Le Siciliane - Casablanca n. 56

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Le Siciliane - CASABLANCA N.56/ novembre - dicembre 2018/ SOMMARIO

A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare? Pippo Fava 3 – Editoriale: Pensando alle lotte di Pippo Fava 5 – Gli Invulnerabili Editoriale da I Sicilini 1983 6 – “RI” come Rivoluzione! Graziella Proto 10 – Dario Firenze e Piero Maestri Noi Abbiamo Vinto 14 – Sicurezza - Insicura Natya Migliori 19 Maria Grazia Rando Isabella – piccolo puntino nero italiano 22 – La Sicilianina Graziella Proto 28 – Lorenzo Di Chiara Il Sogno e l’incubo del viaggio 32 – Cecile Landman E’ un mindfuck 35 – Natya Migliori La mia vita scippata 39 – Prostituzione felice? Franca Fortunato 42 – Semi che crescono Aurora Della Valle LETTERE DI FRONTIERA 46 - Cara Graziella Proto – Carlo Forin 47- Daniela Giuffrida – Paolo Borrometi 50 - Serena Marotta Ciao Ibtisam!

…un grazie particolare a Elena Ferrara per “Pippo Fava” in copertina Mauro Biani per l’autorizzazione ad utilizzare i suoi disegni

Direttore Graziella Proto – protograziella@gmail.com - Redazione tecnica: Vincenza Scuderi - Nadia Furnari – Simona Secci –Edizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Lillo Venezia

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Editoriale: Pensando alle lotte di Pippo Fava

Pensando alle lotte di Pippo Fava parlavano il dialetto in modo che i riflettori si calabrese? Tutto molto riaccendano su questa storia Io non ho risposte. bellissima. Su questo moderno Io pongo domande su ciò che lontano. Sì è vero, ci sono non funziona. O è sbagliato. O ancora iniziative pro in corso. presepe così amato e così non è stato ancora realizzato. Ci sono ancora molte persone tanto perseguitato. che tentano di tenere in vita O è disatteso. *** tutto questo… Ma le feste per Io non ho risposte, ho Qualche settimana addietro la maggior parte della gente inquietudini. sono stata ospite per un Mi inquieta parecchio pensare hanno già fatto il loro dovere, dibattito con i ragazzi a Riace, il piccolo del carcere minorile “E se credete ora borgo calabrese vuoto e Bicocca di Catania. Che tutto sia come prima senza vita. Ai tanti Esperienza Perché avete votato ancora migranti che lì avevano emozionante. Istruttiva. La sicurezza, la disciplina trovato rifugio e Man mano che passavo Convinti di allontanare serenità che oggi non si i vari controlli una La paura di cambiare sa dove siano né cosa tristezza incredibile mi Verremo ancora alle vostre porte facciano. Ai tanti assaliva. Mi metteva di E grideremo ancora più forte piccoli che hanno cattivo umore anche se Per quanto voi vi crediate assolti dovuto abbandonare la mi sforzavo di pensare Siete per sempre coinvolti” scuola multietnica. Mi positivo perché non inquieta moltissimo volevo dare una brutta Fabrizio De Andrè pensare il sindaco di impressione ai ragazzi Riace fuori dimora, ospiti riuniti per far dimenticare i dolori e far esiliato, al confino, come i ascoltarci. Finalmente vedere tutto scintillante. peggiori malavitosi. arriviamo all’interno del Patinato. Luccicante. E pensare che si chiedeva a teatro. Piccolo ma allegro. I buonisti hanno già trovato gran voce che Provenzano o Vivo. I ragazzi interni Riina morissero nel loro letto conforto nel presepe – anche arrivavano alla spicciolata. in questo ci sono tanti dentro la loro casa. Inizialmente timidi si extracomunitari – i non Certamente ho delle buonisti si sono già proiettati mettevano un poco isolati, poi inquietudini, ma c’è del sul nuovo messia – il ministro man mano che l’ambiente si perverso in tutto ciò. O della paura. Sulle sue capacità scaldava hanno cominciato a perlomeno è strano. che – pensano – li salverà dal migrare e sedersi assieme ai I riflettori, come era facile ragazzi coetanei arrivati da supporre, piano piano si sono male. Palermo e da Catania. Dopo spenti. Piano piano non se ne Riace non deve morire, ci un attimo non c’era alcuna siamo detti in mille modi… parlerà più. Riace? Il suo bene, sbracciamoci, facciamo barriera. Fra loro ridevano. Si sindaco? I migranti che scambiavano impressioni. A Casablanca 3


Editoriale: Pensando alle lotte di Pippo Fava vedeva. Brava la direttora. Bravi tutti gli altri operatori per questo lavoro straordinario. *** «Bisogna lottare per una società dentro la quale non ci siano miserabili, dentro la quale non ci siano poveri, dentro la quale non ci siano milioni di persone costrette ad emigrare perché la disperazione li caccia via dal paese guardarli non c’erano evidenti differenze fra loro. Un gruppo in cui vivono. Bisogna ogni di ragazzi come tanti altri. Ero giorno lottare per migliorare la nostra società». sorprendentemente stupita. Uno stupore che via via «… Non lo posso precisare aumentava mentre scoprivo il perché non ho le numero di operatori, prove. Ma deputati e psicologi, educatori, che vi uomini politici che lavorano. Tutti giovani. Tutti diventarono ministri fieri e contenti del loro lavoro. e furono eletti con i La maggior parte donne. voti della mafia e Almeno fra i presenti quel alla mafia dovettero giorno. Donna la direttora dar conto e debbono dell’istituto. Donne le guardie. dare conto, tuttora, Un lavoro che è anche un nella storia siciliana grande investimento emotivo. ce ne sono decine di E una parte dei risultati del casi di esemplari». loro impegno era sotto i miei Questo discorso così occhi. I ragazzi hanno seguito attuale fu fatto da in silenzio e con molta Giuseppe Fava quasi attenzione fino alla fine ciò 35 anni fa agli che gli raccontavamo di studenti di una Giuseppe Fava e don Pino scuola di Palazzolo Puglisi. Più di altre realtà. Acreide. Era una Erano stati preparati, ci dirà lezione sulla mafia. qualcuno alla fine. E si Un esempio della Casablanca 4

sua personalità tenace, passionale e appassionata. Un uomo, una forza della natura che ci manca.


Verso il 5 gennaio

Gli invulnerabili Editoriale I SICILIANI, dicembre 1983 “Il potere si è isolato da tutto, si è collocato in una dimensione nella quale tutto quello che accade fuori, nella nazione reale, non lo tocca” Anteprima de “Ultima violenza”, nella sala ci sono tutti i rappresentanti del potere nel territorio, i buoni e i cattivi, i giusti e gli iniqui, i galantuomini e i mascalzoni. Sulla scena per tre ore sfilano i personaggi equivalenti. Che abbiano autentico vigore drammatico e bellezza teatrale, non ha qui importanza. Sfilano! Al termine delle tre ore Turi Ferro, splendido avvocato Bellocampo, ha un ultimo guizzo drammatico, sulle sue parole spara la musica del Dies Irae, il pavimento del teatro sembra incendiarsi di bagliori, si alza lentamente e su questo declivio rotola il cadavere insanguinato del terrorista Sanfelice, ucciso pochi attimi avanti, prima che potesse rivelare il nome dei grandi assassini mafiosi. E’ come se il teatro, compiuta la sua rappresentazione, gettasse quel corpo incontro al pubblico, quasi per restuirglielo; infatti quel pavimento è di metallo, una specie di immenso specchio nel quale gli spettatori della sala vedono se stessi plaudenti.

Ovazione finale, gli attori vengono avanti per ringraziare; viene avanti il cavaliere del lavoro Lamante, che ha saccheggiato la società e alla cui ricchezza sono state sacrificate centinaia di vite umane, clap-clap, applausi vigorosi, applaude contegnoso anche l’autentico cavaliere del lavoro che sta in sala. Ecco l’imprenditore Marullo, inteso Palummo ‘e notte, imprenditore che monopolizza tutti gli appalti della regione, e per tale monopolio ha fatto eliminare i concorrenti a raffiche di mitra, clap-clap, applausi anche dall’imprenditore d’assalto che sta in sala e guardando la sua immagine nello specchio sembra quasi divertito. Bravo, bene! Cla-clap-clap, viene avanti il senatore Calaciura, tre volte parlamentare, ex ministro, sfiorato da una candidatura al quirinale, sommo manipolatore di alleanze, complicità, miliardi di pubblico denaro e qualche assassinio, e in sala applaudono tutti, galantuomini e ribaldi. Complimenti, bis! Eccolo: Casablanca 5

quell’attore che si presenta con un inchino è il Procuratore Generale della corte di giustizia, gli hanno dato una legge e lui l’ha applicata, senza mai pensare per un attimo che potesse costituire un’infamia. Uragano di applausi. Bravissimo! I magistrati presenti applaudono. Il clima morale della società è questo. Il potere si è isolato da tutto, si è collocato in una dimensione nella quale tutto quello che accade fuori, nella nazione reale, non lo tocca più e nemmeno lo offende, né accuse, né denunce, dolori, disperazioni, rivolte. Egli sta là, giornali, spettacoli, cinema, requisitorie passano senza far male: politici, cavalieri, imprenditori, giudici applaudono. I giusti e gli iniqui. Tutto sommato questi ultimi sono probabilmente convinti d’essere oramai invulnerabili.


La classe operaia va in paradiso

“Ri” come Rivoluzione! Graziella Proto A Trezzano sul Naviglio una volta c’era una fabbrica metalmeccanica con trecento operai, la Maflow, che produceva componenti per grosse aziende automobilistiche. Nel 2010 fece bancarotta e chiuse. Gli operai rimasero senza lavoro. Un gruppo di lavoratrici e di lavoratori della ex Maflow decidono di occupare e riconvertire lo stabilimento verso il riciclo e il riuso di apparecchiature elettriche ed elettroniche. Nasce l’associazione Occupy Maflow, e la cooperativa RiMaflow. Piccoli lavori in autogestione ma reddito per tutti. Minimo ma garantito. A loro si uniranno altre realtà, le più diverse. Ne viene fuori una cittadella. Coloro che la animano hanno solidarietà, competenze, stima, riconoscimenti. Una forza! Ciò non piace al sistema, alle banche, al potere. Non piace al mondo “regolare” che in nome del protocollo preferirebbe le persone in mezzo a una strada. La proprietà – l’UniCredit – che pretenderebbe la restituzione dell’area dove sorgono i capannoni e le attrezzature riconvertite, sconfitta! Per il momento vince la classe operaia… ma esiste ancora? Tutto alla luce del sole o sarebbe meglio dire sotto la luce dei riflettori di tutte le tv nazionali e straniere che negli anni, quotidianamente, si sono recate sul posto per osservare. Capire. Saperne di più. Oppure innanzi agli studiosi di tutto il mondo arrivati a Trezzano sul Naviglio, periferia industriale di Milano per studiare la fabbrica recuperata. Il modello? Le fabbriche recuperate argentine, in autogestione, senza padrone. O i

cartoneros di Buenos Aires, che attraverso il lavoro informale del recupero del cartone ben presto sono diventati uno strumento importante nel settore raccolta rifiuti della città, creando centinaia di posti di lavoro regolari. Qui a Trezzano sul Naviglio un gruppo di lavoratrici e lavoratori della ex Maflow, fabbrica metalmeccanica con trecento operai – che produceva componenti per auto e riforniva le più importanti case Casablanca 6

automobilistiche quali la Fiat e la BMW – decidono di riconvertire lo stabilimento verso il riciclo e il riuso di apparecchiature elettriche ed elettroniche. I padroni nel 2010 l’avevano chiuso. Gli operai lasciati senza lavoro. Tanti troveranno altre occupazioni. Altri no. Sono questi ultimi – donne e uomini – che decideranno di occupare. Nasce l’associazione Occupy Maflow, e la cooperativa RiMaflow. “Ri” come Rinascita. Reddito.


La classe operaia va in paradiso Riciclo. Riuso. Rivoluzione! Si legge sulla loro pagina: «L’Associazione Occupy Maflow, che prende il nome dai grandi movimenti di questi anni contro le politiche economiche e sociali liberiste dominanti (da Occupy Wall Street agli Indignados, dalle primavere arabe a Gezy Park, alle lotte di lavoratori e studenti contro il ricatto del debito e le dittature dei mercati), coordina tutte le attività che si svolgono all’interno di RiMaflow». Decine e decine di attività che nel tempo hanno dato vita a una vera e propria cittadella dell’altra economia. L’associazione, che si ispira alle società di mutuo soccorso, si relaziona ad altre esperienze internazionali simili: fabricas recuperadas argentine, Association pour l’autogestion francese, biblioteca mediatica workerscontrol.net e ad altre realtà. Aderisce alla Rete Communia e al Forum per una nuova finanza pubblica e sociale Successivamente l’associazione e la cooperativa fonderanno la Casa del Muto Soccorso «che integra tutte le attività sociali e solidali. I soci della Casa attraverso il versamento di una quota annuale possono operare all’interno della cittadella dell’altra economia e accedono a differenti servizi “Fuorimercato” in base al regolamento interno». Certamente dentro la cittadella non tutto era regolare. Delle decine e decine di attività fra i capannoni della fabbrica occupata non tutto aveva autorizzazioni. Ma la voglia di fare in regola, è sempre stata tantissima. Purtroppo i tempi tecnici non camminano di pari passo con le necessità. La necessità primaria di assicurare un reddito minimo a chi non lo aveva più. Gli ultimi, quelli che resistono perché alternative non ne hanno.

A dimostrare che la volontà di mettersi in regola c’è sempre stata, ecco le misure antincendio, la rimozione dell’amianto dai tetti, il controllo delle falde acquifere. E ancora, la regolarità dei pagamenti, il versamento dei contributi… Una conformità alle regole sempre cercata, anelata, inseguita. Soprattutto dal presidente della cooperativa RiMaflow Massimo Lettieri. UN POSTO E UN PASTO PER TUTTI Per quell’impegno preso Massimo non ci dormiva la notte. Quante serate, quante ore di lavoro, impegno, stress, a cercare di trovare soluzioni che potessero andare bene o che potessero essere soddisfacenti. Per i soci della cooperativa e per i tanti che attorno vi gravitavano, per esempio i migranti che orbitano attorno ai capannoni vuoti dell’ex fabbrica, che sanno che lì troveranno un posto e un pasto sicuro. Una situazione difficile da gestire. Da vivere. Da progettare. La proprietà – l’UniCredit – latitante, le istituzioni assenti, l’amministrazione comunale sempre pronta a sottolineare. Ma loro, i protagonisti non hanno avuto mai titubanze o dubbi. Solidarietà fra loro e con tutti gli altri che ne necessitano e porte aperte per gli ultimi. Quante persone si sono aggregate negli anni. A garantire il salario minimo c’era lui, Massimo, il presidente. Il compagno. Parola e concetto in disuso. Parola antica come lui nei valori. Poco attuale. «L’economia dei padroni ha fallito – ha spesso detto Massimo Lettieri al suo amico e compagno Gigi Malabarba – dobbiamo ricostruirne un’altra su valori diversi, legati alla solidarietà e al bene del pianeta». Casablanca 7

Massimo Lettieri, un compagno che Gigi Malabarba loda e onora, è un operaio che «da Salerno a 23 anni è venuto a Milano per cercare lavoro e a 40 si è ritrovato difronte a una crisi finanziaria che ha portato alla chiusura della fabbrica», racconta lo stesso. Un delegato sindacale che già dal 2009 si è incaponito su questa vertenza perché voleva che i lavoratori continuassero a lavorare e percepire un reddito. Si definisce una persona normale – nulla di straordinario – forse un poco testardo, ma normale che abbia tante aspettative dalla vita e tanti sogni collettivi. 46 anni, moglie, due bambini. Da cinque mesi agli arresti domiciliari. Perché? Cosa è successo? «È successo che con questa mia voglia di cercare posti di lavoro per me i miei soci, ex lavoratori Maflow e tanti altri esclusi dal mondo produttivo, abbiamo costruito questo progetto dove c’è di tutto. Rimessaggio, artigiani, artisti, maestranze… Tantissime persone che non riescono costruirsi un lavoro fuori da qui nella sede della ex Maflow. Un ragionamento in autogestione con prospettiva di costruire nuovi posti di lavoro. Da subito abbiamo aperto al territorio… Un paio di anni fa un inventore di macchinari per triturare rifiuti e recuperare materie prime che ha fatto un prototipo di recupero per carta da parati ha chiesto ospitalità in RiMaflow. Ha spostato in uno dei capannoni la sua attività e abbiamo sperimentato per cinque sei mesi. Il progetto non era nostro, viene dal territorio».


La classe operaia va in paradiso Il progetto sembrerebbe essere ambizioso. Ospitarlo alla RiMaflow potrebbe significare conoscere da vicino i processi per recuperare i macchinari dismessi e riadattati per arrivare alle materie prime. Non ci si pone tante domande sull’artigiano in questione che pare essere sì un genio con ciò che inventa e crea, ma persona poco attenta dal punto

Come dire che questo arresto sarebbe una specie di concomitanza? E gli estremi giudiziari reali? «Ci sono indagini in corso…. È evidente che una forzatura c’è stata perché questa area di proprietà dell’UniCredit deve essere liberata. Il nostro progetto – cioè RiMaflow e tutto il resto – ovviamente è una innovazione

di vista dei pagamenti per i servizi nella cittadella e che ha trascorsi difficili con le amministrazioni. Ma conoscerlo e frequentarlo potrebbe essere una occasione per l’obiettivo della RiMaflow, che progetta nel recupero e riciclo. Anche la Caritas, da sempre vicina alla RiMaflow, mette a disposizione le sue competenze.

sociale, le altre fabbriche continuano a chiudere e invece i lavoratori attorno alla RiMaflow riescono a produrre reddito. Una sperimentazione reale di eccezionale portata. La crisi la si può superare solo con l’autodeterminazione del lavoratore. Ciò non piace al sistema, alle banche, al comune... Non piace al mondo regolare che preferisce che le persone stiano in mezzo a una strada anziché all’interno di un progetto creato da loro e che assicura un reddito minimo. È ciò che succede con gli immigrati… in nome della legalità o con il decreto sicurezza si buttano in mezzo alla strada migliaia di immigrati che così diventano irregolari. Il decreto esclude i poveri. Lo stesso con gli operai italiani, siccome non possono autorganizzarsi, non possono costruirsi un lavoro autonomo perché non hanno i

PORTATORE SANO DI IDEALI «Per questa sperimentazione siamo stati indagati e io agli arresti domiciliari in quanto rappresentante della cooperativa. Ci interessava molto lavorare sul riuso e sul riciclo. Però su questo settore le normative sono molto stringenti e hanno portato all’indagine. In effetti io non centro, il progetto non l’ho fatto io. Io faccio il saldatore. Sono nel sindacato… Faccio un poco di amministrazione».

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soldi, verranno esclusi. Non i bianchi o i neri. Si esclude il povero. Si escludono alcune esperienze». RiMaflow è una esperienza positiva, riconosciuta da tantissimi, la Caritas, i partiti di sinistra, Libera, la comunità in genere. Ad oggi molte realtà si sono aggregate alla fabbrica occupata e fanno progetti. La realtà RiMaflow la si può attaccare solo su alcuni atti formali di legalità sui rifiuti, le autorizzazioni… mille altre cose legate a tempistiche che dipendono da altri soggetti, mai su questioni di giustizia sociale, di equità, solidarietà, voglia di mettersi in regola. In quanto responsabile, da ben cinque mesi il presidente della cooperativa si trova agli arresti domiciliari, non gli chiediamo come si sente, possiamo cercare di supporre cosa pensi, se oltre all’amarezza abbia qualche rimpianto e alla luce di ciò che gli è capitato avrebbe cambiato qualcosa? «La mancanza di libertà, di stimoli dall’esterno, pesa. Però non ho rimpianti. Penso di aver fatto tutto ciò che era possibile fare. Ho fatto le cose che andavano fatte. Questa cosa me la riconoscono innanzitutto i miei soci, i miei compagni e moltissimi del mondo esterno. Numerose persone vengono a trovarmi per dimostrami la loro solidarietà, tanti aiutano per le spese legali non solo mie ma di tutti. La RiMaflow è ancora viva nonostante i tentativi di smantellamento. La UniCredit ha fatto lo sfratto esecutivo e il 28 novembre scorso è stato visto che era proprio esecutivo ma tante realtà hanno impedito lo sgombero. Una grossa manifestazione lo ha contrastato. È stato respinto».


La classe operaia va in paradiso LA RESISTENZA «Oltre i partecipanti alla manifestazione tanti altri soggetti, la Caritas, un gruppo di imprenditori, ed altri ci hanno aiutato nella trattativa per bloccare lo sfratto. Non finisce qua, quella che a maggio ripartirà sarà una RiMaflow 2.0 in altro posto che stiamo cercando. No, non ho rimpianti perché ho costruito un concetto che cammina e va avanti. Ci sono solo difficoltà momentanee». L’accordo con la UniCredit prevede che il 29 aprile prossimo bisognerà liberare la vecchia area Maflow a Trezzano sul Naviglio, ma c’è già un nuovo gruppo che si sta interessando della realtà autogestita, e quindi i disoccupati e le persone che dentro i capannoni della RiMaflow si erano costruiti un reddito oggi potranno spostarsi in altro luogo con maggiori garanzie. Una vittoria. Certo l’abbandono dell’intera area ex fabbrica, oggi comunità autogestita, sarà doloroso per valori affettivi e valore simbolico. Massimo ci lavora dal ’95, quando da Salerno è arrivato a Milano in cerca di lavoro. Ha iniziato a lavorare in quel posto e non lo ha voluto mai lasciare. Lottando sempre per tutti. Solidale con tutti. Leale sempre e comunque. Senza badare mai ai propri interessi personali. Non lo lasciò nel 2010 quando gli proposero di restare al lavoro tra i pochi sopravvissuti alla falcidie operata dal nuovo imprenditore polacco, approfittando del proprio ruolo sindacale. Rifiutò in nome e per conto di una lotta collettiva. Quando il sindacato gli offrì l’opportunità di uno stipendio pieno per fare il funzionario durante il periodo di sospensione dal lavoro. Preferì interromperla, questa attività che pure gli piace

moltissimo, rifiutando questo “privilegio”. Scelse di lavorare al progetto di autogestione di RiMaflow. Quanto tempo dedicato a quella lotta, quanti soldi messi di tasca propria… quanto lavoro per bonificarla. Ma… a breve lo sgombero. «… tutto sommato quell’area ci ha creato molte difficoltà, c’è l’amianto sui tetti, è molto grande e difficile da gestire. Avrebbe bisogno di manutenzione e non abbiamo i soldi. Meglio cambiare aria per evitare questioni con l’UniCredit». Da tanto tempo i tuttologi e i politici liberisti si affannano a spiegarci che la classe operaia non esiste più… chissà cosa pensano di fronte a questa storia di resistenza operaia. Di sicuro sappiamo cosa pensa Massimo, partigiano resiliente che di questa esperienza collettiva ne è l’ispiratore, coordinatore, amministratore e responsabile. Non ho scritto “capo”. So che si arrabbierebbe. «La maggior parte della persone sono inserite in un sistema produttivo standardizzato, parcellizzato. Gli operai ci sono, magari fanno un lavoro meno faticoso. La classe operai esiste, Casablanca 9

ma il problema è che è troppo parcellizzata. È divisa nel suo interno e non si riesce più a organizzarci come nel passato, negli anni ’60, ’70, ’80, quando c’erano grossi concentramenti industriali tipo Fiat, Alfa Romeo, quando bastava dire sciopero e tutti ci si ritrovava in piazza. Il dissenso e lo scontento era tutto lì, schierato e visibile. La massa della gente era unica. Unita. Oggi siamo tutti divisi. Non ci si vede più. In fabbrica c’è l’operaio che lavora per la fabbrica, quello che lavora per la cooperativa che svolge alcune mansioni per conto della fabbrica e dentro la fabbrica, c’è chi fa la manutenzione… Hanno diviso i lavoratori distribuendoli in varie società. I contratti nazionali sono tutti diversi. Quindi quando c’è il rinnovo dei contratti non ci sono momenti di incontro come in passato. Io penso che oggi tutti abbiamo lo spauracchio dei grossi poteri economici. Negli anni ’70se per caso aumentava la benzina o l’equo canone il sindacato dichiarava lo sciopero e tutti si correva in piazza a protestare oggi ci tolgono tutto e la gente sta zitta». Non abbiamo più diritti e non succede nulla.


Memoria e immaginario operaio

Noi abbiamo vinto Dario Firenze e Piero Maestri Uno sfratto annunciato, voluto dall’UniCredit. Quindi lo sgombero della Ri-Maflow. Ma le lavoratrici e i lavoratori di Ri-Maflow hanno scelto di vivere e di lottare, recuperando la propria fabbrica in autogestione e difendendo il proprio lavoro senza padroni e la propria vita riposta in esso fino ad oggi. Una richiesta di solidarietà a presidiare in tante e tanti innanzi ai cancelli della fabbrica occupata. Vedere a Trezzano sul Naviglio, in un giorno lavorativo — il 28 novembre u.s. — compagne e compagni, sostenitori e simpatizzanti, sindacalisti, attori, intellettuali e "cani sciolti", è stata una sferzata di energia per tutte e tutti. Non è stata l’appartenenza a farli andare, ma la consapevolezza del dover esserci. Quello raggiunto non è un grande accordo? Ma è un accordo. Consentirà di continuare in condizioni migliori. Il match si deve ancora chiudere e richiede un impegno forte per non perdere la concentrazione e la forza del collettivo. Raramente il cielo di Milano e della sua nebbiosa area metropolitana è aperto e stellato come questa notte. Ma forse il cambiamento climatico ha portato anche questo. Comunque alzarsi alle sei della mattina vedendo questo cielo, aiuta a pensare ad una giornata bella e importante, un augurio da vedere e ascoltare. A quest'ora, in questa giornata, il bar della fabbrica recuperata RiMaflow è già aperto. Beppe sta già preparando le colazioni, malgrado sia andato a letto meno di tre ore prima: «tanto non riuscivo a dormire». Nemmeno Pippo è riuscito a dormire, malgrado fosse tornato a casa sua, «meglio stare

qui che rigirarsi nel letto». E così sta ravvivando la brace dentro il cassone di ferro all'entrata della fabbrica, residuo del passato industriale di questi capannoni.

Quel falò servirà a scaldarsi durante il presidio di oggi. Come Casablanca 10

in una foto in bianco e nero di tante fabbriche occupate, presidiate, difese nei primi anni della crisi degli anni '70, in Italia e nel mondo. Memoria e immaginario operaio. Nel giro di un paio d'ore lo spazio all'ingresso della fabbrica, proprio dopo i cancelli, si riempie di tante persone. Centinaia di persone, alle otto del mattino di un giorno feriale, a Trezzano sul Naviglio, abbastanza distante dalla metropoli milanese. Giovani, non giovanissime/i; meno giovani ancora al lavoro; anziane/i militanti e attiviste/i di tante lotte («e comunque io sono vecchio, non anziano» dice Fabio, 81 anni di lunga militanza, politica e sindacale). E tante provenienze


Memoria e immaginario operaio sociali e politiche, della larga sinistra, del volontariato socialecattolico, di sindacati di base e confederali (dalla Cisl all'Usi), di spazi sociali autogestiti, Non Una di Meno con i panuelos rosa che spuntano qua e là. E, come ha sottolineato una compagna, «ricordatevi anche di noi tante/i cani sciolti». E forse sono la maggioranza di quelle/i presenti nel cortile della fabbrica RiMaflow. A spingere tutte queste persone a rispondere alla chiamata delle lavoratrici e dei lavoratori della RiMaflow per essere in tante e tanti a presidiare i cancelli della fabbrica per evitare uno sfratto annunciato, sembra una consapevolezza individuale, prima che un'appartenenza politica e sociale definita. La consapevolezza di dover scegliere da che parte stare, di comprendere perfettamente l'esperienza molto particolare (non unica, ma certo esemplare) di queste lavoratrici e di questi lavoratori. Comprenderla e condividerla, perché hanno visto la fabbrica, hanno conosciuto chi ci lavora e, magari, hanno conosciuto Massimo, ancora agli arresti domiciliari, in una delle tante lotte che lui ha seguito e condiviso. LE NOSTRE VITE VALGONO PIÙ DEI LORO PROFITTI E perché vivendo in un paese senza sinistra (come titola il primo numero di Jacobin Italia), sono tutte e tutti qui a difendere un'esperienza che sentono vicina, che parte da bisogni che tutte e tutti vivono, perché vorrebbero per una volta vedere che si può evitare di essere sconfitti, cancellati, con l’amaro in bocca e poco più. Provare una volta a essere davvero convinti che «la lotta paga». Perché siamo talmente abituati a ripetercelo e perdere, che ormai è una litania poco sentita, un

artificio retorico per mantenere la propria routine di iniziative chiuse e poco comunicative. Ri-Maflow rappresenta per molte/i in quel cortile una soggettività che possono sentire vicino, perché non è una soggettività immediatamente incasellabile, dentro un settore sindacale o partitico, dentro uno spazio di movimento specifico o un asfittico recinto di volontarismo senza prospettive. È un'esperienza aperta che parla a tante e tanti e non per questo rifugge la battaglia politica, ma la fa dal basso a sinistra, nella mobilitazione e nella costruzione di un'alternativa praticabile. Un’alternativa di economia solidale, sociale e popolare reale e non simbolica, che costruisca per davvero un lavoro senza padroni, capace di resistere alle logiche del mercato e opporvisi. Un'alternativa politica e sociale ampi per costruire dal basso gli strumenti per una nuova società, senza sfruttamento e oppressione. Si sente — parlando con chi è presente, ascoltando i commenti, le battute, anche percependone le ansie — che ritengono tutte e tutti che sarebbe un'ingiustizia intollerabile eliminare un'esperienza così. Svetta sulle teste delle persone raccolte all’ingresso della fabbrica uno striscione, scritta rossa su telo bianco: «Le nostre vite valgono più dei loro profitti». Anche questo è uno slogan antico, circolato in lungo e in largo, parole d’ordine che potrebbero suonare astratte e di principio, dopo anni recenti in cui chi fa profitto si nutre senza ostacoli rilevanti e in modo sempre più complessivo delle nostre vite. Ma oggi, in una maniera speciale, smette di essere semplicemente uno slogan e si incarna in corpi vivi, stretti e accalcati in questa fabbrica recuperata, corpi che attraverso la loro presenza e la loro volontà praticano quelle parole. Casablanca 11

Sono le nostre vite, diverse, sfruttate in vario modo, oppresse e violate, a opporsi a chi oggi vuole cancellare Ri-Maflow per fare profitto. E allora quello striscione e le immagini che ritraggono questa scena in carne ed ossa arrivano dritte allo stomaco, riempiono di emozione, danno ossigeno. E la lotta paga. Ma che cosa significa? Quale lotta? E in che senso "paga"? Non entriamo qui nel merito dell'accordo strappato da lavoratrici e lavoratori Ri-Maflow alla grande e potente UniCredit. Naturalmente il merito è fondamentale in ogni accordo e in questo ancora di più (stiamo parlando della prospettiva di lavoro, reddito, socialità anche, di decine di donne e di uomini e delle loro famiglie). L’accordo di oggi è un pareggio fuori casa all’ultimo secondo, in attesa della partita di ritorno; un tiro da tre punti sullo scadere del tempo che raggiunge la squadra avversaria, lo scatto negli ultimi metri della corsa raggiungendo un avversario che sembrava pronto a tagliare il traguardo: ottimo risultato, ma il match si deve ancora chiudere e richiede un impegno forte per non perdere concentrazione e la forza del collettivo. UNA SFERZATA DI ENERGIA Qualcuno potrebbe pensare che non è poi una gran vittoria concordare un'uscita soft, che si deve resistere fino all'ultimo uomo e all’ultima donna. Che non si può concedere nulla ai padroni. Non vogliamo farci una gran teoria sopra. Un accordo implica un "compromesso" e se rende possibile perseguire in migliori condizioni i propri obiettivi è certamente un buon accordo. E questo lo è.


Memoria e immaginario operaio Ma ci interessa riflettere collettivamente sul senso del concetto «la lotta paga». Si poteva raggiungere lo stesso accordo senza mobilitazione? Naturalmente non abbiamo prove dialettiche e scientifiche per confutare questa ipotesi. Ma crediamo che in questo caso non sarebbe stato possibile. E non perché quelle più di 300 persone

davanti ai cancelli avrebbero fermato davvero uno sgombero violento (niente è certo, ma difficilmente avrebbero potuto resistere in maniera permanente). E nemmeno perché il numero di per sé abbia fatto la differenza. No, la forza della mobilitazione sta nella grande solidarietà che ogni giorno viene dimostrata dalle persone più diverse; nelle tante iniziative di raccolta fondi in giro per l'Italia, nelle migliaia di firme e nel sostegno economi; in una campagna che ha raggiunto il suo apice in una giornata di

mobilitazione di rara portata, rendendo scomodo e poco conveniente per l'Unicredit un intervento manu militari. La rilevanza di questa mobilitazione sta soprattutto nell'aver raccolto soggettività così diverse, così spesso in conflitto tra loro,in questo caso un assemblaggio virtuoso e non un insieme senza obiettivi.

Davvero sono state le ragioni e le azioni concrete di questa piccola ma combattiva comunità di lavoratrici e lavoratori, la loro intelligenza e di chi si è assunto l'impegno di garantire continuità e apertura, di chi mette a disposizione quotidianamente tempo e risorse per questa esperienza. La lotta ha pagato perché è sembrato a tante/i, anche tra chi ha avversato il progetto Ri-Maflow, che non fosse possibile pensare ad Casablanca 12

una rimozione di questa esperienza. E la lotta ha pagato perché in queste settimane è stato chiaro che ci sarebbe stato davanti ai cancelli uno spaccato sociale e politico forte, anche sul piano culturale e narrativo. Non vogliamo sottovalutare la presenza di tante realtà sindacali,

politiche, associative, di movimento, se scegliamo di concentrare un po' di più l'attenzione sulla rete Fuorimercato Autogestione in movimento, perché mai come in questa occasione ha mostrato cosa significhi ogni termine del suo nome: una rete nella quale ogni nodo sa di dover difendere tutti gli altri, sa di dover mostrare all'esterno la forza del suo tessuto e vuole mostarla ancora di più al resto della rete, perché questa è la solidarietà, immediata, di chi è parte dello stesso percorso;


Memoria e immaginario operaio "Fuorimercato" perché sono le esperienze di costruzione di un'economia alternativa, ancora deboli e spesso embrionali, che messe insieme possono essere efficaci, avere un effetto di moltiplicazione e di diffusione; "Autogestione" perché non c'è mai un "ordine di scuderia" a far partire solidarietà e impegno comune, ma l'assunzione di una responsabilità collettiva, di un operare insieme, di un sostegno reciproco; e "in movimento", perché solo muovendosi, spostando in avanti il proprio corpo collettivo, nel camminare insieme sta la forza della rete. LA LOTTA PAGA!

di Diritti a sud da Nardò, di Solidaria e Bread & Roses da Bari, di Communia da Roma, della Fattoria senza padroni di Mondeggi, di Sobilla da Verona, della Casa del Popolo Venti Pietre da Bologna, è stata una sferzata di energia per tutte e tutti. E ha reso evidente cosa può essere questa rete. In questi mesi abbiamo fatto risuonare in diverse iniziative, articoli, locandine, le parole «Difendere il mutualismo, difendersi con il mutualismo». Anche queste parole con questa giornata si sono fatte realtà e non sono rimasti enunciati di principio sparsi al vento.

Il mutualismo, su cui questa rete costruisce pratiche e pensiero su tanti e diversi piani (economico, sociale, culturale, sindacale, politico), si è espresso anche in questa giornata, nello stringersi per difendere un’esperienza e un gruppo di lavoratrici e lavoratori in quel legame reciproco, esprimendo le sue potenzialità conflittuali respingendo con la sua forza un attacco non altrimenti superabile. Vedere a Trezzano sul Naviglio, in un giorno lavorativo, compagne e compagni di Contadinazioni da Palermo (Campobello di Mazara),

Il “Primo incontro internazionale Politico Artistico Sportivo e Culturale delle Donne che Lottano”, svoltosi in Chiapas l’anno scorso e convocato dalle donne zapatista, rilanciava queste parole: «Acordamos vivir, y como para nosotras vivir es luchar, pues acordamos luchar» (trad.:: «Abbiamo deciso di vivere, e siccome per noi vivere è lottare, abbiamo dunque deciso di lottare»). Anche le lavoratrici e i lavoratori di Ri-Maflow hanno scelto di vivere e di lottare, recuperando la

propria fabbrica in autogestione e difendendo il proprio lavoro senza padroni e la propria vita in esso fino ad oggi. Qui si trova la vittoria delle nostre vite contro i loro profitti, nella scelta di vivere in lotta contro chi ci vuole rubare la vita, di difenderla da chi cerca di distruggerla. Per questo la giornata di ieri risuona forte per tutti e tutte quelli/e che ci sono stati/e, e per quelli/e che l’hanno seguita da lontano: perché c’è questa scelta, vincente, di vivere e lottare che sentiamo profondamente tutti e tutte. Sì, la lotta paga, non solo perché fa ottenere buoni risultati, fa avanzare i propri obiettivi e difende le proprie esperienze, ma soprattutto perché rafforza il nostro ri-conoscerci, la nostra responsabilizzazione collettiva, la nostra pratica di relazioni. E questo anche fuori della rete. Il tema di vincere una battaglia non è cosa di poco conto di questi tempi e tenendo presente che nel parlare, mentre camminavamo in corteo per Trezzano per festeggiare il rinvio dello sfratto, immersi nel sole e circondati dalle carcasse svuotate e abbandonate del tessuto industriale fino a pochi anni fa attivo, ci si diceva, con allegria ed emozione sentita, dalle giovani compagne a chi milita da decenni: «È la prima vittoria della mia vita». Leggere in centinaia di post sui social che «Ri-Maflow ha vinto», «Noi abbiamo vinto» non da l'idea di una pericolosa illusione collettiva, ma di una energia che si rinnova e che permette di pronunciare quelle parole che altrove, dallo Stato Spagnolo al continente latino americano, risuonano potentemente da anni: sí, se puede.

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Dannosa, illegittima, incostituzionale

Sicurezza

Insicura Natya Migliori Il 3 dicembre il c.d. "decreto sicurezza" è diventato legge (d.l. n.113/2018, conv. in l. n. 132/2018) con 336 voti favorevoli alla Camera, 249 contrari, 12 assenti, nessun astenuto. Per dare più sicurezza alle città italiane — ha dichiarato il vicepremier Salvini, il promotore — e stroncare il business dell’immigrazione clandestina. Clandestinità, un'aberrazione giuridica italiana. Quale sarebbe il reato dei migranti? Fuggire dalla morte? Un'anomalia che con il d.l. "sicurezza" si rischia di incentivare, raddoppiando anche i tempi di permanenza nei nuovi centri preposti (i Centri di permanenza per il rimpatrio). Scomparsa l’integrazione. Non una parola è spesa sulle ecomafie o sul traffico illecito dei rifiuti e altri crimini. Una sicurezza insicura pur di cancellare il "modello Lucano". Ne parliamo con una avvocata esperta in diritti dei migranti. Il decreto – ci spiega l’avvocata Nadia Spallitta esperta in materia di diritti dei migranti — nasce da un'attenzione sovradimensionata ai flussi migratori, legata ad un allarme sociale che è stato creato ad arte rispetto al fenomeno. Basta guardare i dati per rendersi conto che la realtà è ben diversa. Nel 2016 sono arrivati 184.000 migranti, nel 2017 sono scesi a 117.000, nel 2018 ne sono arrivati 23.000, dei quali, 12.000 sono stati destinati ad altri Paesi europei. Dedicare addirittura la gran parte di un decreto “sicurezza” ad un fenomeno già così fortemente in calo mi pare un atto di incomprensibile sproporzione. L'anomalia del decreto, in altri termini, è che ci si occupa della

vicenda migranti come se fosse “il” problema italiano per eccellenza, mentre in Italia abbiamo problemi come la mafia, la 'ndrangheta, la camorra, il problema della corruzione all'interno della pubblica amministrazione, dell'evasione fiscale, del traffico illecito dei rifiuti (che solo in Sicilia rappresenta il 19% del PIL), delle ecomafie. Il messaggio che si sta lanciando alla collettività è grave. Si sta infatti lasciando intendere che uomini, donne e bambini, che scappano dai luoghi di origine per motivi legati a guerra e povertà, rappresentano per noi un problema di sicurezza. Casablanca 14

Cosa cambia rispetto alle precedenti normative in materia di flussi migratori? Penso si possa affermare che la cosa in assoluto più grave sia l'annullamento dei permessi per motivi umanitari. Laddove si parla di disciplina dei flussi migratori, specie legati a motivi umanitari, l'articolo 10 della Costituzione e le Convenzioni internazionali che l'Italia ha sottoscritto, prima fra tutte la Convenzione di Ginevra del 1951, ci impongono di tutelare i migranti dalle condizioni di rischio in cui vivono nei Paesi d'origine: rischio per la vita, rischio di persecuzioni, violazione


Dannosa, illegittima, incostituzionale dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Siamo dunque in palese violazione dell'articolo 10 della Costituzione, che ci impone di recepire ed attuare gli accordi internazionali, e delle Convenzioni europee che considerano illegittimo il ridimensionamento del diritto d'asilo, costituzionalmente garantito e protetto. Con alcuni avvocati di Palermo stiamo valutando se far partire una raccolta firme per indire un referendum abrogativo della legge, che reputiamo quasi in toto illegittima e anticostituzionale. La voce «motivi umanitari» viene cancellata e sostituita dall'espressione «casi speciali». Cosa vuol dire? E cosa comporta per i migranti? «Casi speciali» è un termine arbitrario che non fa capo a nessuna casistica, come invece avveniva in precedenza. Mentre all'interno dei permessi per motivi umanitari si poteva attingere ad una vasta gamma di casi accettati per convenzione internazionale (tutela della vita, della salute, delle libertà fondamentali), ora invece la possibilità di avere il permesso è relegata a casi molto ristretti e specifici indicati dal legislatore. Se prima l'atteggiamento, in accordo con la Costituzione e le Convenzioni europee, era di apertura, adesso la ratio è restrittiva e di chiusura. Fra i «casi speciali» sono annoverate le «gravi condizioni di salute», ma neanche in questo caso è chiaro come debbano essere certificate o valutate e quali motivi saranno considerati validi ai fini del rilascio del permesso. Da qualunque punto la si guardi, insomma, la norma lascia presupporre un'interpretazione

arbitraria e restrittiva. Ammesso infine che si rientri nella casistica speciale, il permesso di soggiorno, verrà rilasciato per soli sei mesi. Anche questo è un provvedimento gravissimo che lede la dignità delle persone. Se consideriamo i tempi per il rilascio, nel momento in cui il migrante l'avrà ottenuto, il permesso sarà già scaduto. Per non parlare dell'aggravio di attività e costi per gli uffici coinvolti. All'articolo 20 si parla anche di «calamità». Cosa dobbiamo intendere per «calamità»? Guerra e fame sono da considerarsi tali? E se non lo sono, in quale casistica speciale andrebbero ascritte? Anche in questo caso siamo di fronte ad una normativa del tutto indeterminata, suscettibile di interpretazioni arbitrarie. Stiamo comunque parlando di termini che vanno a sostituire e ad applicare una logica restrittiva ai permessi per motivi umanitari (sfruttamento nei rapporti di lavoro, alla violenza sulle donne, allo sfruttamento sessuale…). In definitiva, sopprimendo la voce «per motivi umanitari» si abbatte consistentemente anche il numero dei permessi possibili. Ma rimane il fatto che, anche eliminando la terminologia, siamo in aperta violazione della Convenzione di Ginevra A scomparire è anche il modello Sprar, definitivamente sostituito dal Centro di permanenza per il rimpatrio. Possiamo dire che finora gli Sprar avessero funzionato? È giusto sopprimerli? Il decreto riduce di fatto i fondi destinati agli Sprar — Sistema di Casablanca 15

Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati — che rappresentavano un tentativo di garantire l'integrazione attraverso corsi di lingua italiana e formazione professionale. Gli Sprar sono su base volontaria, nel senso che i Comuni devono mettere a disposizione il loro territorio per la realizzazione e la gestione di questi particolari centri di accoglienza in vista del rilascio del permesso di soggiorno. In Italia però solo poco più di mille Comuni, una parte molto ridotta dunque, ha dato la propria disponibilità, anche perché non esistono finanziamenti statali per questo tipo di servizi, ma sono previsti solo dei rimborsi per le onlus operanti al loro interno. La mancanza di disponibilità dei Comuni ha reso necessaria l'istituzione dei CAS, che avrebbero dovuto essere temporanei, ma che invece si sono trasformati in centri di lunga permanenza, a causa delle lungaggini legate al rilascio dei permessi. La formula è stata preferita dai Comuni, in quanto gestita attraverso fondi e appalti pubblici a cui partecipano soggetti che hanno finalità economiche. Non esistono, però, al loro interno attività volte all'integrazione dei migranti, cosa che invece avrebbe dovuto essere garantita dagli Sprar. Spesso questi centri sono esclusivamente adibiti a dormitorio, anche in condizioni di sovraffollamento e a discapito della stessa dignità dei migranti. L'apertura e l'accoglienza sono un fatto doveroso non solo dal punto di vista giuridico, ma anche per motivi di tutela dei diritti umani e del principio di solidarietà internazionale.


Dannosa, illegittima, incostituzionale di permanenza nei centri di permanenza, con ulteriore aggravio dei costi. Il "modello Riace" avrebbe potuto essere un'alternativa valida ai Centri di accoglienza e ai nuovi Centri di permanenza per il rimpatrio? Oggettivamente il "modello Lucano", se disciplinato, regolamentato ed applicato, sicuramente mira ad un'integrazione culturale e lavorativa effettiva e potrebbe rappresentare un'alternativa efficace. Tre milioni di euro sono stati stanziati per il rimpatrio, per il 2019 e il 2020, e mezzo milione per i rimanenti giorni del 2018. Ma è davvero più conveniente rimpatriare i migranti piuttosto che integrarli?

Basti pensare al problema gravissimo che riguarda i minori non accompagnati, che sono le vere vittime dei flussi migratori. Molti di loro arrivano in Italia e scompaiono, se ne perdono le tracce. Quindi è un dovere tutelarli e proteggerli. Altra cosa, però, è la disciplina e quindi la regolamentazione dell'accoglienza. Costringere i migranti a vivere detenuti nei vari centri di accoglienza o negli Sprar, con un euro o un euro e mezzo al giorno per sopravvivere, non è accettabile. Un sistema che funzioni dovrebbe in pochi mesi accertare le loro condizioni di salute e di

provenienza per introdurli subito in un percorso di inserimento che parta dalla lingua italiana e finisca in una reale integrazione nel tessuto socio-economico. Il decreto "sicurezza" invece che fa? Taglia i fondi per i corsi di italiano e raddoppia i tempi di permanenza nei nuovi centri preposti (i Centri di permanenza per il rimpatrio). Il che rasenta, umanamente ed economicamente, l'assurdo. La normativa in materia di accoglienza e migrazione andava, in sintesi, cambiata, riformata, ma è illogico che il cambiamento avvenga a discapito dell'integrazione, tagliando i corsi di italiano, e aumentando i tempi Casablanca 16

In Italia ci sono circa cinque milioni di stranieri regolari al momento (comunitari ed extracomunitari) che rappresentano l'8% circa della popolazione nazionale. Questa percentuale dimostra, innanzitutto, che la tanto paventata invasione semplicemente non c'è. Siamo infatti tra gli ultimi Paesi in Europa per incidenza della popolazione straniera su quella autoctona. Basti pensare che in Germania la popolazione straniera rappresenta l'11% e in altri stati dell'Unione è ancora maggiore. Ma ciò che è ancora più importante è che gli stranieri regolari che vivono in Italia, contribuiscono al PIL nazionale nella misura del 9%. Non solo. Attraverso le tasse pagate dagli stranieri si riescono a pagare 600.000 pensionati. Non dimentichiamo che in Italia abbiamo un altro pesante problema: l'invecchiamento della popolazione e la nascita zero. La


Dannosa, illegittima, incostituzionale popolazione è destinata ad invecchiare. Fra dieci anni avremo un'età media di 55 anni, contro i 45 di adesso, mentre gli stranieri hanno un'età media di 33 anni ed una prospettiva lavorativa, quindi contributiva, molto più lunga. Il fatto che da questo momento in poi non ci saranno più stranieri, determinerà quindi non solo un decremento del PIL, ma un dissesto a livello pensionistico. Il sistema pensionistico italiano si basa, come sappiamo, sui contributi di chi lavora. Senza i migranti, ci saranno molti più pensionati che lavoratori e sarà più difficile garantire la pensione a chi cesserà l'attività lavorativa.

permesso di soggiorno non costituisce titolo per l'iscrizione anagrafica». Che cosa comporta in materia di diritti e servizi per i migranti? Anche in questo caso ci si riferisce a soggetti che richiedono la protezione internazionale e ai rifugiati politici, entrambe categorie, come già detto, regolamentate e tutelate a livello europeo. Il fatto che la richiesta di protezione a livello internazionale non costituisca più motivo di iscrizione anagrafica è singolare e rende loro senza dubbio più

Non ultimo, se adesso abbiamo una popolazione di 59 milioni di abitanti, fra circa trent'anni siamo destinati, facendo a meno della presenza dei migranti, a scendere a 44 milioni, quasi tutti anziani. Con una serie di conseguenze socio-economiche devastanti. Basti pensare allo spopolamento delle scuole. Lo stato anagrafico italiano è insomma il vero allarme, anche se non ne parla nessuno. Quando parliamo di “quanto ci costa” mantenere i migranti in Italia, inoltre, non teniamo mai in considerazione che i soldi che lo Stato italiano spende per i migranti, ci vengono depennati dal debito pubblico con l'Unione Europea. Non spendiamo soldi “nostri”, ma andiamo ad utilizzare risorse che sono comunque dell'Unione Europea. Casomai, queste risorse andavano spese meglio. E il CARA di Mineo è un esempio lampante della cattiva amministrazione del denaro pubblico a nostra disposizione. L'articolo 13 del decreto "sicurezza" recita che «il

difficoltoso, se non impossibile, accedere persino agli stessi servizi sanitari. Troviamo delle formule sostitutive legate al domicilio, anziché all'iscrizione anagrafica e alla residenza, ma è innegabilmente leso il principio della dignità, intoccabile secondo le convenzioni internazionali. Il d.l. specifica in maniera reiterata che le singole amministrazioni devono provvedere «ai relativi adempimenti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili». E il dissesto dei Comuni? Se i Comuni non riuscissero, chi affronterà le spese? Questa è un'aperta violazione dei principi di solidarietà previsti dagli Casablanca 17

articoli 2 e 3 della Costituzione. Un'inversione di rotta. Quando in ballo ci sono i temi che riguardano i diritti umani e la tutela delle libertà fondamentali, non possono essere condizionati dalle risorse. È l'esatto contrario. In relazione al bisogno si trovano le risorse. Se le singole amministrazioni mandassero indietro i migranti per mancanza di risorse, contravverrebbero agli articoli 2 e 3 della Costituzione e, ancora una volta, agli accordi internazionali. Le amministrazioni dovranno, a mio avviso, creare dei capitoli di spesa ad hoc, da richiedere allo Stato, per poter affrontare in ogni modo possibile le problematiche legate all'accoglienza dei migranti. Al di là delle specifiche diciture all'interno del decreto, resta comunque in capo allo Stato l'obbligo di procurare le risorse necessarie. Con la carenza di fondi in cui versano, non so fino a che punto le singole amministrazioni comunali potrebbero d'altronde garantire tutela e dignità ai migranti. Quali saranno gli effetti a lungo termine del decreto "sicurezza"? Partiamo dal fatto che non ci può essere nessuna forma di sviluppo che non si basi sul cambiamento e sulla diversità. Solo una società che sia capace di accogliere e trarre vantaggio dalle diversità cresce. Un Paese che si chiude è destinato ad inaridirsi e impoverirsi. E la società che sta immaginando l'attuale Governo è, purtroppo, una società chiusa. Si sta, inoltre, sottovalutando che l'esodo non può essere bloccato e andrà anzi crescendo, specie alla luce dei pesanti cambiamenti climatici che, anche se non debitamente segnalati, rappresentano sempre più un


Dannosa, illegittima, incostituzionale problema serio che coinvolgerà per primo il suolo africano. Con ulteriori fughe ben più rilevanti di adesso, da luoghi in cui sarà impossibile vivere. E la soluzione non può certo essere la chiusura delle frontiere. Non ho trovato una sola clausola nel decreto che realmente affronti e risolva il problema dell'accoglienza e dell'integrazione. Le cose potranno in tal modo solo peggiorare. Dal momento che a queste persone non diamo il permesso di soggiorno, non le assistiamo, non le integriamo, non le curiamo, le abbandoniamo, possiamo solo aspettarci che

diventino facile bersaglio della manovalanza criminale. Nel tempo il decreto “sicurezza” potrà avere effetti solo opposti a quanto si prefiggeva. E, ancora più assurdo, non un provvedimento serio è preso in considerazione per arginare le infiltrazioni delle mafie italiane nel tessuto politico ed economico nazionale o la corruzione della classe politica, come non una parola è spesa sulle ecomafie o sul

traffico illecito dei rifiuti. Insomma siamo davanti ad una legge non solo inutile ma addirittura dannosa. Che fine faranno i mediatori culturali, italiani e non, e tutte le figure che si sono formate e specializzate negli anni negli Sprar e in generale nei settori dell'accoglienza e dell'integrazione? Ci sono diverse migliaia di professionisti in Italia che si sono specializzati nel sistema dell'accoglienza e sicuramente i tagli previsti dal d.l. colpiranno queste professionalità. A ciò si aggiunga la drastica riduzione di

migranti da assistere e sostenere, in seguito all'applicazione del decreto. In definitiva, ci sarà anche una riduzione del lavoro italiano, mentre le risorse e le professionalità già esistenti avrebbero potuto essere utilizzare per ridefinire il sistema di accoglienza creando, oltre che integrazione, anche occupazione per gli stessi italiani Il d.l. "sicurezza" risolverà il problema della clandestinità? Casablanca 18

In questo momento, su 5 milioni di stranieri presenti in Italia, si stima che circa 500.000 siano irregolari. Numero di certo destinato a crescere, dato il percorso di regolarizzazione sempre più farraginoso, se non impossibile. Invece di pensare ad una codifica di regolarizzazione degli irregolari, di sanatoria di situazioni particolari e più a rischio, di accoglienza, integrazione e valorizzazione, con i vantaggi socio-economici che per il tessuto italiano tutto ciò comporterebbe, pratichiamo una volontà politica di esclusione che non serve a nessuno e a niente. Non dimentichiamo poi che in

Italia esiste un'altra aberrazione giuridica che è il reato di clandestinità. Quale sarebbe il reato dei migranti? Fuggire dalla morte? Il reato di clandestinità è assolutamente incostituzionale, perché limita la libertà personale in assenza di un atto che possa considerarsi reato. Eppure con il d.l. "sicurezza" rischiamo di fomentare ed incentivare anche questo tipo di anomalie.


Una speranza per non finire nella tratta

Isabella Piccolo puntino nero italiano Maria Grazia Rando Nel Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS) della provincia di Cuneo è nata Isabella. Piccola bimba nata in Italia, da una mamma nigeriana approdata con un barcone a Lampedusa e dà lì giunta in Piemonte. Nessuno che conosca o abbia visto il padre, ma Noemi, la mamma, dice sia un ragazzo di Milano, il suo ragazzo. Un papà bianco. Bianchissimo. Italiano come Isabella - piccolo puntino nero. È un trillo del cellulare a distrarmi mentre sto guidando di rientro da una cena con amici. Un messaggio, non è certo un orario per ricevere messaggi! Mi fermo e controllo: una foto di Serena con in braccio un piccolo batuffolo rosa. «È nata!» — questo dice il testo — È nata Isabella. In quel momento mi passano per la mente tanti fatti, tanti episodi, tante facce e persone, tutto mi riporta al magnifico fenomeno della natura: “la nascita” e come davanti ad essa tutti ci emozioniamo, ci sentiamo felici, pieni di tanta tenerezza. E penso, inoltre, come proprio in questa nascita, in questo piccolo batuffolo si nasconda tanta amarezza. Isabella, piccola bimba nata in Italia, da una mamma niegeriana, Noemi, approdata con un barcone a Lampedusa. E dopo è arrivata in Piemonte. Una mamma che ancora non sa come risolverà la sua

situazione, una mamma che ha vissuto la sua gravidanza in una casa di accoglienza, dove si trova sin dall’inizio del suo arrivo in Piemonte, dove è stata seguita e curata, dove è nata Isabella. Non si conosce il padre. Noemi non dice chi è, o meglio dice che è il suo ragazzo di Milano, ma nessuno lo conosce o lo ha mai visto. Noemi ha appena 23 anni e da circa due anni vive in un CAS, Centro di Accoglienza Straordinaria, della provincia di Cuneo dove gli garantiscono vitto, alloggio e l'insegnamento dell’italiano. Sono cinque le ragazze, tutte di paesi diversi, emigrate e arrivate in Italia con gli sbarchi, che vivono con Noemi in un appartamento: ognuna con la propria camera, in un ampio soggiorno possono condividere i momenti di serenità e hanno una cucina dove si possono preparare i pasti, ma a questo ci pensa una signora Casablanca 19

ucraina che fa anche le pulizie dell’appartamento. Non sono autonome in casa, o per meglio dire non glielo permettono, non fanno la spesa per i loro pasti e non li cucinano, non puliscono. E non fanno niente se non andare, a ore stabilite, a seguire qualche corso. Spesso Noemi si assenta per tutto il giorno, ma poi ritorna, non comunica con le altre compagne di casa, non racconta della sua giornata. Che cosa faccia nessuno lo sa. Quando Serena, una mia amica piemontese, mi ha parlato qualche anno fa della sua nuova professione, mediatrice giuridica, non capivo a che cosa si riferisse, mi ha spiegato poi che questa nuova figura cerca di aiutare le varie ONLUS o Fondazioni ad accompagnare i giovani immigrati al fine di verificare le loro richieste per il permesso di soggiorno o le richieste per lo status di rifugiato ed è in questo


Una speranza per non finire nella tratta contesto che ha conosciuto Noemi. Una ragazza nigeriana facente parte del grande fenomeno delle migrazioni, gente che lascia il proprio paese per migliorare il proprio stato sociale, le proprie entrate economiche o perché deve scappare da persecuzioni o guerre. È veramente triste tutto ciò, ma è ancora più triste che spesso in questo fenomeno si nascondano altri fenomeni, soprattutto quello dello sfruttamento delle persone più deboli e Noemi ne è senza dubbio vittima. I flussi dalla Nigeria ci sono da diverso tempo e negli ultimi anni sono in costante aumento: 30.000 presenze registrate in Italia nel 2012, attualmente, invece, se ne contano circa 70.000. Cittadini nigeriani di cui quasi la metà è ospitata nei Centri di Accoglienza Straordinaria e in misura minore negli SPRAR e nei servizi sociali dedicati alla protezione delle vittime o potenziali vittime della tratta di essere umani. LA PROSTITUZIONE SEMPRE IN AGGUATO Strutture comunque che spesso rendono fragili parti importanti della stessa comunità nigeriana, potenzialmente assoggettabile a forme variegate di dipendenza psico-fisica, tra cui pratiche impositive finalizzate allo sfruttamento sessuale, lavorativo e all’accattonaggio forzoso gestite da gruppi organizzati di natura criminale. A chi non è capitato di vedere nelle strade appena fuori dalle periferie della città o lungo le strade nazionali delle giovani donne di colore prostituirsi? Sono anni che le vediamo; sono

anni che le vediamo in estate vestite succinte, con tacchi alti e provocanti per attrarre i potenziali clienti; sono anni che le vediamo in inverno, sempre succinte, con stivali e con un piccolo copri spalle e sempre provocanti per attrarre i potenziali clienti, talvolta accanto ad un piccolo braciere. Ci sentiamo contrariate da questo spettacolo, guardiamo dall’altra parte, quasi sprezzanti

passiamo davanti a loro con noncuranza, offese da tale presenza e ci chiediamo come possano essere là, perché nessuno lo vieta o le toglie dalle nostre strade. Non conosciamo, invece, quale sia l'effetto ai loro occhi e che cosa appaia nella loro mente quando passiamo davanti a loro. Che cosa vedono in noi e soprattutto che cosa sentono nel loro cuore. È la legge del mercato, dove c’è richiesta, c’è offerta. Purtroppo da noi la richiesta c’è ed è tanta, per questo l’offerta persiste e non può non farsi notare. È proprio il mercato del sesso che si approfitta di queste giovani ragazze, spesso con l’illusione di trovare facilmente un lavoro anche se Casablanca 20

modesto, ma con la prospettiva di un buon guadagno, sono spinte ad affrontare l’avventura, trovano la volontà di sfidare lunghi viaggi con tutti gli imprevisti che si presentano. Ma non sempre si risolve realizzando un sogno, il più delle volte si cade nella rete dello sfruttamento. Spesso chi ha organizzato tutto, illudendole, dando loro false aspettative, appena sono in viaggio si trasforma in aguzzino. Superate le vicissitudini del viaggio, una volta arrivate in Italia, sono sottomesse ai propri sfruttatori che le utilizzano nei vari settori, in particolare le giovani sono destinate alla prostituzione. Che cosa si può fare per non venire meno al rispetto e alla dignità delle giovani donne e delle altre realtà vulnerabili? Che cosa si è fatto fino ad ora? Bisogna innanzitutto favorire la conoscenza articolata e approfondita del fenomeno sin nelle fasi della sua costituzione ed evoluzione: a partire, cioè, dalle zone originarie di esodo, non la Nigeria in genere, ma alcune aree specificamente identificabili (quali Benin City e dintorni), del suo svilupparsi. I governi dei Paesi occidentali si sono impegnati ad adottare misure collaborative con il Governo della Nigeria, ovvero spingere verso la creazione di reti transnazionali finalizzate alla cooperazione sociale, sia tra servizi dedicati a tutela delle vittime sia alla cooperazione investigativa e giudiziaria di contrasto alle reti criminali che gestiscono quei micro-flussi migratori, onde evitare che, successivamente, si trasformino in pratiche di assoggettamento o sfruttamento reiterato.


Una speranza per non finire nella tratta In un convegno organizzato dalla Regione Calabria, dove ho partecipato come relatore lo scorso settembre, dedicato alla “Tratta delle donne nigeriane” ho capito che dopo tanti anni ancora il fenomeno non si è per niente fermato, né tanto meno è rallentato. CONTRATTI E RITUALI Non ricordo esattamente, ma oramai sono trascorsi diversi anni, quando mi trovai ad affrontare il problema nell’ambito della cooperazione italiana: si lavorava con UNICRI, una organizzazione delle Nazioni Unite, il Ministero dell’interno e le Prefetture, coinvolgendo anche i Comuni italiani, che hanno risposto alle richieste del Ministero monitorando le ragazze, per conoscere i loro movimenti e capire chr cosa fanno quando si allontanano dalla loro residenza. Tutto ciò al fine di conoscere la rete che organizza il sistema che le sfruttava o forse è ancora attuale dire che li sfrutta.

comuni, l’organizzazione le sposta lungo dei percorsi ben definiti, facendo loro attraversare tutta la penisola, portandole all’estero fino ai paesi nordici, per poi farle ritornare nuovamente alla loro città di residenza, il tutto per non più di tre mesi. Perché queste ragazze fanno ciò, perché sono per lo più le nigeriane e non quelle di altri paesi a prostituirsi? È una storia che risale al passato, durante il periodo del colonialismo o anche ad anni più recenti. La Nigeria è un paese affacciato sul Golfo di Guinea. Ha al suo interno molti luoghi di grande bellezza e riserve naturali ed è il primo produttore di petrolio in Africa e il sesto al mondo, ma è anche il Paese con più etnie nel continente africano (si contano 248 gruppi linguistici). Il mercato della prostituzione porta le giovani donne ad allontanarsi dal loro paese e ad andare verso un destino che non è come loro

religiosi le giovani donne si impegnano a raggiungere l’Italia e a lavorare per chi gli permette di saldare il debito contratto dai genitori accettando qualsiasi lavoro. Non si ribellano, hanno preso un impegno, partecipando al rituale “juju” (hanno “fatto voto”). Il rituale stabilisce una catena molto potente fra i trafficanti che finanziano il villaggio e le donne che devono ripagare il viaggio con il loro lavoro. Il rituale fa anche in modo che una volta ridotte a schiave sessuali, le donne siano totalmente obbedienti, sottomesse e quindi non riescono a sganciarsi dalle organizzazioni da cui dipendono per paura delle ripercussioni su di loro o sulle loro famiglie. Attualmente le ragazze si impegnano restituire una somma di denaro che varia tra i 25 mila e i 30 mila euro. È nata Isabella, è nata in Italia, per lei è stata e lo è ancora una grande fortuna, Con grande sacrificio della sua mamma.

È nata

Alla fine di alcuni mesi di paziente lavoro, riunioni, indagini e monitoraggio costante si è capito che queste ragazze erano già vittime delle organizzazioni malavitose internazionali sin dalla loro partenza, con l’intenzione di farle arrivare in Italia e metterle sul "mercato". Dopo che alle ragazze è stato assicurato il soggiorno in un centro di accoglienza presso i vari

Isabella desiderano: alcune sono date alle organizzazioni proprio dalle famiglie per pagare dei debiti che hanno contratto e che non sono in grado di assolvere. Con rituali Casablanca 21


Volevo fare l’inviatA speciale

La Sicilianina Graziella Proto La sua vita racconta di inquietudine, curiosità, rigore. Determinazione femminile. Diversi concorsi giornalistici intitolati alla sua memoria. Tante strade e piazze col suo nome. Maria Grazia Cutuli, giornalista, appassionata di politica estera, era una donna di grande coraggio, ma con tante insicurezze e fragilità: una cucciola. Tuttavia aveva una tenacia smisurata nel raggiungimento del suo traguardo. Diventare una grande inviata. È stata a Sarajevo, a Gerusalemme, in Ruanda, Congo, Sierra Leone. Nel 2001, quando Kabul fu liberata dai talebani, si trovava in Afghanistan per conto del “Corriere della Sera”. Forse solo un caso, forse aveva visto o scritto qualcosa che non doveva, è stata uccisa vicino a Surobi da un gruppo armato mentre assieme a tanti altri giornalisti raggiungeva Kabul. Il 15 novembre scorso, in appello, è stata confermata la condanna a 24 anni di reclusione per i due afgani accusati del suo omicidio. Era piccolina. Minuta. Esile. Capelli rossi lunghi. Coraggiosa e testarda. Sofisticata. Chiacchierona. Amava i vestiti colorati, allegri, etnici.

Era stata mandata in Afghanistan dal “Corriere della sera”. L’hanno uccisa a sangue freddo a Surobi nei pressi di Kabul il 19 novembre del 2001.

Prima un sasso lanciatole contro che la fece cadere a terra, e poi una serie di colpi di kalashnikov. Circa dieci. Insieme a lei lo spagnolo Julio Fuentes inviato per conto della testata “El Mundo”, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari, corrispondenti della Reuters. In Italia nello stesso istante sul “Corriere” leggevamo un suo articolo: Un deposito di gas nervino nella base di Osama. Un pezzo che il direttore De Bortoli ripubblicherà l’indomani – il 20 novembre 2001 – perché si sperava che la notizia non fosse vera. Maria Grazia Cutuli si trovava in Afghanistan da un mese per conto del “Corriere della Sera”. Si trovava lì per seguire le operazioni militari dopo la caduta del regime

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Volevo fare l’inviatA speciale dei talebani in Afghanistan. Da sola copriva tutta la zona di Jalalabad e mandava in Italia servizi col suo stile particolare sulla guerra e sui covi di Al Qaeda distrutti dalle bombe americane. Nel novembre del 2001 gli americani per combattere contro i talebani – responsabili della strage delle due torri gemelle di New York – su quel territorio sganciavano tonnellate di bombe. Ovviamente bombe intelligenti (!). Centinaia di giornalisti arrivati lì da tutto il mondo si accamparono a Jalalabad, città liberata dai talebani. I posti non bastavano, in una stanza dell’hotel ci si

accampava anche in sei. Non erano necessari i letti, bastava un kit molto semplice e leggero: sacco a pelo, computer e cellulare satellitare. A Maria Grazia il telefono lo prestò un caro amico milanese che non l’ha mai riavuto indietro, se lo presero gli assassini. Così come presero le bellissime scarpe del suo amico Julio Fuentes. Da Jalalabad – confine tra Afghanistan e Pakistan – qualche settimana prima dell’agguato Maria Grazia chiama la sua amica Simona e le dice: «Qui ci sono alcune donne del gruppo Rava, donne afgane profughe in Pakistan

che operano nei campi profughi, facciamo un servizio su queste donne, sarebbe bellissimo… Siamo tutti a Jalalabad, la stanza del “Corriere” è molto grande, stai con me non ci sono problemi». Ma veramente… «Guarda c’è Luisa Morgantini – eurodeputata – che sta per venire con una delegazione di eurodeputati in Pakistan…». Per Simona quell’invito era una boccata di ossigeno. Mesi prima, nel gennaio del 2001, Maria Grazia e Simona erano andate insieme in Sudafrica e avevano realizzato un servizio sulla nascita

CHI ERA MARIA GRAZIA? Ma chi era veramente Maria Grazia, la “sicilianina” come dicevano i suoi colleghi? Maria Grazia è prima di quattro figli, tre donne e un maschio, Mario, che è quello che si dedica alla fondazione. È nata a Catania il 26 ottobre 1962, lo stesso giorno del compleanno della mamma; porta il nome della nonna materna, per la madre non è solo la prima figlia, con lei ha anche un legame speciale. Di grande complicità e sintonia. La sorella Sabina racconta: «Fra noi ci sono due anni e dieci mesi di differenza. Quando seppe che sarei arrivata io, decise lei di chiamarmi Sabina. Quando sono nata stava in adorazione. Aggrappata alla culla a guardare me. Siamo state sempre abbastanza vicine e complici perché abbiamo avuto fin dall’inizio questo rapporto. Degli altri fratellini non si curava tanto». A 4 anni sapeva leggere e scrivere, aveva imparato da sola, i genitori se ne accorsero perché non riconosceva e quindi non leggeva gli accenti. A scuola era bravissima, infatti saltò un anno e ancora molto piccola, a 9 anni appena, aveva un suo giornalino. Teneva banco con tutti, e tutti gli altri stavano ad ascoltare. Aveva un piglio volitivo e comandava tutti. E mentre con la madre il rapporto fu di molta intesa, col padre ebbe un rapporto conflittuale: lui era molto severo, un preside di scuola all’antica, litigavano spesso. Il padre proibiva ai figli di uscire e imponeva di rispettare gli orari del rientro. Anche da grandi. Racconta Sabina: «Andare in vacanza in campagna era un tormento. Quando noi eravamo piccoli stavamo in centro e quindi ci si divertiva poi mio padre fece costruire una casa fuori dal centro con una scalinata interminabile che ci scoraggiava e tutto divenne più difficile. Quando Maria Grazia prese la patente e le cose cambiarono». I genitori giocavano a carte, tutti i sabati si riunivano fra amici per giocare, e la madre – insegnante di lettere – incoraggiava sempre tutti gli altri a giocare fino a tardi per dare ai suoi ragazzi la possibilità di divertirsi con i loro amici. Il padre era sempre più severo e le costringeva dire piccole bugie per fare ciò che fanno tuti i ragazzi. Le ragazze ufficialmente andavano a messa. Sapevano gli orari di tutte le chiese. Uscivano vestite in un modo e in ascensore si sistemavano in modo diverso: minigonne, cinturoni, borchie… Al ritorno facevano il contrario. L’ultima messa era alle 20:00, a casa bisognava essere alle 21:00. Quando gli orari cambiarono perché grandi, uscivano tutte insieme e poi ad un certo punto si dividevano. A mezzanotte si incontravano nuovamente e rincasavano insieme. Casablanca 23


Volevo fare l’inviatA speciale Maria Grazia studia filosofia, una ricerca che le permette di capire l’ordine delle cose, ma lei ama il giornalismo e da tempi non sospetti ha già deciso che farà quel lavoro. Subito dopo la laurea il padre pretese che si impegnasse nella scuola, e Maria Grazia presentò domanda di assunzione in Lombardia, a Milano e Como. Ma non rinunciava al suo sogno. Faceva l’addetta stampa alla Cgil di Catania, e quando arrivò la telefonata dalla Lombardia di nascosto dal padre rifiutò: fece dire che aveva un’altra supplenza. Il padre non si capacitava, da addetto ai lavori non capiva come mai le scuole della Lombardia, dove c’era molta richiesta di insegnanti, non chiamassero sua figlia. Ma lei, Maria Grazia, era decisa a diventare giornalista. E mentre faceva l’addetta stampa alla Cgil cercava di avere un rapporto con il quotidiano locale per il quale fece un servizio sulle comunità di recupero di tossicodipendenti che non fu mai pubblicato. Per lo meno non uscì mai a nome suo. Infatti a volte le dicevano di fare un articolo ma non lo pubblicavano, oppure lo trovava nei pezzi di altri. Passò a occuparsi della pagina del teatro. Ma a lei il teatro non interessava, voleva fare la cronaca. Collaborò con la testata “Sud” ma durò pochissimo perché chiuse. Guadagnava poco, era sempre in giro, la sfruttavano, ma era decisa a inseguire la sua vera vocazione. Il suo sogno. Iniziò a collaborare con una piccola tv locale, Telecolor – proprietà del quotidiano – dove e per conto della quale faceva orari assurdi. Per quasi due anni. D’inverno si alzava alle cinque del mattino, le avevano promesso l’assunzione nel quotidiano, ma nulla. C’era una specie di rivalità non dichiarata con un collega (spesso durante la sua carriera sarà in rivalità con qualche collega maschio) e vinceva sempre lui. Si dannava. La spuntavano perché erano maschi, e questa cosa la fece arrabbiare non poco, avrebbe preferito perdere nel merito della bravura. Avrebbe voluto fare la vertenza ma poi fece un colloquio con “Cento Cose”, una rivista di moda di Milano, e andò via dalla Sicilia. Non le piaceva per niente interessarsi di moda, ma intanto cominciava, sarebbe stata a Milano, le garantiva lo stipendio. Durante le ferie se ne andava in giro per il mondo dove c’erano conflitti o comunque situazioni particolari, per osservare, studiare, imparare. della media borghesia sudafricana. Riprendere piano piano dopo tanti anni a lavorare e farlo con la sua amica più cara era straordinario. Simona telefona a Luisa Morgantini, si mettono d’accordo, organizza tutto. La sera, al rientro del marito gli comunica la sua decisione. Il marito di Simona non l’aveva mai ostacolata, anzi l’aveva spronata… invece, tu sei pazza, dice, pensi di congelarci qui nel terrore? A Jalalabad dove ci sono tutti i giornalisti e quindi obiettivo militare numero uno? Il giorno dopo Simona è costretta a disdire con la Morgantini, e con grande dispiacere con Maria Grazia. L’AMBIENTE MASCHILISTA Simona e Maria Grazia si erano conosciute a Milano a casa di amici catanesi «cercavamo tutte e due casa, ci siamo guardate e ci siamo dette: la cerchiamo insieme? E dopo appena due giorni eravamo già in via Pestalozzi. È stato molto

divertente. Sono stati anni bellissimi. Non era un connubio professionale, era nata una amicizia profonda. Maria Grazia si fidava e si affidava a me. Ero la sua sorella maggiore. Ma non era facile starle vicino, a causa delle sue fragilità e delle sue insicurezze. Col padre, che era una persona molto severa, aveva avuto un rapporto molto conflittuale, un problema mai risolto, e probabilmente tutto dipendeva da questo, ma era una donna di grande cuore, di grande bontà. Una cucciola. Minuta. Ironica. Tenace». Una tenacia stancante, raccontano in parecchi, gli altri cedevano sempre per stanchezza. La cosa che colpiva maggiormente? «La sua generosità, l’ironia e una buona dose di infantilismo che la rendeva ancora più fragile. Mi faceva disperare, io ero un po’ più grande, avevo già lavorato in mezzo mondo. Lei è arrivata a Milano Casablanca 24

fragile, giovane, con un grande desiderio di fare giornalismo serio. Non era mai uscita da casa… Io venivo da una situazione opposta, ero stata in giro in tanti paesi del mondo». E così, mentre abitavano insieme nella casa di Via Pestalozzi, una andava e veniva dal Centro e Sud America, aveva contratti, stava fuori mesi interi, e l’altra era per lo più stanziale. Il lavoro a “Cento Cose” – mensile di moda della Mondadori – non faceva spostare Maria Grazia. Per tre anni è andata così. Dopo, nel ’92 «siamo andate in Cambogia insieme – racconta Simona – e lì lei ha avuto questa propulsione verso la politica estera, le inchieste internazionali… entrò in contatto con l’ONU e capì veramente che era quello che lei voleva fare». Dal ’93, quando Simona diventa mamma, la situazione si capovolge. Maria Grazia è sempre in giro per il mondo e Simona a casa a crescere i suoi due figli.


Volevo fare l’inviatA speciale «Per anni per me lei è stata una finestra sul mondo – insiste Simona –. Avevo rivoluzionato la mia vita e avevo lasciato la mia professione. Ci sentivamo spessissimo, mi telefonava da qualunque parte del mondo e mi teneva al corrente di tutto. Mi portava i regalini per i bimbi, mi suggeriva i libri da leggere. Mi mandava i suoi reportage. Ci univa un affetto enorme, un legame profondo. Una complicità smisurata». A Milano l’ambiente giornalistico era terrificante, e lei stava malissimo; la sua fragilità la portava a cercare approvazioni, ma non sempre erano le persone giuste quelle che trovava. Sia dentro la redazione, sia nell’ambiente circostante…

«Lei si dannava. Era molto brava, lo so perché ci ho lavorato all’estero, l’ho vista all’opera. La scoperta dell’Africa e del Ruanda la fecero crescere parecchio. Ma non bastava. Lei cercava altro. Le gerarchie del “Corriere” però erano fondate su un machismo sfrontato, non si salvava nessuna donna, ma lei era sottoposta a ironie stupide da parte dei colleghi… la “sicilianina”… la Cutuli… Magari erano affascinati

da lei ma non lo dimostravano, e lei ci stava male. Se ne faceva una malattia». Negli ultimi anni soffriva di una febbriciattola che le saliva la sera, secondo l’amica le passava appena si allontanava dalla redazione. Quando era lontano rinasceva; stava molto meglio. TESTIMONE DEI CONFLITTI NEL MONDO Nello stesso periodo in cui la giornalista catanese telefona a Simona per invitarla a Jalalabad, chiama anche la sorella Sabina. Siamo a ridosso del fatidico 19 novembre 2001. All’altro capo del telefono c’era una Maria Grazia disperata, piangeva per la rabbia. «Mi vogliono far ritornare, ma io voglio rimanere. Hanno mandato

anche il collega (maschio) che deve sostituirmi… mi dicono che sono brava e non mi danno il pezzo e mandano il collega per farmi rientrare». Una lotta continua non voluta, non cercata, con i colleghi maschi. Da Jalalabad Maria Grazia Cutuli inviava regolarmente i pezzi per il “Corriere” e pensava di andare a Kabul. Dove era stata anni prima e aveva intervistato il comandante Casablanca 25

Massoud, le avevano fatto visitare la loro base. Un privilegio riservato a pochi uomini. Lei è stata l’unica donna. Insieme a lei il collega e amico Raffaele Ciriello che morì dopo pochi mesi. Le piaceva guardare il mondo da ogni angolatura. Cercava in tutti modi di evitarne le divisioni. Nel suo viaggio stancante, pericoloso, spesso si chiedeva e non capiva le ragioni di quelle guerre da noi così lontane geograficamente e culturalmente. Non si capacitava di odi, violenze sulle donne, pulizia etnica, concezione della vita e della dignità. Amava ciò che faceva e per ottenerlo aveva ingoiato ogni tipo di rospo. Soprattutto vedersi sempre scavalcata da un maschio solo perché maschio. Una storia che ancora oggi si ripete quasi sempre. E quel “quasi” è ancora pesante. Un macigno sulla testa di ogni donna che vorrebbe realizzarsi. Orgogliosa e decorosa in pubblico, nel privato si disperava. Piangeva. Non riusciva a capire e ad accettare il fatto che pur essendo brava le si preferissero gli uomini. Gli inviati. Anche se aveva dimostrato parecchie volte che l’inviata la sapeva fare. Sapeva stare sul campo e raccontarlo. Una reporter di guerra. Una testimone dei conflitti nel mondo. Quando cadde il muro il Berlino al telefono con la sorella Sabina si disperava perché sarebbe voluta andare ma non fu possibile: «Le fu negato – racconta la Sabina – al telefono era furiosa, recriminava… vedeva tutto contro di lei». Per anni. Anni di precarietà. Di insicurezza. Di insoddisfazione. Di ricerca. Poi riuscì a fare una sostituzione a “Epoca” per il periodo estivo, invece ci rimase fino alla chiusura nel ’97. Il gruppo Mondadori pensava di


Volevo fare l’inviatA speciale assumerla all’interno dello stesso gruppo come fece con gli altri colleghi, ma lei preferì fare altro. Le andava stretto anche il settimanale, aspirava al quotidiano. Fece un corso per l’ONU e fu chiamata in Ruanda per conto delle Nazioni Unite. Partì col contingente delle forze di pace e da Kigali faceva la corrispondente per l’ONU nel periodo in cui c’erano efferati genocidi. Un giorno, contro la sua volontà, la lasciarono in città, fu la sua fortuna. perché il gruppo fu preso da un commando e alcuni furono uccisi. L’Africa le piaceva molto però cominciò a stare male. Una febbriciattola – quella che per Simona che abitava con lei e quindi di lei sapeva tutto scaturiva da un malessere dovuto alla redazione – la costrinse a fare rientro in Sicilia. A Catania incontrò Paolo Valentino, cugino della mamma, corrispondente per il “Corriere della Sera”. «Ma cosa fai qua – le dice – a Milano al “Corriere” ti stanno cercando». Il suo sogno si realizzava. LA GRANDE SCOPERTA DEL GAS SARIN Era il 1999. Ritorna a Milano, al “Corriere” e la mettono alla redazione degli esteri. La più giovane della redazione esteri. Partiva spesso. Aveva sempre contratti a tempo determinato. Orari assurdi, ma era molto contenta anche se Milano non le piaceva, i colleghi maschi non erano carini e sognava di fare l’inviata. Maria Grazia era sempre in giro per il mondo per il “Corriere”, ma quando seppe che la sorella Sabina era rimasta incinta senza essere ancora sposata rientrò a Catania per aiutarla a comunicarlo al padre. Inoltre, la notizia che avrebbe avuto una nipotina era

meravigliosa. La faceva impazzire di gioia. Fin dal giorno in cui lo scoprì prenotò l’aereo per stare vicino alla sorella durante il parto. Lo prenotò per farle compagnia durante la prima notte dopo il parto. Le telefonava spesso. Si teneva informata. Nel 2000 battezzò la nipotina, una bimbetta che la mandava in estasi. Per vederla era capace di qualsiasi sacrificio. Una volta per vederla solo cinque minuti fra un aereo e un altro prese il taxi, lo fece aspettare e poi lo riprese diretta all’aeroporto. Sempre in giro e senza programmi, nel Natale del 2000 era a Gerusalemme, dove c’erano scontri terribili, e non poté rientrare in famiglia. Lo fece nel febbraio del 2001. Seguiva sempre anche da lontano i suoi genitori e la famiglia. Durante un suo soggiorno in Sicilia nell’agosto del 2001, la bimba iniziava a parlare, mentre lei è tutta presa dal gioco con la bimbetta, Sabina le chiede come vuole che la bambina la chiami. Come vuole lei, purché mi chiami, rispose abbracciandola e sbaciucchiandola. Amore puro. Tenerezza infinita. Il 31 agosto ritornò a Gerusalemme e da lì dopo l’11 settembre andò in Pakistan e poi a Jalalabad… «Quando chiamavamo noi – continua Sabina – lei trasmetteva i pezzi ed era difficile rintracciarla, spesso era lei che richiamava… Mi porto il rammarico di non essere riuscita a chiamarla molto spesso. Quando ci telefonava dall’estero, dai luoghi di conflitto o di disagio sociale, lei raccontava tutto. Era una specie di giornale. Non nascondeva nulla. Anche quella volta che le misero in mano un kalashnikov e le fecero la foto. E mentre ci raccontava era affascinate. Coinvolgente». Al ritorno dal Ruanda, durante una sosta a Catania, Gloria Carretta – amica di sempre – la trascina ad Casablanca 26

una conferenza, era la sua prima volta in pubblico… Per più di un’ora si mise a raccontare, fece una specie di report dal Ruanda. L’assemblea silenziosa ascoltava. Erano tutti ammaliati. Maria Grazia era passionale e appassionata. Forse anche per questo suo aspetto prendeva troppo sul personale difficoltà e intralci. La facevano soffrire. Li viveva come una ingiustizia nei confronti suoi e delle altre donne. E poi quel fatto che c’era sempre un maschio che la poteva sostituire… La sera che arrivò in Afghanistan, il 17 novembre 2001, chiamò la madre così come faceva quasi tutti i giorni, per sentirla, per raccontarle ciò che stava facendo. Per leggerle l’articolo e avere consiglio da quella mamma innamorata ex insegnante di lettere. «Vorremmo andare a Kabul – le disse – ma la strada è problematica perché piena di grotte e nascondigli». Il giorno dopo se ne andò in giro con il suo amico spagnolo Julio Fuentes che lavorava a Milano per conto della testata spagnola “El Mundo”. Girando in macchina, a circa un’ora di strada da Jalalabad, in mezzo a una distesa arida e sperduta, nei pressi di Farm Hada trovarono un cancello aperto e entrarono. Era una base militare che i talebani avevano abbandonato frettolosamente. Un campo enorme. Circa dieci chilometri quadrati. Tra stracci, sporcizia, mine e resti di cibo, nel disordine la loro attenzione viene catturata da uno scatolone dalle scritte in russo con dentro fialette di gas sarin. Un gas nervino classificato come arma chimica di distruzione di massa. IL TERRIBILE AGGUATO Con molta cautela i due giornalisti aprono la scatola, staccano la targhetta da una fialetta e vanno


Volevo fare l’inviatA speciale via. La scoperta è straordinaria. Tanto tempo dopo ci faremo delle domande su tutta la vicenda. Ci renderemo conto anche di alcune stranezze, per esempio perché non ci sono soldati mujaheddin a sorvegliare la base. Non si sa se lì ci siano ancora persone vicine ad Al Qaeda. Su questo ritrovamento nel dopo Cutuli sono state fatte varie ipotesi, ma a prescindere dalle ipotesi e da chi quel teatro l’avesse gestito, organizzato o incrementato, era una scoperta clamorosa. La sera stessa, racconta Sabina, nell’albergo ci fu una irruzione. Cercavano qualcuno? Cercavano qualcosa? Probabilmente li ha salvati e tutelati la direzione dell’hotel. Comunque, Maria Grazia scrisse l’articolo e lo mandò al “Corriere”. Fu pubblicato l’indomani, il 19 novembre, Un deposito di gas nervino nella base di Osama. Dopo quell’incursione nell’hotel i giornalisti che lì alloggiavano fecero una riunione per decidere il da farsi. Quel posto non era più sicuro, e poi giungevano messaggi che dicevano che la strada per Kabul era stata liberata. Così la mattina del 19 novembre 2001 il gruppo si organizza per partire. Un convoglio di otto auto. Alcune piene di attrezzature pesanti e altre con poche persone. Non era un vero e proprio convoglio. La fila a volte si spezza a volte si riunisce. Qualcuno si ferma, qualcun altro va più speditamente. La strada era molto difficile da percorrere perché distrutta dai bombardamenti e dai cingoli dei carri armati. Piena di anfratti. Per

percorrere poco più di cento chilometri in ore e ore di auto. Qualcuno giorni prima aveva anche detto che quella strada era ancora un cimitero, ma nulla faceva pensare a qualcosa di terribile. Di atroce. Durate il viaggio – racconterà Ashuqullah, l’autista dell’auto dov’era Maria Grazia – Fuentes dormicchiava, lei fumava e rosicchiava pistacchi. Quando giungono nei pressi di Surobi, città a 70 km circa da Kabul, il convoglio è totalmente spezzettato. A ridosso di un piccolo ponte dirupato otto uomini armati di tutto punto bloccano le prime due auto. Nella prima auto ci sono Maria Grazia, Julio Fuentes, l’interprete e l’autista. Dietro a loro la macchina con l’australiano Harry Burton e l’afgano Azizullah Haidari, corrispondenti della Reuters, il traduttore e l’autista. Appresso, in lontananza altre auto. I giornalisti vengono fatti scendere dalle auto, gli autisti e i traduttori mandati via. Una delle macchine che stavano dietro si accorge da lontano di ciò che sta succedendo, inverte la marcia e corre per avvisare anche

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gli altri. Maria Grazia, il suo amico spagnolo e gli altri giornalisti vengono portati dietro la collinetta. Pare ci sia stata una colluttazione, perché lo spagnolo era di carattere era focoso… Maria Grazia cade a terra, colpita probabilmente da una pietra lanciata da un attentatore. Poi il commando uccide i quattro giornalisti a colpi di kalashnikov. Una decina di colpi di kalashnikov. Forse di più. Non basta. Ruberanno tutto ciò che possono prendere in quei pochi minuti, cinque circa. A Maria Grazia prenderanno il computer, il cellulare satellitare, la borsa, una radio, un paio di scarponi. A Julio porteranno via le scarpe. Non basta. A lei hanno tagliato un pezzettino di orecchio, a lui le dita. Oggi in via Solferino ci sono due targhe a ricordare due persone speciali vittime del terrorismo, una per Tobagi, una per Maria Grazia nominata inviata speciale alla memoria. Un ruolo che aveva sognato tantissimo e che avrebbe voluto svolgere da viva.


I minori stranieri di nazionalità afgana

Il Sogno e l’incubo del viaggio Lorenzo Di Chiara Il Sud del mondo ha recepito il messaggio che i padri devono restarsene a casa e così spesso investono sui figli adolescenti per cercare tramite loro uno sbocco nei mercati del lavoro del Nord globale che ne migliori le condizioni di vita in patria o per salvargli la vita. Le ingenti somme pagate dai migranti non assicurano affatto l’incolumità: il viaggio avviene in totale irregolarità e in condizioni di pericolo per le vite dei ragazzi. Inoltre, il progetto migratorio è esposto, dall’inizio alla fine, ad alti rischi di fallimento per motivi legati all’attraversamento delle frontiere, alla carenza di denaro, all’elevato livello di stress. La maggior parte dei ragazzi migranti afgani sono di etnia hazara da sempre perseguitati. Secondo un’antichissima tradizione sarebbero i discendenti dell'armata di Gengis Khan che giunse nell'area nel XII secolo. La lingua parlata è una sorta di dialetto persiano, l’hazaraji. Gli Hazara sono diversi dalle altre etnie afgane, sono più simili agli abitanti delle steppe asiatiche. Questo è stato uno dei primi motivi della loro discriminazione. Un pericolo per la loro vita, miseria, vessazioni… La speranza del sogno. L’incubo del viaggio. Tra il 2008 e il 2016, 100.000 minori afgani non accompagnati, quasi tutti maschi tra i 14 e i 17 anni, hanno chiesto asilo in Europa, soprattutto in Germania e Svezia. L'Italia, data la posizione geografica, si è confermata un importante punto d'incontro e soprattutto transito nel lungo viaggio verso altre destinazioni europee. L’Afghanistan è un paese maltrattato da decenni di guerre fratricide e tribali, dall’occupazione da parte degli Stati Uniti d’America alla caccia di Osama Bin Laden. Si registra una forte presenza di analfabeti

soprattutto tra le donne, solo il 13% sa leggere e scrivere. La guerra ha provocato migliaia di vittime civili e questo ha ancor di più lacerato la struttura sociale di una nazione molto indigente. Nel complesso permangono forti fratture tra il governo centrale e le potenti figure tribali locali. A ciò si somma un grado di corruzione fra i più alti al mondo (secondo l’indice realizzato da Transparency International sullacorruzione percepita nel 2012, l’Afghanistan è al 174° posto su 176 paesi), che riguarda tanto il governo centrale quanto i livelli amministrativi più bassi. Inoltre, la sopravvivenza Casablanca 28

economica del paese, sia sul piano delle attività produttive sia su quello istituzionale, dipende dagli aiuti internazionali. L’Afghanistan non ha accesso al mare e dunque dipende dai paesi confinanti per l’importazione e l’esportazione dei propri prodotti, così come per l’approvvigionamento energetico. Il porto più prossimo è quello di Karachi, in Pakistan, e le relazioni tra i due vicini sono state spesso segnate da aspre controversie commerciali che hanno riguardato, tra l’altro, l’entità dei dazi imponibili sui prodotti afghani diretti all’estero.


I minori stranieri di nazionalità afgana Attraverso l’economia illegale e sommersa il paese ha avuto (e in misura maggiore dopo l’intervento militare del 2001) redditizi scambi commerciali con l’estero, in particolare, con la coltivazione di papaveri che ha portato l’Afghanistan a raggiungere una situazione di quasi monopolio mondiale nella produzione di oppiacei (eroina e morfina in particolare). I commerci sono spesso controllati dai capi tribali o dai signori della guerra, che ne utilizzano i proventi per finanziare le comunità locali o la stessa insurrezione. L’invasione del 2001 da parte degli Stati Uniti d’America ha provocato la fuga di 7,5 milioni di persone, due terzi dei quali verso il Pakistan e un terzo verso l’Iran. Più di 5 milioni di afghani hanno poi fatto rientro nel paese nei successivi nove anni: i repentini sbalzi demografici hanno messo sotto pressione le infrastrutture afghane, già carenti e fortemente danneggiate dalle guerre. La mortalità infantile porta il paese ad un triste primato. I ragazzi afgani hanno valide motivazioni che li spingono ad affrontare un viaggio molto lungo e pericoloso. Lasciano molte volte la loro terra avendo già perso tutto, la famiglia e quindi di conseguenza una base sicura della loro esistenza e un futuro che al momento non esiste.

prima accoglienza, dove loro stessi ammettono che la scuola è soprattutto frequentata dalla loro etnia: questa pre alfabetizzazione li aiuta molto nell’apprendimento della lingua italiana. Viceversa, i ragazzi hazara sono di norma analfabeti e quindi hanno molta più difficoltà nell’imparare a dialogare. Ulteriore differenza tra le due etnie è l’obiettivo che si pongono a seguito del loro viaggio: in genere i ragazzi di etnia pashtun si stabilizzano in Italia mentre quelli di etnia hazara cercano di raggiungere altri Paesi Europei e principalmente la Germania o i Paesi Nordici. La maggior parte di questi ragazzi migranti sono di etnia hazara. Partono perché spesso hanno motivi umanitari che li spingono ad affrontare un viaggio così duro e rischioso. Sono da sempre perseguitati; secondo un’antichissima tradizione sarebbero i discendenti dell'armata

discriminazione. Fino agli anni ’70 nelle scuole sunnite si propaganda lo sterminio degli Hazara. In alcune scuole, gli insegnanti predicano ancora oggi, in aree remote dell’Afghanistan, che l’assassinio di qualsiasi Hazara garantisce l’accesso al paradiso. La differenza più significativa e importante è quella relativa alle modalità di viaggio che viene gestito da organizzazioni criminali, con costi molto alti che portano anche le famiglie a indebitarsi, oppure può essere autogestito. Se la decisione proviene dalla famiglia, è quest’ultima che si fa carico dei costi, del contatto con le organizzazioni oppure con conoscenti, affidandogli i propri figli fino all’arrivo a destinazione. L’ eventuale esistenza di un debito, solitamente molto alto, crea un circolo vizioso da cui è molto difficile uscirne. Il minore si “adultizza”, caricato di un

di Gengis Khan che giunse nell'area nel XII secolo. La lingua parlata è una sorta di dialetto persiano, l’hazaraji. Fisiognomicamente gli Hazara sono diversi dalle altre etnie afgane: naso schiacciato e occhi a mandorla, sono più simili agli abitanti delle steppe asiatiche. Questo è stato uno dei primi motivi della loro

mandato migratorio molto più grande della sua età. Se la decisione è del ragazzo o di un genitore, l’esperienza migratoria, la durata del viaggio sarà più lunga e molto più rischiosa. Il percorso migratorio precedente all’arrivo in Italia attraversa i seguenti paesi: Afghanistan, Pakistan, Iran, Turchia, Grecia. I percorsi sono predefiniti, nella

I PASHTUN CONTRO GLI HAZARA I ragazzi afgani che intraprendono il viaggio sono di etnie diverse, quindi con notevoli differenze dal punto di vista motivazionale, di arrivo nel paese di accoglienza, ma anche dal punto di vista dell’integrazione. I ragazzi afgani di etnia pashtun si dimostrano essere molto più colti, questo si evince attraverso i colloqui all’entrata nei centri di

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I minori stranieri di nazionalità afgana maggior parte dei casi decisi da intermediari, “passeur” e trafficanti che organizzano il viaggio in cambio di somme di denaro molto alte, spesso riformulate nelle varie tappe in base alla difficoltà di accesso ad un paese o territorio. Le ingenti somme pagate dai migranti non assicurano affatto l’incolumità: il viaggio avviene in totale irregolarità e in condizioni di pericolo per le vite dei ragazzi. Inoltre, il progetto migratorio è esposto, dall’inizio alla fine, ad alti rischi di fallimento per motivi legati all’attraversamento delle frontiere, alla carenza di denaro, all’elevato livello di stress. GLI INVISIBILI A causa dei continui blocchi alle frontiere tra Iran e Pakistan il tragitto è molto lungo e con moltissime tappe. I minori, quindi, per molti mesi vengono tenuti nascosti dai trafficanti in depositi, ex fabbriche, baracche e, non di rado, impiegati come forza lavoro in uno stato di schiavitù. Viaggiano solitamente all’interno di casse dentro a camion per molti chilometri, nascosti nei momenti di transito delle frontiere. Per tutti i minori che affrontano il viaggio in modo autonomo esso può durare anche anni. Delle volte si presenta così impossibile che alcuni si fermano definitivamente in Iran, vivendo nell’invisibilità per paura delle rappresaglie della polizia iraniana, che li riporterebbe al confine con l’Afghanistan. Altri purtroppo non vi riescono e perdono la vita tentando di attraversare le montagne che dividono l’Iran dalla Turchia. Generalmente però, il viaggio effettuato dai trafficanti è scandito da tappe ben definite. Prima tappa l’Iran. I ragazzi si fermano qui anche per mesi, illegalmente, cercando lavoro per pagare i

trafficanti di esseri umani che li controllano. Sulle rotte della speranza, i flussi migratori dei giovani afgani verso Occidente possono essere molto diversi, ma con alcuni tratti comuni. Almeno la metà dei ragazzi, infatti, parte per l’Europa solo dopo un periodo, più o meno lungo e spesso di lavoro, in Iran o Pakistan, con il rischio di essere individuati dalla polizia iraniana e portati in campi di detenzione in attesa del rimpatrio. Una volta pagati i trafficanti, inizia il viaggio verso Ovest, un’esperienza che mette a dura prova la sopravvivenza stessa dei ragazzi. I giovani migranti devono attraversare le montagne tra Iran e Turchia, percorrendo lunghi tratti a piedi per evitare i posti di blocco. Dal confine turco a Istanbul sono centinaia i chilometri attraverso il cuore dell’Anatolia, una zona geografica dell'Asia sudoccidentale, si tratta di una grande penisola compresa nell'odierna Turchia, torrida d’estate e freddissima d’inverno: un percorso lunghissimo e traumatizzante, che spesso inizia con una detenzione forzata di diversi giorni nei doppi fondi di camion e autobus in attesa che i trafficanti ricevano la conferma dell’avvenuto pagamento del viaggio da amici e parenti dei ragazzi dall’Afghanistan. Altro momento difficile arriva Casablanca 30

quando i migranti sono costretti ad attraversare il tratto di mare tra Turchia e Grecia con piccoli gommoni, in piena notte e in balia delle correnti, con il rischio di essere intercettati dalla polizia turca, delle volte brutale nei modi — da quanto emerge dai racconti dei ragazzina —, o bloccati dalle condizioni del mare. In Grecia si prosegue verso Patrasso, dove i minori restano anche mesi e mesi sulla costa in attesa di imbarcarsi, sempre, di nascosto su di un

traghetto per l’Italia (soprattutto Bari, Ancona, Venezia), nascondendosi in camion e container o aggrappandosi ai semiassi degli automezzi. Più recentemente si è osservato un cambiamento del flusso migratorio, per cui, coloro che possono permetterselo economicamente, partono direttamente dalla Turchia a bordo di barche turistiche, guidate da trafficanti e dirette soprattutto sulle coste del Salento o su quelle della Calabria.


I minori stranieri di nazionalità afgana L’UNICO INVESTIMENTO ECONOMICO Arrivati vicino alle coste spesso vengono lasciati ad un centinaio di metri dalla riva e costretti a buttarsi in acqua, dove alcuni di loro purtroppo perdono la vita, perché loro non hanno mai visto il mare. Le rotte di immigrazione, i cosiddetti corridoi, sono gli stessi che usano altri ragazzi che puntano ad entrare in Europa dall’Asia. È un viaggio sempre lungo e rischiosissimo. La paura della guerra e delle persecuzioni etnicoreligiose li porta a creare progetti individuali che talvolta sono molto ambiziosi. Arrivano quasi sempre nei porti di Bari, Ancona o Venezia e, grazie ad un passa parola tra connazionali o direttamente indirizzati dai trafficanti, cercano di arrivare a Roma.

Arrivati in Italia, l’impatto con la realtà di una società frenetica e con una lingua differente è

durissimo, privi di figure di riferimento e accudimento, la fretta di iniziare a lavorare e guadagnare per assolvere al loro mandato familiare, li porta a volte a perseguire strade non del tutto legali (piccoli reati e accattonaggio). Un vero shock culturale, come descritto dall'antropologo canadese Kalervo Oberg. Intercettati dalle forze dell’ordine entrano in contatto con i Servizi Sociali, i quali si trovano di fronte ragazzi con molteplici disagi, sia dal punto di vista fisico che psichico. Il filo conduttore tra i minori stranieri non accompagnati di qualsiasi nazionalità è il preciso mandato familiare, una strategia familiare di vero investimento economico. Investiti di questo compito estremamente importante e decisamente al di sopra delle

capacità per un ragazzo di questa età, molto spesso scappano dai centri di accoglienza, perché Casablanca 31

percepiscono come poco valide le risposte che gli vengono fornite. In conclusione, occorre rilevare che la crescita del fenomeno dei minori stranieri non accompagnati (MSNA) è soprattutto un effetto paradossale delle nostre politiche migratorie. I governi dei paesi sviluppati respingono i padri in cerca di lavoro, classificati sotto l’etichetta oggi screditata di “migranti economici”. Ma se si attengono ai propri principi liberali, sanciti da Costituzioni e Convenzioni internazionali, non possono ricacciare i figli minorenni che arrivano soli e richiedono protezione. Un numero crescente di famiglie del Sud del mondo ha recepito il messaggio. Sono implicitamente persuase a investire sui figli e più precisamente sui maschi adolescenti, per cercare tramite loro uno sbocco nei mercati del lavoro del Nord globale che ne migliori le condizioni di vita in patria. “Prendete un bambino che non sa quando è nato. Immaginate che abbia un sorriso gentile e malinconico e una nutrita dose di ironia, e che intorno ai dieci anni cominci un viaggio verso qualcosa che non conosce, alla ricerca di un posto qualunque in cui crescere. Mettiamo che questo bambino sia nato nella provincia di Ghazni, nel Sud-est dell’Afghanistan, che appartenga all’etnia hazara, quella dai tratti mongolici, perseguitata da pashtun e talebani, e che il suo viaggio lo porti ad attraversare, oltre alla propria nazione, il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, per trovare, dopo cinque anni spesi in strada tra lavori improbabili, speranze impreviste e momenti drammatici, una casa e una famiglia in Italia.” (Geda Fabio, Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbar).


Critica alla società digitalizzata? Vietato!

È un MindFuck Cecile Landman Arjen, un hacker olandese di 47 anni che ha collaborato per un periodo con Julian Assange, dal 31 agosto scorso è scomparso nel nulla in Norvegia. Una scomparsa strana. Inquietante. Appassionato del suo lavoro, Arjien ha scritto un saggio sul nuovo giornalismo investigativo, Information Security for Journalists. In passato è andato in Thailandia e in Kenya, per insegnare ai giornalisti impegnati in ambienti complicati e pericolosi come lavorare in maniera sicura con l’informazione. Tante le ipotesi sul web a proposito della sua scomparsa. Qualcuna incredibile. Suicidio? Missione segreta? Incidente? Vittima dei servizi segreti per la diffusione di documenti riservati? Ci sarebbe addirittura chi azzarda che si tratti di una vendetta della CIA in quanto scoperta in un programma di hackeraggio con cui controllava privati e aziende americane ed europee. Una mail con la foto di un manifesto sul quale sta scritto in lettere enormi: MISSING. Arjen Kamphuis è sparito. Un hacker olandese. Un mio caro amico. È il 31 agosto 2018, sono a Palazzolo Acreide per moderare una serata con giornalisti d’inchiesta, sul giornalismo d’inchiesta. La serata rientra in una serie di incontri dedicati alla nascita di Pippo Fava. Rileggo la mail, sono confusa. Arjen l’ho conosciuto anni fa nella allora bella sfera degli hacker ad Amsterdam. Lui faceva parte dell’organizzazione di festival di hacker in tutta Olanda. Famosi i festival legati al CCC, il Caos

Computer Club. In Germania sono molto conosciuti ed esistono da più di 35 anni. Gli hacker olandesi erano un ramo particolare nella realtà degli hacker nel mondo. Alla fine degli anni Ottanta in Olanda c’era un gruppetto che dal 1989 al 1994 pubblicava il giornaletto Hack-Tic. Si trova ancora online. Completo. Con dentro delle osservazioni e critiche sulla società digitalizzata, i pericoli sulla privacy e il controllo totale sugli esseri umani tutti. Osservazioni che persino oggi possono sembrare ultramoderne e/o non sono affatto invecchiate. Il gruppo è stato tra i primi ad inventare un servizio e-mail. Hack-Tic nel tempo diventò una impresa: XS4ALL. Questa cresceva rapidamente, il che costringeva gli hacker a Casablanca 32

confrontarsi con un problema imprevisto, poiché non volevano fare gli imprenditori. Per questo motivo vendettero l’impresa alla KPN – una sorta di Telecom olandese, per intenderci. E ogni tanto continuavano a organizzare dei grandi festival di hacker. L’ultimo festival di hacker in Olanda era l’OHM – Observe, Hack, Make, nel 2013. Quella manifestazione era soprattutto nel segno delle rivelazioni di Edward Snowden. In quella occasione Julian Assange, già nell’ambasciata di Ecuador a Londra, intervenne in collegamento video in diretta. Presenti ex ufficiali della NSA come Bill Binney, Kirk Wiebe e Thomas Drake, e un ex ufficiale del servizio inglese MI5, Annie Machon. Insomma, interessante!


Critica alla società digitalizzata? Vietato! È questo il mondo di Arjen. In rete si possono trovare dei filmati dove parla della NSA (National Security Agency – Agenzia per la Sicurezza Nazionale, ovvero l’organismo governativo degli Stati Uniti d’America), della società sorvegliata. E nella sua impresa, Pretty Good Knowledge, lavora tra gli altri con Binney e Wiebe. Arjen ha anche fatto dei corsi InfoSec, sicurezza d’informazione, a giornalisti. E ha pubblicato un libro Information Security for Journalists, che è liberamente scaricabile online. Per l’agenzia di stampa britannica Reuters, Arjen è andato in primavera e nei primi mesi dell’estate di quest’anno in Thailandia e Kenya, per insegnare ai giornalisti che lavorano in ambienti complicati e pericolosi come lavorare in maniera sicura con l’informazione. Come proteggere le loro risorse e assicurare il proprio computer e smartphone, e lo scambio di mail, per esempio. QUELLE TRAGICHE IMMAGINI La notizia della sua sparizione ha fatto il giro del mondo. Tanti giornali hanno riportato la notizia della scomparsa di «uno dei cofondatori di WikiLeaks». Ma queste sono corbellerie. Consigliava Julian Assange, sì. Lo andava a trovare a Londra, nell’ambasciata varie volte, sì, ma non era coinvolto in WikiLeaks sin dall’inizio. Certo, la sfera degli hacker olandesi è collegata a Wikileaks, o per lo meno lo era all’inizio. Uno dei fondatori di Hack-tic, di XS4ALL e organizzatore chiave degli hacker festival è Rop Gonggrijp.

Sembrebbe che proprio Rop si trovasse in Islanda con Julian Assange e un paio di altre persone ad analizzare le ormai famose immagini che erano arrivate a WikiLeaks tramite uno che lavorava nell’esercito americano, come abbiamo saputo dopo. Quelle immagini da un elicottero militare americano sopra Baghdad sono arrivate nitide in tutto il mondo, come il video Collateral Murder. La pubblicazione di quelle immagini sul web segnava anche il serio inizio di WikiLeaks. Sul sito di WikiLeaks si può leggere: «Il 5 aprile del 2010 WikiLeaks ha rilasciato un video militare statunitense classificato che descrive l’uccisione indiscriminata di oltre una dozzina di persone nel sobborgo iracheno di New Baghdad – tra cui due giornalisti della Reuters. Reuters ha cercato di ottenere il video attraverso il Freedom of Information Act, senza successo dal momento dell’attacco. Il video, girato da un mirino di elicottero Apache, mostra chiaramente l’uccisione non provocata di un dipendente ferito di Reuters e dei suoi soccorritori. Anche due bambini piccoli coinvolti nel soccorso sono stati gravemente feriti». [https://collateralmurder.wikileaks. org/] Chelsea Manning, il militare che aveva fatto uscire le immagini dall’esercito era stato poi arrestato e il 21 agosto 2013 condannato a 35 anni di carcere. Ma il 17 gennaio 2017 il Presidente Barack Obama decideva di accorciare la punizione di Manning, che è stato liberato il 17 maggio 2017 invece che nel 2045. Ma torniamo al mindfuck della Casablanca 33

ricerca al desaparecido. Arjen quest’estate era andato in vacanza in Norvegia come aveva fatto anche altre volte. Gli piace camminare nella natura selvaggia, uno sport conosciuto con la parola inglese hiking. Durante questo genere di vacanze, era solito staccare ogni apparecchio elettronico e sparire dal web per qualche tempo. È una cosa che entra completamente nella norma tra persone che lavorano tanto nel digitale, online. È risaputo che staccarsi completamente dal web per qualche periodo fa proprio bene. Ecco perché nessuno ad Amsterdam si è allarmato subito quando Arjen non si è fatto vivo il 23 agosto, come nei giorni successivi. Anche se strano un po’ lo era. Lui è conosciuto come persona precisa, puntuale e di appuntamenti di lavoro al ritorno della sua vacanza ne aveva diversi. Ma non arrivò mai. NESSUNA TRACCIA UTILE Da Amsterdam, un paio di amici hanno iniziato a chiamare i posti dove, prima di partire per la sua vacanza, aveva detto che sarebbe andato. A Spitsbergen, nell’estremo nord. Però, lì non era mai arrivato. Anzi, aveva disdetto le sue prenotazioni già prima di partire. Il 31 agosto scatta il panico. Online e nei media viene distribuito il manifesto. Ora è ufficiale. Arjen Kamphuis è una MISSING person. Cioè una persona scomparsa. La notizia fa il giro del mondo. Il giorno dopo partono due amici per Bodø, una città nell’estremo nord della Norvegia. È lì che Arjen è stato visto vivo per l’ultima volta. Lì stava in un albergo dove


Critica alla società digitalizzata? Vietato!

ha fatto il check-out il 20 agosto. Una delle poche cose confermate. Due giorni dopo avrebbe dovuto prendere l’aereo da Trondheim ad Amsterdam dove, il 23 aveva un primo appuntamento. Gli amici a Bodø non trovano tracce utili e tornano a casa. La polizia norvegese inizia a guardare al caso, e dopo un po’ di tempo in Norvegia arrivano anche due ispettori olandesi. Si diffonde la notizia che un reparto specifico che si occupa di crimine pesante si occuperà del caso. Cercano, per quanto si sa, nei dintorni di Bodø. Ci sono delle notizie di persone che l’hanno visto, in Danimarca, in Germania a Leipzig, e in altri posti. Nessuna di queste notizie è però vista come seria indicazione. La notizia più strana che appare è che il telefono di Arjen è stato segnalato nel sud-ovest della Norvegia, nell’area di Vikeså, dove ha avuto contatto con tre poli della telecomunicazione. Secondo

la polizia, in quella zona il telefono di Arjen è stato attivato per circa 20 minuti. Ha caricato messaggi, poi la sim è stata cambiata con una sim tedesca. E poi niente. Non si sa se è stato Arjen a farlo, o chissà chi. Non si riesce a venirne a capo. Nel nord, a est di Bodø, tra Fauske e Rognan, nel frattempo è stato trovato il suo kayak, un modello piegabile e ultraleggero che aveva comprato ad Amsterdam prima di partire. E anche lì viene raccolta una testimonianza: un padre che prendeva sua figlia a scuola, dice di aver visto Arjen camminare verso il porto. Ma pare che la polizia norvegese non la consideri una testimonianza affidabile. E poi, negli stessi giorni, il 12 settembre, arriva la notizia che un pescatore avrebbe trovato in acqua la sua carta d’identità o il passaporto e portafoglio con soldi. Stessa zona del kayak, sempre tra Fauske e Rognan. La polizia ora, alla fine di ottobre, Casablanca 34

dice di aver ridotto il team delle ricerche. Terranno d’occhio le tracce digitali, se ci sono. Non sanno che cosa possa essere accaduto. - Un suicidio? Un atto criminale? Un incidente? Arjen stesso vuole far perdere le sue tracce. I gruppi di amici che fanno le ricerche sono arrivati a un punto tale da non sapere più come proseguire, e i siti privati dove loro s’incontrano per comunicare sulle ricerche sono chiusi o inattivi. Ogni teoria è insufficiente. È un mindfuck.

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Depistaggi di stato

La mia vita scippata Natya Migliori La strage di Alcamo Marina del 27 gennaio 1976. Due giovani carabinieri trucidati. Sullo sfondo i segreti di Stato. Le collusioni tra Stato e mafia. Il capro espiatorio da esibire, a qualunque costo. Sui due carabinieri uccisi aveva indagato anche Peppino Impastato. Saranno accusati quattro giovani tra i quali Giuseppe Gulotta, che allora aveva diciotto anni, costretto, a seguito di atroci torture, a confessare ciò che non aveva commesso: quarant'anni vissuti tra galera e in attesa delle decisioni dei giudici. Gli anni della gioventù, le prime esperienze, tutto gli è stato tolto. Nessuno potrà ridarglielo. Ventidue anni passati ad aspettare che la verità venisse a galla, senza perdere la speranza. Dopo ventidue anni di carcere la sentenza di revisione: innocente. Lo Stato pagherà in denaro, ma mai nessuno gli ha chiesto scusa. La sua storia raccontata in tutti i teatri d'Italia. Un'occasione per parlare degli errori giudiziari e dei depistaggi di Stato. Ventidue anni passati in carcere, trentasei per dimostrare, in un'altalena di depistaggi, confessioni sconfessate e prove che scompaiono e ricompaiono, l'innocenza che avrebbe perso per sempre. Così Giuseppe Gulotta, oggi 64 anni, uomo semplice e di modesta famiglia della provincia trapanese, è diventato suo malgrado protagonista della vicenda di mala giustizia più grave nella storia italiana. Una storia che, da più di due anni, continua a calcare le scene dei maggiori teatri nazionali. A ricostruirne la storia, il monologo teatrale Come un granello di sabbia, prodotto dalla compagnia teatrale Mana Chuma

di Reggio Calabria e dalla Fondazione Horcynus Horca di Messina e interpretato da Salvatore Arena che, insieme al regista Massimo Barilla, ne è anche il coautore.

La notte del 26 gennaio, forzata la porta della caserma Alkamar, i due carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta vengono crivellati dai proiettili di una calibro 7,65.

Lo spettacolo, rappresentato a Catania lo scorso 11 novembre al Musco Teatro all'interno della rassegna di Palco Off, sotto la direzione artistica di Francesca Vitale, con l'efficace scenografia di Aldo Zucco, è lucido, essenziale, spietato. A tratti, tragicamente ironico.

Due settimane dopo, ancora ad Alcamo, viene arrestato Giuseppe Vesco, un carrozziere di Partinico di 22 anni, trovato in possesso di una Beretta calibro 9 con la matricola abrasa, una fondina, due caricatori, un coltello. E di una calibro 7.65. Vesco viene subito sospettato della strage dai carabinieri di zona e portato in caserma.

Ha diciotto anni Pino, quando nel 1976, viene accusato di essere fra gli esecutori della strage di Alcamo Marina. Casablanca 35

Si proclama innocente, dice che armi e munizioni deve andarle a consegnare ad altri. Il comandante


Depistaggi di stato Giuseppe Rizzo dispone che Vesco venga legato ad un termosifone. Quei nomi devono venire fuo, a tutti i costi. Il resto si può facilmente intuire. Un brigadiere, Renato Olino, prova a protestare. Ma Vesco, per tutta risposta, viene trasferito in una caserma di campagna. Questa volta è un comandante accorso da Palermo, Giuseppe Russo, in seguito promosso colonnello, ad ordinare che le torture continuino, fra simulazioni di annegamento ed elettrodi collegati ai testicoli. Alla fine, i nomi vengono fuori: i minorenni Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, insieme a Giovanni Mandalà e a Giuseppe Gulotta, muratore, incensurato, “figlio di famiglia”. Comincia qui il suo calvario. «Nenti sacciu! Iu u muraturi fazzu!». Ma di fronte al suo personale "Torquemada" — famoso, terribile torturatore — anche Pino “confessa”. Le torture hanno ancora la meglio. «Li ho ammazzati, io, sì, comu vuliti viautri. L u fui! Basta ca non mi tuccati cchiù!». Il lungo corso dell'ingiustizia ha inizio. Vesco proverà a ritrattare, ma nessuno gli dà retta e, nell'ottobre del 1976, nonostante sia monco di una mano, verrà

trovato impiccato in carcere a più di due metri d'altezza. Mentre il colonnello Russo sarà freddato da Cosa nostra. È il 1990 quando, in via definitiva, Ferrantelli sarà condannato a 14 anni di carcere, Santangelo a 22, Mandalà e Gulotta all’ergastolo. Ma Ferrantelli e Santangelo sono già in Brasile prima della sentenza definitiva, fuggiaschi, uccel di bosco, latitanti. Ma salvi. UNA STRAGE MISTERIOSA Mentre Mandalà non ce la fa, muore in carcere nel 1998, Pino resiste. Ha Michela a dargli coraggio e la famiglia che, ostinato, è riuscito a costruirsi con i figli di lei e William, frutto del loro amore. Pino conosce Michela a Certaldo, in provincia di Firenze, dove va a vivere prima della sentenza definitiva. Michela lavora in un bar. «Me lo fai un caffè, Michela? Me lo fai un altro?» e avanti così fino alla chiusura del bar, fino a quando Michela lo invita ad incontrarsi fuori da lì: «Tutti questi caffè ti faranno male, Giuseppe!». Lei ha tre figli. È sola. È bella. Lui

ha bisogno di assaporare la vita vera, l'amore profondo, la purezza dell'acqua che il sapore del carcere gli ha fatto dimenticare, sostituendolo per sempre con quello aspro del vino. Si trovano e non si lasciano più. Neanche quando Pino è costretto a tornare in carcere. Come nelle belle favole il lieto fine arriva. Ma nella vita vera ci mette ventuno anni. Solo nel 2011 infatti il brigadiere Olino confessa. Racconta le torture, ammette che lui ha visto, ha sentito, ma nessuno gli ha dato retta. E, in fondo, stava solo eseguendo gli ordini. La revisione del processo inizia nel gennaio dello stesso anno dinanzi alla Corte di Assise di Reggio Calabria. Il 13 febbraio 2012, a trentasei anni esatti dal suo primo arresto, Gulotta, assistito dai legali Pardo Cellini e Baldassare Lauria, è assolto con formula piena. Il 20 luglio, la sezione per i minorenni della Corte d'appello di Catania assolve Ferrantelli e Santangelo. Nel 2014 la Corte d'appello di Trapani assolve ufficialmente post mortem anche Giovanni Mandalà. Durante il processo di revisione, il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara rivela un'inquietante collegamento fra la strage di Alcamo e Gladio. Secondo Calcara, i due carabinieri avrebbero, infatti, fermato un furgone carico di armi destinate all'organizzazione, che negli stessi anni aveva proprio a Trapani uno dei maggiori centri di “addestramento speciale”, il Centro Scorpione.

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Depistaggi di stato Ad indagare sulla morte di Apuzzo e Falcetta persino Peppino Impastato, l'attivista di Autonomia Operaia ucciso nel 1978 su mandato del boss Tano Badalamenti. I documenti che provavano le indagini di Peppino Impastato su Alkamar, furono sequestrati alla madre Felicia e mai più restituiti. Ancora una volta, la “manina” pare essere dei carabinieri. In ogni caso, la strage rimane avvolta in una coltre di mistero. Ma è punto e a capo anche per Giuseppe, che può tornare a vivere, può tornare a Certaldo, dalla sua Michela, dalla sua famiglia. E può far conoscere a tutti la propria storia. «È Gulotta il primo motore di “Come un granello di sabbia” — spiega Massimo Barilla, autore e regista del monologo — Io ho sempre creduto alla funzione civile del teatro, al teatro che sveglia e l'ispirazione a scrivere lo spettacolo mi è arrivata in effetti lo stesso giorno dell'assoluzione. Ma, seduti a tavolino, la storia proprio non veniva. Dovevamo andare da lui, parlargli. La responsabilità del racconto era già grande. Come potevamo assumerci anche quella di arrabbiarci al posto suo?» SPERANZA ULTIMA DEA «In realtà — lo incalza Salvatore Arena, attore e coautore — noi non abbiamo cercato la storia di Pino. È lei che è venuta a cercare noi. Ci siamo detti, “però, è bella questa storia… è molto bella. È molto dura questa storia... è molto difficile questa storia… Come cazzo la raccontiamo 'sta storia?”. Abbiamo deciso così di andare proprio da lui a farcela raccontare. Ci ha gentilmente invitati a sederci a tavola e, prima ancora di mangiare, ho notato che si riempiva il bicchiere due o tre

volte... ho pensato “è un alcolizzato”. Gli faccio notare “Ti piace 'u vinu, ah?”. Lui mi guarda stupito e mi spiega che prima del carcere il vino non lo aveva mai assaggiato. Io e Massimo ci guardiamo, ci capiamo e senza dirci nulla strappiamo quei foglietti ridicoli che avevamo scritto e volevamo far leggere a Pino. La storia nasce così.

Il vino e l'acqua. La perdita dell'innocenza e la fine delle illusioni. E così nasce anche la nostra amicizia. Pino è proprio come lo vedete. Tranquillo, lucido, serafico. Non so come faccia». « Vedere sulla scena — confessa Giuseppe Gulotta con la voce rotta dopo lo spettacolo — il racconto di me stesso, dei miei genitori e

DALLA RETE LE BRIGATE ROSSE NON C’ENTRAVANO NULLA Due carabinieri, il diciannovenne Carmine Apuzzo e l'appuntato Salvatore Falcetta, furono uccisi nella casermetta "Alkamar" della stazione dei CC della località turistica. Nella notte, con la fiamma ossidrica, fu forzata la porta e i due militi di guardia furono crivellati di colpi mentre dormivano. Fu la polizia, di scorta al segretario del MSI Giorgio Almirante, che stava passando sulla statale alle sette del mattino dopo, ad accorgersi della strage e a dare l'allarme. Fin dall'inizio diverse furono le ipotesi investigative, dal terrorismo rosso (ci furono alcune rivendicazioni di sigle extraparlamentari, ma le Brigate rosse dichiararono la loro estraneità), fino alla mafi. Le indagini iniziali sulla strage furono condotte dall'allora capitano dei Carabinieri Giuseppe Russo, poi ucciso dalla mafia. Alla fine (dopo l'assoluzione in primo grado e la temporanea scarcerazione) furono condannati quattro giovani alcamesi, Giuseppe Gulotta e Giovanni Mandalà all'ergastolo, Gaetano Santangelo (che fu arrestato solo nel 1995) e Vincenzo Ferrantelli a 20 anni; un carrozziere di Partinico considerato vicino agli anarchici, Giuseppe Vesco, che confessò la strage e accusò i quattro giovani, ritrattando subito dopo, fu trovato misteriosamente impiccato in carcere pochi mesi dopo, sebbene avesse una sola mano. Mandalà è deceduto di morte naturale dopo anni di carcere nel 1998, mentre Santangelo (fino al 1995, quando è stato arrestato) e Ferrantelli, tra un appello e l'altro, si sono rifugiati in Brasile e lì hanno ottenuto lo status di rifugiati. Gulotta ha scontato circa 22 anni di carcere, prima di ottenere la libertà condizionale e la revisione del processo. Solo il 22 luglio 2010, dopo 22 anni di detenzione, Gulotta uscì infatti dal carcere in libertà vigilata, mentre Vincenzo Ferrantelli restò latitante in Brasile, dove si era rifugiato anni prima. Gaetano Santangelo fu scarcerato negli anni 2000. Tutti ottennero un nuovo processo in seguito alle rivelazioni di un ex brigadiere dei carabinieri, Renato Olino, sui metodi illegali usati per ottenere false confessioni. Casablanca 37


Depistaggi di stato della mia famiglia mi emoziona sempre profondamente. Di notte mi sveglio ancora di soprassalto. Davanti agli occhi ho ancora il carcere, i processi, le sentenze. Sono stato proclamato innocente, certo, ma trent'anni della mia vita

non me li restituirà mai nessuno». Stefano Cucchi, i depistaggi di via D'Amelio, i processi Fava e Rostagno, solo per citare i casi più noti. E, naturalmente, la sua storia. Si può continuare ad avere fiducia

nella giustizia italiana e verso chi dovrebbe garantirne il corso?

«La mia storia deve insegnare che non può venire a mancare la fiducia nella giustizia e nelle istituzioni. Se due, tre o quattro elementi sono malati, ciò non vuol dire che lo sia tutto il DALLA RETE sistema. In fondo, se della mia storia si è tornati a parlare e se ANCHE PEPPINO IMPASTATO INDAGAVA alla fine ho avuto giustizia, il merito è pur sempre di giudici, Sulle "stranezze" dell'indagine sulla strage indagò privatamente anche avvocati, magistrati, carabinieri Peppino Impastato, l'attivista e giornalista ucciso dalla mafia nel 1978. e giornalisti che mi hanno La cartella con i documenti su Alcamo Marina fu sequestrata dai ascoltato, mi hanno creduto ed Carabinieri (i quali sostenevano che l'attivista di Democrazia Proletaria hanno reso possibile la mia fosse morto mentre preparava un attentato, come inscenato dai killer riabilitazione. Bisogna avere mafiosi mandati da Gaetano Badalamenti) nella casa della madre Felicia fiducia. Malgrado tutto Impastato poco dopo la morte di Peppino, e non fu più restituita a differenza degli altri documenti (come riferito dal fratello Giovanni). Nel 2016 arriva un risarcimento “record”: sei milioni e mezzo di Walter Veltroni, membro della Commissione Parlamentare Antimafia, ha euro. Bastano a ricostruire una sostenuto che dietro la strage di Alcamo Marina ci sarebbe la struttura di vita, l'innocenza perduta, la Gladio. Falcetta e Apuzzo avrebbero fermato, il giorno prima, un dignità ferita? furgone che trasportava armi forse con a bordo uomini dell'organizzazione. Quindici anni dopo la strage la polizia scoprì un « I sei milioni di risarcimento arsenale appartenente a due militari dell'Arma: l'appuntato Vincenzo La sono serviti a risolvere i miei Colla, caposcorta dell'ex Ministro ai Beni Culturali Vincenza Bono problemi economici, a saldare i Parrino, all'epoca presidente della Commissione Difesa del Senato, e il debiti che avevo accumulato in brigadiere Fabio Bertotto (più volte impegnato in missioni in Somalia). tanti anni in cui nessuno voleva Accusati di essere gli "armieri" della cosca di Alcamo, risultati darmi lavoro in quanto appartenere ai servizi segreti, furono assolti. La Colla patteggiò una pena assassino. Il resto, io e la mia per l'accusa di detenzione illegale di armi. famiglia abbiamo deciso di impiegarlo per sostenere chi In seguito alle dichiarazioni rese dall'ex brigadiere Renato Olino ad un come me è vittima di errori periodico trapanese, secondo le quali le confessioni di Giuseppe Vesco e giudiziari ed ha bisogno di aiuto degli altri arrestati sarebbero state estorte con la tortura, nel 2008 la per affrontare le spese dei Procura di Trapani ha aperto due inchieste. Una sulla morte dei due processi di revisione. C'è militari, l'altra su quattro carabinieri accusati di sequestro di persona e un'ingiustizia nell'ingiustizia lesioni gravissime: sono Giuseppe Scibilia, Elio Di Bona, Giovanni quando si è di fronte a casi come Provenzano e Fiorino Pignatella. il mio: l'impossibilità, spesso, di riaprire un processo perché non Il brigadiere Olino ha dichiarato ai giudici del Tribunale di Trapani che se ne ha la possibilità quei ragazzi con l'eccidio non c'entravano nulla e che le loro confessioni economica. sono state estorte con violenze terribili. Vesco, poiché trovato in possesso di armi con bossoli compatibili a quelli ritrovati (anche se non identici), fu torturato anche con l'elettroshock e la tortura dell'acqua (simile all'annegamento simulato) per estorcergli una confessione, e in seguito (secondo il pentito di mafia Vincenzo Calcara) fu forse assassinato nella sua cella, inscenando un suicidio, poiché aveva ritrattato e accusato i militari. Gulotta e gli altri furono vittime di pestaggi e abusi, e a casa di uno di loro fu nascosta della presunta refurtiva. Tutti furono minacciati di morte. Casablanca 38


La guerra delle sopravvissute

Prostituzione felice? Franca Fortunato Rachel Moran aveva iniziato a prostituirsi a 15 anni. Un'adolescenza senza sapere che un altro mondo è possibile. Ora è un'attivista femminista. Dato che la prostituzione l’ha praticata per sette anni, la conosce bene e la racconta in un libro: Stupro a pagamento - la verità sulla prostituzione, nel quale spiega che cosa significa essere fuori dalla società, accontentarsi di vivere in condizioni estreme. Rachel Moran dopo sette anni di prostituzione è riuscita a riprendere gli studi, laureandosi poi in giornalismo e diventando un’attivista di Space International, un’associazione che raccoglie sopravvissute alla prostituzione di nove paesi del mondo e si batte per l’abolizione della prostituzione e la criminalizzazione dell’acquisto del sesso. A sessant’anni di distanza dalla legge della senatrice socialista Lina Merlin, che ha messo fine ai bordelli di Stato e alla regolamentazione della prostituzione, un’altra donna Rachel Moran, irlandese, sopravvissuta alla prostituzione, ne ha reso possibile la sua fine. Rachel Moran con il suo libro, Stupro a pagamento La verità sulla prostituzione, ha raccontato, pensato, studiato, a partire da sé, la prostituzione e, con parole mai dette prima, ne ha svelato la vera causa. Una sessualità maschile degradata e degradante che per millenni, con la complicità degli altri uomini, si è autorizzata a impossessarsi e violare il corpo femminile in cambio di denaro. La Merlin, con la sua legge,

approvata dal Parlamento italiano dopo dieci anni dalla sua presentazione (1948-1958), mirava a cancellare la stigmatizzazione delle prostitute e dare loro dignità e libertà, rifiutando l’idea della prostituzione come lavoro e immaginandone la fine attraverso l’invenzione di nuovi rapporti tra donne e uomini. Quel tempo è venuto, è il nostro, è qui ed ora. «Secoli di complicità tra uomini — scrive Luisa Muraro nell’ultimo Sottosopra Cambio di civiltà. Punti di vista e di domanda della Libreria delle donne di Milano —, di assoggettamento delle donne, di moralismo ingiusto, di cattiva letteratura e di assuefazioni hanno portato la società a non rendersi conto che la ferita inflitta all’umanità con la pratica della prostituzione non è accettabile. E Casablanca 39

non lo è mai stata. Non ci sono regole che tengono. Così come è accaduto per i ricatti sessuali sul posto di lavoro da parte di quelli che hanno più potere, verrà il momento — ed è questo — in cui la non ineliminabile vergogna della prostituzione, sempre rigettata sulle donne, tornerà alla sua vera causa, che è una concezione maschile degradata del desiderio e della corporeità». Lina Merlin con la sua legge mise al bando le “case chiuse” dette così — come spiega Silvia Niccolai nel suo scritto La legge Merlin eredità femminile da riconoscere” — perché c’era l’obbligo di tenere le persiane e le porte serrate, di modo che non fossero visibili all’esterno le attività che all’interno si conducevano. Nelle case le donne


La guerra delle sopravvissute vivevano recluse, non potevano uscire se non accompagnate dalle tenutarie, e a date ore del giorno; erano sottoposte a visite sanitarie obbligatorie, spesso a vere vessazioni da parte del personale medico, che vi lucrava; se risultavano affette da malattie veneree le donne venivano confinate in sifilocomi. Essendo le prostitute “librettate”, cioè dotate di una carta che le autorizzava alla

per tramite della polizia. Portavano lo stigma per tutta la vita: essere segnate come prostitute impediva le buone referenze necessarie a trovare un lavoro, mentre sposare un’ex prostituta, per un dipendente dello Stato o un membro dell’Arma, valeva la radiazione.

professione — la prostituzione libera era considerata clandestina e come tale vietata, e spesso l’individuazione di una “clandestina” equivaleva ad un reclutamento coatto nel bordello

delle “case chiuse” respingeva l’idea della prostituzione come professione, come attività economica, come lavoro basato su un contratto commerciale. È questa, invece, l’idea che è

LA GUERRA DELLE SOPRAVVISSUTE La Merlin con la messa al bando

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continuata a prevalere dopo di lei fino a noi, rendendo così invisibile il diritto d’accesso sul corpo della donna che gli uomini si sono accordati. La prostituzione è il mestiere più antico del mondo. Quante volte l’abbiamo letto o sentito dire! No, la prostituzione non è un lavoro, non lo è mai stato, ma è, e lo è sempre stato, violenza del prostitutore sul corpo femminile, è stupro, commercializzazione di un abuso, ricerca del piacere del dominio, del poter disporre dell’altra a proprio piacimento. «Quando un buon padre di famiglia — ricorda Alessandra Bocchetti sul Sottosopra Cambio di civiltà — accompagnava al casino per la prima volta suo figlio quindicenne lo faceva diventare uomo, si diceva. Quel padre insegnava in questo modo l’ordine del mondo, che un corpo di donna si può comprare, che esistono le donne per bene e quelle per male, che quelle per male esistevano per il piacere, e quelle per bene esistevano per fare e curare la famiglia. Insegnava che il piacere maschile era autorizzato, necessario e dovuto. Insegnava che le donne per bene non avevano mai voglia di scopare, che quella voglia ce l’avevano quelle per male». Rachel More riesce a scrivere il suo libro con grandissima fatica solo dieci anni dopo essere uscita dalla prostituzione e arriva alla sua dolorosa consapevolezza scavando dentro di sé, ascoltando tante altre sopravvissute e quelle che ha incontrato nei sette anni in cui è stata prostituita (dai 15 ai 22 anni). Da sopravvissuta è riuscita a riprendere gli studi, laureandosi poi in giornalismo e diventando un’attivista di Space International, un’associazione che raccoglie sopravvissute alla prostituzione di nove paesi del mondo e si batte per l’abolizione della prostituzione e


La guerra delle sopravvissute la criminalizzazione dell’acquisto del sesso, come è già avvenuto per legge in Svezia (1999), Irlanda e Norvegia. La prostituzione non finirà mai. Quante volte abbiamo letto o sentito dire anche questo! No, non è vero, un mondo senza prostituzione non solo è possibile, ma comincia già ad esistere, basta reprimere la domanda di acquisto di sesso. Con il suo libro Rachel Moran ha fatto della sua consapevolezza di donna coscienza collettiva ed è per questo che la Muraro parla di «un grande libro femminista» perché «la rivoluzione femminista comincia da dentro e comincia ogni volta che una donna prende la parola per raccontare di sé alle altre, sapendo che sarà ascoltata e creduta». PUTTANA FELICE? A tutte/i coloro, anche tra le femministe, che pensano alla regolamentazione della prostituzione come un lavoro, retto come ogni altro da un contratto — è del Pd la più recente proposta di legge per la regolamentazione della prostituzione ed ha il sostegno della Cgil e sono molti, tra cui i leghisti, che periodicamente invocano la cancellazione della legge Merlin e la riapertura delle case chiuse — Carol Pateman, a trent’anni dalla legge Merlin, nel suo libro Il contratto sessuale aveva già risposto: «Quando i corpi delle donne vengono messi in vendita come merci sul mercato capitalistico [...] gli uomini vengono pubblicamente riconosciuti come padroni sessuali delle donne. Ecco che cosa non va nella prostituzione». «Il mito della puttana felice non ha nessun senso logico

— aggiunge Rachel More oggi — perché la caratteristica peculiare delle persone libere risiede nell’inviolabilità del loro corpo mentre il marchio distintivo della prostituta è che il suo corpo non è inviolabile [...]. Nel tentativo di restituire dignità alle persone prostituite, si dà dignità alla prostituzione, chiamandola lavoro e cancellando la violenza». Lina Merlin, all’alba della vita repubblicana, a un collega di partito, che difendeva la prostituzione e i bordelli per la loro importante funzione di “sevizio sociale”, un giorno nei corridoi di Montecitorio gridò: «Allora perché non ci mandi tua moglie o le tue figlie?». In un'occasione pubblica, dopo aver presentato la sua legge, un gobbo le si avvicinò e le chiese: «Ma come potrà fare un povero gobbo?». E lei rispose: «Caro signore, faccia come fanno le povere gobbe». Dopo cinquant’anni di lotte e lavoro politico, le donne, oggi, stanno riscrivendo il patto sessuale con gli uomini, come hanno fatto con la presa di parola pubblica alcune

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attrici famose di Hollywood che, dopo Asia Argento, hanno accusato il potente produttore cinematografico Weinstein, dando vita al movimento MeToo per dire basta al ricatto sessuale sul posto di lavoro, come hanno fatto anche le dipendenti di Google, scese il 1^ novembre scorso in tutte le piazze del mondo, insieme ai loro colleghi, per dire basta alle molestie sessuali dentro l’azienda, come ha fatto Rachel Moran con il suo libro e il suo movimento delle sopravvissute alla prostituzione che hanno detto basta allo stupro a pagamento, basta alla vendita sul mercato del corpo delle donne, ridotto a merce. Un basta che vale anche per la gestazione per altri (Gpa) o utero in affitto. La libertà del mercato neoliberista, che umilia il corpo delle donne, non ha niente a che fare con la libertà femminile. Sono le donne che oggi stanno rendendo possibile un cambio di civiltà nei rapporti con gli uomini, perché non accada più quello che è accaduto e che non doveva nemmeno cominciare.


“Amorù”, la nuova rete antiviolenza

Semi che crescono e fioriscono Aurora Della Valle A Palermo la rete antiviolenza si espande e si rafforza. “Amorù - Rete Territoriale Antiviolenza Troppo Amore Uccide", sarà presente nei territori dell'area est della provincia di Palermo, partendo dal primo contatto per giungere alla realizzazione di aspettative e sogni infranti di donne e minori. I servizi istituzionali socio-sanitari, assistenziali e ricreativi, rivolti a famiglie disagiate e più specificamente ai minori e alle donne a rischio di esclusione sociale, non sono adeguati a dare risposte. Molte donne hanno difficoltà anche solo ad allontanarsi dai luoghi in cui vivono e subiscono violenze psicologiche e fisiche. Bisogna che qualcuno faccia qualcosa. Aiuto concreto alle donne e ai minori vittime di violenze, creando un grande paracadute che possa servire loro dall’inizio alla fine di un percorso che parte da una grande sofferenza e tanta solitudine. È quello che offrirà "Amorù - Rete Territoriale Antiviolenza - Troppo Amore Uccide", progetto promosso dall'Organizzazione Umanitaria Internazionale LIFE and LIFE (LaL), ente capofila — realtà operante nel campo della Cooperazione locale e internazionale e degli aiuti umanitari — e sostenuto da FONDAZIONE CON IL SUD. Nei territori dell'area est della provincia di Palermo sarà messa in campo una serie di azioni volte a offrire ai soggetti ai quali è dedicato le occasioni giuste per

riprendere in mano in toto la propria vita. In Italia sono 7 milioni le vittime di violenza fisica o sessuale e ogni anno almeno 100 donne vengono assassinate dal proprio partner o ex compagno. Il dato che fa ulteriormente preoccupare è quello relativo al 90% dei casi che non vengono denunciati. Il 50% delle donne che denuncia, poi, non lavora. Ecco anche perché, considerato che la mancanza di servizi socio-sanitari, assistenziali e ricreativi, rivolti a famiglie disagiate e più specificamente ai minori e alle donne a rischio di esclusione sociale, la FONDAZIONE CON IL SUD ha voluto mettere in campo un’azione di contrasto al fenomeno nel Meridione con il Casablanca 42

“Bando Donne” che sosterrà con 2 milioni di euro i 9 progetti selezionati. Unico in Sicilia, tra i nove selezionati in tutto il Sud Italia, sino al 23 luglio 2021 AMORÙ sarà presente nei territori dell'area est della provincia di Palermo, partendo dal primo contatto per giungere alla realizzazione di aspettative e sogni infranti. «Quando abbiamo deciso di guardare in modo particolare alla provincia di Palermo — spiega la dott.ssa Liliana Pitarresi, coordinatrice della rete — lo abbiamo fatto perché in queste realtà il fenomeno è presente, ma i servizi non sono adeguati a rispondere alle esigenze di donne che hanno difficoltà anche solo ad allontanarsi dai luoghi in cui


“Amorù”, la nuova rete antiviolenza vivono. Esigenza per noi prioritaria che ci vedrà presenti anche nelle scuole che, in quanto portatrici di interesse, ci daranno una grossa mano e aiuto a guardare con maggiore attenzione a un fenomeno come quello della violenza domestica, psicologica ed economica che si palesa già in giovane età. Tante sono, infatti, le ragazze che vivono le loro prime storie subendo in silenzio. Non a caso la scelta della frase “Troppo amore uccide”, scritta in un tema da una mia studentessa. Da lì ho capito che bisognava andare oltre le parole». DONNE E BAMBINI SONO IL PERNO DI TUTTO Grande il valore di questo progetto, i cui tanti obiettivi verranno raggiunti grazie alla sinergia tra la ricca rete di partner (A.S.D. Indiscipline, AIDIM Palermo, associazione “Benessere Lab”, Associazione Diritti Umani Contro Tutte Le Violenze “Co.Tu.Le Vi.”, Centro Studi “Pio La Torre ONLUS”, Consorzio

Arca, Cooperativa Sociale “Sambaia”, Cooperativa sociale

“Migma”, Associazione “Simegen” e le sezioni FIDAPA di Villabate, Altavilla Milicia e Bagheria) che, operando già nei territori in cui AMORÙ interverrà, renderanno ancora più concreto questo percorso. Step fondamentale di questo percorso sarà la nascita di tre centri di ascolto e di una casa protetta che prenderanno in carico le donne e i loro piccoli, accompagnandoli in un percorso di auto-imprenditorialità, alla fine del quale nascerà una cooperativa sociale che andrà a gestire un mandarineto in un terreno di Ciaculli, territorio del Comune di Palermo ad alta densità mafiosa nel quale la violenza si esplica sotto diverse forme, sviluppando attività di green e pet-therapy e gestendo degli orti sociali. La piattaforma di e-commerce e l’App si occuperanno della vendita dei prodotti agricoli non solo in Sicilia ma ovunque lo spirito di AMOÙ riuscirà ad arrivare. A dare una base scientifica a tutto questo percorso sarà, infine, la ricercaazione che indagherà

sull'emersione del fenomeno della violenza, colmando un vuoto di dati relativi alla provincia su cui Casablanca 43

ricade il progetto. Numerosi anche i portatori d’interesse (Comune di Altavilla Milicia, Comune di Casteldaccia, Comune di Villabate, Distretto FIDAPA Sicilia, Fidapa Sez. Mondello, Istituto Comprensivo “Casteldaccia”, Istituto Comprensivo “Monsignor Gagliano” di Altavilla Milicia, Scuola I° Circolo “Don Milani”di Villabate, Scuola SMS “Giosuè Carducci” di Bagheria, Istituto ITES “Don Sturzo” di Bagheria) — tanti altri si stanno via via unendo a questo percorso — che, insieme alla rete di partner, faranno proprio la mission del progetto “AMORÙ”, dimostrando che, solo attraverso la sinergia e la comunione d’intenti, si possono dare risposte concrete a fenomeni come quello della violenza contro le donne e quei figli che tra le mura domestiche assistono quotidianamente a ogni forma di abuso. «Per costruire una società felice dobbiamo partire dalla donna — dice Arif Hossain, presidente di LIFE and LIFE — quindi non possiamo che essere felici di essere i capofila di un tale progetto. La nostra organizzazione si occupa di cooperazione internazionale e territoriale, sviluppando progetti nel campo dell’istruzione, della salute e dell’occupazione per la crescita socio-economica e la promozione dei paesi in via di sviluppo e dei luoghi dove essa opera. Le donne e i bambini sono il perno attorno al quale ruota tutto. Questa rete è la dimostrazione che dalla sinergia, dalla voglia di condividere, i semi crescono e fioriscono». INFORMAZIONE, AFFETTIVITÀ, ASSERTIVITÀ Rete che funziona veramente se dietro c’è la voglia di condividere


“Amorù”, la nuova rete antiviolenza percorsi virtuosi. «Un progetto come questo ha un grande valore — afferma l’assessore alla Cittadinanza Sociale del Comune di Palermo, Giuseppe Mattina — ma la scommessa è mettere insieme tutte le realtà che operano nel nostro territorio per evitare che ognuno lavori isolatamente, portando avanti il proprio progetto senza condividere nulla. Nell’ultimo anno abbiamo dato almeno un’ottantina di partenariati a progetti finanziati da “FONDAZIONE CON IL SUD” e da altri enti privati perché crediamo che debba sempre più crescere la consapevolezza che più facciamo comunità più vinciamo. La nostra scommessa, ci stiamo anche lavorando da un po’, è fare sistema attraverso la rete. Grazie a tutti i partner che stanno partecipando a questo progetto, grazie a LIFE and LIFE che ci dà l’opportunità di mettere insieme tutti i Sud del mondo». In tutto 2000 le donne e 100 i minori con i quali il progetto “AMORÙ” si interfaccerà nel corso dei prossimi tre anni, così come numerosi saranno i cittadini verso i quali si metteranno in atto azioni di informazione e sensibilizzazione:

almeno 2mila nel primo anno, 11mila nel secondo e altri 11mila entro il terzo anno. Si andrà innanzitutto a informare la popolazione locale sul fenomeno della violenza attraverso percorsi di affettività e assertività, dando vita a incontri tematici nelle scuole, a partire da quella dell’infanzia, per offrire alle nuove generazioni l’opportunità di comprendere che rispettare se stessi e gli altri costituisce il sicuro antidoto a qualunque forma di discriminazione e

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per il superamento degli stereotipi di genere. Il tutto sarà supportato da campagne di sensibilizzazione e di educazione alla parità di genere e al rispetto dei diritti, attività di formazione delle figure professionali e interventi di contrasto, cura e presa in carico delle donne con cui “AMORÙ” avrà la fortuna di relazionarsi. Madri e figli, un rapporto che non si può spezzare, nonostante le violenze che le donne subiscono tra le mura domestiche colpiscano anche giovani vite. Mura che, per troppe donne, diventano sbarre di una prigione che si possono rompere solo attraverso una rete di protezione capace di aprire loro nuovi orizzonti pieni di calore e speranza. Una protezione come quella che solo una mamma sa dare al proprio bambino. È ciò che AMORÙ offrirà a chi ne avrà bisogno, con l’obiettivo di innescare circuiti positivi che possano combattere la violenza e tutte le conseguenze che ne derivano, consentendo alla donna e ai propri figli di prendere nuovamente possesso della loro vita, per ricominciare a respirare aria di libertà.


“Amorù”, la nuova rete antiviolenza

Testimonianze SEFA AKTER BANGLADESH «Vivo in Italia da sei anni. — racconta Sefa Akter — Sono scappata dal Bangladesh perché mio marito mi violentava fisicamente e psicologicamente. Non avevo alcuna possibilità di fare o decidere nulla, solo sottostare ai suoi voleri.

testimonianza per dare speranza a chi vive la mia stessa situazione. Sono finalmente una donna veramente libera perché posso scegliere che direzione dare alla mia vita. Grazie LIFE and LIFE. Grazie Italia». Ora Sefa fa la mediatrice culturale, l’interprete per il Ministero dell’interno e la volontaria per LIFE and LIFE. Ha raggiunto, quindi, tanti obiettivi. «L’unica cosa che desidero — aggiunge — è potere riabbracciare mia figlia, rimasta in patria con i miei genitori. Solo allora potrò dire che la mia vita sarà completa».

ANTIGONE APPIA ALLATE, IVORIANA

Un matrimonio combinato come tanti nel mio Paese, dal quale potevo uscire solo morendo o fuggendo». Avendo voglia di vivere, Sefa ha deciso di raccogliere l’enorme coraggio che possedeva e di scappare, arrivando a Palermo dove fortunatamente aveva dei parenti. «Ad accogliermi in questo paese è stata la LIFE and LIFE, in modo particolare Valentina Cicirello, la vicepresidente, che mi ha dato l’opportunità di una nuova vita. La grande sofferenza che ho vissuto io non voglio che la vivano altre donne, ecco perché ritengo fondamentale portare la mia

Altro tipo di storia di violenza, invece, ha subito Antigone Appia Allate, ivoriana di appena ventuno anni, che a Palermo studia Scienze della Comunicazione. «Abitavo a casa con mio padre — racconta, finalmente con la gioia negli occhi, anche se bagnati da tanti ricordi che la fanno ancora soffrire — ma la mia matrigna mi accusava sempre per cose che non facevo. Avevo 11 anni e non capivo perché mio padre le credesse. Erano sempre botte da parte sua, così tante che non ce l’ho più fatta e ho deciso di scappare. Ho percorso chilometri e chilometri, rischiando di finire in mezzo alla foresta, infatti ringrazio Dio per avermi salvata. Finalmente una donna m’incontra e mi chiede dove andassi, le spiego tutto e mi Casablanca 45

porta da un capo villaggio che mi prende con sé». Grazie a questa bella rete di solidarietà che incontra lungo la sua strada, Antigone riesce a entrare in contatto con la madre che nel frattempo viveva in Italia e, quasi subito, vola in direzione della Sicilia. «Solo qui ho ritrovato la pace — prosegue il suo racconto — anche se non è facile dimenticare quel che mi è successo. Mio padre non lo sento più, ma a Palermo ho trovato una famiglia allargata, composta da tante persone di buon cuore. Studio e sogno si fare tante cose. Ho incontrato la LIFE and LIFE che mi ha adottato pagandomi le tasse universitarie. Sto, così, proseguendo il mio cammino verso la piena autonomia. È bello potere raccontare la mia storia nelle scuole e ovunque vada. So che posso “ispirare” chi magari sta vivendo la mia stessa esperienza dicendogli di non mollare mai perché, se si ha la tenacia e la determinazione, tutto si può realizzare. Basta volerlo».


Lettere di frontiera

Cara Graziella Proto Ho letto il tuo articolo: LE MANI SULLA CITTÀ? STOP! C’È UN GIUDICE A BERLINO Noi abbiamo l’obbligo di far cessare immediatamente questo sconcio. In questa repubblica dei nostri sogni, CIANCIO SANFILIPPO Mario, nato a Catania il 29.5.1932, sarebbe già stato condannato in modo definitivo… Cara Graziella, il settantenne che ti scrive è stato sbalzato fuori dall’attività finanziaria ventisette anni fa da un intreccio di mafia in Udine. A farla breve, la massima immobiliare della città corruppe un nostro amministratore della partecipata da me diretta Titanio SpA in Udine 2000 srl, che lasciò un debito di venti milioni di lire (di una società con miliardi 4,5 di capitale), un giudice dichiarò frettolosamente il fallimento, un altro giudice dichiarò me innocente, ed io sono uscito pulito dal caso, per fortuna. Pur essendo innocente. Il Padreterno mi ha assolto dalla beffa di essere anche punito. La società mi ha messo nel totale isolamento, che mi ha spostato a costituire l’archeologia del linguaggio, che è altra storia. Dunque, la mafia è una rete che avvolge l’Italia, a causa di tutti i politici. Vogliamo adire al Presidente perché non si limiti a galleggiare? Ciao, Carlo Forin, Vittorio Veneto, 2018

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Letture di frontiera – Paolo Borrometi

Io cerco di fare il mio dovere Daniela Giuffrida "Ogni tanto un murticeddu, vedi che serve! Per dare una calmata a tutti! Un murticeddu, sai, un murticeddu c'è bisogno". In quella intercettazione, raccontata da Paolo Borrometi nel suo libro Un morto per caso, Giuseppe Vizzini − braccio destro del capomafia di Pachino, Salvatore Giuliano − commenta con i figli il modo in cui pensa di poter eliminare quel giornalista scomodo che "con i suoi articoli zeppi di menzogne e falsità" ha fatto perdere loro un grosso affare con un ipermercato del nord interessato ai loro pomodorini: ci sarebbero stati "fuochi d’artificio" dice Vizzini ai figli e sarebbero caduti tutti a terra. Quel giornalista scomodo che sarebbe saltato per aria con la sua scorta, quel “murticeddu”, doveva essere lui, Paolo Borrometi. Nessuna titubanza nelle parole di quest'uomo mentre parla con i figli, nessuna forma di pudore nell'ammettere davanti al giudice le sue intenzioni, atteggiamento tipico del mafioso che sa di essere potente e si ritiene invincibile perché: "signor giudice deve credermi lo vedrei volentieri morto a quel giornalista [...] era stato quasi tutto definito improvvisamente sono comparsi questi articoli “Vizzini mafioso di qua, Vizzini mafioso di là"... a Milano quando li hanno letti senza chiedere spiegazioni si sono spaventati e hanno annullato tutto". Ma questa è solo una delle inchieste che racconta Borrometi nel suo Un morto ogni tanto, opera prima di un uomo che ha dovuto rinunciare alla sua vita privata, che da anni vive sotto scorta per aver subito un’aggressione, una quantità notevole di minacce e intimidazioni varie, il furto di documenti importantissimi riguardanti le sue inchieste, la porta dell'abitazione che condivide con i genitori, data alle fiamme e infine questo attentato, sventato, fortunatamente in tempo. Trentacinque anni, laureato in legge ma giornalista per vocazione, per convinzione, per missione. Il curriculum di Borrometi è corposo e importante: dal “Giornale di Sicilia” al “La Spia”, da “Ossigeno per l’Informazione” all’AGI, ad “Articolo 21”, a “TV2000”, la sua battaglia contro la “mafia invisibile” è iniziata anni fa quando, fra i banchi di scuola, apprese dalla professoressa di lettere chi era stato Giovanni Spampinato e del come e del perché fosse stato assassinato. Da quel momento Paolo decide di essere “libero” e di scrivere senza restrizioni o censure di alcun tipo. Alla fine fonda il proprio sito di informazione “La Spia”. Da qui in poi è un crescendo di inchieste su affari sporchi, nascosti sotto apparenti affari “leciti”, di denunce continue contro gli intrecci fra mafia e politica: denunce e inchieste che toccano e scardinano regole mafiose consolidate in quella Ragusa “provincia babba, che babba non è”. Le inchieste di Borrometi mostrano un quadro chiaro di una mafia sottovalutata ma presente e pressante, che partendo dalla Sicilia sud occidentale si espande silenziosa e tragica su tutto il territorio siciliano e oltre. Un morto ogni tanto è un testo importante ricco di contenuti che stanno dando molto fastidio a coloro che si sentono minacciati dalle verità raccontate, e non solo ad essi: i nemici della legalità contano sul silenzio dei più per proliferare e moltiplicarsi, la paura di possibili ritorsioni fa il resto e così chi denuncia troppo spesso rischia di rimanere solo. Casablanca 47


Letture di frontiera – Paolo Borrometi Borrometi nel suo libro racconta di amarezza e solitudine. Un’amarezza che a volte traspare dalle sue riflessioni sui social. “I fatti che ho raccontato nel libro sono, per qualcuno, ciò per cui devo pagare − scriveva qualche giorno fa − e gli interessi si saldano. Si saldano gli interessi di mafiosi, di politici corrotti, di imprenditori che hanno svenduto la propria libertà. Si saldano con gli interessi di chi non capisce che, con i propri silenzi, sta rovinando anni di lotte. Perché il negazionismo è pericolosissimo. L’editore della radio che manda la pubblicità mentre parlo perché faccio nomi e cognomi; il deputato che avvia una pesante delegittimazione nonostante sia accusato di reati gravissimi; il sindaco del comune sciolto per mafia che va nelle scuole a parlare con i ragazzi; la politica a Scicli che, invece di prendere posizione dopo la mia denuncia per un capomafia che inaugura una attività commerciale in pieno centro, mi attacca perché ‘parlo male della città’. Non parlo male della città, parlare di infiltrazioni mafiose in un comune non vuol dire che Scicli così come Vittoria o qualsiasi altra città d’Italia sia mafiosa. Tanto è vero che faccio, appunto, Chi è Paolo Borrometi nomi e cognomi per non generalizzare. Ma sono proprio quelli il problema. Paolo Borrometi, nato a Ragusa nel 1983, laureato in GiuriInchieste, nomi e cognomi, società, tutto sprudenza, ha iniziato a lavorare al messo nero su bianco. È per questo che, «Giornale di Sicilia» e ha poi fondato il sito di informazione e secondo qualcuno, ‘devo pagare’. inchiesta «La Spia». Oggi è un A Voi affido come sempre le mie giornalista di Tv2000, collabora con l’agenzia «AGI» e con riflessioni − conclude Borrometi − affinché varie altre testate giornalistiche. Per rimangano nero su bianco. Così come Vi il suo impegno di denuncia, ha ricevuto l’onorificenza motu affido il mio libro, e con esso gli affari proprio dal Presidente della mafiosi che oggi sono conosciuti da tutti, o Repubblica. È presidente di «Articolo 21», collabora con Limeglio da chi vorrà leggerli. bera, la Fondazione Caponnetto e Io ho fatto e cerco di fare il mio dovere”. con la Cgil.

Paolo Borrometi Un morto ogni tanto La mia battaglia contro la mafia invisibile “Ogni tanto un murticeddu, vedi che serve! Per dare una calmata a tutti!» Nelle intercettazioni l’ordine è chiaro: Cosa Nostra chiede di uccidere il giornalista che indaga sui suoi affari. Ma questo non ferma Paolo Borrometi, che sul suo sito indipendente La Spia.it denuncia ormai da anni gli intrecci tra mafia e politica e gli affari sporchi che fioriscono all’ombra di quelli legali. Dallo sfruttamento e dalla violenza che si nascondono dietro la filiera del Mercato ortofrutticolo di Vittoria, al pomodorino Pachino Igp, alla compravendita di voti, e dal traffico di armi e droga alle guerre tra i clan per il controllo del territorio. Le inchieste raccontate in questo libro compongono il quadro chiaro e allarmante di una mafia sempre sottovalutata, quella della Sicilia sud-orientale. Il tutto filtrato dallo sguardo, coraggioso e consapevole, di un giornalista in prima linea, costretto a una vita sotto scorta: alla prima aggressione, che lo ha lasciato menomato, sono seguite Casablanca 48


Letture di frontiera – Paolo Borrometi intimidazioni, minacce, il furto di documenti importantissimi per il suo lavoro, sino alla recente scoperta di un attentato che avrebbe dovuto far saltare in aria lui e la sua scorta. I nemici dello Stato contano sul silenzio per assicurarsi l’impunità, e sono disposti a tutto per mettere a tacere chi rompe quel silenzio. Il primo libro di Paolo Borrometi è una denuncia senz’appello su un fenomeno ritenuto in declino e in realtà più pervasivo di sempre, da combattere anzitutto attraverso la conoscenza del nemico. Perché il potere della mafia, come diceva Paolo Borsellino, è anche un fenomeno sociale, fatto di atteggiamenti e mentalità passive contro cui l’unico antidoto è l’esempio della resistenza e della lotta.

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Letture di frontiera – Serena Marotta

Ciao, Ibtisam Il caso Ilaria Alpi «Ibtisam» è la traslitterazione della parola araba che significa sorriso. La scelta del titolo nasce dal desiderio di fare un omaggio a Ilaria Alpi, inviata del Tg3, che amava il mondo arabo. Ilaria che tutti ricordano proprio per quel sorriso che non l’abbandonava mai. Ilaria Alpi era una persona determinata, una «signora giornalista», una persona semplice e generosa. Ha tanto voluto quel viaggio, il settimo, l’ultimo. Con lei il 20 marzo 1994, a Mogadiscio, c’era l’operatore Miran Hrovatin di Videoest di Trieste. Quello è stato il loro ultimo viaggio. Sono passati ventiquattro anni da quell’esecuzione avvenuta per le strade di Mogadiscio. Ventiquattro anni senza conoscere la verità, tra depistaggi, false dichiarazioni, ritrattazioni. Ci sono stati tre processi e una Commissione d’inchiesta parlamentare per tentare di dare un volto e un nome a chi ha voluto questo duplice omicidio. Due tesi opposte si sono fronteggiate in questi anni: quella della sparatoria conseguente a un maldestro tentativo di rapina, nel quale emerge la figura del capro espiatorio Hashi (il somalo arrestato e poi liberato dopo anni di carcere) contro quella, ben più consistente, di un attentato premeditato per bloccare le inChi è Serena Marotta chieste che Ilaria stava conducendo in terra somala su un coacervo di traffici illeciti di armi e rifiuti, scomode Serena Marotta è nata a Palermo il anche per l’Italia. “Ciao, Ibtisam” mette insieme i tas25 marzo 1976. Ciao, Ibtisam! Il selli di un mosaico. Una storia che ha visto susseguirsi e caso Ilaria Alpi è il suo primo precedere una serie di morti sospette. Il libro si apre con libro. È una giornalista pubblicista, il racconto di quei momenti: l’agguato a Ilaria e Miran. laureata in Giornalismo. Ha Dal secondo capitolo, invece, incomincia a tracciare il collaborato con il Giornale di percorso seguito dagli inquirenti che si sono occupati Sicilia e con La Repubblica, ha delle indagini sino ad arrivare al processo di primo curato vari uffici stampa, tra cui grado del 1999 contro il somalo Hashi Omar Hassan. quello di una casa editrice, di due Per passare poi a delineare i fatti di cronaca del periodo associazioni, una di salute e l'altra in cui viene commesso il duplice omicidio. Quindi si di musica, scrive per diversi parla dei due processi, quello della Corte d’Appello del quotidiani online ed è direttore 20 ottobre 2000 e d’Appello-bis del 10 maggio 2002, responsabile del giornale online che vedono imputato ancora lui: Hashi, detto “Faudo”. radiooff.org. Appassionata di La penultima parte è dedicata invece al lavoro della canto e di fotografia, è innamorata Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Alpidella sua città: Palermo. Hrovatin. Infine, l’ultimo capitolo ricostruisce le tappe Casablanca 50


Letture di frontiera – Serena Marotta di Ilaria e Miran nei dieci giorni trascorsi in Somalia: Mogadiscio, Balad, Merca, Johar, Bosaso, Gardo, Bosaso, Mogadiscio. Al libro è allegata la lettera che Giorgio Alpi, padre di Ilaria, ha scritto nel 2008 per ringraziare Serena Marotta per il «grande contributo a non dimenticare» svolto con il lavoro di questo libro, allora pubblicato come tesi di laurea.

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Le Siciliane.org – Casablanca n. 56


“A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare?” Pippo Fava

Le Siciliane.org – Casablanca n. 56


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