Casablanca n.54

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GRAZIE LUCIANA


Le Siciliane - CASABLANCA N.54/ maggio - giugno 2018/ SOMMARIO

A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare? Pippo Fava

Ciao Luciana 4 – Editoriale: Liliana Segre al Senato per la fiducia al governo Conte 5 – Editoriale: Welcome Home 7 – Reato rivoluzionario Graziella Proto 11 –Graziella Proto Tutti i muri sono stati azzerati Contributi di Anna di Salvo e Giusi Milazzo 15 – Patrizia Maltese Io una di loro 17 Fulvio Vassallo Paleologo Il diritto di sognare un porto sicuro 23 – “NUN MU CRIIRIA” Maria Grazia Rando 25 – Ancora Desaparecidos? Brunella Lottero 28 – Antonio Mazzeo La grande guerra della nostra scuola INTERVISTE 32 – Caro amico fatti una risata Daniela Giuffrida 35 – Franca Fortunato Riace: la profuga pugliese LETTURE DI FRONTIERA 38 Lillo Venezia Lillo: uno del ’68 a Siracusa 39 –Dalla curva del fiume all’improvviso Gisella Evangelisti 40 –Antonio Rinaldis Riace il paese dell’accoglienza 41 - Miseria e Nobiltà – L’inganno della mafia – Quel terribile ’92- Educare alla pace: la questione Palestinese- Capire il Corano – La Favola di Palermo 45 – No Mafia Memorial

…un grazie particolare a Mauro Biani Copertina di Mauro Biani Foto dall’Aquarius – credits Grazia Bucca/SOS Mediterranee Direttore Graziella Proto – protograziella@gmail.com - Redazione tecnica: Vincenza Scuderi - Nadia Furnari – Simona Secci –Edizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Lillo Venezia

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GRAZIE LUCIANA

GRAZIE LUCIANA!

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Editoriale: Liliana Segre al Senato per la fiducia al governo Conte

Il numero di Auschwitz sul braccio Liliana Sgrene Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, colleghi senatori, prendendo la parola per la prima volta in quest’Aula non possa fare a meno di rivolgere innanzitutto un ringraziamento al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale ha deciso di ricordare l’ottantesimo anniversario dell’emanazione delle leggi razziali, razziste, del 1938 facendo una scelta sorprendente: nominando quale senatrice a vita una vecchia signora, una persona tra le pochissime ancora viventi in Italia che porta sul braccio il numero di Auschwitz.

hanno tomba, che sono cenere nel di senatrice ben conscia della mia vento. totale inesperienza politica e confidando molto nella pazienza che Salvarli dall’oblio non significa tutti loro vorranno usare nei consoltanto onorare un debito storico verso quei nostri concittadini fronti di un’anziana nonna, come sono io. Tenterò di dare un modesto di allora, ma anche aiutare gli itacontributo all’attività parlamentare liani di oggi a respingere la tentazione dell’indifferenza verso le in- traendo ispirazione da ciò che ho imparato. Ho conosciuto la condigiustizie e le sofferenze che ci circondano. A non anestetizzare le co- zione di clandestina e di richiedente scienze, a essere più vigili, più av- asilo; ho conosciuto il carcere; ho vertiti della responsabilità che cia- conosciuto il lavoro operaio, essendo stata manodopera schiava scuno ha verso gli altri. minorile in una fabbrica satellite In quei campi di sterminio altre mi- del campo di sterminio. noranze, oltre agli ebrei, vennero annientate. Tra queste voglio ricor- Non avendo mai avuto appartenenze di partito, svolgerò la mia dare oggi gli appartenenti alle poPorta sul braccio il numero di Auattività di senatrice senza legami polazioni rom e sinti, che inizialschwitz e ha il compito non solo di mente suscitarono la nostra invidia di schieramento politico e risponricordare, ma anche di dare, in di prigioniere perché nelle loro ba- dendo solo alla mia coscienza. qualche modo, la parola a coloro racche le famiglie erano lasciate Una sola obbedienza mi guiderà: la che ottant’anni orsono non la ebunite; ma presto all’invidia seguì fedeltà ai vitali principi ed ai probero; a quelle migliaia di italiani, l’orrore, perché una notte furono grammi avanzatissimi – ancora in 40.000 circa, appartenenti alla pic- portati tutti al gas e il giorno dopo larga parte inattuati – dettati dalla cola minoranza ebraica, che subiin quelle baracche vuote regnava Costituzione repubblicana. rono l’umiliazione di essere espulsi un silenzio spettrale. Con questo spirito, ritengo che la dalle scuole, dalle professioni, dalla Per questo accolgo con grande scelta più coerente con le motivasocietà, quella persecuzione che zioni della mia nomina a senapreparò la shoah italiana del 1943- convinzione l’appello che mi ha rivolto oggi su «la Repubblica» il trice a vita sia quella di optare 1945, che purtroppo fu un crimine professor Melloni. Mi rifiuto di oggi per un voto di astensione anche italiano, del fascismo itapensare che oggi la nostra civiltà sulla fiducia al Governo. liano. democratica possa essere sporValuterò volta per volta le proposte Soprattutto, si dovrebbe dare cata da progetti di leggi speciali e le scelte del Governo, senza alcun idealmente la parola a quei tanti contro i popoli nomadi. Se dopregiudizio, e mi schiererò penche, a differenza di me, non sono vesse accadere, mi opporrò con sando all’interesse del popolo itatornati dai campi di sterminio, tutte le energie che mi restano. liano e tenendo fede ai valori che che sono stati uccisi per la sola Mi accingo a svolgere il mandato mi hanno guidata in tutta la vita. colpa di essere nati, che non Casablanca 4


Editoriale: Trasite, favorite. Ospite, benvenuto

WELCOME HOME! Graziella Proto Conclusa la crociera. Probabilmente l’itinerario e la destinazione della crociera non sono quelli previsti dai viaggiatori ma si sono divertiti lo stesso. Sperano di non ripetere. I ministri Salvini e Toninelli soddisfatti potranno andare loro in crociera. Vergogna! *** Finita l’Odissea dei passeggeri della nave Aquarius. Sono arrivati in Spagna e sono stati accolti da striscioni con la scritta “welcome home” in varie lingue, mille volontari della croce rossa e 470 traduttori. I profughi provengono da 26 Paesi principalmente africani, ma anche da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan. Alle prime ore di domenica 10 giugno nel tratto di mare fra Malta e Sicilia la nave Aquarius dell’ong SOS Mediterranee proveniente dalla Libia con a bordo 629 migranti – fra cui 123 minori non accompagnati e 7 donne incinte – era in attesa di un permesso per attraccare in Sicilia. Il nuovo ministro dell’Interno Salvini non le ha consentito di sbarcare. I porti sono chiusi. Che sbarchino a Malta. Malta dice no. Non risponde e comunque Malta non accetta lo sbarco di persone nel suo territorio. Alla fine si fa sentire la Spagna dove, dal 2 giugno 2018, a capo del governo c’è Pedro Sánchez PérezCastejón – segretario del Partito Socialista Operaio Spagnolo.

Salvini ministro dell’Interno, può “bloccare” una nave o chiudere i Porti? Dovrebbe essere il ministro delle Infrastrutture Toninelli a decidere la chiusura dei porti “… se sospetta una violazione delle leggi italiane, e se l’arrivo della nave arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello stato costiero”, Casablanca 5

in base alla convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (ratificata dall’Italia nel 1994). Nulla di tutto ciò. Le disposizioni amministrative emanate da un ministro dovrebbero o no rispondere agli articoli della Costituzione e relative leggi di ratifica delle convenzioni internazionali? Sembrerebbe che non sia così.


Editoriale: Trasite, favorite. Ospite, benvenuto Sembrerebbe invece, che il “Contratto” di governo abbia aperto la strada ad una serie di gravi rotture costituzionali e anche internazionali. Condivido pienamente con Gino Strada, basta con i bisognerebbe fare. Oppure, la destra farebbe così e la sinistra in questo altro modo. La gente in migrazione è disperata. Ha bisogno di una mano di aiuto vero e possibilmente silenzioso. Eventualmente senza retorica, fronzoli ed orpelli. Necessitano regole nazionali ed europee chiare, facili, semplici. Che non diano a chicchessia la possibilità di interpretazioni fantasiose o di rigetto. Ce lo hanno dimostrato la coraggiosa Lampedusa, la rivoluzionaria Riace e potremmo continuare… L’attuale non è il mio governo, non

mi rappresenta, è stato eletto non nel mio nome, ma è il governo del paese in cui sono nata e vivo e pretendo ugualmente il rispetto dei principi fondamentali della Costituzione e della convivenza civile Chi siamo noi per condizionare la libertà e il movimento di tutti quelli che sono come noi? si chiede Mimmo Lucano, il sindaco di Riace. E me lo chiedo anche io. Da tanto tempo. Non ci vogliono intelligenze straordinarie per capire quello che sta succedendo, basta osservare le immagini che ci arrivano dentro casa. Chi sopra un gommone affronta il mare per giorni e giorni, col rischio di morire, perché tanto, peggio di come era non è possibile, scappa dalla guerra e dalla povertà, dai regimi che fanno patire la fame. So-

pra quei gommoni c’è la disperazione. Da quelle imbarcazioni fatiscenti tanti anni addietro minacciavano di buttare i loro bambini a mare se non avessero trovato aiuto. Questo era ed è il livello di disperazione. E cosa facciamo noi “civili”, di fronte a questa disperazione? Li rinneghiamo. Li lasciamo a mare… ci sono stati cinque giorni, ci possono stare anche otto di giorni, dieci. Ma tanto a fianco della nave Aquarius ci sono le nostre navi… stanno bene… Troppa retorica sull’accaduto, pensiamo ai governi precedenti… bisogna costringere gli altri paesi a… I trattati non vanno bene? Vanno rinegoziati. Ma il tavolo delle trattative non può essere fatto sulla pelle di chi già la disperazione la conosce così bene che ne vorrebbe scappare via.

“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e rivendico il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. Lorenzo Milani

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Ribelle e pacifica accoglienza

Reato Rivoluzionario Graziella Proto Nero su bianco – l’esperienza di Riace è importante per la Calabria e segno distintivo di quelle buone pratiche che possono far parlare bene di questa regione. Lo dice la prefettura di Reggio Calabria nella relazione del 26 gennaio 2017. Tuttavia da due anni, ormai, non vengono erogati i finanziamenti relativi ai progetti straordinari di accoglienza; da un anno quelli relativi ai progetti SPRAR. Le condizioni economiche del borgo calabrese conosciuto in tutto il mondo per le sue pratiche di accoglienza si fanno difficili. Serpeggia il pensiero che tutto possa finire nel nulla. “Il sogno deve rimanere” dice il sindaco Lucano, le cui politiche e idee in tema di accoglienza danno fastidio al potere, al sistema, alle istituzioni, alla burocrazia. “Di cosa hanno paura? – chiede forse provocatoriamente Mimmo Lucano sindaco di Riace a proposito della nave Aquarius respinta da Malta e Italia – Si impressionano per 600 persone? Mi ricorda il caso delle 12 nigeriane respinte a Gorino. Le case a Riace ce le abbiamo, e gliele diamo subito. Siamo pronti ad accogliere tutti i minori e le donne incinte che si trovano sulla Aquarius. Così vi solleviamo da questa paura che avete”. “Riace è un crocchio di case arricciate l’una sull’altra… quasi nascoste dai valloni selvaggi delle pendici aspromontane – così la descrive il funzionario della prefettura nella relazione del 26 gennaio 2017 – case piccole, a volte contorte, arrampicate su se stesse, avvoltolate come chiocciole su una spirale interna… ma pulite, ordinate, venate della mescolanza di uomini e di donne di

provenienza disparata… Riace è così si vede e non si vede. Conficcata su una collina della fascia ionica reggina”. Arrivando a Riace, la prima cosa che ti colpisce è la piazza: un anfiteatro la cui gradinata è dipinta con i colori della bandiera della pace. Uno sfolgorio di colori arricchito dalla coloratissima bambinopoli. Dalla piazza puoi salire o lungo la scalinata e per le viuzze che arrivano alla osteria di donna Rosa, o lungo la curva ripida, che arriva in una piazzola che guarda sull’anfiteatro e nella quale si trova il bar. A pochi metri da qui subito la porta del villaggio globale con le sue viuzze strette, ripide, allegre e colorate da fiori e cartelloni. Allietate dalle voci dei figli dei rifugiati. Dai tanti visitatori. “Ciao Mimmo”, senti subito e spesso. È tutto racchiuso lì. In quel ciao Mimmo. Mimmo non è il solito sindaco, l’istituzione fredda, Casablanca 7

distaccata, distante dai problemi di chi lo saluta. Mimmo è lì con loro e insieme a loro risolve i loro problemi. Fino a dove è possibile. A volte oltre. Arrivato terzo nella graduatoria tra i migliori sindaci del mondo del 2010, Mimmo u Kurdu ha cambiato il volto di Riace, un villaggio della Locride destinato a scomparire a causa dell’emigrazione. A Riace durante i suoi mandati hanno trovato ospitalità 6.000 richiedenti asilo, provenienti da 20 diverse Nazioni, e grazie a loro si è ridato slancio all’economia Mimmo in testa, ha un modello di accoglienza e di integrazione chiaro, preciso, Magari non riesce a spiegartelo bene… con le parole non è molto bravo. È semplicemente vero e immediato. Sbagliato per le logiche della burocrazia, della politica rottamata e non. È riuscito a trasformare il piccolo villaggio di Riace (2.000 abitanti) in un modello di


Ribelle e pacifica accoglienza integrazione dei migranti. Un esempio di interazione. Un prototipo studiato nelle università europee. Un modello acclamato, riverito, stimato. Raccontato e premiato nel mondo. Qualcosa che ha trasformato il paese in meta di studenti e insegnanti. Ha ispirato tanti libri. Nel 2010 Wim Wenders gli ha dedicato un documentario intitolato Il volo. Il magazine americano «Fortune» ha inserito il sindaco di Riace (unico italiano) al 40° posto della classifica delle personalità più influenti del mondo. Di Riace e Lucano, ne parla anche Al Jazeera. Artisti di tutto il mondo sono venuti qui a Riace e hanno lasciato segni della loro permanenza. DOMENICO LUCANO – MIMMO U KURDU Non alto, bruno, occhi che guardano lontano e che non smettono mai di scrutare. Militante di Autonomia Operaia fa politica da quando era studente. Di quella politica – sconosciuta ai più giovani – ha conservato gli ideali. Le ideologie. I sogni. La passione. Appena inizia a raccontare dei suoi rifugiati li descrive singolarmente, chiamandoli per nome, coinvolgendo l’interlocutore, che alla fine si convince veramente di conoscere anche lui Mahomed, Akim, Adiya, Kamaamil, Jaabir… Le povertà, le emarginazioni, i dolori umani, in questo piccolo borgo sono stati messi al centro delle istituzioni e da Lucano in particolare. Mohamed è solo al mondo – racconta Mimmo – vive a Riace con i bonus ed è convinto di far parte dello SPRAR. Mohamed sorride dolcemente e ringrazia. Un parlare amichevole. Affettuoso. Rispettoso. Di ognuno di loro elenca i problemi e ne spiega le soluzioni. Li ama. E loro amano

lui. “Ciao Mimmo” – ininterrottamente. Vedere Bahram Acar, un curdo che alle sei del mattino guida il trattorino per la raccolta dei rifiuti, o un giovane di colore che con l’ape vende gli ortaggi parlare uno stretto dialetto calabrese è scioccante. Meravigliosamente scioccante. E poi, i laboratori artigianali, la fattoria didattica, il frantoio oleario, l’ambulatorio medico, l’asilo nido multietnico, il cimitero multietnico… Tante strutture che servono per i migranti ma anche per tutti gli altri abitanti di Riace. Le pezze di appoggio? Non sempre sono quelle richieste. “La fantasia al potere” è stato un sogno che ci ha incantati per anni. Ci abbiamo creduto in questo sogno, poi piano piano ognuno è ritornato nel suo mondo. Si è lasciato avviluppare. Mimmo Lucano no. Anche se, in quanto sindaco, il ricatto delle scadenze, la freddezza delle istituzioni, il rispetto delle norme… incombono.

Lui ha scelto l’elasticità mentale, il prevalere dell’umanità sulla burocrazia… rendersi utile e risolvere i problemi di chi più sfortunato è lì di fronte a lui e aspetta che lui offra delle soluzioni umane e umanitarie. Reato! ha risposto lo stato. È Casablanca 8

indagato per truffa aggravata all’UE e allo stato italiano, concussione e abuso di ufficio. Accuse pesanti che potrebbero travolgerlo. Stritolarlo. Lo racconta arrabbiato, con le lacrime agli occhi. Riace non è – è vero – mafia capitale. Non è il Cara di Mineo. Riace non è protocolli, timbri, scartoffie, linee guida e scadenze. Riace è umanità. Tuttavia da due anni i finanziamenti sono bloccati. Il rischio che tutto fallisca aleggia. Hai fatto questi lavoro con i soldi dello SPRAR? Sbagliato, non potevi. Hai abusato. Hai rinnovato la carta di identità fuori permesso? Reato. Però diciamolo, un reato rivoluzionario. Per certi versi destabilizzante. Sicuramente un reato che ci piace. Cercare di leggere un documento degli uffici preposti all’amministrazione cartacea dei migranti è come entrare in un labirinto. Ci si perde in un oceano di commi articoli, paragrafi, capitolati. Non si può sempre seguire. Le persone non sono commi o capitolati e si aspettano risposte di vita. Insomma, Lucano con le sue politiche e le sue idee disturba. Non rispetta le regole e le logiche. Distrugge le formule. Lui insegnante di chimica che di formule è pratico. A pochi chilometri da Riace regnano alcune delle famiglie ’ndranghetiste più potenti e pericolose. Cosche attive in Italia e nel mondo. Mimmo fa anche danno alle mafie, molto interessate al business sui migranti. Quindi disturba gli affari della ’ndrangheta. Due volte hanno sparato contro la porta della sua abitazione, gli hanno incendiato la macchina… qualche minaccia… ISPEZIONI E RELAZIONI Tre ispezioni della Prefettura. Tre relazioni: due positive una


Ribelle e pacifica accoglienza negativa. Ma è proprio quella negativa che ha avuto il sopravvento come notizia e come conseguenza giudiziaria. La relazione dell’ispezione luglio 2016, infatti, segnala che il modello creato da Mimmo Lucano è poco ortodosso e non rispetta le linee guida del manuale SPRAR. Ma soprattutto quel sindaco così creativo si è inventato una moneta! Nessuno può stampare moneta. Reato! Ma è una moneta locale interna al solo comune di Riace. Dei pezzi di carta con su la faccia del Che, o altri rivoluzionari. Non può essere un reato. È una idea rivoluzionaria che permette alle persone di fare la spesa in attesa che arrivino i finanziamenti perennemente in ritardo. I commercianti da parte loro sono contenti, lavorano con i rifugiati e nei loro confronti sono gentili e accoglienti: “trasite, favorite”, dicono in stretto dialetto calabrese, una lingua acquisita e parlata dai tanti che rimangono curdi, nigeriani, pachistani… Poi, quando arrivano i finanziamenti, i commercianti esibiscono i bonus e riscuotono. “Acquistate i ticket, ricorrete ai prestiti bancari in attesa dei soldi del Viminale”, – dice lo stato, ma Lucano di pagare gli interessi alle banche non ne vuol sapere. Non è finita: quel sindaco visionario ha istituito anche delle borse lavoro! Tutto con i 35 Euro. Un pazzo che dimostra che con 35 Euro si può fare tanto. Uno che non si lamenta. Non piange. Non chiede aiuti straordinari. Insomma una buona pratica. Sì, ma una cosa che dà fastidio al sistema. Al potere. Alle istituzioni. Con le carte hanno provato a smontare quel modello tanto invidiato da chi ha a cuore la sorte dei migranti. Hanno attaccato le cooperative, le case date ai

migranti, la moneta, l’assunzione di personale e la carenza di personale qualificato… i tanti profughi che nonostante le scadenze continuano a rimanere nel paese. Una campagna denigratoria, diffamatoria, di criminalizzazione del sindaco e del suo modello di accoglienza e integrazione, supportata da esposti e denunce anonime. Nell’ottobre 2017, la Procura di Locri nei confronti del sindaco Mimmo Lucano emana un avviso di garanzia per abuso di ufficio, concussione e truffa aggravata. La solidarietà non si fa attendere. Scendono in campo a fianco del sindaco calabrese centinaia di associazioni e personalità impegnate nel mondo del sociale e della politica. In tantissimi si recano a far visita a Riace per sostenerlo, parte una raccolta di firme. Dopo poco tempo qualcosa si muove: nel gennaio 2017 c’era stata una visita della prefettura. Una visita della quale per tanto tempo non si è saputo nulla. Per mesi e mesi la relazione richiesta

dall’interessato non è stata mai consegnata. Poi nel febbraio del 2018 la Procura di Reggio Calabria, dopo una denuncia per Casablanca 9

omissione di atti di ufficio e le denunce dei mass media, rilascia una copia. “Questa relazione, per scelta dei degli estensori della stessa, non vien redatta secondo criteri e formule di stretto criterio burocratico/ amministrativo – si legge – vuole evidenziarsi e fornire uno strumento di comprensione del fenomeno ‘Riace’ differente da quello finora acquisito e tentare così di spiegare non solo quello che viene fatto (o non fatto) a Riace ma soprattutto, come viene fatto direttamente dalle persone (di ogni colore e nazionalità) che ne sono le principali e dirette protagoniste”. RIACE SEGNO DISTINTIVO DELLA CALABRIA L’ultima relazione degli ispettori della prefettura sembra un trattato di poesia. Tanto è leggera, soave, delicata, acuta e profonda. Solo elogi. Passi quasi poetici. Commoventi. Il racconto dei migranti e dei loro bambini è toccante. Non guarda solo le carte. È redatta da persone che hanno guardato, osservato, parlato con le persone che vivono a Riace. Mette in evidenza tutto ciò che di positivo era possibile fare, certamente inseguendo un sogno – quello del visionario e passionario Mimmo Lucano – ma mettendo a frutto sia il costo dei migranti sia l’obiettivo. Accogliere, integrare… amare quelle persone. Rispettare i loro bisogni, le loro aspettative. I loro sogni. Riace non cessa di stupire. Girando nella parte superiore del paese non puoi non rimanere affascinato dalle botteghe artigiane dove si lavora il legno, il vetro, la ceramica, i tessuti, un tentativo per il ripristino di vecchi mestieri disusati. Oppure le botteghe con i telai grazie ai quali si tesse anche la ginestra e si si producono


Ribelle e pacifica accoglienza tappeti e stuoie ed altro dal sapore africano. Man mano che ci si allontana dal centro si arriva a quello che per Lucano è il fiore all’occhiello del suo operato. In una bellissima insenatura verde scavata nella collina ti ritrovi di fronte a una specie di anfiteatro naturale. Un posto bellissimo ma durante le piogge tutto scivolava giù – spiegano. Sono stati realizzati tanti terrazzamenti con sopra una piccola casetta per le bestie. Nella parte superiore dei

terrazzamenti invece si trova una costruzione grande che dovrebbe servire per alloggiare la famiglia che si prenderà cura del – forse nascituro – caseificio, con le stalle per le mucche e gli asinelli che sono utilizzati lungo le stradine strette e ripide per la raccolta della differenziata porta a porta. Alcune vasche per l’approvvigionamento di acqua. Un romantico ponticello che porta sulla collina vicina dove ci sono le arnie, circa venti. Tutto costruito dai migranti che imparano un mestiere e non stanno

ad oziare. Ogni casetta sarà assegnata ai migranti, che potranno tenere i propri animali domestici e nella terrazza coltivare un orto per la propria dispensa. Sarà utopistico ma è straordinario. «Riace è anche questo: l’inventiva legata alla tradizione, l’idea di recuperare spazi per lavorare la terra e sfamare i famigliari con quello che si produce … Le ragioni che hanno spinto ad abbandonare il tono strettamente burocratico e trasmettere uno spaccato di vita quotidiana di Riace risiedono nell’avvertita necessità di raccontare la storia dell’immigrazione del borgo divenuto famoso prima per i Bronzi e poi per l’impegno del sindaco Lucano … Certo, avremmo potuto chiedere al sindaco maggiori dettagli sul rispetto delle regole urbanistiche nella realizzazione del progetto, e se le casette fossero state realizzate da ditte iscritte al withe list o individuate con manifestazione di interesse aperte almeno a 5 concorrenti, ovvero se le dimensioni dei terrazzamenti fossero rispondenti a quelle previste dalla legge agraria del 1982. […] Ma a pochi chilometri da Riace regnano le famiglie mafiose più potenti e pericolose, oggi attive in Italia e nel resto del mondo, [mentre] Domenico Lucano è un uomo che ha dedicato all’accoglienza buona parte della propria vita combattendo battaglie personali e raccogliendo riconoscimenti internazionali di assoluto prestigio. […] Si ritiene, per concludere, che l’esperienza di Riace sia importante per la Calabria e segno distintivo di quelle buone pratiche che possono far parlare bene di questa regione».

Ciao Mimmo, grazie.

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Riace: tutti i muri sono stati azzerati

Riace: tutti i muri sono stati azzerati A cura di Graziella Proto Il discorso del sindaco Mimmo Lucano all’assemblea del 26 maggio scorso. La voce è piena di emozione. Tesa. Nella sala scende una commozione inconsueta nei convegni. Un intervento accorato. Commosso. Coinvolgente. Emerge un malessere che l’opprime. Forse inseguiva un sogno, una idea politica di giustizia, per bloccarlo gli sono state create tante ombre, ma per Riace è stata una occasione straordinaria. Dell’intervento del sindaco riportiamo alcune parti esemplificative. L’evento è stato organizzato dalla Re.Co.Sol., la rete dei comuni solidali. Riace in questo periodo ha bisogno di solidarietà e di chiarezza. La realtà difesa e protetta. Il modello rilanciato. Firmiamo l’Appello per Riace patrimonio dell’umanità” Ognuno di voi mi dà una emozione particolare. Tutti gli interventi precedenti dimostrano una sensibilità particolare e che, esistono altri rapporti umani. Vocazioni che non si vedono più. Queste sono occasioni che forse non si presenteranno più, il prossimo anno non sarò più sindaco, non è una cosa patetica… già mi sto immaginando… concentrando. Il mio rapporto con Re.Co.Sol. la rete dei comuni solidali è iniziato con la telefonata di una persona emozionata che mi voleva invitare all’assemblea di Polizzi Giosa. Ero sindaco da un anno. Non avevo idea di questa rete solidale ma le parole mi dicevano e convincevano che era un qualcosa che dovevo conoscere. Capire. Andai. Lì mi si è aperto tutto un mondo e poi da lì l’adesione del

comune a Re.Co.Sol. Ho conosciuto l’associazione per la cooperazione internazionale e Chiara Sasso e lei mi disse: “A Riace la cooperazione internazionale già la state facendo”. Con Re.Co.Sol. è stato un rapporto straordinario al di là delle sigle, delle logiche e dei risultati. La spinta è stata condividere l’umanità, tutti gli aspetti formali servono per giustificare il rapporto, però è stata una cosa straordinaria. L’accoglienza a Riace risale al 1998 quando sulle spiagge arrivò un veliero carico di persone curde. Bahram Acar è sbarcato alla marina di Riace alle quattro del mattino di un’estate nel 1998, non si sarebbe mai immaginato che ci avrebbe passato il resto della sua vita. Ci appassionammo alle questioni curde. Arrivò anche Casablanca 11

Alfonso Di Stefano e il suo amico Dino Frisullo. In una Riace deserta e un caldo torrido Alfonso e Dino giravano sotto il sole. Alfonso metteva gli striscioni sul Kurdistan ma qui non li vede nessuno gli dicevo ma lui ribadiva che non era questo il problema e intanto mi aveva già contaminato. Già nel 2008 Riace si discostava dalle norme burocratiche, e le restrizioni che il sistema di accoglienza poneva. Chiara è venuta con me a Roma per dire: “Ma state facendo in modo che Riace non viva. Non possa continuare”. È stata una presenza costante e vicina anche per una elaborazione politica. Riace è stato un laboratorio politico continuo In un piccolo luogo, in una piccola comunità c’è stata una idea politica, non solo numeri o la riuscita, ma l’idea politica dalla


Riace: tutti i muri sono stati azzerati

RITORNO DA RIACE Anna Di Salvo Il ritorno dai due giorni trascorsi a Riace per l'incontro «Riace casa di tutti, Riace bene comune, Riace patrimonio dell'umanità» è, come sempre succede quando si ritorna da Riace, un misto tra entusiasmo e nostalgia, con in più gli occhi stracolmi di bellezza. L'incontro ha avuto inizio con la celebrazione del rito funebre dedicato alla giovane emigrata Becky Moses perita nel rogo della baraccopoli di S. Ferdinando. È stata seppellita tra i fiori del cimitero di Riace, paese da lei adorato e dove ha soggiornato prima di essere spostata “come da protocollo” nella pseudo struttura d'accoglienza di Rosarno... Inizio non certo facile questo, per un incontro il cui intento ha voluto essere quello di riuscire ad articolare ed esprimere con ragione e forza il consenso unanime delle donne e degli uomini presenti. Un consenso per l'idea e il progetto di Riace, concretizzatosi negli anni malgrado le avversità incontrate, significativo della felicità che coglie le donne e gli uomini emigranti quando si trovano a vivere in quel paese per qualche tempo. Un incontro che oltre a offrire spazi per le presentazioni di libri (uno per tutti Cicogne nere del nostro amico eritreo Abdelfetah) e la fruizione di video riguardanti aspetti e interrogativi inquietanti che connotano le migrazioni, viste più come fenomeno del nostro presente, che come momentanea emergenza, ha soprattutto mirato a far conoscere e scambiare le analisi e le esperienze virtuose di sindaci e di vari amministratori e amministratrici — poche per la verità — provenienti da varie parti d'Italia facenti parte della Rete dei Comuni Solidali. Eravamo presenti anche noi, alcune delle donne della rete delle Città Vicine, uomini e donne di associazioni rivolte al rispetto dell'ecosostenibilità nelle sue varie accezioni e nelle forme d'accoglienza e d'integrazione delle donne e degli uomini migranti scrittori, poeti, giovani provenienti da varie parti d'Europa, giudici, qualche giornalista e il presidente della regione Calabria. Sul finire del secondo giorno, per alcuni minuti, con la Rete Antirazzista Catanese abbiamo ricordato, la recente devastazione della città curda di Afrin e l'uccisione di donne, uomini e bambini che l'abitavano, da parte dell'esercito turco, sottolineando la visione femminista e l'opera di civiltà e libertà tessuta negli anni dalle donne in Kurdistan e oltre, ritenuta da loro imprescindibile al di là di ogni persecuzione e tentativo di sradicamento. Precedentemente, nella stessa mediateca avevamo approntato un tavolo, dove insieme a documenti e libri sul Kurdistan, sono stati esposti numeri della rivista della MAG di Verona “Autogestione e Politica prima”, dove poter leggere articoli riguardanti le Città Vicine, il modo originale di governare Riace, l'economia circolare, il convegno "Le città all'opera" svoltosi a Napoli e tanto altro ancora... Il sindaco di Riace Domenico Lucano ha sottolineato che, oltre ai molteplici tentativi da parte di alcune istituzioni volti a denigrare e delegittimare il suo operato, il suo spirito si mantiene forte, così come forte è la consapevolezza e la soddisfazione per aver tracciato insieme a Chiara Sasso, sua collaboratrice e ispiratrice, un solco indelebile che indica il percorso più umano e intelligente da percorrere per realizzare forme vere di convivenza armoniosa con le donne e gli uomini migranti che spesso tragicamente giungono sino a noi. Il sindaco Lucano, durante il suo intervento, in vari momenti ha ringraziato le donne delle Città Vicine per la costanza della nostra presenza a Riace sempre affettuosa e propositiva, e ci ha invitato al prossimo RiaceFestival che si terrà dal 2 al 5 agosto. Inoltre, il primo cittadino, consapevole del fatto che il proprio mandato sta volgendo al termine, ha spiegato che d'ora in poi il suo lavoro dovrà mirare alla trasmissione della sua esperienza di buon governo ad altre/i che vorranno raccoglierla e fare propria la sua eredità. Abbiamo apprezzato molto il lavoro, la gentilezza e il garbo col quale Roberta Ferruti di Re Co Sol si è dedicata già molti giorni prima dell'incontro a rendere accoglienti le casette del paese che ci hanno ospitato, a raccogliere ed esaudire tutte le istanze che le sono pervenute, e a preparare e farci gustare cibi squisiti e prelibatezze locali! Che dire in aggiunta... Udire uccelli che cinguettando si stagliano in un cielo terso e nell'aria profumata, mentre un asino (vera rarità questa...) raglia e le galline avvertono d'aver deposto le uova, sono altri motivi convincenti per ritornare al più presto a quella Riace vivace e conforme a quella che conosciamo e amiamo!

quale saremo sempre affascinati, attratti al di là degli esiti elettorali o le circostanze. Tante persone hanno contribuito a realizzare questa idea. L’arrivo delle persone a Riace per me è stato un aspetto straordinario

che mi ha permesso di conoscere le loro storie, di avere un rapporto umano con i rifugiati. Tutti hanno lasciato un segno speciale a Riace. SPRAR non è solo una sigla, è un progetto. (Per delle norme burocratiche Casablanca 12

Becky Moses, una nigeriana di 26 anni, era stata spostata da Riace dove viveva felice, al centro di San Ferdinando, che è un lager. Dopo cinque mesi ancora non aveva avuto il funerale perché nessun comune oltre Riace si è voluto


Riace: tutti i muri sono stati azzerati

LA RIDENTE RIACE FELICE! Giusi Milazzo Riace, che dire? Nonostante in questi anni le difficoltà nel portare avanti il progetto di accoglienza dei migranti e di rinascita del borgo in un'armoniosa convivenza tra donne e uomini calabri e di tante altre nazionalità siano cresciute anche per l'ostilità di parte delle istituzioni, nonostante la fatica e la tensione che in qualche maniera percepisci perché è dura rintuzzare chi rema contro quello che è proprio un altro modello di concepire le migrazioni, Riace è ridente con i suoi balconcini fioriti: rallegrata dai sorrisi di alcune bimbe nere con le loro sontuose treccine colorate, dagli aquiloni di carta velina confezionati nella bottega pakistana. Due giorni intensi di dibattito e storie, il 25 e 26 maggio scorsi, tante esperienze di accoglienza e di buona amministrazione avendo in mente un'idea chiara di economia circolare di benessere delle comunità e di sostenibilità. Domenico Lucano, il Sindaco, sorride un po’ sornione aggirandosi tra gli ospiti che ancora una volta affollano il centro e che sono qui per l'assemblea di Re Co Sol e per sostenere la richiesta all'Unesco di Riace patrimonio dell'umanità. E' il terzo anno che con alcune amiche e amici della rete delle Città Vicine veniamo a Riace: io, Anna, Alfonzo, Franca e Serena anche quest'anno siamo qui. Questa storia ci ha conquistato. Seguirne l'evoluzione e dare al sindaco e a Chiara Sasso di Re Co Sol il nostro sostegno affettuoso e attivo ci sembra importante. Ancora una volta stringiamo relazioni e rapporti, Paola, Daniela, Loredana, Roberta, Abdel, Novella, Maria… tante le donne e gli uomini che sono qui attratte/i dal fatto che qui si è iniziato a costruire un'altra società. Forse manca una sottolineatura, presente nei corpi, nelle emozioni, nelle idee, manca la sottolineatura della capacità generativa della terra, dell’acqua, dell’elemento femminile che di Riace costituisce l’humus sia in senso fisico che metaforico. Per questo ci siamo lasciate ripromettendoci di riparlarne. Errori, difficoltà, sperimentazioni audaci ma anche tanta gioia e capacità di andare oltre i limiti. Questo progetto è coinvolgente, economico e innovativo e meriterebbe che fosse curato, assistito ed esportato da Istituzioni amiche e non affossato da uno Stato patrigno che sembra avere a cuore solo il rispetto formale di regole inique. Regole che andrebbero modificate sulla base di quelle esperienze, anche creative, che hanno dimostrato la loro bontà. Le donne e gli uomini presenti a Riace, con importanti esperienze di amministrazione pubblica, impegnate/i nel creare reti e luoghi di convivenza con le popolazioni migranti, nella salvaguardia dell'ambiente e del territorio, nella condanna delle guerre, nella denuncia dei genocidi (lo hanno fatto Alfonzo e Anna) sia del popolo curdo che del popolo palestinese, con Mimmo e Chiara hanno stretto un patto di sostegno e solidarietà perché l'esperienza di Riace continui, metta radici e come una pianta di ulivo generosa e robusta si propaghi.

addossare le spese. È stata sepolta nel cimitero di Riace). Come si fa a tenere aperto quel lager della morte? Ogni giorno si muore se non fisicamente, come dimensione umana. Come si può vivere accampati male, con il caporalato, con le complicità, la nostra indifferenza. Come si fa a d aggredire una idea di accoglienza diffusa che ha una storia, dimostra che è condivisa e metabolizzata sul territorio dalla realtà sociale e lasciare invece un lager come San Ferdinando o le realtà gestite dalla criminalità organizzata? Le relazioni della prefettura lì son perfette. Come spiegare tutto ciò?

NON SI PUÒ FARE DA SOLI Riace alla fine è un modello per una situazione che non è mai studiata, mai con delle regole precise, anzi, sopportando male il condizionamento delle norme. Tutti pensano che le regole dello SPRAR siano linee guida da cui non si può prescindere, io dico che sono regole che mortificano non solo l’accoglienza ma anche la dignità umana. Su questo ci siamo scontrati con le istituzioni che dovrebbero avere considerazione di ciò che avviene nei territori, perché dimostra che è possibile Casablanca 13

una altra dimensione delle norme. Tutti si appoggiavano e si rivolgono a Riace per le emergenze. Io non ho detto mai di no alla prefettura. Le stesse persone che mi hanno contestato a livello penale sono le stesse che mi chiedevano di risolvere i problemi. Ed io l’ho fatto perché mi piaceva risolvere questi problemi, salvo poi che tutto questo è diventato materia penale nei miei confronti. Abbiamo fatto sempre spazio – non abbiamo detto mai no perché abbiamo visto che più che un problema era una occasione. Nei comuni della Locride non ci sono alternative di sviluppo, l’unica


Riace: tutti i muri sono stati azzerati alternativa è la migrazione. I servizi, le sperimentazioni, i processi collaterali, i laboratori, l’ambulatorio medico, questo processo serve per i rifugiati ma anche per i cittadini di Riace. Si sono inventati “Lungo permanente”. L’accoglienza a scadenza, dopo che finiscono il periodo se ne devono andare perché le norme dello SPRAR… Più segui le regole più sei progetto virtuoso. Riace è tutto l’opposto. Non è considerato progetto virtuoso – questo è doloroso. Riace non è coerente con le norme dei lungo permanente, degli affidamenti diretti – mi chiamavano la mattina e il pomeriggio arrivavano pullman, oppure la questione dei documenti A Riace siamo stati molto elastici con i documenti, anche la ragazza morta ha avuto la carta di identità fatta da noi. Fare le carte di identità è stato un abuso di ufficio perché non abbiamo fatto pagare e abbiamo creato un danno erariale allo stato. Con i lungo permanete abbiamo creato un costo in più allo stato (ma non è così).

Molto gratificante il fatto che Riace sia un modello, sia film, libri, studio. Ma non basta. Per i bronzi di Riace non è venuto mai un turista, per la società multietnica globale arrivano scolaresche da tutta Italia e dall’estero, una occasione straordinaria di incontri, di conoscenze, relazioni umane al di là delle prospettive politiche. Magari siamo deboli dal punto di vista elettorale. Le circostanze non sono propizie ma dobbiamo essere sempre pronti a ripartire e non perdere mai. Il sogno deve rimanere. Essere stato sindaco tre volte consecutive mi ha dato la possibilità di trasmettere messaggi politici, questo è un vantaggio, ma io sono rimasto un semplice cittadino. Che opera, che vuole dare un contributo mettendo le mani ogni giorno per costruire non solo la mia piccola comunità ma anche una comunità globale migliore. Il mio auspicio è che si sia compreso il messaggio più

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importante: c’è un’altra dimensione dei rapporti umani. Quello che abbiamo vissuto in questi anni è che tutti i muri, anche quelli che non si vedono, sono stati azzerati. Contro gli egoismi, gli opportunismi, le logiche clientelari. Ma a questa logica è come se ci fosse una contrapposizione. Una piccola esperienza che ha trasmesso un messaggio di valore globale mondiale ha dato fastidio a quelli che stanno in ombra, che vogliono altro, che devono dimostrare un mondo dove prevalgono i muri, le barriere, le divisioni, le discriminazioni, le barriere… Chi siamo noi come esseri umani per condizionare la libertà e il movimento di tutti quelli che sono come noi? In tutti questi anni per me gli incontri con le persone ogni giorno mi hanno dato coraggio, spinte, entusiasmo. Ti danno forza, ti fanno comprendere, imparare. Ti danno suggerimenti. Non si può fare da soli.


Quella “G” che fa la differenza

Io una di loro Patrizia Maltese Il racconto di una donna ecopacfista, ecofemminista che nell’accoglienza e nel modello Riace ha scoperto il suo mondo. Un mondo dove, finalmente, tutti i pezzi del puzzle andavano a posto. Politicamente vicina ai Verdi, Roberta Ferruti se ne è distaccata quando in Parlamento si trattava di decidere se appoggiare l’intervento armato di Bush padre contro l’Iraq. I Verdi decisero l’astensione ma lei non era d’accordo. Si è ritirata in campagna a crescere le sue figlie, organizzare GAS, interessarsi di colture biologiche. Esponente della Re.Co.Sol., nel 2016 è approdata a Riace e ne è subito diventata ambasciatrice, dopo avere capito che «un altro mondo è possibile” non è soltanto uno slogan. “Mi hanno accolta come una di loro, perché qui accolgono tutti”. Ecofemminista, ecopacifista, giornalista free lance e blogger, in politica con i Verdi finché non c’è stato da scegliere fra pace e guerra, fra i fondatori dei primi Gas (i gruppi di acquisto solidale), Roberta Ferruti da un paio d’anni è diventata ambasciatrice di Riace dopo avere capito che «un altro mondo è possibile” non è soltanto uno slogan. A Riace c’è arrivata nel 2016, a conclusione di un lungo viaggio da sola – zaino pesantissimo in spalla, un fardello di esperienza e di sofferenza ancor più ponderoso – sulle rotte dell’immigrazione: a Catania per documentare gli sbarchi, poi il Cara di Mineo, Scicli, Pozzallo, fino a Lampedusa dove ha conosciuto Luigi Ciotti con cui è entrata in confidenza. A Riace c’è arrivata quando il dolore

e la fatica di vivere dei migranti erano già entrati nella sua pelle, anche grazie all’impresa di quel lunghissimo viaggio che la faceva sentire un po’ come loro, che la metteva – spiega – «in una condizione di empatia con i migranti”: “Ho scoperto una realtà – mi dice – che conoscevo solo sulla carta e ho trovato i valori di solidarietà comuni alla sinistra e al volontariato cattolico: del resto, il sindaco viene da Autonomia operaia e la sua assistente, Cosimina Ierinò, dall’Azione cattolica e da dieci anni portano avanti dei principi condivisi. Questo ha un valore altamente simbolico e io lì finalmente mi sono sentita bene, tutti i pezzi del puzzle andavano a posto. Da quel momento dedico buona parte del mio tempo a parlare di Riace in giro per il mondo”. In realtà, aggiunge che facendo Casablanca 15

parte di Re.Co.Sol, la rete dei comuni solidali, ha sempre sostenuto Riace anche quando nessuno ne parlava: poi le hanno offerto di lavorare con loro e si è sentita “onorata”, anche se non è il primo dei progetti di accoglienza del centro-sud che segue. Però questo ha segnato una svolta nella sua vita. Che certamente è stata sempre caratterizzata dall’impegno politico e pacifista. Due cose che a volte entrano in contraddizione. E infatti, pur essendo stata fin dagli inizi vicina ai Verdi, Ferruti a un certo punto ha dovuto fare una scelta per assecondare la propria scelta pacifista e non violenta: “Ho lasciato la politica – ricorda – in seguito a uno scontro all’interno dell’associazione, quando si trattava di decidere se appoggiare l’intervento armato di Bush padre contro l’Iraq. Loro erano per l’astensione; secondo me era una


Quella “G” che fa la differenza contraddizione in termini e ho chiuso con l’attività politica. Mi sono ritirata in campagna, mi sono occupata delle mie figlie e della famiglia, ma anche dell’alimentazione continuando ad assecondare i principi di solidarietà come facevo quando ero tra i fondatori del Gas del Lazio e ora continuo a seguire le realtà dei piccoli produttori locali. Ho l’orgoglio di avere collaborato, quando ero nei Verdi, alla stesura della legge sull’agricoltura biologica, che ha le sue pecche ma almeno esiste”. A Riace non ci si è trasferita: “Ci vado tutte le volte che posso – dice – , ma la situazione è in divenire e temo cosa potrà essere quando Lucano finirà il suo mandato, l’anno prossimo: immaginare la mia vita lì se il progetto non avrà seguito, non ha senso”. QUELLA “G” CHE FA LA DIFFERENZA Però, in occasione dell’assemblea nazionale che Re.Co.Sol ha voluto fare a Riace proprio perché “il momento è critico”, ha partecipato all’organizzazione. Il cui pilastro portante, ci tiene a precisare, è stata Chiara Sasso, amica storica di Mimmo Lucano, che ha seguito tutto il progetto Riace fin dall’inizio: “Io ho dato una mano nell’organizzazione logistica, nel reperimento degli alloggi per le oltre settanta persone che hanno risposto, collaborando con l’associazione Città futura che gestisce le case”. Prima di decidere di affrontare il lungo viaggio dalla Sicilia, il suo era “un contatto aleatorio, un argomento come altri, la disoccupazione, la povertà” e non

era ancora consolidato fra Catania, Mineo – dove i migranti erano rinchiusi – o Lampedusa da dove non potevano uscire: “era una massa di persone che vedevo da lontano”. Poi l’approdo a Riace, e il rapporto si è sbloccato: “perché sono persone che conosci, che abitano nelle stesse case in cui abiti tu, fanno la spesa dove la fai tu, i bambini nelle scuole vedono

con gli stessi occhi, i contorni dei visi sono ben precisi, sei passata dall’altra parte. Lo devo a Riace e al sindaco”. Precisa che questa non è una banalità, perché la sua è una formazione non violenta ma finché non parli con le persone non capisci e a lei – aggiunge – “si è aperto un mondo”. Anche per una sfumatura lessicale che fa la differenza. Solo una g fra integrazione e interazione, eppure tutta la sostanza è lì. Perché a Riace si pratica l’interazione e a Ferruti piace ricordare che a spiegarle come non si tratti di una sottigliezza fu proprio Luigi Ciotti, mentre prendevano un gelato a Lampedusa. Lei parlava di integrazione e lui, con il sorriso che lo contraddistingue, la corresse: interazione. “Finché c’è integrazione – spiega la giornalista, che del fondatore di Libera e delle proprie esperienze parla anche attraverso il suo blog (https://tralerigheweb.wordpress.c om) – non si prende il problema Casablanca 16

per il giusto verso: integrazione vuol dire che c’è qualcuno che arriva da fuori e si deve adattare; con l’interazione c’è lo scambio alla pari, perché il migrante porta con sé la sua storia, porta il suo contributo. È un movimento orizzontale, che cambia entrambi: chi accoglie e chi arriva”. È per questo che Ferruti tiene in modo particolare all’appello per chiedere il riconoscimento di Riace patrimonio dell’umanità, “da preservare per i figli, i nipoti e il mondo che verrà”, perché “non bisogna alzare muri, bisogna guardare gli altri negli occhi: in vent’anni a Riace non ci sono stati mai problemi con i migranti, nessuna sommossa, nessuna ribellione”. Questo adesso è l’impegno politico della giornalista: replicare altrove il modello Riace, un paese che stava morendo e si è ripopolato, creando anche posti di lavoro per i calabresi: “quindi il problema non esiste”. E questa è – ed è stata, visto che decine di migliaia di persone hanno firmato l’appello – la migliore risposta al ministro xenofobo Matteo Salvini, che ha ricoperto di insulti Mimmo Lucano, come solo un fascista sa fare: “Penso che Salvini sia uno stupido – conclude –, perché ha fatto un regalo a Riace: da quando ha detto quelle cose siamo subissati da richieste di informazioni. Da anni ne parlavamo ma c’era il black-out, c’era ostilità, nessuno la conosceva in Italia, la Rai ha persino bloccato la fiction su Riace. Se fosse stato zitto, non si sarebbe mobilitata tutta questa gente. Devo essere grata a Salvini, e questo per me è veramente un paradosso”.


Il diritto di sognare un porto sicuro

Il diritto di sognare un porto sicuro Fulvio Vassallo Paleologo Alle prime ore di domenica 10 giugno la nave Aquarius dell’ong SOS Mediterranee proveniente dalla Libia con a bordo 629 migranti – fra cui 123 minori non accompagnati e 7 donne incinte – è in attesa di un permesso per attraccare in Sicilia. Il governo italiano per decisione del nuovo ministro dell’interno Salvini non le ha consentito di sbarcare. I porti, sono chiusi. Che sbarchino a Malta. Un’azione dimostrativa? Una mossa elettorale con i seggi aperti. La Aquarius, prima rifiutata dall’Italia e poi da Malta, resta in balia delle onde e col rischio che finiscano le scorte. Nel pomeriggio di lunedì 11 la notizia che la Spagna è disponibile ad accogliere la nave nel porto di Valencia. Nel frattempo tante le dichiarazioni da parte di chi è disponibile ad accogliere fra cui Mimmo Lucano sindaco di Riace, De Magistris sindaco di Napoli, Anna Colau sindaco di Barcellona. Solo una mossa elettorale nella giornata del voto? Potrebbe, ma è gravissimo che un ministro dell’Interno neghi un porto di sbarco per un’attività di soccorso coordinata dalla Centrale operativa di Roma della Guardia costiera (MRCC). Già in passato Maroni aveva portato l’Italia ad una severa condanna da parte della Corte Europea per i diritti dell’Uomo per i respingimenti collettivi effettuati in Libia nel 2009. Oggi sembra che sia proprio Maroni a dare consigli di cautela a Salvini, senza alcun successo, a quanto sembra. Emerge chiaramente come il Contratto di governo abbia aperto

la strada ad una serie di gravi rotture costituzionali, rilevanti adesso anche a livello internazionale. In virtù dell’art. 117 e degli articoli 10 ed 11 della Costituzione, e delle relative leggi di ratifica delle Convenzioni internazionali, queste hanno rango normativo superiore alle disposizioni amministrative emanate da un ministro o ad un codice di condotta privo di basi legali. La solidarietà comunque non si arresta ed i fronti di resistenza si moltiplicano. Il ministro dell’interno se ne accorgerà presto. Su ordini ricevuti dai comandi della Guardia Costiera di Roma Casablanca 17

(MRCC), tre battelli della Guardia costiera partiti da Lampedusa hanno operato i primi soccorsi in acque internazionali, trasferendo i naufraghi sulla nave Aquarius della ONG SOS Mediterraneè. In un secondo momento gli stessi comandi, su diktat del ministro dell’Interno, come espressamente dichiarato da Salvini, hanno negato un porto di sbarco in Italia, chiamando in causa Malta, sembrerebbe con una lettera indirizzata al governo de La Valletta, malgrado una diversa prassi consolidata dal 2014, dai tempi dell’operazione Mare Nostrum, e dopo molteplici dinieghi da parte delle autorità maltesi.


Il diritto di sognare un porto sicuro Non si comprende perché le tre motovedette italiane impegnate nei primi soccorsi coordinati da MRCC Roma non siano rientrate a Lampedusa sbarcando lì le persone soccorse, o non abbiano trasbordato gli stessi naufraghi su uno dei numerosi assetti militari presenti nelle acque circostanti, sotto il controllo della missione Themis di Frontex e dell’operazione Eunavfor Med. Nei mesi scorsi si era parlato di una regionalizzazione delle operazioni SAR a partire dall’avvio dell’operazione Themis di Frontex. Di certo però, istruzioni operative interne all’agenzia Frontex non possono modificare la portata di obblighi sanciti da Convenzioni internazionali, come peraltro ribadisce il Regolamento UE n. 656 del 2014. Tra questi obblighi rientra anche l’indicazione di un POS (Place of safety), porto sicuro di sbarco da parte delle autorità MRCC che coordinano le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali.

fa a Reggio Calabria con un lungo interrogatorio del comandante e i giornalisti obbligati a consegnare alla polizia i file video del salvataggio in mare. UN PORTO SICURO Le Dichiarazioni dell’ambasciatrice che sembrano frutto di pressioni diplomatiche italiane contrastano con la politica maltese degli ultimi anni e di certo non gioveranno alla chiarezza dei rapporti internazionali. Non esistono porti di sbarco “più sicuri”, o “più vicini” soltanto per convenienza politica dei governi. La definizione del POS, porto sicuro di sbarco è fornita dalle Convenzioni internazionali, non muta per una valutazione opportunistica di un ministro dell’Interno. La Convenzione di Amburgo SAR del 1979 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza

delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (place of safety) indicato dal paese che ha assunto il ruolo di Autorità SAR competente, generalmente il primo paese che riceve le chiamate di soccorso. Oggi queste chiamate arrivano soprattutto da assetti aeronavali militari appartenenti a paesi dell’Unione Europea. A tal fine gli Stati membri dell’IMO (International Maritime Organization), nel 2004, hanno adottato emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, in base ai quali gli Stati parte devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. Malta non ha accettato questi emendamenti. Secondo un rapporto della Guardia Costiera italiana dello scorso anno, “in alcune occasioni particolarmente complesse (elevato numero di migranti, scarsità di vettori idonei a trasferire i migranti verso i P.O.S., avverse condizioni meteorologiche), è stata richiesta la collaborazione e cooperazione ai Maritime Rescue Coordination Centre viciniori – Malta e Tunisi – che tuttavia non hanno accolto la richiesta di sbarcare i migranti soccorsi presso i propri porti.

Da mesi le prassi operative della Guardia costiera appaiono fortemente determinate dal ministero dell’Interno e non dal ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture che sarebbe competente. In occasione di un precedente evento di soccorso a Malta, riguardante la nave umanitaria Sea Watch Malta – secondo le dichiarazioni dell’ambasciatrice maltese a Roma – Malta avrebbe dato disponibilità all’ingresso in porto. Lo “sbarco”, è avvenuto qualche giorno

È dunque notorio Casablanca 18


Il diritto di sognare un porto sicuro come Malta non accetti lo sbarco di persone nel suo territorio, salvo casi di assoluta emergenza sanitaria, se si tratta di soccorsi al di fuori delle sue acque territoriali, al punto che nell’intero 2017 gli sbarchi a Malta sono stati appena un centinaio, e persino le imbarcazioni della ONG maltese MOAS, come quelle di Frontex, fino a quando sono rimaste operative, evitavano di sbarcare a Malta le persone che soccorrevano in quella che pure è, sulla carta, la vastissima zona SAR maltese. Malta adduce da tempo, d’altra parte, che per le persone soccorse in quella che si definisce sulla carta come zona SAR libica, la competenza ad indicare un porto di sbarco spetta alle autorità che coordinano gli interventi di soccorso, dunque in casi come questo odierno, alle autorità italiane. Già lo scorso anno la nave umanitaria Open Arms, aveva chiesto una possibilità di sbarco a

Malta, ricevendo un netto rifiuto. Basti ricordare la nave greca Salamis con 102 migranti a bordo, il più piccolo di 5 mesi – che nel 2013 si vide rifiutato l’ingresso per lo sbarco dei naufraghi nel porto di Malta. Una vicenda che precedette le stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, quest’ultima dovuta proprio ad un conflitto di competenze tra autorità maltesi ed italiane. IL PORTO DELLE NEBBIE? Nel caso della nave greca Salamis le autorità italiane, dopo una lunga trattativa con le autorità maltesi e greche, offrivano in Italia un place of safety (POS) di sbarco ai 102 migranti salvati da un gommone in avaria al largo delle coste libiche e che il governo di Malta, nonostante le pressioni europee, aveva respinto, asserendo che si sarebbero dovuti consegnare alle autorità libiche nel porto “più vicino” di Khoms.

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Nella prassi, le autorità maltesi hanno fatto sovente riferimento ad accordi con la Libia stipulati nel 2009, ed all’esistenza di una zona SAR libica, quando si tratta di interventi di ricerca e soccorso che si svolgono al di fuori della pur vasta zona SAR attribuita a Malta. Ma dall’avvio dell’operazione Mare Nostrum, nel mese di ottobre del 2013, la prassi era ormai consolidata nel senso che le autorità maltesi non venivano più richieste di indicare un luogo di sbarco nel proprio territorio. Ed anche negli anni successivi, nessuna delle numerose navi di Frontex o di Eunavfor Med coinvolte in operazioni SAR, coordinate dalla Centrale operativa della Guardia Costiera italiana, ha mai sbarcato a Malta persone soccorse in acque internazionali. Come nota De Sena, per quanto possa in astratto succedere che uno stato competente per il coordinamento delle attività di


Il diritto di sognare un porto sicuro ricerca e salvataggio in mare rifiuti di indicare un porto sicuro di sbarco, che non è necessariamente il porto più vicino, “la chiusura dei porti italiani implicherebbe necessariamente una serie di conseguenze sul piano del rispetto di norme internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei rifugiati”. Vari elementi permettono infatti di considerare che l’Italia eserciterebbe, de jure e de facto, sulle imbarcazioni in parola, poteri idonei ad incidere sul godimento effettivo di diritti elementari da parte di coloro che si trovino a bordo. In altri termini, questi ultimi, pur tenuti fuori dai porti italiani, non mancherebbero di rientrare nella giurisdizione italiana, ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come interpretato nella giurisprudenza rilevante. La dichiarazione del rappresentante italiano si riferisce a un divieto di accesso ai porti, ovvero alle acque interne; ciò lascia intendere che le imbarcazioni interessate abbiano già raggiunto le acque territoriali italiane. Anche a voler negare il carattere di precedente della sentenza Women on Waves, in ragione del fatto che la questione della carenza di giurisdizione non era stata espressamente sollevata dal Portogallo (elemento peraltro non decisivo, visto che le ragioni di inammissibilità sono sempre rilevabili d’ufficio dalla Corte), ulteriori circostanze sembrano corroborare la tesi secondo cui le imbarcazioni che chiedono l’autorizzazione di ingresso in porto, dopo essere state soccorse, rientrano nella giurisdizione dello Stato italiano. Infatti, come responsabile della zona SAR di soccorso – o anche nel caso in cui il soccorso sia avvenuto al di fuori

della zona SAR italiana, ma comunque su impulso di un SOS diramato dall’MRCC (Comando generale del Corpo della Capitanerie di Porto) di Roma – l’Italia risulta essere il Paese giuridicamente responsabile del coordinamento dei soccorsi ed è dunque lo Stato che esercita, «conformemente al diritto internazionale», le funzioni esecutive che tale coordinamento comporta (v. mutatis mutandis, AlSkeini c. Regno Unito e Jaloud c. Paesi Bassi). PORTI ITALIANI CHIUSI: SI PUÒ FARE? In base a queste considerazioni la minacciata “chiusura dei porti italiani” se si andrà oltre la sparata elettorale mentre gli elettori esercitano il loro diritto di voto, potrebbe comportare gravi profili di responsabilità a carico dei vari soggetti, da identificare, che si dovessero rendere artefici della complessa catena di comando che si dovrebbe attivare per rendere esecutiva tale decisione. A partire dalla possibile configurabilità del reato di omissione di soccorso previsto dall’articolo 593 del Codice Penale, qualora la ritardata od omessa indicazione del POS da parte delle autorità italiane si traduca nella impossibilità di fare fronte alle emergenze sanitarie presenti nella maggior parte dei casi a bordo delle navi che intervengono in operazioni SAR in acque internazionali. È a tutti nota, infatti, la condizione attuale delle persone che riescono a fuggire dalla Libia, e ritardi di giorni nello sbarco a terra possono avere effetti letali, malgrado il prodigarsi degli equipaggi delle navi soccorritrici. Sono le ragioni che hanno spinto il GIP ed il Tribunale di Ragusa a ritenere la Libia come uno stato (ammesso che si possa parlare di uno stato) privo di luoghi sicuri di sbarco (Place of safety). Casablanca 20

Occorre ricordare inoltre la Convenzione di Ginevra ed il principio di non respingimento (art. 33). Se uno Stato respinge una nave di migranti irregolari che ha fatto ingresso nelle proprie acque territoriali senza controllare se a bordo vi siano dei richiedenti asilo e senza esaminare se essi possiedano i requisiti minimi per il riconoscimento dello status di rifugiato, commette una violazione del principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione del 1951, se i territori (Stati terzi o alto mare) verso cui la nave è respinta non offrono garanzie sufficienti per l’incolumità dei migranti, o anche soltanto per la possibilità di accoglienza e di accesso ad una procedura di asilo. Se gli ordini di Salvini si imporranno anche dopo la scadenza elettorale, sarebbe violato l’inalienabile diritto delle persone, quale che sia il loro stato giuridico, “a non subire trattamenti inumani o degradanti”, che potrebbero ben configurarsi qualora a seguito di un ennesimo braccio di ferro tra gli stati, la loro permanenza a bordo dovesse procurare loro ulteriori sofferenze, se non rischi per la salute o per la stessa vita. E per la violazione del divieto di trattamenti disumani o degradanti, imposto agli stati nei confronti di tutte le persone che ricadono nella loro giurisdizione, come qualunque migrante soccorso in operazioni coordinate da una autorità statale, si potrebbero ipotizzare ricorsi alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Mentre se il conflitto tra gli stati nella individuazione di un POS (porto sicuro di sbarco) si dovesse ripetere, dovrebbe occuparsene la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.


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Nun mu cririiria

“NUN MU CRIIRIA” Maria Grazia Rando Il ricordo di una missione lavorativa in Moldavia per monitorare un progetto già esistente e far nascere grazie alla cooperazione un centro di aggregazione dove i ragazzi e le ragazze, i bambini e le bambine possano ritrovarsi finita la scuola e imparare, se vogliono, le attività proposte. Una struttura per evitare che i ragazzi restino per strada in balìa del sistema malavitoso, oppure portati in caserma o negli orfanotrofi. Un centro dove i piccoli ospiti vengono identificati e, quando possibile, restituiti alle famiglie. Emozioni e stupore innanzi a immagini per noi lontane. Toccare con mano come ci si senta fortunati con le piccolissime cose. Coinvolti nella realizzazione alcuni Comuni della “Rete dei Comuni Solidali” “Nun mu cririiria!!!” ripeteva l’Assessore di Avola in stretto dialetto siciliano guardandosi intorno, “non mi sarei mai immaginato che da queste parti si vivesse ancora così… Questi sono andati sulla luna!” . Ormai ero abituata a vedere come i paesini lungo la strada che ci portava da Chisinau a Cahul fossero una immagine che ci faceva ritornare nella storia. Quelle immagini di fantasia che forse qualche disegno nei libri di racconti di quando eravamo piccoli ti avevano suggerito e fissato nella mente. Due sono le strade che uniscono le due città, la capitale della Repubblica Moldava e Cahul, la città più a sud, quella più vicina al confine rumeno distante 12 chilometri. Anche quello ucraino è vicino, là il paese si restringe come un imbuto. Una striscia lunga che segue il corso del fiume Prut, ma che non arriva al mare, poiché è

impedita da una sottile lingua di terra che appartiene a un altro Paese e che le impedisce di affacciarsi al mare. Da Hincesti avevamo scelto di prendere la strada meno trafficata, quella che tocca solo una città poco più grande di un villaggio, e attraversa le colline ricche di vigneti con qualche casolare che si intravede. Quella i cui villaggi sono lungo la strada, perché dietro inizia la vigna. Era la nostra una piccola delegazione fatta di assessori comunali, un’esperta dello IOM, un rappresentante di Recosol ed io con una tirocinante; rappresentavo l’allora MAE (ministero degli affari esteri) e in particolare la così detta “Cooperazione decentrata”: quella che fanno le Regioni e gli Enti locali e che, proprio in quel contesto, stavo cercando di attivare. Si andava a monitorare un progetto già esistente su tutto il territorio, finanziato dal Ministero, Casablanca 23

ed era una buona occasione per far conoscere il contesto dove si stava operando per poi decidere se aggregarsi: il donatore deve conoscere dove vanno le risorse dei contribuenti. “Nun mu criiria! Nun mu criiria” continuava a ripetere l’assessore -, “dobbiamo fermarci, devo fare delle foto da far vedere ai miei figli”. Era anche l’ora di fermarci: la strada, anche se per la maggior parte era stata asfaltata, non era nelle migliori condizioni. Avevamo tutti bisogno di sgranchirci. L’assessore, armato di macchina fotografica, inizia a scattare. Era un pomeriggio assolato, le casette di legno, una accanto all’altra, distanziate tra loro avevano uno steccato di legno “fatto in casa”, si direbbe tra noi; intagliato da mani esperte, che durante l’inverno pazientemente avevano lavorato il legno e preparato i pezzi per la


Nun mu cririiria staccionata, o quelli da sostituire. Le casette accompagnavano la strada del villaggio, non si intravedeva niente dietro, né tantomeno un doppio filare di case, ma solo vigne. Le case, colorate in un lontano passato, ora presentavano solo tracce di quel colore o erano sbiadite tanto da far vedere il legno scurito dal tempo e dalle muffe. I tetti, come ci dice l’esperta dell’OIM, una volta erano di pietra; oggi sono di eternit. La modernità era arrivata, ma non si vedevano antenne per televisori su tutte le case, solo qualcuna, qua e là. Ci accorgemmo che ogni dieci case allineate lungo la strada si trovava un pozzo, la cui apertura si trovava quasi a livello di strada e chiusa da due grandi porte, il tutto protetto da una tettoia fatta di legno e ricoperta da eternit IMMAGINI DA LIBRO “CUORE” Vediamo arrivare da lontano due ragazzini con un otre di zinco, quasi più grande di loro; arrivati in prossimità del pozzo, con grande destrezza, aprono le due porte del pozzo, gettano un secchio di legno e incominciano a tirare la corda, poggiando un piede nel bordo del pozzo, tenendosi saldi con l’altro e versando successivamente l’acqua nell’otre di zinco. Ripetono il gesto più volte e, dopo aver chiuso il pozzo con grande fatica per il peso del contenitore, si avviano a casa. Ci raccontano che è compito dei ragazzi andare al pozzo e fare trovare l’acqua ai genitori che rientrano dalla campagna. Siamo tutti meravigliati nel vedere qualcosa che pensavamo fosse solo nei racconti del libro “Cuore”. Eppure l’impianto idrico esisteva,

dava acqua a tutto il villaggio, non dovevi andare alla fonte, ti scorreva lungo la strada: il sistema sovietico che li aveva governati per tanti anni aveva dato loro la possibilità di avere l’acqua vicino

casa. Ecco la realtà che stiamo andando a contrastare, migliorandola. I ragazzi che abbiamo visto fanno parte di un piccolo villaggio dove le case si toccano, dove avere il pozzo per prendere l’acqua e avere il bagno fuori nell’orto, in una piccola costruzione che noi occidentali definiremmo “capanno per gli attrezzi”, è sentirsi fortunati. Nella campagna i casolari si intravvedono, i ragazzi e le ragazze, i bambini e le bambine hanno difficoltà ad andare a scuola e vivono nei campi. La crisi attanaglia tutti e le difficoltà economiche si vedono. Stiamo andando a vedere una struttura nella Città di Cahul, che gli amministratori hanno individuato, perché possa realizzarsi al suo interno un centro di aggregazione dove i ragazzi e le ragazze, i bambini e le bambine possano ritrovarsi finita la scuola e imparare, se vogliono, le attività proposte. Parte di essa sarà ristrutturata con finanziamenti della Cooperazione italiana, c’è un progetto che vede la realizzazione di questi centri in diverse città del Casablanca 24

Paese, ma questo di Cahul è quello che necessita di maggiore attenzione. Si vuole vedere e capire se la struttura possa ospitare un primo centro di accoglienza per i minori che vagano nell’area, nella speranza di attraversare la frontiera per cercare la madre che è partita, o per quei ragazzi tolti al sistema malavitoso che ha la supremazia da quelle parti. Non ci sono strutture del genere, infatti: i ragazzi appena trovati restano in caserma e dopo portati nell’orfanatrofio di Chishinau, la capitale. Non auguro a nessuno di vederlo o stare nei suoi corridoi, ti resta un pugno sullo stomaco per parecchio tempo e l’odore di urina nel naso che non potrai mai dimenticare. Ho coinvolto alcuni Comuni della “Rete dei Comuni Solidali” per destinare fondi alla cooperazione di questo progetto. Non si ha la necessità di avere molte risorse, i costi sono abbastanza equi e la realizzazione fattibile, i Comuni italiani messi in rete possono fare tanto e hanno fatto. Hanno realizzato il centro di accoglienza al piano superiore dove si trova il centro di aggregazione, con stanze per dormire con due letti e con bagno, una sala comune per entrare in relazione, una sala da pranzo, una cucina. Qui vengono ospitati, fino a quando non vengono identificati e riaccompagnati alle famiglie, quando esistono; molti di loro non hanno documenti, oppure verranno affidati a centri di accoglienza o case famiglia che già iniziavano a esistere nel Paese, costruiti con finanziamenti della Cooperazione internazionale.


Le madri tunisine: dov’è mio figlio?

Ancora

Desaparecidos? Brunella Lottero Come in un incantesimo malefico circa cinquecento ragazzi tunisini arrivati a Lampedusa sono spariti nel nulla. A Lampedusa non sono stati né registrati, né fotografati. Alcuni genitori però li hanno visti nei telegiornali al momento dello sbarco sull’isola. I ragazzi sono partiti da Tunisi — dopo la primavera araba — diretti in Italia. Le madri tunisine sono convinte che i loro figli siano ancora vivi. Non si arrendono. Chiedono aiuto in Italia e in Tunisia e continuano a cercarli. Ma di Amine Ben Hhassine, Houssem, Karim e tanti altri ancora nessuna notizia. Nessuna procura finora ha mai indagato sparizioni. “Mi chiamo Monira Chagraoui, sono la mamma di Amine Ben Hhassine, nato il 4 marzo 1986. Amine è partito il 9 settembre del 2010 da Ras Djbel, in Tunisia, insieme ad altri quattro ragazzi. Mi ha chiamato quando è sbarcato a Lampedusa. Da allora non ho più sue notizie. Né di mio figlio né di tutti gli altri che sono partiti dalla Tunisia dal 2010 fino al 6 settembre 2012. Dove sono finiti cinquecentouno ragazzi?”. “Mi chiamo Ayed Jeljli, sono il padre di Houssem nato il 20 maggio 1992. Houssem è partito da Bizerte il 6 maggio

2011 con altre dieci persone. Uno di loro ha chiamato sua sorella quando è arrivato a Lampedusa, le ha detto che tutti erano arrivati in buono stato. Ha promesso alla sorella che l’avrebbe richiamata entro due settimane ma da allora nessuno l’ha sentito”. “Mi chiamo Noureddine Mmbarki, padre di Karim. Mio figlio, nato il 19 settembre 1989 è partito da Sfax, in Tunisia, con altre sessantaquattro persone. È arrivato a Lampedusa in buono stato e l’abbiamo anche visto in un servizio del tg5 mentre con la barca Casablanca 25

su queste approdava sulle coste dell’isola. Una volta arrivato però non l’abbiamo più sentito. Né lui né tutti gli altri sessantaquattro che hanno viaggiato con lui”. Sono alcune delle voci delle cinquecentoquattro famiglie tunisine che da tempo cercano i loro familiari scomparsi. Tutti partiti, arrivati a Lampedusa e poi spariti. Tutti nello stesso modo, come in un malefico incantesimo. Dopo la primavera araba, fra il marzo e l’aprile del 2011, tanti giovani da Tunisi scapparono verso l'Italia. I migranti arrivano a


Le madri tunisine: dov’è mio figlio? Lampedusa, ma lì non vengono né registrati né fotografati, né tanto meno vengono raccolte le loro impronte. I loro familiari però li hanno visti in vari servizi televisivi da Lampedusa. Alcuni hanno ricevuto qualche telefonata dal loro figlio solo dopo molti mesi dallo sbarco in Italia, mentre, nei giorni successivi alla partenza, il telefono dei loro figli si limitava solo a squillare. I familiari credono che i loro figli siano stati rimpatriati con voli irregolari in Tunisia e in Libia. Nessuna procura finora ha mai indagato su queste sparizioni. Il Governo italiano ha incaricato il Commissario per le persone scomparse di occuparsi del caso. Il Presidente del Consiglio regionale del Piemonte, il 12 gennaio 2016, ha istituito un Comitato dedicato al rispetto dei diritti fondamentali, l’unico di tal genere in Italia. Il Presidente del Comitato si rivolge al Prefetto Piscitelli che, fino allo scadere del suo incarico, si rende sempre disponibile a incontrare le famiglie tunisine ma le ricerche non progrediscono. La carovana Migranti, nata nel 2011, si rivolge al Comitato dedicato al rispetto dei diritti fondamentali e sollecita un incontro con l’organizzazione Terre pour Tous - fondata appositamente per avere risposte sul destino

dei tantissimi ragazzi scomparsi durante il viaggio da Tunisi verso la nostra penisola. Il Presidente di Terre pour tous Imed Soltani all’incontro si fa accompagnare da una delegazione di associazioni di tunisini che risiedono a Torino.

VITE SPEZZATE E FAMIGLIE DISTRUTTE L’incontro parte da una ragione ben precisa, e qui i numeri sono come spade, perché sono ben cinquemila i tunisini transitati da Torino nel periodo della cosiddetta primavera araba. Cinquemila che non hanno lasciato tracce. I rappresentanti di Terre pour tous chiedono che si indaghi su queste sparizioni. Chiedono di sapere dove si trovano i migranti tunisini arrivati vivi in Italia nel marzo 2011 e chiedono anche che venga consentito

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l’accesso alle informazioni contenute nelle banche dati relative ai nomi, alle foto e alle impronte digitali. Parlano anche di un naufragio avvenuto il 6 settembre 2012 nelle acque dell’isola di Lampione, vicino a Lampedusa, naufragio che ha visto sopravvivere cinquantasei persone, ma che ne ha visto morire settantanove. Il Prefetto Piscitelli, informato dell’incontro, in una lettera risponde che il Commissario straordinario del governo per le persone scomparse non dispone di poteri d’indagine, ma espleta solo funzioni di coordinamento e di impulso sugli uffici che intervengono nella materia. Fuori dal linguaggio burocratico, è un nulla di fatto. Piscitelli precisa che, nel febbraio del 2015 in un incontro, l’ambasciatore della Repubblica tunisina ha


Le madri tunisine: dov’è mio figlio? fornito una lista di cinquecentouno cittadini scomparsi. Su questa lista sono stati richiesti accertamenti, ma finora, nonostante gli approfondimenti, non si è arrivato a niente. Intanto le madri, da anni, cercano notizie sui loro figli. Le cercano continuamente, ma molte lo fanno a distanza perché per affrontare il viaggio fino a Lampedusa ci vogliono soldi e visto.

c’è anche la morte. Perché la vita e la morte a volte coincidono drammaticamente. La vicenda di un popolo costretto a migrare da una terra all’altra in cerca di condizioni di vita più favorevoli e sicure, nella narrazione mitica diventa la favola della bella principessa rapita da un dio e trasportata in una nuova terra. In questo caso, mito per mito, ricordiamo Teseo che aveva

Il Governo tunisino ha nominato due commissioni di inchiesta senza arrivare a nessuna conclusione. L’Italia non si è mai pronunciata. Su queste cinquecentoquattro sparizioni ci sono intere generazioni di ragazzi, progetti e sogni. Ci sono vite spezzate, famiglie distrutte, dolori inimmaginabili. Ci sono dignità naufragate, responsabilità tirate come una coperta troppo corta da una parte all’altra, ci sono valori dimenticati, c’è la vita. Forse

più o meno sedici anni, dunque più giovane dei suoi colleghi tunisini. Teseo, che è noto soprattutto per aver ucciso il Minotauro nel suo famoso labirinto, sfida feroci briganti per arrivare dal padre Egeo, ad Atene, uccide una scrofa terribile che aveva fatto stragi di uomini, lotta e uccide il feroce Procuste che con l’inganno attraeva i viandanti nella sua casa per poi tagliar loro le gambe. Tornando trionfante dal padre, Teseo si dimentica però di issare sulla sua nave Casablanca 27

le vele bianche, segno di vittoria e il padre che lo sta aspettando, scorge le vele nere. Pensa allora che suo figlio sia morto e decide di morire con lui. Si affoga nel mare che prende il suo stesso nome, perché vivere pensando che i propri figli siano morti non è vita. Tornando qui, all’oggi, i figli che sono spariti sono cinquecentoquattro. Cinquecentoquattro ragazzi sono partiti sfidando paure e briganti, sacrificando un poco se stessi e la loro vita, non hanno trovato aiuto neanche in un filo di Arianna che li facesse uscire dal labirinto. Dobbiamo pensarli persi dentro a un labirinto o uccisi dal feroce Minotauro? Con cinquecentoquattro figli dispersi ci sono altrettante famiglie e quindi madri, padri, fratelli, sorelle, amici, fidanzate, fidanzati e nonni che li aspettano ma non li vedono tornare. Finiranno per vedere le vele nere navigare nel mare che unisce e separa? Riusciranno ancora ad aspettarli, a coltivare la speranza di rivederli o saranno sopraffatti dal dolore come Egeo? Cinquecentoquattro persone sono arrivate nel 2011, sono sbarcate sulle coste di Lampedusa e poi sono sparite, come una piccola bellissima isola inghiottita dal mare.


Fra elmetto e libretto…reprimere

La grande guerra della nostra scuola Antonio Mazzeo 350.000 i processi delle Corti marziali nostrane contro renitenti, obiettori, disertori o semplice “insubordinazione”,150.000 pesanti condanne, 4.000 finanche alla pena capitale, 600.000 italiani catturati, 110.000 morirono in prigionia per fame o malattie. Una carneficina come mai si era vista nella storia dell’umanità. “Un’inutile strage”, giunse a definirla l’ultraconservatore Papa Benedetto XV nella sua lettera ai Capi di stato belligeranti il 1° agosto 1917. Pagine nerissime, indelebili nella memoria quelle della Prima guerra mondiale. Un olocausto di generazioni di giovanissimi; la diffusione planetaria di carestie, fame ed epidemie; le deportazioni di massa e i genocidi di popolazioni di civili; la proliferazione di ingiustizie sociali ed economiche e la negazione dei diritti e delle libertà che condizioneranno gli anni a seguire della “non pace”, generando ovunque immani dittature, fascismi e nazismi sino alla catastrofe, figlia e sorella, della Seconda guerra mondiale. A un secolo dalla tragedia del Primo conflitto mondiale, quello del 1914-18, governi, forze armate, istituzioni accademiche e scolastiche si distinguono soprattutto in Italia nella promozione di tripudi e commemorazioni, quasi una sagra della retorica dei “valori” di Patria, famiglia, coraggio, sacrificio, eroismo e arditismo che erano spariti dal vocabolario e dalla didattica della Repubblica fondata sulla Costituzione democratica e antifascista. Una rielaborazione a 360 gradi di contenuti e “verità” che cancella crimini e orrori, occulta responsabilità, grazia le classi politiche dominanti e responsabili. Grazie ad alcuni protocolli tra il Ministero della Difesa e quello dell’Istruzione, nelle scuole italiane, in regime di monopolio, è

stata affidata agli ufficiali delle forze di terra, del mare e dell’aria la narrazione della Prima guerra mondiale, frutto di una rielaborazione storica di parte e parziale, in buona parte falsa o volutamente falsata. Così alle nuove generazioni (e mai era accaduto dal secondo dopoguerra ad oggi), non è dato sapere che nelle “intrepide” azioni nelle trincee perirono quasi dieci milioni di soldati (oltre trecentomila solo sull’Isonzo e a Caporetto), mentre altri ventuno milioni restarono tragicamente segnati nel fisico e nella mente. E nei seminari “storici” che si moltiplicano nelle scuole di tutta Italia, sempre più di rado si accenna al tributo di sangue della popolazione civile, nonostante il milione di donne, bambini e anziani assassinati dalle bombe e gli altri sei milioni di Casablanca 28

“non combattenti” che persero la vita per la penuria di cibo o a seguito dell’esplosione di terribili pandemie. Nel corso del Primo conflitto mondiale, furono scientificamente pianificati genocidi e deportazioni di massa, confinamenti e lavori forzati, lager e “soluzioni finali”. Le Convenzioni e le norme del diritto internazionale furono ridotte a cenere e ai generali, dèi onnipotenti, fu concesso il privilegio di poter decidere impunemente sulla vita e sulla morte dei militi sottoposti o dei cittadini residenti nei territori occupati o “liberati”. Gli storici, quelli veri, hanno documentato le rappresaglie ordinate dagli ufficiali italiani contro le popolazioni “ostili” che abitavano le terre d’Isonzo. Quando nel 1915, gli “irredentisti”


Fra elmetto e libretto…reprimere filo-austriaci fallirono a Dresenza l’attentato contro un generale tricolore, un gruppo di civili innocenti fu passato per le armi; un centinaio, invece, quelli che furono fucilati nello stesso anno per vendicare l’attacco contro i nostri “eroici” bersaglieri. Oltre settantamila i deportati “non italiani” dai territori liberati, campi di concentramento sorti come funghi nel Sud Italia e in Sicilia. Desaparecidos dai racconti dei neodocenti delle forze armate i nomi, i volti, le storie di tutti quei ragazzi strappati con la forza dagli affetti familiari e dalle loro povere terre per poi essere vigliaccamente abbandonati al fronte e al “nemico” da inetti, cinici e vigliacchi comandanti. Ipocritamente negate ad alunni e studenti le modalità di funzionamento della cosiddetta “giustizia militare”: ben 350.000 i processi avviati dalle Corti marziali nostrane contro renitenti, obiettori, disertori o per insignificanti atti di “insubordinazione”, con oltre 150.000 pesanti condanne, 4.000 finanche alla pena capitale. VERITÀ TACIUTE Andò ovviamente peggio per quei soldati che furono fatti prigionieri dei comandi austro-ungarici: rei di appartenere all’esercito di un ex alleato traditore, furono trattati molto peggio dei militari di altri paesi belligeranti. Sempre gli storici non avvelenati dalla propaganda bellico-nazionalista, ci ricordano che dei 600.000 italiani catturati, 110.000 morirono in prigionia per fame o malattie. No, non c’è più spazio per queste verità nella scuola italiana sempre più asservita alle geostrategie di dominio globale dell’establishment politicomilitare-industriale. Una scuola che è sempre più in guerra. Più di guerra. Più per la guerra.

Il 4 novembre è la data che segna inequivocabilmente ogni anno il processo di scientifica manipolazione delle coscienze e della Storia, l’anniversario della “Vittoria”, il “Giorno dell’Unità nazionale” e “delle Forze armate”. L’ultimo, quello 2017, nel ricordo di Caporetto e della “resistenza” sul Piave, ha visto con le parate e le corone d’alloro al Milite ignoto, un impressionante numero di cerimonie “Cimic”, cioè civilimilitari, dove però i “civili” erano sempre e dovunque scolaresche in libera uscita. Come ricorda l’Ufficio stampa del Ministero della Difesa, in una trentina di città italiane si sono tenute per l’occasione cerimonie ed iniziative militari quali Caserme Aperte e Caserme in Piazza, “con il coinvolgimento delle amministrazioni comunali e delle scuole, con la consegna di una bandiera ad un istituto scolastico, possibilmente intitolato ad un caduto”. “Le celebrazioni del 4 novembre 2017 sono accompagnate anche dal video Noi per Voi, un messaggio chiaro, che rafforza il rapporto di fiducia e affetto tra i cittadini italiani e le Forze Armate, rapporto che si è accresciuto e consolidato nel tempo”, riporta la velina della Difesa. “Tante quindi le iniziative organizzate per celebrare la giornata che segnò la fine di quella che allora venne definita la Grande Guerra, per ricordare la data in cui andò a compimento il processo di unificazione nazionale che, iniziato in epoca risorgimentale, aveva portato alla proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861. Fu proprio durante la Prima guerra mondiale che gli italiani si trovarono per la prima volta fianco a fianco, legati indissolubilmente l’un l’altro sotto la stessa bandiera nella prima drammatica esperienza collettiva che si verificava dopo la Casablanca 29

proclamazione del Regno”. Il gran ritorno del mito del Ventennio, quello della IV^ Guerra d’Indipendenza che consacra l’Unità e l’Identità della Patria. La Sicilia, isola laboratorio delle strategia di guerra del XXI secolo in ambito nazionale, europeo, statunitense e NATO, ha assunto un ruolo chiave nei programmi MIUR-Difesa di rielaborazione storica e “sensibilizzazione” militar-patriottica delle nuove generazioni. Innumerevoli le attività con le bambine e i bambini di ogni fascia d’età e i preadolescenti. MENTRE IL PIAVE MORMORAVA Il 10 maggio 2018, ad esempio, con una lettera ai dirigenti di tutte le scuole statali e paritarie della Sicilia, l’Ufficio scolastico regionale del ministero dell’Istruzione ha invitato ad aderire e partecipare alle “Celebrazioni del centenario della Grande Guerra” organizzate dal Comando della Brigata Meccanizzata “Aosta”, il reparto d’élite e di pronto intervento in ambito alleato con sede nell’isola, in sinergia con il Comando Militare dell’Esercito “Sicilia”. “Tre giorni di valori, memoria e musica da realizzare dal 22 al 24 maggio, l’anniversario dell’entrata in guerra, con lo scopo di coinvolgere gli studenti delle scuole secondarie di I e II grado della Sicilia per rievocarne i fatti salienti”, scrive l’Ufficio Scolastico. La conclusione a Messina, città che ospita il Comando della Brigata, con la “mostra di reperti e materiali bellici e degli elaborati realizzati dagli studenti. Inoltre un “concerto interforze” della Banda dell’“Aosta”, della Fanfara del 6° Reggimento Bersaglieri di Trapani e della Fanfara del 12° Reggimento Carabinieri “Sicilia”.


Fra elmetto e libretto…reprimere “La finalità formativa è quella di favorire la valorizzazione del contributo di una generazione di giovani italiani al conflitto bellico”, conclude l’Ufficio scolastico regionale. Dulcis in fundo, la consegna da parte del Comandante della Brigata “Aosta” degli attestati di servizio ai pronipoti dei combattenti caduti in guerra, tutti studenti degli Istituti Comprensivi “Mazzini” e “Santa Margherita” e dell’ISS “La Farina – Basile” di Messina. La “celebrazione” di fine maggio seguiva di qualche settimana un’altra detestabile operazione di manipolazione storica da parte della Brigata “Aosta”, il cosiddetto progetto Esercito e studenti uniti nel Tricolore, realizzato grazie alla collaborazione di alcuni dirigenti scolastici della provincia di Messina “per promuovere tra i giovani il valore dell’identità nazionale”. Ancora una serie di concerti musicali, incontri seminariali, alzabandiera e sventolii di stendardi verdebianco-rossi da parte di bambini, uno su cinque figli di migranti ma nati e cresciuti in Italia, derubati del diritto alla cittadinanza “nazionale” dopo il rifiuto del Parlamento di approvare le norme sullo ius soli. “Esercito e studenti uniti nel Tricolore è una delle molteplici iniziative che l’Esercito propone agli studenti, nell’anno in

cui ricorre il Centenario della Grande Guerra per ricordare quegli uomini nati tra il 1874 e il 1899 che tra gli angusti spazi delle trincee e le imponenti cime dei monti, dall’Isonzo alle Dolomiti, dal Carso al Piave fino al Monte Grappa, contribuirono in maniera decisiva all’unità nazionale, sacrificandosi con generosità e coraggio”, annunciano i promotori con le stellette. In tre mesi di “campagna”, sono stati occupati dagli ufficiali e dai concertisti dell’Aosta, auditorium, aule, cortili e palestre dei principali licei e degli istituti comprensivi del capoluogo dello Stretto, con tanto di info-team finali di “orientamento educativo e occupazionale” per promuovere pure ai tredicenni accademie e profumate carriere militari. “Grande entusiasmo e coinvolgimento dei numerosi studenti presenti che, insieme alla preside e ai loro docenti, hanno unito le loro voci nell’Inno d’Italia esprimendo, con orgoglio, il senso di appartenenza al Paese e, indirettamente, al loro Liceo”, riporta la nota stampa emessa alla fine delle celebrazioni allo Scientifico “Seguenza”. L’ATTENTATO ALLA DIGNITÀ Nessuna possibilità di dissenso è

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permessa ad alunni, genitori, e insegnanti; a Digos e Carabinieri è permesso di presidiare all’interno gli edifici scolastici e l’unica critica pubblica al progetto studenti-militare-tricolore è stata censurata da una dirigente con l’avvio di un procedimento disciplinare. Emblematico poi quanto accaduto al Liceo Classico “La Farina” quando alla vigilia della parataconcerto dell’Aosta, ignoti scrissero sul muro d’ingresso Brigata Aosta assassina. “Il liceo in tutte le sue componenti prende le distanze dal vile e oltraggioso gesto perpetrato proditoriamente a breve distanza dall’inizio della cerimonia dell’alzabandiera promossa dalla gloriosa BRIGATA AOSTA”, riportò in un comunicato la dirigente. “Le frasi offensive, frutto di posizioni ideologiche che non ci appartengono e nelle quali nessuno di noi si riconosce, colpiscono la dignità della scuola istituzione tanto quanto quella della Brigata Aosta che pure ha rallegrato i giovani studenti, commuovendo gli adulti, consapevoli di vivere un bel momento anche se in un clima artatamente reso meno sereno di quanto si voleva”. Un attentato alla dignità, alla pari del “danneggiamento dell’immagine e del decoro della scuola” contestato al docente-obiettore dalla dirigente


Fra elmetto e libretto…reprimere dell’Istituto Comprensivo “Cannizzaro-Galatti”, discutibili valutazioni che comunque hanno il merito di cancellare con un colpo di spugna i sanguinosi interventi della “gloriosa BRIGATA AOSTA”: la repressione del brigantaggio nel Mezzogiorno d’Italia post-unitario; le (dis)avventure coloniali in Libia e Corno d’Africa; le odierne missioni “umanitarie” in Iraq, Afghanistan, Libano e Kosovo; le operazioni di controllo dell’“ordine pubblico” e “vigilanza” di certi obiettivi sensibili in Sicilia: centri-lager per migranti, cantieri delle grandi opere inutili, ecc. A fine gennaio, a Palermo, l’AGe (Associazione Italiana Genitori), in collaborazione con la Città metropolitana e l’Ufficio scolastico regionale hanno invece promosso la XIII edizione del Concorso Nazionale Tricolore Vivo, rivolto alle scuole dell’infanzia e a quelle primarie e secondarie del territorio nazionale con l’obiettivo di “diffondere, nelle giovani generazioni, l’amore, il rispetto e la dedizione ai simboli più importanti del nostro Paese”. “Il tema dell’edizione 2017-18 riprende l’art. 52 della Costituzione, La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino…”, si legge nel bando. “Viene chiesto di elaborare componimenti scritti e/o lavori informatici o grafico-pittorici che esprimano le proprie considerazioni sull’articolo della Carta, mettendo in risalto: il ruolo del cittadino nella difesa e salvaguardia dei confini della Patria; il significato oggi dell’espressione difesa della Patria; il valore e i compiti delle Forze Armate (Aeronautica Militare, Arma dei Carabinieri, Esercito Italiano, Marina Militare); lo spirito democratico a cui esse devono attenersi sia dentro i

confini nazionali che nelle missioni estere”. LA MILITARIZZAZIONE DEL SAPERE Immancabile il riferimento di Tricolore Vivo alle celebrazioni del centenario del Primo Conflitto Mondiale. “Gli alunni partecipanti riceveranno una menzione speciale qualora trovassero – fra i ricordi della propria famiglia e dei propri conoscenti – reperti, testimonianze documentali o personali, cimeli della Grande Guerra”, scrivono i promotori. Epilogo del concorso i festeggiamenti “solenni” per ognuna delle forze armate: il 17 marzo 2018 a Pantelleria per la Marina Militare; il 5 aprile a Taormina per l’Aeronautica Militare; il 20 aprile a Monreale per i Carabinieri; a fine maggio a Palermo per l’Esercito. La Sicilia nella Grande Guerra, il titolo della “mostra itinerante” che il Comando Militare dell’Esercito Sicilia ha invece promosso nelle maggiori città della Sicilia, “coniugando 120 lavori realizzati da ragazzi siciliani su temi di carattere culturale e sociale legati al periodo bellico, con preziosi cimeli storici esposti grazie alla fattiva collaborazione di collezionisti privati locali”. La mostra, realizzata da solo personale militare, “vuole essere un innovativo strumento per avvicinare le nuove generazioni alla storia dell’Unità d’Italia che altrimenti rischia di restare chiusa nelle mute pagine dei libri di scuola”. Alla fine di ogni evento, il colpo ad effetto: la consegna a una decina di studenti delle copie degli stati di servizio degli avi che hanno combattuto in guerra “a suggello del loro legame attraverso un secolo di storia”. Un po’ più originali le iniziative promosse a Palermo dal Comando dell’Esercito per onorare “la mobilitazione dei nostri Padri Casablanca 31

verso il fronte della Grande Guerra”: oltre alle immancabili alzabandiera, fanfare, deposizioni di corone d’alloro, mostre di cimeli e uniformi, per la consegna dei fogli matricolari si sono privilegiati gli studenti nati nel 1999, per un ponte ideale, cent’anni dopo, con la sfortunata generazione dei “ragazzi del 1899, che hanno combattuto in trincea”. Il bis a Trapani, il 18 maggio, nella Caserma “Luigi Giannettino” sede del 6° Reggimento Bersaglieri. Centocinquanta studenti dell’I.S.S. “Leonardo da Vinci” e del Liceo Musicale “Vito Fazio Allmayer” di Alcamo a fare da spettatori della giornata-ricordo 1918-2018: tra guerra e pace cent’anni dopo Vittorio Veneto e “vivere un momento altamente significativo nel quale il Tricolore ricorda, ancora oggi, l’opera delle generazioni che fecero l’Unità d’Italia, l’eroismo di quanti combatterono per la Patria e il sacrificio di coloro i quali caddero nell’adempimento del dovere”. “A suggello di tale sacrificio – prosegue la nota degli organizzatori – sulle note de la canzone del Piave, la cerimonia è proseguita con una mostra statica dei mezzi e materiali in dotazione alla Forza Armata e il saggio ginnico, tipico della specialità dei fanti piumati…”. Basta tutto questo per inorridire, ma al peggio, si sa, non c’è mai fine. Così è prevedibile che in vista del secolo d’oro dall’intrepida vittoria italica del 4 novembre 1918, all’inizio del prossimo anno scolastico esploderà ovunque la voglia di militarizzazione autoritaria degli istituti e del sapere. Un’ode alla guerra sacra, santa e giusta, che, speriamo, non vedrà muti e ciechi uditori, studenti, insegnanti e genitori democratici.


LE INTERVISTE: Caro amico fatti una risata

Caro amico fatti una risata Daniela Giuffrida Borrometi è un giovane giornalista siciliano costretto da quattro anni a vivere sotto scorta per svariate minacce dalla criminalità organizzata ragusana e siracusana. E anche una aggressione fisica. Lo scorso 10 aprile, un’ordinanza del Gip di Catania ha reso noto il tentativo di un attentato di Cosa nostra nei confronti del giornalista: un attentato che doveva essere realizzato dal clan Cappello di Catania su richiesta del clan Giuliano di Pachino. L'ordinanza ha condotto all'arresto di quattro persone. Laureato in giurisprudenza, la famiglia pensava che avrebbe fatto l’avvocato ma il suo modello era Giovanni Spampinato. Tante le sue inchieste sulle mafie nella provincia di Ragusa, compreso Scicli – comune sciolto per mafia. Il lato umano e professionale di un uomo che crede di poter cambiare la realtà siciliana attraverso il racconto e la denuncia. Intanto i processi vanno avanti. Il Tribunale di Ragusa, il 7 maggio 2018, ha condannato Giovanni Giacchi, riconosciuto colpevole di “minaccia aggravata” nei confronti di Paolo Borrometi, collaboratore Agi e direttore del sito di inchiesta “Laspia.it”. Giacchi, che aveva scelto il rito abbreviato, era stato rinviato a giudizio per avere commentato su Facebook un articolo del giornalista siciliano, dal titolo “Vittoria come Napoli: esce dal carcere il delinquente Angelo Ventura e si festeggia con selfie”. Il commento di Giacchi non lasciava adito a fantasie di alcun tipo: «caro amico fatti una risata perché domani si potrebbe parlare di te in chiesa». Il riferimento ad un prossimo funerale era stato più che palese.

Già il 4 aprile del 2017 lo stesso Tribunale aveva condannato per minacce di morte, aggravate dalla violenza privata e dalla recidiva nei confronti di Paolo Borrometi, il boss Giambattista Ventura. Il boss, considerato il reggente del clan “Carbonaro-Dominante” di Vittoria e fratello del capomafia Filippo Ventura (al carcere duro per mafia), ha minacciato di morte più volte Borrometi, affermando pubblicamente: «Ti scippu a testa, d'ora in avanti sarò il tuo peggiore incubo e poi ci incontreremo nell'aldilà. Ci vediamo anche negli uffici della Polizia, tanto la testa te la scippu u stissu». Anche alcuni mafiosi di Pachino pensavano di fermare Paolo Borrometi e avevano un'idea ben precisa sul da farsi per raggiungere Casablanca 32

l’obiettivo: «Dobbiamo colpire a quello. Bum, a terra. Devi colpire a questo, bum, a terra». I processi in corso, che hanno come “protagonisti” quanti hanno dichiarato, più o meno apertamente, di volere morto il giornalista siciliano, sono 15. Lunedì 11 giugno a Siracusa la prima udienza del processo contro Francesco De Carolis, oggi agli arresti per un audio in cui minaccia apertamente il giovane direttore, che sarà presente come testimone. «Statemi vicino», ha scritto Borrometi su Facebook. «De Carolis - ci racconta Paolo Borrometi - è un pluripregiudicato, fratello di Luciano De Carolis, già condannato per mafia, omicidio e una serie interminabile di altri reati. Ti rendi conto di quanto sia difficile testimoniare contro chi ti ha promesso che ti “massacrerà”?


LE INTERVISTE: Caro amico fatti una risata Tuttavia - aggiunge - io credo che oggi il giornalista, più che in altri momenti storici, deve muoversi da una base di onestà intellettuale e deve essere spinto da una passione talmente forte da permettergli di rifiutare compromessi lavorativi di qualsiasi tipo». Laureato in Giurisprudenza, Borrometi ha iniziato l'attività giornalistica nel 2010 collaborando con il Giornale di Sicilia. «Io provengo da una famiglia di avvocati e tutti speravano che proseguissi su quelle orme, diciamo che i piani per me non erano quelli di fare il giornalista; io però fin da piccolo avevo un mito, Giovanni Spampinato sebbene Ragusa abbia preferito dimenticarlo». Giornalista pubblicista dal gennaio 2013, a settembre dello stesso anno ha fondato la testata giornalistica di inchieste online “La spia”; è giornalista professionista dal gennaio del 2017. Tante le sue inchieste, da quelle che hanno riguardato il commissariamento per mafia di Italgas su provvedimento del Tribunale di Palermo a quelle che hanno interessato il mercato ortofrutticolo di Vittoria e i trasporti su gomma gestiti dal clan dei Casalesi; dalla denuncia riguardante la presenza mafiosa nel sudest siciliano di Cosa Nostra, ad un'inchiesta giornalistica sulle “vie della droga dal Porto di Gioia Tauro fino alla provincia di Ragusa”: insomma, un'attività ininterrotta di denuncia del malaffare che, se da una parte ha fatto sì che molti affiliati a clan mafiosi finissero in galera, dall'altra ha finito col rendergli la vita difficile: a “troppi” non è gradito che si scriva di mafia, che si racconti di cosa accade in quella

provincia ragusana, considerata la provincia babba per eccellenza ma che, come dice Borrometi, «babba non è!». «Io ho trovato una serie di documenti inediti che pian piano sto pubblicando, documenti che riscrivono la storia di quella provincia che qualcuno ha interesse a dipingere come “babba”. Magistrati, prefetti, questori, parlamentari ed altri hanno portato avanti il mito della provincia “babba”, per lavarsi la coscienza e per creare, direttamente o indirettamente, un humus fertile per determinati affari che poi effettivamente si sono compiuti nella nostra provincia». Per dirla alla Pippo Fava: la mafia nella provincia di Ragusa c’è. «Io penso che la provincia di Ragusa abbia rappresentato e rappresenti un centro di interessi e di investimenti di mafie molto diffuse ed ampie. Nel suo territorio si muovono la Stidda, Cosa nostra palermitana e catanese e in parte quella nissena, la ‘ndrangheta e i

Casalesi, entrati grazie ai trasporti dei quali detengono il monopolio e che continuano a fare affari all’interno del mercato di Vittoria. La mafia c’è e per dimostrare ciò qualche collega è morto e tanti Casablanca 33

altri cercano di fare questo lavoro con una voglia di libertà assoluta». Dopo Giovanni Spampinato la provincia di Ragusa come è stata raccontata? «Dopo Spampinato, la provincia di Ragusa venne finalmente raccontata dai “Siciliani”. Pippo Fava scriveva di Ragusa, giustamente, che è una provincia dalle troppe zone d'ombre, una provincia usata come “lavatrice” per ripulire il denaro sporco e, soprattutto, scrisse per la prima volta che i mafiosi c'erano e se non si vedevano era solo perché non si volevano vedere. Dopo Fava, pochi altri, purtroppo». Il 16 aprile del 2014, dalle minacce si passò ai fatti: è stato malmenato da sconosciuti incappucciati che gli hanno intimato di farsi i fatti suoi e lo hanno percosso fino a provocargli una frattura ad una clavicola ed una quantità enorme di contusioni sparse, ma lui sembrava quasi non credesse davvero di essere in una situazione di notevole rischio. Da lì a qualche giorno gli sarebbe

stata assegnata una scorta e si sarebbe trasferito lontano da Ragusa.


LE INTERVISTE: Caro amico fatti una risata «Una mattina trovai una scritta su tutta la fiancata del lato passeggeri della mia station wagon, pensai ad uno scherzo, di cattivissimo gusto ma ad uno scherzo; mai avrei pensato di rappresentare un problema per qualcuno. Ero appena laureato, stavo iniziando la pratica e scrivevo per il “Giornale di Sicilia”. In quel periodo faccio un grosso sbaglio: il “Giornale di Sicilia” ha difficoltà e mi convincono a passare al “La Sicilia”, di Ciancio. Questo è stato, professionalmente, sicuramente un grosso sbaglio, per quella che è la storia di quel quotidiano: non dimentichiamo il doppio ruolo assai pericoloso di Ciancio. Direttore ed editore del giornale rappresenta un vero “centro di potere”. Come uomo e come imprenditore, ha grande influenza nella provincia di Ragusa. Da quel momento cominciano ad arrivarmi segnali che mi fanno capire chiaramente come non sia aria e mi allontano dopo un breve periodo dalla Sicilia. L’uno settembre del 2013 nasce il progetto della Spia. Da quel giorno è sorta una serie di problemi, io veramente non pensavo di rappresentare un pericolo per qualcuno o che qualcuno potesse avere paura di ciò che scrivessi, io e la nostra redazione di pazzi visionari». Di cosa scrivevi in quel periodo? «In quel periodo stavo facendo un’inchiesta giornalistica sulla privatizzazione del cimitero di Modica (sono solo due i cimiteri

privatizzati in Sicilia e questo dovrebbe dirci qualcosa): io sono dell'idea che a tutto ci sia un limite e che non si possa privatizzare la morte. Seguivo anche altre inchieste sulle case popolari,

ricettacolo di criminalità organizzata e poteri forti. Perché è vero che vi è un altissimo numero di abusivi, ma il problema non sono loro quanto piuttosto “chi” assegna le case e le modalità che vengono usate: vi sono responsabilità che hanno nomi e cognomi. Anche su Scicli mi avevano accusato d'essere un pazzo visionario, e quello è stato il periodo più brutto della mia esperienza giornalistica, perché avevo tutti contro, perfino i colleghi che scommettevano sulla figuraccia che avrei fatto quando sarei stato “sbugiardato” dai fatti. Noi abbiamo scritto dell'allora sindaco Susino e del suo ruolo in quella vicenda mafiosa di Scicli e sono piovute minacce di denunce e querele; tre giorni dopo, gli è stato consegnato un avviso di garanzia per mafia! Oggi il comune di Scicli è sciolto per mafia, il sindaco è rinviato a giudizio per associazione a finalità mafiosa». Perché si arrabbiano così tanto… attentati, minacce di morte… Casablanca 34

«Si arrabbiano perché, nei fatti, non sono abituati a sentir parlare di loro. Questa è una critica che faccio a noi giornalisti. Mi spiego: se il Ventura di turno a Vittoria si arrabbia con un determinato giornalista, tutti gli altri dovrebbero riprendere il discorso e fare da scudo umano. Ma in due o tre persone non si risolve nulla, anzi si finisce con il diventare obiettivo. Invece basterebbe essere una moltitudine e si diventerebbe scudi umani». Come vive Paolo Borrometi, fuori dalla sua terra, lontano dalla sua famiglia? «Io sono sotto scorta da quattro anni circa. Penso sia una “non vita”, ma cerco di vivere al meglio pur nelle immense ristrettezze che si possono avere. Senza alcun tipo di pietismo, certo, non è una “vita”, non lo è per me né per chi mi vive accanto ma cerco di viverla a testa alta. Sono davvero convinto che finché nel nostro paese ci sarà un solo giornalista costretto a vivere sotto scorta, uno solo e qualunque nome abbia, questo non sarà un paese libero». Lo scorso 10 aprile, un’ordinanza del tribunale di Catania ha reso nota la manovra di attentato di Cosa nostra nei confronti di Paolo Borrometi; un attentato che doveva essere realizzato dal clan Cappello di Catania su richiesta del clan Giuliano di Pachino. L'ordinanza ha condotto all'arresto di quattro persone… ma non è ancora finita. Grazie direttore


Una chiacchierata con Daniela Maggiulli

Riace: la profuga pugliese Franca Fortunato A Riace abita in vicolo della felicità. La sua è la casa della poetessa. Non è una rifugiata. Né una migrante economica. Non è fuggita da una guerra. È una donna solare e amante della vita. Proviene dalla Puglia, ha preso casa qui perché innamorata delle politiche del sindaco e del “modello Riace”. Scrive poesie, organizza eventi culturali. Crea relazioni. Racconta che a Riace ha curato l’anima. RIACE, il paese divenuto un esempio in tutto il mondo per l’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo che arrivano dal mare, oggi candidato a patrimonio dell’Unesco, racchiude in sé un’esperienza preziosa e sorprendente poco conosciuta. Neanch’io la conoscevo prima che il mio amico antropologo Vito Teti me ne parlasse. A Riace da quasi due anni vive una profuga pugliese, originaria di Corato, popoloso paese della provincia di Bari, dove insegna inglese in un istituto professionale. Il suo nome è Daniela Maggiulli, ha 48 anni, è buddista. Una donna solare, colta, accogliente, piena di energie e creatività che, con la sua profonda passione ed amore per la comunità “colorata” di Riace, contribuisce a rendere quel luogo ancora più umano ed accogliente. Il sogno, l’idea, l’utopia di Domenico Lucano di costruire un mondo, una Riace, una Calabria, dove “si va avanti con solidarietà e

umanità”, l’ha travolta. Se ne è innamorata, tanto da avere deciso di lasciare temporaneamente l’insegnamento e la sua terra per venire qui, dove vive in una delle tre vecchie case abbandonate che lei ha comprato e ristrutturato, in “vicolo della felicità”. Daniela scrive poesie, che ha pubblicato solo su facebook. Appassionata di cultura, cultrice della bellezza, dell’arte e della letteratura, ha chiamato la sua abitazione “La casa della poetessa”. «Casa della poetessa perché a Riace mancava un’associazione culturale che promuovesse eventi a cui fare venire gente da fuori e farla innamorare del progetto politico». Quella casa lei l’ha riempita di colori, di poesie, scritte in italiano, inglese e arabo su tanti fogli volanti appesi per tutta l’abitazione. L’ha colorata con quadri, oggetti colorati e murales realizzati e lasciati in dono da Casablanca 35

artiste e artisti che in questi anni sono stati suoi ospiti: come Beatrice Capozza, autrice del murales con l’enorme ulivo secolare pugliese, e Claudio Parentela, che ha donato tre suoi dipinti realizzati durante una residenza artistica. Ma qual è la storia di questa donna coraggiosa che, accolta con “curiosità”, in poco tempo ha saputo conquistarsi l’amore, la fiducia di tutta Riace? Daniela è una ex ragazza madre con un figlio, Marco. Ha sempre dovuto lavorare. Tanti mestieri, fino a quando è riuscita a creare nella provincia di Bari un’industria metalmeccanica di robotica, di cui va molto orgogliosa. A distanza di pochi anni, nel 2008, lo stesso giorno in cui è arrivata la prima commessa importante, da Milano, le è arrivata anche la comunicazione che aveva superato il concorso – fatto solo per accontentare la madre e se ne era dimenticata del tutto. Divenuta


Una chiacchierata con Daniela Maggiulli insegnante di ruolo ad Andria, in provincia di Bari, ha cominciato a lavorare con passione. «Ho la vocazione di prendermi cura dei figli meno fortunati e quando a scuola ho capito che gli alunni si aspettavano da me, più che l’insegnamento dell’inglese, delle indicazioni per vivere, per me divenne importante riuscire ad indicargli una strada per toglierli dallo spaccio della droga e dalla manovalanza della malavita. Poi sono venuta a Riace e qui ho fatto un cambio di vita importante». A RIACE HO CURATO L’ANIMA «Faccio parte del movimento culturale di “paesologia” di Franco Arminio, poeta, scrittore, giornalista e mio amico fraterno. La paesologia è una visione alternativa del mondo e della vita, l’assunto è che nei paesi, soprattutto se abbandonati o in via di abbandono, si può trovare una scintilla di rivoluzione e un’umanità che si è persa nelle città e sulle coste. Franco ha lanciato un progetto che si chiama “La casa della paesologia” a cui io aderisco. Abbiamo una casa comune a Trevico, un paese semi abbandonato nella provincia di Avellino, che con una quota sociale di 30 euro all’anno sosteniamo tutti quanti. Ognuno di noi può andare, fare residenze, incontrare amici, fare raduni, organizzare eventi artistici e politici a cui partecipiamo tutti. L’evento più importante è il famosissimo festival “La luna e i calanchi” che si tiene ad Aliano (Matera) ad agosto. Grazie agli studi e alle letture fatte con Franco e con tutti i paesologi, due anni fa sono partita con un’amica alla scoperta di due borghi, che mi stavano molto a cuore. Uno è Favara, in provincia di Agrigento, dove la storia di recupero del borgo è partita con l’iniziativa di

un giovane notaio che ha cominciato a comprare ruderi: nel giro di pochi anni, con il contributo di amici artisti, il centro storico si è trasformato in una delle più famose capitali dell’arte contemporanea. Il suo Farm cultural Park ospita installazioni di artisti di tutto il mondo e c’è addirittura una facoltà di architettura per bambini. L’altro è Riace. Avevo letto di Domenico Lucano ed avevo cominciato ad appassionarmi. ANCHE IO SONO UNA PROFUGA Sono arrivata con una grande aspettativa di accoglienza, perché anch’io sono una profuga nel senso che anch’io vengo come madre da un mare di disperazione e di sofferenza. Per me un mondo migliore, che nel mio piccolo provo a costruire, è sopravvivenza. Qui ho curato l’anima, passando tutto il mio tempo a parlare con i disperati e attraverso le sofferenze degli altri sono riuscita a curare la mia. Ho ascoltato tante storie di profughi e di riacesi ed ho scoperto che alcuni condividono con i nuovi arrivati storie di disperazione e sofferenza, di povertà e di abbandono e sentono che tutto sta morendo. Per esempio, quando morirà la mia vicina di casa, Maria, che è quella che controlla chi esce e chi entra nella mia casa e ci scambiamo doni ed aiuto, il paese sarà più vuoto e più triste ed è per questo che ho comprato una casa nel quartiere più abbandonato. La mia speranza è di riempirla di gente che abbia voglia di contribuire al sogno di Lucano. L’idea era di comprare una casa grande per fare

comunità, un po' come abbiamo fatto con Arminio in Campania, ma non l’ho trovata». Ne ha comprate tre con annesso un “catoio”, dove anticamente si custodiva il mulo e che sta ristrutturando per fare laboratori per i bambini, esporre mostre di arte contemporanea, di fotografia e altro. «Faccio tutto senza chiedere niente, né soldi né patrocini, usando il patrimonio rappresentato dai miei amici e i miei risparmi personali e mi rattrista che qualcuno, non dei riacesi, abbia frainteso le mie attività, immaginando interessi che mi sono estranei». UNA POESIA SUL MURO Daniela è venuta qua perché innamorata di un’idea e per creare relazioni umane. Ha deciso di non chiedere il trasferimento alla scuola, rimanendo senza lavoro dipendente, in modo da avere il tempo, dall’alba al tramonto di creare relazioni, di capire cosa serve, di studiare ed elaborare progetti e aprire la sua casa a chiunque ne abbia bisogno.

I DREAM…

Non ha la televisione. «Ho la radio ma non l’accendo mai, le notizie comunque mi arrivano sempre», e nel frattempo cerca di contaminare il quartiere con una visione di comunità che coltiva l’arte, la cultura, la gentilezza. «La mia vicina una mattina, mentre io e le mie amiche stavamo colorando delle pietre, mi ha detto: “Una poesia me la scrivi sul muro?“ Ti faccio un ritratto, Maria. “No, no, voglio una poesia”». «Per ora, ho sistemato su un muro della casa, di fronte alla sua scaletta, un grande telo con una

WHY NOT?

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Una chiacchierata con Daniela Maggiulli poesia di Franco Arminio che è il manifesto del nostro movimento: prendi un angolo del tuo paese e fallo sacro. Durante questa estate, sceglieremo e scriveremo una poesia con i bambini del villaggio. Ogni mattina Maria vuole letta la poesia». A casa di Daniela vanno tutti a trovarla, bianchi e colorati di ogni età. Lei offre loro il caffè, succhi o frutta e poi ascolta tutto quello che loro sentono di dire. Ma non vuole che la sua presenza venga confusa con chi fa accoglienza per profughi e migranti, per quanto sono soprattutto loro i destinatari della sua azione culturale. «Aiuto, per quello che posso, chiunque me lo chieda. Ora che è cominciata la bella stagione i bambini immigrati si precipitano a casa mia appena finisce il doposcuola e mi invadono la casa di chiacchiere ed allegria. È per loro che ho adottato Poesia ed Utopia, le mie due gattine. I figli dei profughi non hanno animali perché non è facile scegliere di adottare un cucciolo quando sai che la tua permanenza è provvisoria e la spada di Damocle di essere rastrellati e mandati via è così forte nella tua vita». Riace è piena di fiori, ma non li mettono i rifugiati; non c’è spazio neanche per una piantina di gerani di due euro, che equivalgono quasi al pocket money di una giornata. Sanno che a fine progetto devono andare via e quasi nessuno di loro sa dove andrà a finire. «Quando mi parlano del futuro sento tutta la loro disperazione, la sento dentro lo stomaco, dentro ogni fibra. Di solito non li consolo con false promesse che, nessuno, neanche Lucano, potrà mantenere soprattutto ora con questo nuovo governo. Mi limito ad abbracciarli e a dire che li capisco. La situazione di profughi e richiedenti asilo a fine progetto è veramente

drammatica. Come dice Lucano, gli esseri umani non hanno scadenza ed è per questo che mi chiedo e chiedo al governatore della Calabria Mario Oliverio, a cui sta molto a cuore Riace, se non sia possibile approvare una legge regionale che svincoli la permanenza di queste persone dai progetti Sprar. IL SOGNO DI KADER Creare le condizioni economiche e culturali con un piano di sviluppo regionale, per la loro permanenza e per garantire la sopravvivenza dei paesi come Riace. «I bambini di Riace un giorno vorrebbero diventare i ragazzi di Riace, poi i giovani di Riace, e poi i cittadini di Riace, senza l’incubo di essere deportati altrove. Sono loro il patrimonio più importante della Calabria, sono loro, insieme ai figli dei pochi abitanti di questi luoghi abbandonati, il futuro di questa terra». A Riace convivono pacificamente molte comunità, di religioni diverse. La comunità nigeriana ha la sua guida spirituale in pastor Victor, che è di religione pentecostale e ogni domenica celebra messa e unisce tutta la comunità nigeriana della zona. Prima le celebrazioni le facevano nella Medioteca, oggi in un locale preso in affitto che stanno ristrutturando con un’autotassazione. Spesso Daniela partecipa alle funzioni, grazie alle quali - racconta - ha capito tante cose sulla loro vita e la loro cultura. Ci sono anche africani cristiani come Becky, la ragazza nigeriana morta bruciata nel rogo della tendopoli di San Ferdinando e sepolta in terra di Riace, e ci sono anche musulmani come Kader, un ragazzino ivoriano che Daniela ha formalmente adottato. Lui ha l’ambizione di diventare il presidente dell’Unione democratica africana. Vuole Casablanca 37

studiare, lavorare per un mondo migliore e ritornare in Africa, dove ha la madre, una sorellina e un fratellino, per fare la rivoluzione pacifica culturale. Intanto qui è già attivista per i diritti umani. È presidente di un’associazione di giovani africani. Il suo eroe è Thomas Sankara, l’eroe africano della rivoluzione del Burkina Faso. Daniela in questi anni ha coltivato il sogno di inondare Riace di cultura, arte e poesia con le sue iniziative estive, dove coinvolge tutta la comunità riacese. Mostre, laboratori di lettura e scrittura, performance, incontri culturali, arte urbana con realizzazione di opere nei vicoli del paese, musica etnica, cucina multietnica, teatro, sport, volontariato e tanta poesia, sono gli ingredienti dei suoi programmi estivi. Quest’anno, tra i tanti eventi, ha inserito con il suo amico pittore Claudio Parentela un progetto di mail art con cartoline ricevute da tutto il mondo, una mostra fotografica dal titolo “Intrecci di pace”, proveniente da Matera, una performance teatrale sulla spiaggia per commemorare chi non ce l’ha fatta ad attraversare il Mediterraneo, l’inaugurazione di un orto sociale, realizzato insieme alla comunità, sotto la guida competente di contadini e contadine del luogo. A settembre rientrerà a scuola e chiuderà la porta della casa della poetessa: vi ritornerà durante le feste e le estati. Che cosa porterà con sé di questa esperienza straordinaria? «Un patrimonio immenso. Tornerò arricchita di umanità, di storie, volti, idee, speranza, cultura, bellezza e sarò sempre grata alla comunità di Riace per avermi accolta come una profuga ed essersi presa cura della mia anima».


Lettture di Frontiera – La fantasia al potere

Lillo: uno del ‘68 a Siracusa Lillo Venezia Cinquant’anni sono trascorsi dal 1968, quando una moltitudine di giovani, al grido "la fantasia al potere", inondava le strade delle grandi e piccole città in tutto il mondo occidentale. Le scuole e le università, ma anche le fabbriche, furono le fucine di una rivolta generazionale forte e genuina, trasgressiva e fuori dell'ordinario, che in molti casi misero in discussione l'ordine costituito e burocratico della società occidentale. La quale, inizialmente impreparata di fronte a ciò che cambiò totalmente le abitudini della gente, guardava sbigottita. E la" fantasia al potere" arrivò anche alla periferia del mondo, come scrive il giornalista Carmelo Miduri nel suo recente libro su quegli anni per noi favolosi ed irrepetibili. Arrivò anche a Siracusa, città della Magna Grecia e quindi di per sé fertile per le novità e aperta alle tendenze innovative nella società. In provincia di Siracusa, ad Avola, scoppiò la rivolta dei braccianti contro il caporalato e le condizioni di lavoro super sfruttato. Una rivolta a cui parteciparono migliaia di braccianti del siracusano e che la polizia represse duramente sparando ed uccidendo due lavoratori. Avola fu occupata per giorni. Ai braccianti si unirono gli studenti ed altri lavoratori. Il ministro del lavoro e della previdenza sociale di allora, il socialista Giacomo Brodolini, dovette venire di persona per rassicurare i rivoltosi e promettere che il parlamento avrebbe affrontato la questione dello statuto dei lavoratori e che finalmente sarebbe stato approvato. Lo stesso Statuto dei lavoratori - divenuto legge nel 1970 - che i recenti governi hanno messo in discussione, riformando in particolare l'articolo 18 che tutelava i lavoratori dipendenti in caso di licenziamenti ingiustificati, illegittimi, ingiusti, discriminatori. Dopo i fatti di Avola, molti di noi giovani studenti a Siracusa, si avvicinarono alla sinistra, altri entrarono nel partito comunista, tanti altri ancora si impegnarono soprattutto per la fondazione di Lotta Continua in Ortigia. Carmelo Miduri, nel suo libro “La meglio gioventù siracusana” – edito da Arnaldo Lombardi -, ha raccolto le testimonianze di una cinquantina di protagonisti delle lotte nel territorio aretuseo. Un lavoro di pazienza e di bravura. In pratica la fotografia di una generazione impegnata, ricca di ideali, piena di idee e progetti. Una generazione che anche a Siracusa portò avanti i sogni di libertà ed il grido che in quel momento in tutto il mondo occidentale, veniva urlato (peraltro ripreso dal movimento del '77): “la fantasia al potere”.

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Letture di Frontiera – Dalla curva del fiume all’improvviso

Dalla Curva del Fiume all’improvviso Gisella Evangelisti Questo libro è liberamente ispirato alla vita di una donna realmente esistita, pioniera dell’educazione bilingue interculturale in Amazzonia, ossia un’educazione che dia a tutti, indipendentemente dal luogo di nascita e dalla cultura di appartenza, il diritto a una piena cittadinanza. Marianna è una donna colta, di famiglia nobile, che vive una lotta interiore per realizzarsi come persona nell’ambito del matrimonio, in un contesto di grandi trasformazioni in Europa, dal movimento del ’68, al femminismo. Ma è soprattutto l’impatto con il Perú profondo, le condizioni di semischiavitù dei campesinos nelle Ande e la precarietà della vita degli indigeni nella selva amazzonica, accerchiati da uno sviluppo selvaggio, che la spingono a impegnarsi a fondo per contribuire a cambiare una realtà inaccettabile. Questo vivere fra culture diverse la induce ad ampliare la sua visione del mondo e la sua idea di amore. Arricchisce la sua ricerca esistenziale l’incontro con vari personaggi, conosciuti in autobus su strade al filo di abissi, su battelli lungo i fiumi, o in taxi nella capitale, in semplici capanne in Amazzonia o in case confortevoli fra New York, Berlino o Parigi. Con lei conversano sull’amore e altri fantasmi, su magia e realtà, vita e morte. Nel cuore della storia di Marianna c’è l’Amazzonia che vive tra speranza e delusione il boom del petrolio, l’oro e la coca. Uno sviluppo predatorio che puó portare il pianeta alla rovina, se non si procede a cambiare le fonti di energia e i modelli di consumo. È la storia ordinaria e straordinaria di una donna che riesce a superare i limiti del suo tempo scoprendo i mille fili che ci uniscono come umanità, al di là di frontiere, muri e differenze sociali. Una testimonianza originale che riscatta la millenaria saggezza dei popoli andini e amazzonici minacciati da una globalizzazione distruttiva e ci stimola ad agire perché sia possibile un futuro nella nostra patria comune, la Terra. Nella realtà smisurata e nebbiosa del nostro oggi europeo, un inno a quell’energia segreta della vita che alimenta ancora la speranza.

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Gisella Evangelisti ha studiato Lettere a Pisa, Antropologia a Lima e mediazione di conflitti a Barcelona. Ha lavorato venti anni nella cooperazione internazionale in Perú, come rappresentante di Ong italiane e consulente dell’UNICEF in vari paesi dell’America Latina. Per UNICEF, Terra Nuova e PUCP produsse nel 1997 un cd-rom dal titolo Tsamaren, con todo orgullo, su dieci popoli indigeni dell’Amazzonia peruviana, elaborato con metodologia partecipativa, sulla loro storia, cultura, testimonianze di vita. Tra le sue pubblicazioni , Una vita firmata, Padova, 2000, ambientata in una comunità andina, e Porta Aperta a La Paz, Vicenza, 2015. In spagnolo, Biodiversidad y Pueblos indigenas en CentroAmerica, Managua, 2005; Mariposas Rojas, Lima, 2010. Nel 2002 ha ricevuto il premio latinoamericano “Donna, Pace e Speranza”, indetto da UNIFEM e Manuela Ramos, sulla testimonianza che dette origine al libro Mariposas Rojas, e a Dalla curva del fiume all’improvviso.


Letture di Frontiera – Riace: il paese dell’accoglienza

Riace Il Paese dell’accoglienza Antonio Rinaldis A Riace, villaggio della costa ionica calabrese, gli dei sono arrivati due volte, la prima in forma di grandi statue di bronzo riemerse dal mare dopo secoli e la seconda nell'estate di qualche anno fa, in una carretta del mare naufragata sulla spiaggia del paese. Divinità impaurite e fragili che hanno trovato accoglienza e ospitalità. A quello sbarco ne sono seguiti molti altri. Piano piano i migranti hanno cominciato ad abitare le case abbandonate del centro storico, hanno imparato gli antichi mestieri e si sono integrati nel tessuto sociale. E questo grazie alla visione del sindaco, Domenico Lucano, che la rivista americana "Fortune" ha nominato quarantesimo uomo più influente al mondo. La storia di Riace è il racconto di un'esperienza che può diventare esempio vincente, perché gli sbarchi non sono un'emergenza ma una costante, e serve proporre modelli sostenibili. «Guardo la piazza, all’improvviso è invasa da bambini. Mi volto verso alcune panchine di legno, dove una piccola di colore sta giocando con un ragazzino biondo, magrissimo. Sembra quasi di essere dentro a uno spot pubblicitario, ma è tutto vero. Riace è così, scorci di futuro fra vecchi muri e antichi palazzi fatiscenti». Il racconto di Domenico Lucano, un sindaco illuminato che il mondo ci invidia A Riace, villaggio della costa jonica calabrese, gli dèi sono arrivati due volte, la prima in forma di grandi statue di bronzo riemerse dal mare dopo secoli e Antonio Rinaldis è insegnante di Filosofia in un la seconda nell’estate di qualche anno fa, in una liceo della provincia di Torino e docente a carretta del mare naufragata sulla spiaggia del paese. contratto all’Università di Milano. Ha pubblicato Divinità impaurite e fragili, che hanno trovato diversi saggi e romanzi, tra i quali: Sacro e accoglienza e ospitalità. A quello sbarco ne sono Selvaggio in Albert Camus, La bellezza e il male seguiti molti altri. Piano piano i migranti hanno (2008); L’empietà come degenerazione cominciato ad abitare le case abbandonate del centro nichilistica del prometeismo (2010); La Parte storico, hanno imparato gli antichi mestieri e si sono Nascosta (2013); La Cage Invisible dans l’oeuvre integrati nel tessuto sociale. E questo grazie alla de G. Brulotte, Montreal (2013); La desesperance visione del sindaco, Domenico Lucano, che la rivista comme chiffre de la stance dans le théâtre de americana «Fortune» ha nominato quarantesimo uomo Visniec, Dialogue Francophones, Timisoara più influente al mondo. La storia di Riace è il racconto (2013); Paesaggi del sacro in Albert Camus di un'esperienza che può diventare esempio vincente, (2013); con Imprimatur ha pubblicato Esodati nel perché gli sbarchi non sono un'emergenza ma una 2014, Il treno della memoria nel 2015 e Riace. Il costante, e serve proporre modelli sostenibili. Antonio paese dell’accoglienza nel 2016. Casablanca 40


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NoMafia Memorial

Il Memoriale NoMafia laboratorio della lotta alla mafia: un cantiere aperto... Un progetto del Centro Impastato Cos’è Il Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia è un progetto a cui il Centro lavora da molti anni. È un cantiere aperto per la realizzazione di uno spazio multimediale, che sia insieme: • un percorso museale sulla mafia e sull’antimafia, dalle origini ai nostri giorni; • un laboratorio didattico, gestito da docenti e studenti; • una biblioteca, una mediateca, un archivio di documenti e una banca dati, • un luogo di ricerca, di incontro e di progettazione. In breve: uno spazio da vivere e non solo un museo da visitare.

I Promotori Il Centro Impastato e il Comune di Palermo Nel dicembre del 2015 la Giunta comunale di Palermo ha condiviso il progetto del Centro e ha deliberato la realizzazione del No Mafia Memorial, impegnandosi a mettere a disposizione i locali di Palazzo Gulì.

I Partner Affiancano il Centro e il Comune come partner la RAI, che mette a disposizione i materiali delle Teche, la Banca etica, il Cesvop (Centro di servizi per il volontariato di Palermo), il Forum regionale del Terzo settore, Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, l’agenzia di comunicazione sociale YesIAm. Il progetto ha raccolto molteplici adesioni, a livello locale, nazionale e internazionale, tra cui familiari di vittime, fondazioni e associazioni, studiosi, docenti, giornalisti, e si avvale della collaborazione di operatori culturali con una lunga esperienza sul terreno degli allestimenti di gallerie e di mostre. Il palazzo Gulì è in Corso Vittorio Emanuele, nel centro storico di Palermo, area pedonale dopo il riconoscimento dell’Unesco dei monumenti del periodo Arabo- Normanno come patrimonio mondiale dell’Umanità. Il 5 giugno 2017 è stato firmato il protocollo per l’assegnazione dei locali, tra il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, e il presidente del Centro siciliano di documentazione «Giuseppe Impastato», Umberto Santino. Palermo capitale italiana della cultura 2018 e il No Mafia Memorial Nel gennaio 2018 il progetto del No Mafia Memorial è stato inserito fra le iniziative di Palermo capitale italiana della cultura. Palermo negli ultimi decenni è stata teatro della violenza mafiosa, ma pure laboratorio di idee, conoscenze, mobilitazioni che hanno segnato una svolta nella storia della città. No Casablanca 45


NoMafia Memorial Mafia Memorial è un nuovo spazio collettivo di questo laboratorio, dove far nascere nuove idee e nuove pratiche di liberazione dalla mafia e dalle complicità che l’hanno resa forte e impunita.

Come sostenere il No Mafia Memorial Con il 5x1000 destinato al Centro, con l’indicazione: Per il Memoriale. Con un bonifico sul conto corrente presso la Banca Etica, utilizzando l’Iban: IT49G0501804600000012327615. Utilizzando Paypal e carte di credito; con le raccolte sui Social media; partecipando al Crowfunding; diventando sostenitore o amico del Memoriale; donando un oggetto, un cimelio, un’opera d’arte; partecipando alle attività del Memoriale come volontario. La Fondazione con il Sud si è detta disponibile a sostenere la realizzazione del progetto. Per la campagna di comunicazione e raccolta fondi è stato allestito il sito www.nomafiamemorial.org, con pagina Facebook.

Hanno detto del Memoriale: Francesco Renda, storico: Ricordare tutte le vittime della mafia... Sono onorato di aderire al progetto del Museo-Memoriale delle vittime della mafia; io aggiungerei di tutte le vittime della mafia, compresi dirigenti e militanti contadini del secondo dopoguerra e i capi contadini, come Bernardino Verro, Lorenzo Panepinto, Nicolò Alongi e altri che si scontrarono con la mafia al tempo delle affittanze collettive. Peter T. Schneider e Jane C. Schneider, Fordham University e City University NewYork: Siamo felici di poter aderire... Per più di trent’anni abbiamo seguito il lavoro del Centro Impastato, profittando delle proficue risorse documentarie che il Centro ha raccolto e reso disponibile sia all’accademia che alla società civile. È stato il primo Centro serio di ricerca e documentazione sulla mafia e sui movimenti antimafia, e rimane il più importante depositario di tale documentazione. Ci sembra giusto che i frutti di questo lungo e faticoso lavoro siano apprezzati e custoditi dal Comume di Palermo. Siamo felici di poter aderire al progetto del Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia. Monica Massari, Università degli Studi Federico II di Napoli: Un importante spazio di sperimentazione critica e di memoria viva... Aderisco con entusiasmo al progetto del Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia promosso dal Centro Impastato di Palermo, poiché ritengo che possa costituire un importante spazio di sperimentazione critica di ciò che significa confrontarsi con la memoria viva di ciò che è stata e che è la lotta alla mafia. Penso che questo progetto possa costituire un’occasione preziosa per raccogliere e valorizzare ciò che è stato, ma soprattutto per promuovere e attivare ciò che ancora è necessario fare per consolidare e rendere visibili saperi e pratiche estremamente preziosi per il nostro presente e il nostro futuro. Deborah Puccio-Den, Chargèe de recherche al Cnrs (Centre National de la Recherche Scientifique),Paris: Un progetto di alto valore scientifico, etico, politico... Il Memoriale della mafia e dell’antimafia è un progetto di alto valore scietifico, etico e politico. Da un punto di vista scientifico, un luogo come quello previsto nel progetto del Centro siciliano di documentazione «Giuseppe Impastato» permetterebbe di riunire e salvaguardare un patrimonio di documenti bibliografici e iconografici, con sicuro beneficio per i ricercatori. Da un punto di vista etico, questo spazio permetterebbe di conservare la Casablanca 46


NoMafia Memorial memoria di uno dei fenomeni che hanno segnato la storia d’Italia. Da un punto di vista politico, si tratterebbe di dare un segnale forte, non solo nell’ambito nazionale, ma anche internazionale, della reale volontà di fare i conti con il passato e di porre le basi per una vita politica più sana e trasparente. Per queste ragioni sostengo fermamente il progetto del Memoriale della lotta alla mafia. Franca Imbergamo, Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia: una Casa della Resistenza... Seguo ormai da anni le vicende relative alla possibilità di realizzare a Palermo una struttura istituzionale da denominare Memoriale della lotta contro la mafia. La ritengo un’iniziativa senz’altro valida e ormai necessaria anche per la raccolta di tutto il materiale rappresentastivo del lungo percorso della lotta contro la mafia. Mi piace però pensare che questa iniziativa debba essere soprattutto rivolta al futuro, alla elaborazione di nuovi e più incisivi percorsi per liberarci dal cancro delle Mafie. Una Casa della Resistenza contro la Mafia, dove la memoria venga coniugata con l’azione e l’analisi rivolta alla nostra attualità. Nando dalla Chiesa, Università Statale di Milano: Un pezzo importante del lungo, aspro e non interrotto processo di liberazione... Il progetto di Memoriale, coltivato con amore e tenacia da Umberto Santino e da Anna Puglisi, costituisce un pezzo importante del lungo, aspro, e non interrotto processo di liberazione dalla mafia. Pezzo prezioso per il patrimonio di documentazione che può offrire a ogni generazione, per la memoria che radica nella città di Palermo, che di quel processo è stato il cuore, e per il suo altissimo valore simbolico. Credo che la società civile debba sentirsi coinvolta in questo progetto e farlo proprio, nelle forme giuste e possibili. John Dickie, University College, London: La memoria come strumento di riscatto e il Memoriale come luogo di studio e di riflessione... Come la smemoratezza è stata in passato uno dei sintomi di una Sicilia, e un’Italia, profondamente malate di mafia, dove le «Famiglie» esercitavano un’autorità quasi senza opposizione, così la memoria deve essere uno strumento di riscatto, un modo per far sì che ogni piccolo passo in avanti nella lotta alla mafia diventi una conquista definitiva per la legalità. Ma la memoria non è unica. Le sue voci sono multiple: dalle testimonianze delle famiglie delle vittime, alle banche dati delle forze dell’ordine e della magistratura. La memoria è anche una cosa viva, dinamica, fatta di studi, di discussioni, di riflessioni. È per questo motivo che il Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia è così importante. Sono molto contento e fiero di poter sostenere questo progetto. dicembre 1946: Antonella Azoti, figlia di Nicolò, il sindacalista impegnato nelle lotte contadine, ucciso dalla mafia il 21 di-I nostri cari continueranno a vivere... Finalmente una bella e gratificante notizia frutto di un annoso impegno. Mi auguro che la sede sia presto disponibile e fruibile. Un luogo in cui i nostri cari, sacrificatisi per la legalità, potranno continuare a vivere attraverso la Memoria attiva e il contributo che ciascuno di noi potrà e vorrà dare. Io ci sarò.

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“A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare?” Pippo Fava

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