro si vedevano solo donne di tutte le età, bambini, adolescenti, uomini anziani. Pochissimi gli uomini giovani. Si incontravano militari di tutte le età ma pochissimi giovani uomini in borghese. Nel paese è d’obbligo il servizio di leva sia per gli uomini che per le donne. Appena finite le scuole dell’obbligo sia gli uomini che le donne, se non proseguono con l’università o superano gli esami annuali già dal primo anno, vengono arruolati nel servizio militare. La guerra con l’Etiopia è usata per giustificare un servizio militare a tempo indeterminato, e avere un passaporto è quasi un miraggio. Sono ancora i rapporti con la vicina Etiopia ad essere usati dal dittatore per giustificare l’imposizione del servizio militare a tempo indeterminato. I ragazzi, infatti, sono arruolati verso i 17 anni e il servizio militare può durare anche trent’anni, con paghe miserabili e strazianti separazioni. Le famiglie si vedono

portare via i figli maschi senza conoscerne la destinazione e i ragazzi spesso non tornano più. Ancora oggi l’Eritrea di Isaias Afewerki è uno dei peggiori regimi al mondo. Isaias Afewerki è il presidente dell’Eritrea dal 24 maggio 1993. Nel 1991 ha guidato vittoriosamente il Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo (FPLE) contro l’Etiopia e ponendo così fine a trent’anni di conflitto combattuto tra il governo etiope e i separatisti eritrei. TI RIBELLI? DEMOCRATICAMENTE TI TORTURO Nel 1998, l’Etiopia governata da Afewerki invade la città di Badammé, invasione che ha portato alla morte di circa 19.000 soldati eritrei, ad un pesante esodo di civili, oltre che ad un disastroso contraccolpo economico. Molti si sono rifugiati in campi profughi in Somalia e vivono ancora là nella miseria e nella speranza di poter rientrare a casa. I piccoli di allora adesso già uomini e donne adulti aspirano a migliorare la loro condizione e quella della loro famiglia e come i giovani rimasti in Eritrea sperano di raggiungere l’Europa e soprattutto l’Italia, di cui si sentono anche figli… Il servizio militare non è cosa da poco, la misera paga non permette di mettere su famiglia, né tanto meno fare dei programmi nel tempo, non si conosce il periodo di ferma e per chi si oppone le alternative sono la prigione, se non la tortura.

“Uno dei sistemi più usati dai carcerieri è la cosiddetta Pratica del Gesù, che consiste nell’appendere chi si rifiuta di collaborare, con corde legate ai polsi, a due tronchi d’albero, in modo che il corpo assuma la forma di una croce. A volte restano appesi per giorni, con le guardie che di tanto in tanto inumidiscono le labbra del condannato con l’acqua, cose da rabbrividire che esistono ancora oggi in questi mondi e questi regimi e che nessuno dice in Eritrea”. Non sono solo queste le cattiverie che vengono fatte, sono tante le storie che esistono e che non riguardano solo la popolazione e i più deboli, ma riguardano tutti anche i più vicini al presidente. Il caso più famoso è quello di Petros Solomon, ex comandante e responsabile dei servizi segreti del Fronte Popolare di Liberazione Eritreo, il movimento indipendentista guidato da Isaias. Petros Solomon, compagno d’armi e braccio destro di Isaias era a capo dei guerriglieri che nel 1991 liberarono l’Eritrea. Petros Solomon da Ministro degli esteri cerca di mantenere i rapporti con la comunità internazionale e da Ministro della difesa di evitare il conflitto con l’Etiopia. Isaias Afewerki spinge invece per la guerra e l’isolamento, è terrorizzato dai complotti ed è diffidente nei confronti della comunità internazionale. Ha messo


IL MERCATO CARAVANSERRAGLIO L’Asmara di oggi è uno dei nuovi 20 luoghi riconosciuti come patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Fu progettata dagli architetti italiani negli anni Trenta, il periodo di maggior sviluppo dell’Eritrea periodo in cui fu una colonia italiana, fino al 1941 con la fine del regime fascista. Guardando questi palazzi sembra di trovarsi in una versione più colorata e polverosa di Latina o di qualche altro angolo di città italiana. L’odore acre e pungente del berberé mi accolse appena arrivata, veniva fuori da una bottega a ridosso dell’entrata dove alcune donne lo stavano lavorando. Il berberé è composto da una varietà di erbe aromatiche comuni ed insolite, ha un colore rosso mattone e accompagna i diversi piatti tipici locali. Queste donne erano tutte ricoperte dalla polvere rossa che veniva prodotta e sembravano delle statue di terracotta. In alcune botteghe e bancarelle, posti in pile o inseriti uno dentro l’altro per dimensioni vi erano alcuni pentolini ricavati dalle lattine di tonno. Si vedevano le varie dimensioni di lattine trasformate in padelline, con i manici sempre ricavati dalla parte superiore delle lattine arrotolata su se stessa e fissata alla scatola o con due manici laterali per trasformarli in piccoli pentolini. Ce n’erano a centinaia, di tutti i colori e di tutte le dimensioni, le lattine dei pomodori venivano trasformate in tazze e quelle grandi in pentole con coperchio e due manici. Una meraviglia! Non servivano per decorare ma, per essere usati! Davanti ad una bancarella dove pendevano mazzi di cinghie di gomma di diverse dimensioni e lunghezze due bambini piccoli, uno di circa tre anni teneva con le sue due manine un lato di una camera d’aria di bicicletta aperta lungo tutta la sua lunghezza e una bambina di circa cinque anni, probabilmente la sorellina, con un coltello ben affilato simile a un bisturi, tenendo per l’altro capo la stessa camera d’aria con una sicurezza magistrale e non tipica della sua età tagliava lunghe strisce di camera d’aria di misure uguali. Un uomo non molto giovane era impegnato a negoziare con due signori la vendita di queste pseudo corde, servivano per fissare del materiale sul loro carretto che tiravano a mano, non avevano animali, erano loro il motore di quel carro. Proprio accanto, in un'altra bottega in muratura c’erano sempre delle camere d'aria trasformate in bisacce chiuse agli estremi con due tappi uno più piccolo funzionante come rubinetto. Bisacce da usare sui dorsi degli asini, moto e soprattutto spalle, per contenere l'acqua durante i trasferimenti. “È certo che se si chiede qualcosa lì si trova”, mi rassicurò il mio accompagnatore. Lì, in effetti, era esposta la miseria e la pazienza di un popolo.

da parte la Costituzione, dimenticando la promessa delle elezioni ha rispolverato le pratiche apprese tra il 1968 e il 1970 nei campi d’addestramento di Pechino. I firmatari del cosiddetto “Gruppo dei 15”, sottoscrittori di una lettera di critica al regime, vengono prelevati dalle loro abitazioni all’alba del 18 settembre 2001 e fatti scomparire nel nulla. I 15 sono ancora desaparecidos, e la comunità internazionale non si accorse di nulla perché distratta dall’attacco alle Torri Gemelle. La moglie di Salomon, Aster Yohannes, allora in viaggio negli Stati Uniti, disperatamente e invano si appella all’ex amico Isaias, affinché i suoi quattro figli la raggiungano, ma il diniego è totale. Due anni dopo lo stesso presidente le garantisce l’incolumità e la invita a rientrare, ma all’aeroporto la signora Solomon viene arrestata davanti ai quattro bimbi corsi a riabbracciarla e da allora di lei non si ha più notizia. La stessa sorte toccherà qualche tempo dopo a tre dei suoi quattro figli. Lo stesso ambasciatore italiano Antonio Bandini, che aveva chiesto chiarimenti a nome dell’Unione Europea, venne espulso. UNA MODERNA SCHIAVITÙ Arresti ed epurazioni trasformano il paese in una prigione a cielo aperto. “Alla base di tutto vi sono le paranoie del presidente; vede ovunque nemici e cospiratori pronti a insidiargli il potere” – spiega uno dei pochi rappresentanti delle organizzazioni internazionali ancora presenti ad Asmara.


L’Eritrea di oggi ricorda la Cambogia dei Khmer Rossi. La causa di questa situazione sembrerebbe legata a sospette complicità con le milizie fondamentaliste somale, ed è per questo che il servizio militare nazionale è permanente. Le leggi varate dopo l’indipendenza del 1993 introducono una ferma di 18 mesi per uomini e donne, con la possibilità di un’estensione della ferma al cinquantesimo anno d’età in caso di “mobilitazione ed emergenza”. Chi non accetta le regole, chi si ribella rischia di passare direttamente nella fornace di Klima, una base nel deserto della Dancalia dove la mancanza d’acqua e il cibo razionato mettono a dura prova la capacità di sopravvivenza. Chi non fa in tempo a sposarsi prima del servizio nazionale ben difficilmente trova moglie o marito. La prima conseguenza è la rarefazione della famiglia. “La situazione è terrificante, i giovani qui non possono sperare né in una moglie, né in un lavoro, sono senza futuro, sono schiavi. Possono solo scegliere tra la prigionia, i lavori forzati e i rischi di una fuga”. La situazione è terrificante, la gente pur di fuggire sfida la sorte, rischia la morte tre volte, prima per mano delle guardie eritree, poi per mano di egiziani, etiopi, sudanesi e libici, infine a causa del deserto o del mare. Pur sapendolo sono pronti a tutto, partono, muoiono, vengono catturati. Una fuga riuscita all’estero ha comunque il suo costo. Se un giovane di leva scompare, ma è ancora in Eritrea, la famiglia viene sbattuta in prigione fino a quando il figlio non si ripresenta in caserma o al posto di servizio. Se invece è fuggito all’estero, chiedono un pagamento di 50.000 nafka (2.500 Euro). Chi non può

pagare finisce subito in prigione e i genitori buttati dietro le sbarre per più di sei mesi. Il regime non risparmia neppure gli espatriati. La diaspora rappresenta per il Paese la principale fonte di valuta pregiata destinata alle esauste casse eritree. I registri del fronte vengono passati alle ambasciate eritree nel mondo e continuano a venir aggiornati con i nomi dei residenti autorizzati a lavorare all’estero e in possesso di passaporto.

“L’attacco alla Chiesa cattolica del dittatore Isaias Afewerki è iniziato il 12 giugno scorso, quando i soldati mandati dalla giunta dell’Asmara si sono presentati nelle strutture sanitarie ecclesiastiche chiedendo le chiavi e, di fronte al rifiuto dei responsabili, hanno buttato fuori con la forza il personale laico e religioso che opponeva resistenza passiva. La motivazione ufficiale è l’applicazione di una legge del 1995 che pone sotto controllo statale le attività sociali, sanitarie ed educative.”

“Chi vuole poter tornare in patria deve dimostrare di aver versato una tassa del due per cento sul reddito. Quei soldi sono la principale risorsa del governo…” (Per il testo fra virgolette si veda l’articolo Quel male oscuro che divora l’Eritrea di Gian Micalessin – Oasis anno V, n. 10, dicembre 2018).

L’ATTACCO ALLA CHIESA Non sono solo queste le amarezze che mi porto dentro e che ancora mi accompagnano, oggi si stanno verificando le persecuzioni religiose che fanno il paio con quelle politiche. Questo è quanto si scrive sui media in merito alle ultime vicende dell’Eritrea e che ci fa capire ancora di più perché arrivano sempre più ragazzi in Italia. Scrive Avvenire:

“Dopo cliniche e ambulatori della Chiesa cattolica, il regime eritreo vuole nazionalizzare le scuole. Nel mirino oltre 100 materne e 50 istituti, dalle elementari e medie alle superiori, delle quattro diocesi. Alcune hanno già ricevuto visite intimidatorie dei militari che hanno preteso la consegna dei registri degli alunni e, davanti al no dei responsabili, hanno “consigliato” di non accettare iscrizioni per il prossimo anno perché sarebbe scattata la nazionalizzazione.” “L’amministrazione economica della Chiesa ortodossa è soggiogata dal partito unico al potere, che requisisce le offerte raccolte pagando un salario ai preti. Chi si ribella va in galera. Cinque monaci ortodossi


ultrasettantenni sono stati arrestati di recente e il patriarca di Asmara è ai domiciliari da 14 anni. Nonostante la pace nulla cambia, l’unica novità è l’insofferenza della popolazione per l’immobilismo del regime.” Comunque la gente gira tranquilla per le strade della città, lungo le strade dei villaggi, cammina per le strade senza fretta a ansia, non si percepisce agitazione né che si sentono perseguitati, tutto ti fa pensare che c’è serenità, ma incrociando i loro sguardi si vede rassegnazione mista ad amarezza. Possono i giovani rassegnarsi a quanto vedono e vivono nel loro Paese? Possono restare vincolati ad una leva militare per molti anni e rinunciare ad avere una famiglia perché hanno pochi soldi di paga, certamente non sufficienti a farla vivere decentemente, e che possono avere solo da anziani? Come possono continuare a vivere in un Paese dove manca di tutto e dove manca soprattutto la libertà? Il deserto non fa paura, il lungo viaggio e i rischi da affrontare sono il prezzo da pagare per la libertà e loro lo fanno con consapevolezza.

Ma sono veramente liberi fuori della loro terra?

QUI STANNO BENE Stavamo lasciando Asmara per raggiungere Massaua e le isole Dahlak. Finalmente era arrivato il permesso, solo per me, l’ambasciatore e la sua famiglia non mi potevano accompagnare. Dall’altopiano che accoglie Asmara, si scendeva per una strada il cui paesaggio cambiava, gli alberi alti e verdi diventavano radi e la macchia si trasformava. A un tratto in una curva mi apparve una parete di ficodindia che si arrampicavano su per la collina. Siamo stati noi italiani, mi disse l’autista, a piantare questi ficodindia al tempo del colonialismo: “Servono a non far franare la collina, le loro radici impediscono che la parete si sgretoli. Deve vedere quando ci sono i frutti, sono molti che vengono a raccoglierli, la domenica si viene con le famiglie, è una festa”. Pensavo a come avevamo portato fuori dal nostro paese la nostra esperienza e da noi invece le colline franano alla prime piogge più forti. Vedendo le nuvole che si presentavano all’orizzonte mentre eravamo sulla strada per Massaua, l’autista mi raccontò che era da circa sette anni che Eritrea non pioveva. Attraversando il deserto quelle grandi nuvole avanzavano all’orizzonte, abbiamo avuto il tempo di arrivare e un forte acquazzone si è abbattuto sulla città: “Vedrà dottoressa, questa pioggia è santa, verrà l'erba”. L’indomani, dopo avere passato il primo posto di controllo, presa la barca per andare sul mare verso le isole Dahlak incontrammo un isolotto molto vicino alla costa dove un altro militare ha supervisionato nuovamente i documenti e la ricevuta delle imposte pagate. Le isole che si avvicinavano sempre di più apparivano integre, non si vedevano costruzioni, non c’erano colori diversi da quello della pietra e dalla esigua vegetazione che si intravedeva, ma man mano che ci avvicinavamo. Si intravedevano delle piccole case, era lì che stavamo andando e che avremmo alloggiato. Una magnifica opera di integrazione ambientale. Una scala fatta di pietre locali che portava in una casa più grande, la hall del complesso, e piccole casette tutte intorno che si inerpicavano sulla collinetta. Un villaggio vacanze mimetizzato nei pochi arbusti sormontati talvolta da piccole caprette bianche. Il gestore era tornato da Milano, dove era cresciuto e dove aveva famiglia, ma era voluto ritornare dopo venticinque anni a rispettare la promessa che aveva fatto a sua madre. Aveva fatto un’intesa con il presidente, così mi disse, che gli aveva accordato di dare vita all’isola creando un villaggio turistico e di poter usufruire della manodopera dei militari per costruirlo, lui dava loro qualcosa in più in aggiunta alla paga per il servizio prestato al governo e talvolta dava loro anche qualche capretta. “Possono considerarsi fortunati, qui stanno bene”, sono state le parole del gestore.


Giovanna e Angelo, l’alba e l’imbrunire Brunella Lottero La fine delle vacanze. Riflessioni. Dolci pensieri. Ricordi da custodire gelosamente. Una famiglia di ristoratori ambulanti per sbarcare il lunario. Migranti nella loro Lipari. Un patrimonio dell’UNESCO che meriterebbe tanta attenzione e affetto, ma non solo da parte di Giovanna e Angelo innamorati della loro isola. Giovanna ha sul viso il sole del sud illuminato dal sorriso. Angelo ha l’aria perennemente indaffarata mentre affetta il pane prima di metterlo sulla piastra. Hanno due bellissimi figli adolescenti che hanno ereditato il sorriso della mamma e lo sguardo assorto del padre. Tutti insieme, nella stagione più desiderata e più breve dell’anno, viaggiano sul loro camioncino adibito al ristoro. Migranti ristoratori, girano feste dedicate al santo patrono, alle madonne e gestiscono la spiaggia

di Pietra liscia, la più bella e la più piccola spiaggia di Lipari. Per arrivare a Pietra liscia «costeggio il mare di canneto, all’orizzonte Iddu il vulcano memoria accesa dentro la terra che respira, inquieta e brontola ogni

quarto d’ora lapilli, scorie e ceneri bollenti» (*). Poi c’è Bartolino che con la sua barca a guscio di noce, ti prende per mano e ti fa salire dentro al guscio per portarti, da esperto marinaio, proprio a Pietra liscia, dove l’acqua è talmente chiara, tiepida e dolce da riportarti indietro in un viaggio astrale dove, nuotando, ti sembra di riconoscere la tua origine che viene proprio da lì, da quell’acqua irresistibile. Il richiamo di Pietra liscia è forte e Giovanna è la prima a sentirlo: «Quando qui arrivano dei turisti che mi dicono, stupiti: ma dov’è la spiaggia? Qui è troppo piccola. Io rispondo: ma cosa intendete voi per spiaggia? Cosa vuol dire spiaggia? Se intendete distese di ombrelloni e musica a palla, avete sbagliato a venire fin qui. Qui abbiamo una spiaggia sottile, purtroppo erosa dal mare, molti sassi, qualche lettino e cinque o sei

ombrelloni. Nient’altro. E abbiamo il mare. Questo mare – continua Giovanna –, sapessi com’è d’inverno… mia figlia che studia a Messina torna a casa ogni fine settimana e appena arriva viene da sola fin qui per placare una nostalgia, per soddisfare un mancanza. Si mette qui davanti al mare e rimane fino a quando rimane la luce. Noi in primavera cominciamo ad attrezzarci per la stagione e godiamo di questo posto in solitudine, di quest’acqua che ci accoglie con il nostro primo bagno di stagione. Facciamo il bagno di mattina presto e la sensazione è di essere aspettati e accolti. Il regalo è quello di sentire Pietra liscia tutta nostra». Allora, chiedo, ci vediamo l’anno prossimo? Giovanna perde il sorriso per un momento e Angelo la soccorre: «Non sappiamo cosa succederà l’anno prossimo. Ci hanno detto che devono mettere in sicurezza la ex cava di pomice che va a pezzi, che devono bonificare il sentiero e chissà quando inizieranno e lavori. Dicono a settembre, ma non sappiamo niente di preciso e non possiamo sapere se i lavori, una volta iniziati, finiranno in tempo


per la prossima estate».

LIPARI PATRIMONIO UNESCO In effetti a Lipari i cittadini sanno poco. Per esempio non sanno come mai le strade continuino a essere piene di buche, perché i sentieri per raggiungere varie zone dell’isola a piedi siano impraticabili, non sanno perché le fognature siano inesistenti, perché il dissalatore che tanto è costato alla Cassa del mezzogiorno non funzioni mai a pieno regime. Non sanno perché manchino i tombini e quando piove l’acqua ristagni per strada mentre il mare consuma la spiaggia. «Il Comune – prosegue Angelo – pensa di togliere sei metri alla spiaggia di Canneto e sei metri sono tanti per costruire una pista ciclabile della quale non c’è alcuna richiesta e nessun bisogno. La strada di Canneto è già stretta di suo, con tutte le macchine parcheggiate ai lati e la circolazione a doppio senso di marcia, che ci facciamo noi con una pista ciclabile? Chiedo: ma dove vanno tutti i soldi dei ticket che ogni estate il Comune incassa da ogni turista. Sono cinque euro a persona, per un afflusso che si aggira su ventimila/cinquantamila presenze sulle isole, tutte le sette isole eolie. In teoria il Comune che ne amministra sei su sette (Salina esclusa) dovrebbe stabilire una

quota equa per tutte le isole, calcolata in base alle presenze e dare fiato alle casse di queste isole per garantir loro un inverno sereno, un fondo per lavori, un calendario per le urgenze da rispettare e invece?». Rispondono, alzando gli occhi al cielo: «Noi non ne sappiamo niente. Sappiamo solo che viviamo in un’isola bellissima, patrimonio dell’Unesco, che però è carente di tutto o quasi tutto, da sempre». Lo sfogo di Angelo viene interrotto da un bagnante che sbrigativo gli chiede un gelato e delle patatine e allora lui ci lascia mentre Giovanna riprende il sorriso e quasi a consolarmi aggiunge: «Noi rimaniamo qui. Viviamo qui e facciamo quello che possiamo.

Non

vorrei vivere da un’altra parte, non potrei. Qualche anno fa abbiamo portato i figli a Roma e per qualche giorno abbiamo girato per strade piene di buche, su mezzi affollatissimi, girando per strade piene di “monnezza”… forse è così da tutte le parti, almeno qui nel nostro Paese, ma almeno qui abbiamo il mare. Certo, la nostra è una vita piena di sacrifici, quel che si guadagna in estate ci deve bastare per l’inverno, ma anche d’inverno, Pietra liscia è bellissima…». E l’imbrunire e Pietra liscia è l’incanto che però devo lasciare. Con gratitudine saluto l’indaffarato Angelo e con infinito affetto abbraccio Giovanna che ringrazio anche per lo sguardo che ha dentro la luce determinata dell’alba e quella dolcissima dell’imbrunire. (*) Da Come una specie di sorriso, Ed. Kimerik 2008.


Donne che fanno tremare la ’Ndrangheta Franca Fortunato Ancora loro. Ancora donne che per amore si ribellano ai loro “padroni”. Mariti, padri, fratelli mafiosi. A volte al posto del maschio ci sono le madri che, come le figlie, da giovani hanno subito. Donne che hanno ingoiato tanto di quel veleno che alla fine hanno dimenticato di essere donne e madri e ragionano come i loro uomini. E non permettono a nessuno – compresa la figlia – di turbare l’equilibrio della “famiglia”. E nessuno si salva. Alba A., Maria Stefanelli, Simona Napoli, Giuseppina Pesce, Giusi Multari, Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo, Annina Lo Bianco sono donne cresciute in famiglie di ’ndrangheta. Per amore della loro libertà e quella delle loro figlie e figli queste donne sono divenute testimoni o collaboratrici di giustizia, denunciando e mandando in galera madri, padri, sorelle, fratelli, mariti, parenti, i cui legami di sangue hanno da sempre assicurato alla ’ndrangheta omertà, forza e mancanza di pentiti. Un’assicurazione che, da quindici anni a questa parte, le donne hanno incominciato a minare, scegliendo – consapevoli o non – la difficile strada della riappropriazione della propria vita. Vivere lontano da quel mondo. Su di loro sono stati scritti libri, articoli, saggi, realizzate fiction e film (io stessa ne ho scritto più volte anche su

questa rivista) per dire dell’irrompere nel mondo mafioso dell’imprevisto della libertà femminile che, come una “slavina” – a detta anche dei magistrati di Reggio Calabria – minaccia l’intero equilibrio delle ’ndrine che hanno costruito la loro forza sull’identificazione della famiglia di sangue con la struttura dell’organizzazione mafiosa. Donne che hanno posto fine alla complicità e omertà delle loro madri, divenute fedeli custodi di un ordine patriarcale violento e criminale, di cui loro stesse sono sempre state le prime vittime, trasformate poi in carnefici delle loro figlie. Le collaboratrici, quelle che ce l’hanno fatta a sopravvivere alla condanna a morte che continua a pesare su di loro, perché la ’ndrangheta non dimentica, vivono sotto falso nome con le figlie e i

figli, in località protette, lontane dalla Calabria. Annina Lo Bianco che, insieme a Maria Concetta Cacciola e Giuseppina Pesce, ha denunciato la boss di San Ferdinando, l’infermiera Aurora Spanò, affiliata alla cosca Bellocco a cui appartiene anche il marito finito in galera, vive insieme al figlio dodicenne, divenuto il “collaboratore di giustizia” più giovane; Giuseppina Pesce, dopo aver portato alla sbarra l’intera famiglia, il padre, la madre, le sorelle, i fratelli e i nonni, vive con la figlia e i figli; Maria Stefanelli, la prima testimone di giustizia in un processo per mafia celebrato al Nord, vive con la figlia e la sua compagna; Giusi Mutari, cugina di Maria Concetta Cacciola che ha portato in galera i suoceri e i cognati che l’hanno tenuta segregata in casa per un anno dopo


il suicidio del marito di cui la incolpavano, vive con le figlie; Simona Napoli che ha fatto condannare il padre, la madre e il fratello per l’uccisione del suo amante, vive con il figlio. UNA RIBELLIONE CHE SI PAGA CON LA VITA Di queste donne torna a parlare la giornalista palermitana Dina Lauricella nel suo libro Il codice del disonore. Donne che fanno tremare la ’ndrangheta edito da Einaudi, con lo scopo di «esplorare soprattutto la cultura domestica della mafia calabrese». La sollecitazione arriva da una collaboratrice, Alba A. (nome di fantasia), che le telefona per una intervista, in attesa della quale l’autrice scende in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, per capire il perché Alba ha deciso di collaborare. Un perché che accomuna tutte le collaboratrici e la cui risposta sta nel desiderio di rendersi libere e liberare le figlie e i figli da quell’ambiente dove loro sono cresciute e che destina i figli maschi a diventare mafiosi e le femmine a sposare mafiosi. Un destino a cui un gran numero di donne, di madri, hanno incominciato a ribellarsi e si rivolgono autonomamente al Tribunale dei minori di Reggio Calabria per chiedere un futuro diverso per le proprie figlie e figli. Sessanta sono le figlie e i figli di ’ndrangheta trasferiti, dietro richiesta delle madri, in strutture o famiglia al nord, mentre i padri dal carcere minacciano i magistrati, rivendicano il diritto di averli a casa e imprecano per la «distruzione del nucleo familiare» Succede anche che i servizi sociali, davanti alla necessità di intervenire su questi ragazzi e ragazze, si tirino indietro, con ferie o certificati medici di massa, per paura di ritorsioni.

Che donne sono le collaboratrici? Sono giovani, non hanno studiato, passeggiato liberamente per le strade, vissuto emozioni ed esperienze. Orizzonti delle loro vite sono i muri delle loro case. Sono donne che conoscono la violenza sul loro corpo da parte di padri, mariti e fratelli, perpetrata

sia, iniziata sui social network, dove si registrano con nomi di fantasia per non farsi scoprire dalla famiglia. I social per loro sono l’unica finestra su un mondo altro, dove si mostra la possibilità di una vita diversa. Si innamorano, pur sapendo di rischiare di diventare vittime di un “delitto d’onore” – eliminato nell’ordinamento penale italiano nel 1981 – perché il tradimento «è un’onta drammatica, all’interno di queste famiglie […], un’offesa da essere punita con la morte». DONNE CHE AMANO

davanti a madri complici e anaffettive. È questo il mondo quotidiano che emerge dalle pagine del libro della Lauricella, un mondo sostenuto da una cultura patriarcale violenta e criminale, dentro cui ognuna di loro matura la decisione di riappropriarsi della propria vita, a rischio di perderla. Una decisione che per Alba A, Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce, Maria Stefanelli, Simona Napoli viene rafforzata da una relazione extraconiugale, vera o virtuale che

A scoperchiare il “delitto d’onore” dentro le famiglie di ’ndrangheta è stata Giuseppina Pesce che ha raccontato dell’omicidio di una zia, della fidanzata di un suo cugino, di quella del fratello e di qualche sua amica. «Negli ultimi trent’anni – scrive Lauricella – almeno 20 donne sono rimaste vittime nella sola Piana di Gioia Tauro, ma stime ufficiali non esistono sia perché le famiglie non denunciano la scomparsa, sia perché i corpi non vengono spesso ritrovati». Giuseppina Pesce, Alba A, Simona Napoli, Maria Stefanelli sono riuscite a sfuggire alla legge del delitto d’onore. Le collaboratrici di giustizia sono donne che amano, prima di tutto, le loro figlie e figli, che diventano arma di ricatto e di pressione a ritrattare, se lasciati in affidamento a genitori e parenti durante la collaborazione. Un’arma che Maria Concetta Cacciola ha pagato con la vita. Dopo essere entrata e uscita dal programma di protezione solo per poter stare accanto ai figli, lasciati ai suoi genitori, da lei denunciati, che la spingevano a ritrattare e alla fine l’hanno uccisa. La madre e il fratello della Cacciola sono


padre e gli zii per l’uccisione della madre. Le pressioni dentro quel mondo sono ancora forti, i legami pure, ma c’è qualcosa – come dimostrano le collaboratrici – molto più forte che è l’amore e l’amore per la libertà femminile,

stati condannati per maltrattamenti, ma non per omicidio, e ad oggi la Dda di Reggio Calabria ha chiesto ulteriori indagini in tal senso. Alba A., la collaboratrice da cui prende il via il libro della Lauricella, dopo sei mesi di reclusione, ha accettato di collaborare per la mancanza dei figli, lasciati ai suoceri. Il processo è ancora in corso e adesso vive lontano dalla Calabria agli arresti domiciliari, insieme ai due suoi figli. Un mondo della quotidianità, quello della famiglia mafiosa, dove forti restano ancora i legami familiari che non sempre si ha la forza di recidere completamente. Simona Napoli, dopo aver svelato i retroscena dell’omicidio del suo amante, al processo si è avvalsa della facoltà di non rispondere in merito alla vicinanza e al ruolo del padre nelle ’ndrine locali dei Bellocco. Nonostante il padre le abbia rovinato la vita, ucciso l’uomo che amava, l’abbia picchiata e umiliata, Simona non l’è sentita di infliggergli un colpo così duro. La figlia di Maria Concetta Cacciola, Tania, al processo, una volta raggiunta la maggiore età, ha deciso di ritirare la sua costituzione di parte civile, a differenza della figlia di Lea Garofalo, Denise, che è andata fino in fondo, facendo condannare il

che non si può incatenare, chiudere in gabbia, e che a lungo andare sarà la rovina della ’ndrangheta per mano di donna.

L'unico sistema per eliminare tale piaga (la mafia, ndr) è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.

Rita Atria


Sciascia e le ragioni delle donne Nunziatina Spatafora Rileggere Sciascia a trent’anni dalla sua morte. Rileggerlo da donna adulta ed emancipata. Vederne le differenze con l’interpretazione legate alla prima lettura giovanile. Cercare di contestualizzarlo e riscoprirne la grandezza nonostante le ombre sulla considerazione delle donne. Una concezione quasi antica, arcaica, donne che non brillano per virtù. «Mantidi falsamente religiose, o madri gelose e soffocanti, o figurine sbiadite, poco interessanti, specie se l’osservazione del lettore si è fermata in superficie» - ebbe a scrivere Dacia Maraini. Trent’anni fa moriva Leonardo Sciascia. L’avevo “incontrato” al liceo, leggendo i suoi libri di denunzia sulla mafia in Sicilia. Erano gli anni ’70, quando la politica e la chiesa affermavano che la mafia non esisteva. Ho avuto l’esigenza di rileggerlo vent’anni dopo, quando gli eccidi mafiosi colpirono non a caso eccellenti magistrati e politici, a seguito dei quali, attraverso diverse pratiche politiche, le donne organizzarono la loro resistenza alla mafia. Lo

rilessi con il precipuo interesse verso le figure femminili della sua scrittura: la loro complicità con la mafia, la loro emancipazione, la loro libertà, la violazione sui loro corpi. La letteratura dello scrittore è impegnata a contraddire ogni forma di potere nominabile, che si traduce in violenza economica, sociale, politica e giuridica, e di quello non nominabile. Nel 1957 scriveva già della discriminazione/violenza che le donne sperimentavano nelle

famiglie più povere. I figli rappresentavano speranza e braccia per il lavoro, le figlie solo una bocca in più da sfamare. Drammatiche le sue parole nel racconto/reportage Cronache Scolastiche della raccolta Le Parrocchie di Regalpetra: «Più penoso è guardare le bambine, in attesa davanti l’altro padiglione. Alcune portano ancora la festicciola dell’estate, le maniche corte; e tremano di freddo, hanno gli occhi di animali che indecifrabilmente soffrono. Delle femmine cominciano a preoccuparsi quando sarà necessario attirare in casa qualcuno che le porti via, che le sposi». Nel 1966 lo scrittore pubblica un articolo sul quotidiano L’Ora di Palermo sulla nota vicenda di Franca Viola, che rapita e violentata non accettò il matrimonio riparatore. Sciascia rilevò, durante la celebrazione del processo, che lo Stato era correo nel legittimare il matrimonio


alle forze dell’ordine un potente “cliente”, che non è furibondo per la denuncia ma per la menzogna della ragazza che, indotta dal protettore, aveva dichiarato di avere quattordici anni, invece dei suoi diciassette. A parte l’ironia sulla frode, è rilevante che una ragazza socialmente fragile degli anni sessanta, a cui lo scrittore dà il nome ed il cognome di Angela Giuffredi, abbia il coraggio di denunziare un potente nominabile dalle estrose fantasie erotiche. Sciascia

sempre i suoi personaggi ne sono dotati, perché è la speranza del venire fuori dall’ombra e dal silenzio nel chiedere giustizia. Sul tema non ci tornerà fino al 1986, nella sua cronaca “1912 +1”, in cui scrive che in caso di oltraggio alle donne, dal popolo della piazza agli imbastitori dei processi nelle aule giudiziarie, tutti evocano il mito di Lucrezia romana, che si uccise dopo essere stata oltraggiata da Sesto Tarquinio, forse il mito più maschilista che mai sia stato inventato. Lo scrittore, nonostante questa responsabilità della cultura discriminatoria e maschilista nei confronti delle donne, nel 1974 sulle pagine dei periodici e riparatore al posto della pena, e la quotidiani intrattenne un duro stessa solidarietà dibattito con del Paese le femministe “La misoginia dell’uomo è talmente radicata e manifestata a e nonostante il profonda che prende le forme più inaspettate. Fa dei Franca non difficile dovrebbe rapporto tra lo brutti scherzi perfino ad uomini di profonda manifestarsi in scrittore e il preparazione culturale che sono abituati a gettare forme eccezionali femminismo uno sguardo chiaro sulle cose oscure del mondo” e clamorose, ma italiano degli dovrebbe essere anni settanta, il contesto stesso, Dacia Maraini -“Matriarcato e mammismo”. Paese entrambi si semplice e ovvio, rifacevano Sera, 15 febbraio 1974 alle ragioni della vita sociale. Solo molti anni delle donne. dopo e grazie con il suo racconto, anche se non è anche al costante impegno dei considerato una delle sue movimenti femminili, nel 1981 e produzioni più nel 1996 furono approvati significative, rispettivamente le norme immagina e fa sull’abolizione delle nozze riparatrici e sulla violenza sessuale immaginare all’Italia, che prima era considerata una soprattutto agli offesa alla morale e non alla uomini, che le donna, come persona. donne potevano e “UNA VERGOGNA” dovevano GIURIDICA DA denunciare la CANCELLARE violenza perpetrata Nel 1967, Sciascia, dopo l’articolo sui loro corpi. È significativo che lo sulla vicenda di Franca Viola, scrittore abbia pubblica il breve racconto La attribuito un nome frode: una giovane minorenne avviata alla prostituzione denuncia alla giovane, non


APPUNTAMENTO A MILANO 26 OTTOBRE 2019 #governodilei Dalla visione utopica e letteraria alla concretezza Ne discutiamo a MILANO, 26 ottobre 2019 dalle 10.00 alle 15.00 Teatro Elf Via S.Gerolamo Emiliani 1 Iniziativa Femminista è l’associazione politica collegata alla rete europea di associazioni e partiti ecofemministi nata durante l’esperienza di Soraya Post, eletta al Parlamento Europeo nella scorsa legislatura. E’ nostra intenzione costituire una struttura di competenze e autorevolezze femminili che si misurino con le Istituzioni locali e nazionali. Non un governo ombra ma un ‘altro governo’ che proponga una visione politica ecofemminista per il paese. #governodilei è una occasione di confronto per tutte le associazioni, le singole e i singoli interessate all’affermazione di una politica ecofemminista in Italia. !F si mette al servizio della costituzione di una rete da organizzare insieme, nello spirito di valorizzazione e rafforzamento di tutto l’immane lavoro che nel nostro paese viene fatto nella direzione ecofemminista. Vogliamo dire non solo cosa va fatto, ma come e al più presto. Incontriamoci: Milano sarà la prima tappa del nostro percorso. Potete scriverci a iniziativafemminista@gmail.com oppure contattarci sulla nostra pagina FB www.facebook.com/iniziativafemminista

http://www.iniziativafemminista.it/2019/10/07/governodilei-appuntamento-a-milano-26-ottobre-2019/


Importante per tutti i proprietari contattati dai petrolieri in Val di Noto DA CONDIVIDERE

IMPORTANTE!!! AVVISO A TUTTI I CITTADINI PROPRIETARI DI TERRENI NEI COMUNI DI RAGUSA, MODICA, CHIARAMONTE GULFI, LICODIA EUBEA MAZZARRONE, GIARRATANA, MONTEROSSO ALMO, COMISO, CALTAGIRONE, ROSOLINI, BUSCEMI, PALAZZOLO ACREIDE In riferimento a recenti avvisi di accesso in terreni posti nei Comuni sopraindicati consegnati da incaricati della società Maurel et Prom Italia (multinazionale operante nel settore gas-petrolifero) al fine di svolgere rilievi geofisici, e a seguito di richieste di chiarimenti formulateci da molti proprietari di terreni SI INFORMA che è possibile opporsi legittimamente a tale accesso, anche qualora il relativo avviso sia già stato consegnato, e pertanto SI COMUNICA che tutti i proprietari di terreni che lo desiderino potranno mettersi in contatto con il Comitato per ricevere ogni utile informazione in merito. Comitato No-Triv Val di Noto Indirizzo email a cui rivolgersi: no.trivellazionipetrolifere@gmail.com Sito Internet: www.comitato-notriv.blogspot.com Pagina Facebook: https://www.facebook.com/pages/COMITATO-NO-TRIV- SICILIA/108814042503084 Pubblicato da COORDINAMENTO DEI COMITATI NOTRIV VAL DI NOTO


“A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare?” Pippo Fava


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