Casablanca n. 52

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Le Siciliane - CASABLANCA N.52/ gennaio - febbraio 2018/ SOMMARIO

A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare? Pippo Fava

5 – Sfrattati con l’antisommossa Graziella Proto 10 –Mi compro la mia casa Graziella Proto 12 – Graziella Proto La forza di un pallone storto 16 Luciano Bruno Io ex ragazzo di Librino 18 – Follie criminali Antonio Mazzeo 23 – La miseria dentro al Tempio Daniela Giuffrida 26 – Aldo di Vita Palermo: Biagio Conte e la povertà 28 – Franca Fortunato La nuova Resistenza Palestinese 31 – La meglio gioventù Giusy Calcagno 33 – L’Acqua potabile sotto l’Etna Graziella Putrino 35 – Claudia Urzì Noi podemos occupar 37 – ERIC: economia rinnovabile circolare

Letture di Frontiera

…un grazie particolare a Mauro Biani Grazie ad Elena Ferrara per la copertina

Direttore Graziella Proto – protograziella@gmail.com - Redazione tecnica: Vincenza Scuderi - Nadia Furnari – Simona Secci –Edizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Lillo Venezia

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Editoriale

Allarme! Fascismi che avanzano Nell’aria c’è un’onda di ribellione che sta montando. Di ribellarsi e scendere in piazza a protestare ce ne sarebbe necessità quasi farmacologica. Non se ne può più: morti sul lavoro, lavoro che manca, violenza sulle donne, diritti negati, nuovi fascismi… A tal proposito Giuliana Sgrena sulla sua pagina fb scrive: «Possibile che invitino sempre Casa Pound alle trasmissioni radiofoniche? Ora è in onda su Radiouno Di Stefano, dopo che ha parlato Smuraglia! Così si sdoganano i fascisti! Invece di combatterli». L’indomani, il 9 gennaio scorso, i rappresentanti della lista Casa Pound sono anche nella sala stampa di Montecitorio per lanciare il loro programma elettorale dalla Camera di deputati. Gli è stata messa a disposizione grazie all’onorevole Massimo Corsaro che l’ha prenotata. Da regolamento. Non posso non pensare a Pertini, Anselmi, Ingrao, Iotti, Berlinguer, Moro… ai partigiani. I fascisti dentro il Palazzo di Montecitorio! Si può? Il regolamento… Ma… forse… non hanno le caratteristiche per essere definiti fascisti e quindi buttarli fuori… non è possibile… Probabilmente… chissà… I commenti degli addetti ai lavori danzano fra i ma e i forse. La paura di perdere voti è immensa, meglio restare nel vago.

Un partito fascista entra all’interno dei palazzi istituzionali e noi stiamo ancora a chiederci il perché? Il come? In nome della democrazia… Quale democrazia? La Costituzione vieta la riorganizzazione del

partito fascista… A carattere permanente. È indubbio che ci siano recenti precedenti, ma mimetizzati e quindi più difficili da stanare… Oggi non c’è nessun infingimento. Qualora non bastasse: ciò che è successo a Macerata è grave. Sembrerebbe emergere una spirale di odio, razzismo e violenza fascista non più serpeggiante che per vari motivi si sta sviluppando in tutta Italia. E fuori. I fatti politici post tragedia di Macerata – impedire di manifestare per la difesa dei

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valori della Costituzione – dimostrano che i fascisti possono colpire, e chi invece vorrebbe protestare pacificamente nella correttezza delle leggi e nell’interpretazione della Costituzione antifascista non può: deve mantenere i toni bassi, non favorire la fibrillazione politica e sociale in atto. La tensione sociale è alta e sta crescendo. Non voglio abbassare i toni. La fibrillazione vive con me. La tensione sociale è giusto che ci sia. Siamo ancora un popolo vivo, andiamo a destra ma siamo vivi. Forse un poco smemorati… disattenti. Capisco che oggi riconoscere atti, atteggiamenti, costumi e modi fascisti sia difficile. Difficile perché le carte sono state mischiate. Rigirate. Sbiadite. Confuse. Eliminati i colori, eliminati i semi. Questo mazzo di carte ci dice che fottere i lavoratori è democratico. Rendere debole il sindacato è un fiore all’occhiello. Vergogna! NON VOGLIO ABBASSARE I TONI Anzi vorrei urlare a chi lo ha dimenticato che il partito fascista è bandito dalla nostra Costituzione. Nata dalla resistenza antifascista. E permettetemi la retorica, l’antifascismo è un valore universale. Se tutti questi rivoli di fascismi più o meno mimetizzati stanno avanzando, vorrei sapere,


Editoriale chi dovrebbe arginare? Le istituzioni? La politica? I cittadini? Visto che le prime e la seconda non ci pensano e non si preoccupano, allora è giusto che ci pensino i cittadini.

manifestazione, il sindaco di Macerata o il ministro Minniti? Chi ha fatto terrorismo psicologico? Dall’esterno sembrava un tentativo di cambiare le regole del gioco, era studiato? È stato un incidente di Ricordo agli smemorati ministri che a Parigi dopo i fatti di Charlie percorso? Superficialità istituzionale? Hebdo c’era schierata tutta Vietare la manifestazione da l’Europa. Tutti i rappresentanti subito ha avuto l’amaro sapore di dei paesi europei abbracciati una svolta autoritaria e basta. hanno sfilato per la città. Nessun La gente si è presentata temporeggiamento. Nessun nonostante tutto. La gente ha stiamo a vedere. A nessuno è venuto in mente di pensare forse capito che non presentandosi nella piazza di Macerata avrebbe inaspriamo gli animi, forse avallato il comportamento alziamo la tensione sociale. razzista e fascista e in molti non Quando c’è stato il blitz davanti hanno accettato – come ha alla sede di Repubblica – qualcuno lo ricorda – tutta la Cgil dichiarato una signora intervistata – il terrorismo istituzionale fatto e la sinistra stavano lì a dal sindaco. presidiare. Sul fascismo la Costituzione Se non si riesce e rispondere parla chiaro. Si ha paura di adeguatamente a un fatto di applicare la Costituzione? Perché razzismo, di violenza fascista, allora siamo messi proprio molto invece di dare risposte politiche si continua a dare spazio ai male. fascisti che stanno tentando la Bisogna scendere in piazza ogni volta che è necessario. Di motivi scalata? E se venissero eletti e cambiassero la Costituzione? Ci ce ne sono abbastanza. Bisogna dimostrare che ci siamo. Bisogna avete pensato? fare come è stato fatto a LAVORATORI, CONTRO LO Macerata. Non c’è divieto di SFRUTTAMENTO sindaco e minaccia di ministro UNITEVI che tenga. Per protestare non c’è A Milano, la città europea per bisogno di permessi e antonomasia, il mese scorso autorizzazioni. quattro operai sono morti come Lo stato in questi casi non può topi mentre lavoravano. Ancora fare solo repressione, non può – o vittime sul lavoro. almeno non dovrebbe – colpire la Ancora massacri democrazia. È il partito fascista per: mancanza di bandito dalla Costituzione, non norme di chi gli manifesta contro. Mettere sicurezza? sullo stesso piano le adunate Superficialità? neofasciste e le manifestazioni Inadeguatezza? democratiche a sostegno delle Una tragedia. vittime e in difesa dei valori Certo il antifascisti della Costituzione è liberismo… una retorica politicamente certo i tagli scorretta. È inaccettabile. Chi ha sull’obbligo della tentato di reprimere la

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sicurezza, i tagli sul personale addetto alla sicurezza. Insomma tragedie, legate ai tagli sulla tutela del lavoratore e ai nuovi falsi valori: importante è la produttività. Importantissima l’efficienza, il braccialetto al polso per controllare meglio… L’esaltazione dello sfruttamento autorizzato, che a volte trascende nella guerra fra i poveri. Il guaio d’aver reso debole il sindacato! La Competitività… la Flessibilità… Non solo manca il lavoro ma quel poco che c’è non è tutelato come si dovrebbe e i dati parlano di un forte aumento delle morti. Ma siamo sotto elezioni, la campagna elettorale ha il posto d’onore. Anche le solite passerelle con le solite frasi di circostanza sono durate molto meno del solito. Tanto sono già morti… tanto erano solo operai… È MORTO UN PARTIGIANO Un altro partigiano è morto. Si chiamava Francesco Villani, aveva 90 anni. Il suo nome di battaglia era Cif e aveva combattuto assieme a Bruno Trentin e Ferruccio Parri. A poco a poco i testimoni della Resistenza se ne stanno andando. Più che mai bisogna impegnarsi a portare avanti il valore dell’antifascismo, prenderne il testimone e portarlo con onore facendolo conoscere ai giovani.

Ciao Cif.


C’è del marcio a Vittoria: non è il ciliegino

Sfrattati con l’antisommossa Graziella Proto Ragusa. Dal 2008 nel territorio di Vittoria, culla del ciliegino e di tutti gli ortaggi in serra, c’è una crisi agricola devastante. Non c’è lavoro. Non ci sono soldi. Non si possono pagare i mutui e le banche mettono i beni ipotecati all’asta. Anche i signori Trigona, titolari di un bar, si sono ritrovati buttati per strada, salvati dalla solidarietà. Grazie all’articolo 164bis del codice di procedura civile, il giudice ha insindacabilità e discrezionalità. L’esagerazione del prezzo vile cioè il deprezzamento del bene con una regolamentazione folle, le aste a vuoto per far scendere il prezzo. Chi muove le fila? Chi sta dietro al business delle aste? Solo speculazione? Un fenomeno di sciacallaggio? Una possibilità di riciclaggio? Tutto alla luce del sole. Sfrattano le famiglie con le squadre antisommossa. Uno scippo vestito con l’abito buono delle istituzioni preposte e dei professionisti coinvolti. Uno spietato distacco generale. All’alba del 17 gennaio scorso esattamente alle ore 5:30 il signor Salvatore Trigona esce dalla sua abitazione come tutte le mattine da alcuni mesi a questa parte. Non riesce a dormire. Non gli riesce di stare a poltrire nel letto e quindi non appena il sole mostra il suo primo pallido raggio, lui è già fuori. Per strada. Ma dove va? Giro per chiese – racconterà – prima seguo la messa in una chiesa, poi un’altra messa in altra chiesa e così via. Qualcuno dice che non ci sta più con la testa. Quella mattina non appena Salvatore mette il naso fuori dalla porta, due persone lo prendono di Casablanca 5


C’è del marcio a Vittoria: non è il ciliegino peso sotto le braccia. Gli tolgono il cellulare. Diranno poi essere due poliziotti in borghese e lo portano in caserma. Lì gli fanno svuotare le tasche, sempre in presenza di due poliziotti. Poche cose, i fazzolettini di carta, le chiavi… Ecco le chiavi, sono queste le chiavi di casa? Sì balbetta. Bene, era questo che cercavamo – probabilmente hanno pensato ma non lo dicono – lei resti qui sotto sorveglianza – ordinano. I due poliziotti vanno via. Dopo pochi minuti si ritrovano innanzi all’abitazione Trigona insieme a finanza, polizia, carabinieri, ambulanza, vigili del fuoco, squadra antisommossa. Con quelle chiavi sequestrate aprono la porta e si presentano nella camera dove la moglie del signor Trigona, Rosa

con i due figli della coppia Trigona-Genovese. Due figli educatissimi, dice la mamma, uno trentacinque anni, laureato attualmente disoccupato, uno di ventiquattro geometra presso terzi. Uno per volta vanno in bagno, si vestono in silenzio e tutto, sempre, sotto il controllo di almeno due poliziotti. Prima di uscire uno dei due ragazzi a malapena riesce a prendere al volo due magliette. Tutto è sequestrato. L’immobile, i mobili, le suppellettili, i ninnoli… la biancheria. All’uscita ad aspettare insieme a tutto il dispiegamento di forze dell’ordine, un fabbro che cambia la serratura. Alla faccia del blitz! Una bella dimostrazione di blitz, non c’è che dire, ma contro chi? Avete visto o parlato con i

Genovese, ancora dormiva. Subito prendono il cellulare che era sotto carica, la signora si sveglia. Guarda confusa. Intontita. Tutte quelle persone attorno… non capisce. Non apre bocca. È attonita. Terrorizzata. Raggelata. Non a causa del suo cuore. Questa volta non è un problema di infarto, ma nessuno si è preoccupato di evitargliene un altro. Altri agenti nel frattempo sono andati nelle altre stanze, fanno la stessa cosa

Trigona? Quanto sono docili, educati, corretti? La famiglia in questione non aveva motivo di fuggire. Non sono persone che delinquono. Volevano ribellarsi a uno sfratto forzato. Non volevano essere cacciati via dalla loro casa. Sono vittime. Vittime delle banche. Vittime della crisi economica che attanaglia parte della Sicilia. Vittime di pezzi di istituzioni carnefici, sorde, mute. Assenti. O peggio? Casablanca 6

Prelevata a forza dalla propria casa, la famiglia Trigona viene portata in caserma e da lì, dal servizio sociale del comune (non della polizia o della prefettura) deportata in un appartamento di proprietà del comune messo a disposizione dei valdesi. Molto decoroso. Cucinino all’ingresso, pochissimi metri quadri su cui si apre anche la porta del bagno e di un piccolissimo stanzino con un tavolinetto per pranzare, un divanetto, il televisore. Se due persone si siedono dietro il tavolinetto la terza ha difficoltà ad entrare perché la stufa occupa il suo regolare spazio. Le stanze da letto sembra siano comode. DEPORTATI IN MASSA L’attuale alloggio dei Trigona è sempre pieno, amici e parenti vanno, vengono, chiacchierano, discutono, progettano. Confortano. Stanno vicino a Salvatore Trigona che in questa situazione sembra essere l’anello debole della catena. Non si sa se continui ad andare alla messa delle cinque. Un suo carissimo amico gli ha trovato o creato un lavoro che lo distrae da quell’idea pazza del suicidio. Non ho più nulla. Non ho niente. Non servo a niente – dice con voce triste e gli occhi disperati. Sembrerebbe una persona dolcissima. Ma quello che incontriamo oggi è un uomo solamente mesto, rassegnato sull’oggi e l’oggi è triste. Grigio come la sua felpa. Freddo e disadorno come quell’appartamentino. Mi faccio puzza dice… da quel famoso 17 gennaio ad oggi, non gli hanno permesso nemmeno di andare – scortato – a prendere la biancheria per il ricambio. «Smettila – gli dice la moglie, sottovoce e con un filo di disappunto – non è vero che fai puzza, la doccia la facciamo regolarmente». Il bar dei Trigona si trovava


C’è del marcio a Vittoria: non è il ciliegino proprio sulla strada principale che porta al mercato ortofrutticolo di Vittoria. Ottima posizione. Ottimi affari per il bar che vive sul flusso e sul via vai degli agricoltori e dei commercianti. Il lavoro va a gonfie vele. Si guadagna bene. I Trigona possono mantenere i loro due figli all’università. Tutto Ok. Anzi, forti del buon andamento del bar un bel giorno programmano delle spese: rinnovano sia l’esercizio sia la loro abitazione. Dal 2008 una devastante crisi dell’agricoltura (vedi: Salviamo la casa di Rosetta Piazza – Casablanca n° 51) e la catena che produceva ricchezza si spezza. Certo in primo luogo è la crisi degli agricoltori, ma come effetto domino tutte le attività che sull’agricoltura si poggiavano, crollano anch’esse. E via via anche attività che apparentemente non c’entrano nulla con l’agricoltura. Compreso quel bar vicino al mercato ortofrutticolo che sull’attività florida dell’ortomercato – il più grande del sud Italia – si reggeva. La crisi investe in pieno i Trigona. Entrano nell’incaglio bancario e la banca – Unicredit – interviene in modo pesante. Sembrerebbe che tutte le banche della zona nell’indifferenza o peggio delle istituzioni preposte abbiano trasformato in prassi un agire pesante e minaccioso, e… un eseguire rapace e scippatore. Con la conseguenza che l’asticella dei valori umani e sociali si abbassa sempre più. I due coniugi allora elaborano un piano di rientro e si rivolgono all’assistenza dell’avvocato Romano. Dalla morte della madre di Salvatore hanno ereditato 25 mila euro, 20 mila li vorrebbero utilizzare per mettersi in regola, 5 mila per rimettersi in carreggiata, per la quotidianità e per pagare qualche rata. E l’avvocato parte. Passano i mesi. Avvocato guardi

che mia moglie non ce la fa più, dice spesso Salvatore Trigona al suo legale, la prego faccia qualcosa. Tutto Ok, risponde sempre l’avvocato. L’asta è andata bene – nel senso che è andata deserta. Era la nona? La decima? Non importa. L’avvocato dice che è andata bene quindi bisogna fidarsi. L’asta del 31 maggio 2016? Non si preoccupi faremo tutto il possibile. Il 12 luglio successivo alla porta della signora Genovese si presenta una donna, buongiorno, sono la nuova padrona del suo appartamento. Rosa Genovese non capisce. Guarda la donna e non riesce a dire una sola parola. Muta. Zitta. Gli occhi sgranati. Lei così gracile che sembra un fuscello. Che parla sottovoce come se avesse paura di disturbare qualcuno… L’altra ne approfitta per andare avanti come un trattore. Parla. Parla. Rosa non ricorda cosa dice… Non ricorda nemmeno di averla già vista, quella signora. Poi mette a fuoco: qualche mese prima era arrivata a casa Trigona assieme alla curatrice, l’avvocata Corallo, per visitare l’appartamento che avrebbe dovuto comprare all’asta. Ha guardato con molta superficialità solo il salone. L’INFILTRAZIONE È IN ATTO Ma una nuova casa si compra in questo modo? Si chiese la signora Genovese-Trigona e non si seppe dare una risposta. Era strano, concluse. E adesso la signora Maria Teresa – questo è il nome dell’acquirente – era lì a reclamare la proprietà e dall’alto della sua bontà disse all’altra che eventualmente… se loro erano interessati… avrebbe potuto affittargliela. Rosa non risponde, non parla, continua nel suo mutismo. Lei non è brava con le parole. La guarda semplicemente e l’altra va via. Si Casablanca 7

ripresenterà qualche giorno dopo chiedendo la risposta. Ma cos’era successo? Come mai l’asta non era andata come aveva detto il loro avvocato? Semplice: il legale – si scoprirà dopo – la transizione l’aveva fatta solo per telefono. Se si è presentato all’asta? Potremmo solo dedurre. «In un contesto storico di crisi economica congiunturale, quale quello attuale, assurge e mostra tutte le sue spigolature un fenomeno preoccupante: il business delle aste giudiziarie», dichiara l’avvocato Riccardo Lana difensore della famiglia Trigona. Le famiglie vittime della crisi, coinvolte nella persecuzione delle banche che mettono le loro abitazioni all’asta sistematicamente, battono il muso contro il cosiddetto prezzo vile. Una prassi grazie alla quale le aste vanno deserte fino a quando il prezzo che si abbassa ad ogni seduta non arriva a un ottavo del valore dell’immobile in questione. «Aveva già intuito il Legislatore (L.203/91) l’estrema pericolosità della questione ed il pericolo di prestare il fianco ad infiltrazioni mafiose nel sistema delle aste – continua ancora l’avvocato Lana. – Bene, allo stato attuale, posso affermare che tale infiltrazione è in atto (come dimostrano recenti provvedimenti della DDA di Catania nei confronti di società che partecipavano e si erano aggiudicate aste presso il Tribunale di Ragusa)», conclude. Qualche giorno dopo quella “strana “visita dell’acquirente, Salvatore Trigona e Maurizio Ciaculli, presidente regionale del movimento Riscatto, sono seduti dinanzi all’avvocato Romano che telefona all’aggiudicataria Maria Teresa per tentare una definizione bonaria e garantire un tetto alla famiglia Alla precisa domanda dell’avvocato Romano “mi dica


C’è del marcio a Vittoria: non è il ciliegino chi è il suo avvocato così mi metto in contatto”, la signora aggiudicataria rispondeva in modo preciso inizialmente e smentendosi successivamente: lei sa benissimo chi è il mio legale, è la dottoressa Corallo, dice come prima risposta. La delegata alla vendita dell’appartamento? Quella che avrebbe dovuto controllare? La stessa che quel giorno in veste di curatore accompagnava la signora Maria Teresa a visitare l’appartamento dei Trigona? Colei che ancora oggi non permette agli sfrattati di andare a prendere un paio di mutande di ricambio nella loro – adesso – ex abitazione? Ma guardi che l’avvocata Corallo non può essere la sua legale, le dice all’altro capo del filo l’avvocato Romano… Ma io non ho detto che è lei il mio avvocato, io non ho avvocato, dice a questo punto la signora Maria Teresa. Ritraendo quello che aveva detto prima. La telefonata nel frattempo era stata registrata ed è finita all’interno di una denuncia alla procura della repubblica di Ragusa in data 2 ottobre 2017. Quale sia la verità? Lo scopriremo strada facendo… forse. L’INDIFFERENZA DELLA POLITICA Comunque ha ragione l’avvocato Lana: «Tutto ciò che sta accadendo a Vittoria impone, a tutti i protagonisti del procedimento, un maggior rigore ed un’etica elevata». Istituzioni e avvocati in primis aggiungiamo. La questione è politica e la politica non può assolutamente continuare a non fare nulla per la questione aberrante delle aste giudiziarie in tutta la penisola. Vittoria è solo la città più coinvolta… 1.600 provvedimenti circa. Maurizio Ciaculli (imprenditore agricolo diventato capopolo da quando ha denunziato il malaffare a Vittoria) rappresentante del

movimento Riscatto, che ci ha accompagnato all’incontro con la coppia Trigona-Genovese, a tal proposito riferisce che «durante i dieci mesi in cui la serra della protesta (organizzata da Altragricolura, No aste, Riscatto e Donne per l’agricoltura) è rimasta in piazza, da lì sono passati decine e decine di politici. Di ogni colore politico. Da tutti abbiamo avuto promesse per cambiare l’articolo 164bis del codice di procedura civile. Grazie a questo articolo il giudice ha insindacabilità, discrezionalità. Il giudice decide il prezzo vile e quindi permette l’acquisto delle case messe all’asta giudiziaria. Quell’articolo di legge sta portando alla rovina migliaia e migliaia di casi in Italia, non solo nel ragusano o a Vittoria che è la città più colpita. Abbiamo portato all’attenzione anche alcune sentenze di diverso parere (anche di Cassazione) sull’interpretazione del prezzo vile. Per evitare le speculazioni». E anche lo sciacallaggio, il riciclaggio di denaro sporco. L’inasprirsi della società. Insomma se un’abitazione o un bene qualsiasi vale 200 mila euro, quando all’asta scende al di sotto di 100 mila euro, si stoppa l’asta, non si continua a far scendere il prezzo. Il bene si restituisce al legittimo proprietario e si ricomincia d’accapo. Nessuno pensa che i debiti non si debbano pagare. Ma la politica deve mettere nelle condizioni di poterlo fare. «La crisi agricola ormai è strutturale. Tutti gli agricoltori siamo nell’incaglio bancario, non abbiamo più accesso al credito bancario, non possiamo pagare le tasse. In questo momento gli agricoltori sono in agitazione perché al mercato ortofrutticolo di Vittoria dove confluisce la merce degli agricoltori il prezzo è sceso a livello tale che non si coprono Casablanca 8

nemmeno i costi sostenuti», incalza ancora Ciaculli. Se a Vittoria il ciliegino costa 70 centesimi al chilo, e nel supermercato dietro l’angolo devi pagarlo a 4 euro al chilo, c’è qualcosa che non funziona. Non è solo un problema di filiera. Il sistema è complesso. «Purtroppo, i signori TrigonaGenovese hanno sperimentato a loro spese cosa vuol dire esercizio legittimo di un diritto che, tuttavia, lede i diritti fondamentali dell’uomo», secondo l’avvocato Lana. Salvatore ascolta in silenzio. Ha sessantasette anni, è alto, allampanato, gli occhi tristi. Ossequioso quando si rivolge a qualcuno. Grato a tutti per quello che fanno. Anche un semplice saluto. Oltre al bar, mi dice sottovoce la moglie, stava perdendo la testa. Usciva ed esce la mattina prestissimo, non si sapeva dove andasse. La moglie lo cercava e in paese qualcuno oltre a darle notizie le diceva guarda che Salvatore non è tanto preciso. E come poteva esserlo? L’ultima cosa che ha comprato è stata un bancone di 14 mila euro e l’ha dovuto buttare perché non gli serviva più. ISTIGAZIONE AL SUICIDIO Intanto qualche mese addietro, sostenuta dall’associazione Riscatto, la coppia Trigona ha anche presentato una perizia econometrica costata 4 mila euro in cui si evince che il tasso del mutuo erogato dall’Unicredit – allora Banco di Sicilia – è usuraio. Non si rendevano conto perché sebbene pagassero le rate il debito non diminuiva mai. E la banca – famelica – reclamava. Procedeva col pugno di ferro. Per snervarli. E così un giorno in cui la disperazione è più alta del solito perché le forze dell’ordine erano


C’è del marcio a Vittoria: non è il ciliegino andate per farli sloggiare, Salvatore Trigona barricato dentro con tutta la famiglia minaccia di darsi fuoco. Alla notizia, dalla serra in piazza Gramsci rappresentanti di Altragricoltura, No Aste, Riscatto e altri movimenti subito si trasferiscono sotto la loro abitazione. Picchettano la casa. Presidiano. Manifestano pubblicamente tutto il disagio sociale e psicologico delle persone coinvolte. Ostacolano pacificamente le forze dell’ordine, che onde evitare tragedie si ritirano. Per tre mesi silenzio assoluto. Un periodo durante il quale l’associazione e il nuovo avvocato si danno da fare per cercare notizie sul delegato alla vendita e sull’acquirente che nel frattempo ha comprato un’altra casa messa all’asta. Il sospetto di infiltrazioni strane e di riciclaggio è forte. Come può una persona che fa servizi acquistare alloggi anche se

a un prezzo vile bassissimo? Chi c’è alle spalle? Da dove provengono questi soldi dato che tutta la zona e tutti i lavori sono in crisi? Nel frattempo a Ragusa il tribunale e la prefettura hanno elaborato un protocollo in cui si dice di farsi aiutare dalle forze dell’ordine per eseguire gli sfratti. E il 17 gennaio scorso per sfrattare i Trigona c’erano tutte le forze dell’ordine possibili e inimmaginabili. Ma la squadra antisommossa cosa avrebbe dovuto fare nel caso dei Trigona? Sembrano dei cadaveri ambulanti. Rosa Trigona Genovese è un fuscello. Certamente curata, dignitosa, anche truccata nonostante il suo stato d’animo. Nonostante la notte, come si suole dire, non pigli sonno. Rosa è lì con tutta la sua dignità di donna, madre, lavoratrice onesta, convinta che dovrà pagare i suoi debiti, ma altrettanto convinta che la sua famiglia sta subendo una grossa ingiustizia. Che non stanno avendo alcuna opportunità. Lei e

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tante altre famiglie a Vittoria sono in balìa delle banche, è vero, ma anche in mano ad avvocati, commercialisti ed altri professionisti privi di scrupoli, la cui taratura morale dovrebbe essere oggetto di indagine della magistratura. Personaggi che sulle disgrazie di queste persone ci marciano. Non c’è ancora molta chiarezza sul perché le denunce presentate dal movimento vadano lentamente, ma c’è del marcio a Vittoria e dintorni. Ma si possono buttare per strada famiglie intere? Qualcuno ha riflettuto sul loro stress psicologico? «È una istigazione al suicidio – dice molto amareggiata Rosa al telefono il 6 febbraio scorso – domani dovremo portare via i mobili dalla nostra casa, non sappiamo ancora dove metterli… Cosa faremo noi… alla delegata non importa… infatti ad oggi non ci ha permesso nemmeno di prendere nemmeno la biancheria».


C’è del marcio a Vittoria: non è il ciliegino

Mi compro la

mia casa

Graziella Proto Marisa Amodei è un’altra vittima delle banche di Vittoria in provincia di Ragusa. Ancora una casa venduta all’asta. Ancora il rischio che un’altra famiglia venga sbattuta per strada. Ancora angherie, vessazioni e liberi arbitri di professionisti senza scrupoli e istituzioni ammantate col tricolore. La casa di Marisa è stata venduta all’asta per 16 mila euro. Un ottavo del valore stimato. Lo chiamano prezzo vile. Non è vile il prezzo, è vile l’operazione. Procedimenti “ufficiali” con tanto di timbri e carte bollate. Se la dovessi descrivere, così direi. Una bella donna. Bionda. Alta. Elegante nel suo genere e nella sua semplicità. Garbata e delicata. Due vivaci occhi indagatori. Parla poco, certamente un poco di timidezza, ma anche una specie di curiosità nel capire chi ha davanti. Dice sempre meno parole di quelle richieste dalla frase di senso compiuto e ti vien voglia di suggerirle l’ultima parola che dice strascicando. A volte sembra chiedersi perché sto qui? Cosa ci faccio? Non sembra a proprio agio, suscita sempre un sentimento di protezione nei suoi confronti. La banca Antonveneta per un residuo di debito le ha venduto all’asta l’abitazione, tutta la famiglia rischia d finire in mezzo alla strada. Ma andiamo con ordine. Marisa Amodei è madre di cinque figli. Quattro suoi, uno adottato. Era successo che la sorella di Marisa, affetta da depressione, si era aggravata ed era e caduta nella schizofrenia. La causa? L’abbandono del marito sebbene lei fosse incinta. Al momento del

parto quindi si presentano i servizi sociali che rivendicando l’applicazione della legge avrebbero voluto dare in adozione il nascituro, un ulteriore dolore per Marisa e la sua parentela. Che fare innanzi alle assistenti sociali che portano via il nascituro? L’unica cosa possibile, dice Marisa, l’ho adottato io. Un figlio non previsto, non programmato. Una gioia incredibile vedersi gironzolare attorno un bimbo la cui madre vive in una casa famiglia. Ma ha voluto dire un altro figlio da sfamare. Un altro figlio a cui pensare. È andata bene. Il suo primo bimbo bello, florido, sano – almeno in apparenza – in età precoce mostra problemi. Non parla, non cammina. Lei racconta come il bimbo fosse allergico al mercurio e che dopo i vaccini di rito si sia ammalato o aggravato notevolmente. Non è la diagnosi la cosa che interessa. Per curare il bambino che via via peggiorava, il solo lavoro del marito, agricoltore e proprietario di un pezzo di terreno, non bastava. I due coniugi decidono allora di fare un prestito Casablanca 10

bancario – dieci milioni di lire – per poter curare il bambino e portarlo a Napoli dove in quel periodo c’era un luminare americano. Ma Napoli non fu la sola città dove portare il ragazzino. Ci fu Roma, Genova… Bologna… Per seguire il figlioletto il marito trascurava la sua campagna, il suo lavoro, l’unico salario della famiglia e nel giro di due tre anni si ritrovarono economicamente a terra. I dieci milioni prestati dalla banca erano finiti. Il ragazzino non migliorava. Il debito restava. Filippo quando poteva lavorava come un pazzo ma serviva solo a sopravvivere. Ritornare ad una vita normale, senza debiti e senza privazioni, sembrava impossibile. Bisognava pagare le rate, e poi l’angosci del piccolo… La malattia del figlio lo distrugge, è troppo pesante per lui. Piano piano Filippo entra nel tunnel della depressione, si lascia andare. Marisa deve da sola farsi coraggio per affrontare tutta la situazione. Sorgono i primi screzi fra loro due e otto anni fa muore il ragazzino


C’è del marcio a Vittoria: non è il ciliegino che oggi avrebbe diciannove anni. La crisi fra i due è inevitabile e lievita inesorabilmente. Si separano – ma siamo in ottimi rapporti, ci tiene a sottolineare. Intanto la banca Antonveneta assorbita successivamente dalla Monte Paschi di Siena marcia come un trattore per il recupero dei soldi prestatigli per la malattia del figlio. Prima mette all’asta il terreno di Filippo, ma non riuscendo a venderlo opta per l’abitazione. Un’abitazione comprata con tanti sacrifici e valutata 130 mila euro circa. Marisa rimasta sola con i suoi figli si sbraccia e si mette a lavorare. L’unico lavoro possibile in una realtà depressa economicamente. Fa i servizi presso le famiglie e cerca di barcamenarsi. LA FOLLIA DELLE NOTIFICHE CHE NON ARRIVANO… «Qui le nostre fabbriche e le nostre industrie sono i magazzini di lavorazione dei prodotti ortofrutticoli ove lavorano 80, 90 operaie – spiega Maurizio Ciaculli. – Nella lavorazione e confezione del prodotto – continua – le donne sono molto più pazienti degli uomini. Tuttavia, sono sottopagate (9,50 Euro al nord, 4 euro al massimo qui) e spesso per poter lavorare quattro ore bisogna aspettare anche cinque ore». La paga non sempre è puntuale – aggiungiamo. Quello di Marisa non è un debito di importo alto, ma lei non riesce a far fronte, ha altre priorità. Tuttavia di fronte ai vari procedimenti ingiuntivi della banca Marisa fa una proposta di rientro, ma la banca la rifiuta perché pretende la somma per intero. Quindi la sua casa, come da copione a Vittoria e dintorni, va all’asta. Le prime aste vanno sempre

deserte, perché man mano che si passa alla successiva il prezzo scende. Inesorabilmente. Lo chiamano prezzo vile e indica un tipo di vendita che avviene a prezzo di gran lunga inferiore al valore della cosa compravenduta. E da un’asta andata vuoto all’altra, il prezzo della casa di Marisa arriva a 16 mila euro – un ottavo del valore stimato. Non è vile il prezzo, è vile l’operazione. Procedimenti “ufficiali” con tanto di timbri e carte bollate. È uno scippo. In questo caso per un debito residuo di 4.614,26 euro. Marisa Amodei non si arrende e sebbene senza lavoro fisso, malgrado le precarie condizioni economiche riesce a dialogare con la banca debitrice e giungere a un accordo. La somma per rinunziare all’esecuzione della vendita è 8.791 euro da versare in due soluzioni di cui la prima di 5.000 euro e il saldo entro il 31 maggio 2016. Purtroppo il versamento della prima quota non lo si riesce a fare entro i termini stabiliti. Il 15 giugno 2016, subito dopo aver fatto il versamento, Marisa avvisa l’avvocato della

controparte pregandolo di spostare i termini della scadenza perché sta già racimolando la seconda somma da versare. Nessuna risposta. Era già a buon punto quando il 21 luglio 2016 riceve la comunicazione che il 14 luglio era tutto finito. Tutto venduto. Marisa lo scopre grazie ad una lettera che le arriva a casa. Casablanca 11

Ma come avvocato a giugno abbiamo pagato 5 mila euro e a luglio mi vendono la casa? Ma come è possibile? Cosa è successo? Nemmeno l’avvocato se lo spiega. Delle operazioni di vendita e dell’asta del 14 luglio 2016 Marisa Amodei era totalmente all’oscuro, così come totalmente all’oscuro ne era la sua avvocata Monia Cannata perché, si scoprirà successivamente, le comunicazioni anziché in via Failla n° 19 b erano state notificate in via Failla n° 19 a – dove abita una persona che la Amodei ha querelato per comportamenti molesti. Una interferenza illecita? Non si sa. Ma invalidante o no? Per riscattare l’abitazione di Marisa e i figli, Filippo Failla ex marito di Marisa ha dovuto vendere la sua campagna. Si sono spogliati di tutto per non avere niente. Ma è una beffa o cosa? L’acquirente Giuliano Calogero, anche questa volta è una persona che non ha un posto fisso, lavora a giornata. Prestanome? Non lo diciamo. Non lo sappiamo. Possiamo supporlo? Quella casa a volte gli interessa a volte no. Alla fine dice fatemi un’offerta per restituirvela. Bene, 22 mila euro, cioè 16 mila più le spese. Nooo troppo poco risponde Giuliano Calogero agli avvocati, fatemi un’offerta migliore. Secondo lui potrebbe essere 29 mila più gli arretrati di affitto, visto che la famigliola occupa “abusivamente” l’appartamento dal luglio 2016 e che secondo il tribunale non dovrebbe lasciarlo fino al maggio prossimo. Una bella sommetta…comunque le trattative per comprare la propria casa proseguono… A dimostrazione che nella terra di Pirandello, tutto può accadere.


Aveva ragione Mandela

La forza di un pallone storto Graziella Proto È rimasta solo la bandiera della pace e la targa dedicata al piccolo Giuseppe Cunsolo. Ci sarà un significato? Nella notte tra mercoledì 10 e giovedì 11 gennaio a Catania un infame attentato di stampo teppistico, criminale, mafioso ha totalmente incendiato la Club House “G. Cunsolo”. La sede della associazione rugby I Briganti asd onlus. Sette squadre di tutte le età più due squadre femminili. La Club House non esiste più. Sono andati a fuoco tutti i libri della biblioteca popolare – la Librineria – e i computer, il defibrillatore, i palloni, le maglie. Distrutti pure tutti i trofei de I Briganti. Un attacco infame a un presidio di legalità. Un attacco malvagio a chi, locale o no, per Librino sta cercando di costruire qualcosa di buono. Teppisti, criminali, mafiosi? Impossibile credere che dei giovani balordi possano riuscire a fare tanto. Solidarietà a valanghe da ogni parte. La onlus ne uscirà più forte che mai. Una beffa non prevista. “Era una casa molto carina senza soffitto senza cucina … ma era bella bella davvero in via dei matti numero zero”. Altri matti la stravolsero. Si dissero sarà la sede dei ragazzini di Librino e così fu. E via con pavimento, soffitto, cucina, Librineria, sala studio… palestre e spogliatoi, perché negli anni assieme ai ragazzini che dovevano studiare e che avevano bisogno del doposcuola dei matti, si aggiunsero tanti altri ragazzi di età diversa che volevano fare sport, che volevano imparare e che volevano fare squadra. Nacque la squadra di rugby. Il rugby? Sì, proprio così. Una squadra di rugby. Un fatto che inizialmente destò molto scetticismo fra i tanti che tutto sanno. Dimenticando che all’inizio del suo mandato anche Nelson Mandela piuttosto che ai suoi discorsi politici preferì affidarsi –

consapevolmente e per scelta politica – a una squadra di rugby per unire il paese. Era stato eletto da poco presidente del Sudafrica e il clima era quello della vendetta: neri contro bianchi. I neri rappresentavano l’80 per cento della popolazione, e ciononostante il sistema legislativo razzista

imposto dalla minoranza bianca era durato per quarantadue anni. I neri negli anni avevano subito troppo dai bianchi e con l’elezione Casablanca 12

di questo presidente i bianchi pensavano fosse giunta l’ora della vendetta sulla loro pelle. Ma Mandela di vendette e ritorsioni non vuole sentir parlare, ha altri progetti sul futuro di quel paese che usciva da un periodo difficilissimo. Con una tensione sociale altissima. E decide di sorprenderli. “…Io so cosa i bianchi ci hanno tolto, ma questo è il momento di costruire una nazione”. Decide anche che quello sport giocato dai bianchi deve piacere pure ai neri che pur di non tifare per i bianchi sudafricani speravano nella vittoria di Inghilterra, Francia o Australia. Mandela si convince che per unire il Sudafrica l’idea di una squadra nazionale unica sia l’arma vincente. Una squadra fatta di uomini bianchi e neri. Una squadra arcobaleno di un paese arcobaleno... Ben presto lo sport dei bianchi viene insegnato ai


Aveva ragione Mandela ragazzini neri delle baraccopoli e la squadra in men che non si dica diventa l’espressione più politica del paese. La vittoria ai mondiali del 1995 che vede il Sudafrica contro la fortissima Nuova Zelanda non sarà una vittoria sportiva ma il momento in cui un popolo si unisce davvero con una squadra. Un popolo unito che si riscatta dagli odi, dalle diseguaglianze, attraverso il rugby. Come scrisse qualcuno, quella cosa da bianchi, odiata dai neri (importata in Sudafrica dai Paesi Bassi e dalla Germania alla fine dell’Ottocento) divenne un’opportunità per unire il Sudafrica. Anche per Librino, la nascita di una squadra di rugby è stata uno strumento per la crescita. Inizialmente era solo un laboratorio sportivo all’interno del Centro Iqbal Masih. Una associazione di volontari dedicata a un bambino pakistano, un piccolo operaio, attivista e simbolo della lotta contro il lavoro infantile. Iqbal Masih aveva lavorato in schiavitù fin da quando aveva cinque anni, con la fuga riuscì a liberarsi e raccontare la sua storia, ma non riuscì a sfuggire alla vendetta della mafia dei tappeti che lo uccise a soli dodici anni. La squadra di rugby a Librino esiste da più di dieci anni e si chiama I Briganti. Che nome, ma perché proprio Briganti? «Per attaccarsi al significato romantico di questa parola – ci spiega Umberto Bonaccorsi ex rugbista e operatore al centro di Librino –, i briganti che si opponevano agli oppressori per liberare la loro terra. Il brigante che si riprende quello che lo stato gli ha tolto o mai dato.

Briganti lo hanno scelto loro», conclude. QUARTIERE DEL GIAPPONESE – METAFORA DEL DEGRADO Librino era stato pensato e sognato da Kenzo Tange, l’architetto del sol levante dalla faccia buffa con due occhietti piccini e fulminanti. Negli anni settanta l’architetto giapponese a cui era stato affidato il piano per Catania – si racconta – prese un pennarello e disegnando un cerchietto sulla mappa disse “qui sorgerà la città satellite”. Meravigliosa. Razionale. Elegante. Ricca. Verde e con le università. Una città giardino. Dopo quarant’anni, di quel sogno non è stato realizzato nulla. Anzi, negli anni il quartiere è divenuto simbolo negativo. In effetti il paesaggio, nonostante la presenza di decorose e dignitose palazzine costruite da un gruppo di cooperative, da subito ha avuto strutture abbandonate, dove le organizzazioni criminali locali o di

altri quartieri nascondono le armi e la droga. In tanti angoli si è sempre spacciato senza nascondersi troppo. Nessuno ha mai pensato a dove far fare una partita di pallone ai ragazzini. Uno scippo programmato della loro fanciullezza. Nel 1995 in occasione delle universiadi sulla collina San Teodoro di Librino si costruisce un Casablanca 13

polo per ospitare le gare: un campo da calcetto, un campo da rugby, due palestre, uffici, foresteria. Inspiegabilmente gli sport che dovevano andare in scena a Librino nella struttura San Teodoro vengono cancellati, trasferiti altrove e così le due palestre e il campo sono rimasti inutilizzati. Subito abbandonati e preda di chi li poteva sventrare o utilizzare come covo – sicuramente meno sportivo. Una vera “Meta”, ma non di rugby. Nello stesso periodo del San Teodoro, intorno al 1995, nel quartiere nasce il Centro Iqabal Masih, con un gruppo di giovani volontari – per lo più studenti – che riuniscono e accolgono i ragazzini dei palazzoni in una minuscola e disadorna stanza per fare doposcuola. Oltre lo studio un poco di sport, qualche iniziativa ludica per tenerli impegnati, lontani da curiosità strane: un solo esempio, il Palazzo di cemento, luogo di scorribande di ragazzini con la voglia della scoperta… Una specie di torre, fatiscente, pericolosa, semi abbandonata. Decine e decine di alloggi occupati abusivamente. Anfratti e luoghi segreti utilizzati come nascondigli di armi e droga. Postazioni della criminalità. Affascinante, misterioso luogo per i ragazzini con la voglia di avventure. Un palazzo pensato come architettura all’avanguardia mai completato e mai collaudato e mai consegnato diventato il simbolo del degrado di Librino. Per tanti anni roccaforte dei clan, il palazzo di cemento è ora in attesa di lavori di riqualificazione. Lo spaccio si è spostato… di pochi metri. Fra i fondatori del Centro Iqbal Masih a Librino, Piero Mancuso,


Aveva ragione Mandela che nella zona ci arriva nel 1992. Faceva il servizio civile con l’Arci «Non conoscevo quel quartiere, ma mi ha affascinato la sua complessità… ed è lì che ho deciso di rimanere». E lavorare. Tanto. Grazie a Piero, Umberto, Angelo, il laboratorio sportivo dell’associazione piano piano si trasforma, prende il volo… piglia consistenza… acquisisce importanza… Pochi ci avrebbero scommesso, invece è diventato un progetto di sport popolare tra i più importanti in Italia. E il rugby per i ragazzi del quartiere è diventato l’opportunità per scoprire altri mondi, altri modi di vivere e di vedere. Costruire relazioni e sogni. Creare momenti di socializzazione e di gioia. IL DOLORE E LA RISCOSSA Tuttavia anche tante difficoltà. Anzi mille difficoltà, perché non avendo il campo e le infrastrutture quel piccolo esercito per anni è stato costretto a trasmigrare in continuazione. Più volte a settimana i ragazzi di Librino, organizzando passaggi, hanno vagato per tutti i campi della città. Una situazione che creava problemi e che a volte faceva allontanare qualche ragazzo distratto da altri richiami. Rivoli che lo trascinano inesorabilmente nei gorghi della malavita. Giuseppe Cunsolo è tra questi, un minorenne che non essendo perseguibile finisce a spacciare e morirà in un incidente dalle dubbie dinamiche. Era il 12 febbraio del 2012 e quell’evento ha segnato profondamente tutti i ragazzi, i loro maestri e i loro allenatori. Un dolore incolmabile. Una rabbia inarrestabile. «Questa piccola morte – dichiarò Angelo Scrofani, capitano dei Briganti – ci scosse a tal punto che decidemmo che nessun altro Peppe Cunsolo

doveva lasciarci perché un’amministrazione troppo menefreghista e vigliacca (la giunta Stancanelli, di centrodestra, N.d.R.), si girava dall’altra parte…». Poco distante dalla sede, a pochi centinaia di metri dall’Iqbal, in uno stato di totale abbandono, vandalizzato, depredato, utilizzato dalle mafie, c’è il campo San Teodoro. Quel famoso campo costruito per le universiadi e mai utilizzato. Un campo argilloso, difficile. Nondimeno «per anni abbiamo chiesto di utilizzarlo – racconta Mancuso – ma il Comune non ci ha risposto neppure quando abbiamo raccolto 7.000 firme. Così il 25 aprile del 2012, una data scelta apposta per il suo significato, abbiamo occupato l’impianto». «Il 25 aprile del 2012 abbiamo deciso di prenderci quello che ci spettava di diritto – dice ancora il capitano Scrofani –. Il San Teodoro l’abbiamo occupato liberandolo», conclude. «È vero che noi abbiamo occupato un impianto pubblico realizzato coi soldi dei contribuenti – interviene ancora Mancuso – ma era stato abbandonato, e lo abbiamo fatto per ridarlo alla comunità». Nel momento in cui entrano nel campo, ciò che si presenta agli occhi degli occupanti era un misto fra una giungla e una casa bombardata. Uno schifo: sanitari vecchi, topi morti, pallottole, vetri rotti, carcasse di animali, arbusti di ogni genere… Eppure era bellissimo. Finalmente un campo! Ma quanto lavoro c’è voluto per renderlo agibile! Poi la Federazione Italiana Rugby omologa il campo, e nel 2015 i Briganti ottengono ufficialmente il comodato d’uso gratuito. Cosa è successo in questi pochi anni? Un miracolo! Oggi si contano circa 300 atleti a Casablanca 14

partire dalla under 10 fino ai giocatori della squadra seniores, che milita nel campionato di C1 nazionale, due squadre femminili, Le Brigantesse. Ogni anno circa 600 bambini partecipano al torneo di rugby per le categorie giovanili intitolato ad Iqbal Masih, recentemente è partita la campagna chiamata “I Briganti si meritano un prato”. Una campagna per raccolta fondi al fine di migliorare il campo, che essendo argilloso col caldo si trasforma in cemento e con la pioggia diventa una palude. Nel tempo il Campo San Teodoro è diventato un luogo di aggregazione importante per il quartiere, un centro culturale, con una ricca biblioteca popolare, la Librineria, dove i volontari fanno il doposcuola e organizzano per le attività ricreative. Tantissima gente del luogo collabora nel raggiungere sempre nuove “Mete”. MATTI E MIRACOLI Progetti, progetti, progetti. Progetti folli? Progetti utopistici? Sì, in fondo era una follia quella che a cominciare dal ’92 questi idealisti sognavano di realizzare. Forse nemmeno loro erano consapevoli di ciò che stavano seminando, ma quella follia ha dato i suoi frutti e ha portato gioia in alcuni angoli del quartiere. Difronte a tutto ciò che avete costruito hanno incendiato la vostra sede. Disturbate la “tranquillità” del quartiere? Togliete manovalanza? Chiediamo a Piero Mancuso attivista e fra gli attori principali di questa bella storia. «Credo che più che un disturbo legato alla perdita di manovalanza – quella purtroppo abbonda – le attività che si sono sviluppate attorno al campo da rugby rivestano un sano aspetto simbolico. Si rappresenta compiutamente un’idea di


Aveva ragione Mandela comunità che cresce in un territorio difficile e lo fa in completa autonomia, generando energie e sogni per i più piccoli. Ecco, penso che questo possa essere difficile da digerire per chi invece vuole un territorio servo e dormiente». Quali ipotesi allora per l’incendio? «Sull’incendio ci sono tante ipotesi, ma per adesso tali rimangono, per cui credo sarebbe un errore di presunzione prediligerne una piuttosto che un’altra. Non erano arrivati segnali, per cui siamo stati colti tutti di sorpresa. Pazienza, adesso bisogna pensare ad andare avanti. Non un passo indietro». «A noi non interessa cosa volessero fare – interviene Umberto Bonaccorsi. – Devono sapere che hanno scatenato una onda emotiva e solidale che difficilmente si affievolirà e che farà crescere la nostra determinazione. Da lì non ce ne andremo. Non ne abbiamo la minima intenzione. Resteremo a sostenere i ragazzini, giovani e adulti che inseguono un sogno». La solidarietà è arrivata e arriva ancora a valanghe. Dalla parti più impensate. Isolata. Privata. Squadre sportive non solo di rugby ma anche di altri sport. Materiale scolastico, mobili. A sorpresa sono arrivate 35 persone con mansione diversa che in un giorno hanno fatto ciò gli operatori avrebbero fatto in un mese. Nella parte della palestra in disuso è già quasi tutto sistemato e lì vi sarà la Club House, la palestra, la sala per il doposcuola e la cucina. Umberto a Librino è arrivato per caso 12 anni fa. «Non conoscevo Librino e non sapevo nemmeno arrivarci. Per me era un mistero. Un covo malavitoso, sentivo dire». Dopo un allenamento una sera si reca al centro sociale occupato

Experia, dove si festeggiava il primo compleanno della squadra, e incontra Piero. Si conoscevano da ragazzi, erano vicini di casa. «‘Ci dai una mano?’. ‘Certamente ma per adesso ho poco tempo… fra un anno finisco di giocare’… Iniziai da subito. Quando ho incontrato quei ragazzini è stato un amore a prima vista! Anche i più piccoli avevano un certo no so che, mi affascinavano. Gli occhi sembrava volessero scippare e conquistare ciò che avevano dinanzi. Una indole selvatica. Non avevano paura di nulla Si credevano e si comportavano come degli adulti. Soprattutto quando litigavano. Ma appena gli davi due regole e un

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pallone si addomesticavano. Sembrava aspettassero qualcuno che gli desse delle regole. Col pallone erano fantastici. Si trasformavano». Piano piano a quei ragazzini si aggiunsero i figli degli immigrati e il polo sportivo aumentava sempre più. Un quartiere senza maglie rotte nella rete? Un bel traguardo. Un bel sogno. Certo c’è ancora molto da fare a Librino, ma la concretezza dei Briganti – atleti e operatori – non è solo una speranza, è già una realtà. La realtà di un gruppo di matti capaci di fare miracoli.


La Storia di Uno di Noi

Io Ex Ragazzo di Librino Luciano Bruno Due foto per raccontarmi come abitante di questa città. Di questo quartiere. Un cittadino che ha vissuto la prima parte della propria vita a Librino, dove qualche settimana fa è stata incendiata la club house dei Briganti. Attentato vile e vergognoso. La prima foto. Sono in mezzo al terreno della collina a ridosso di viale Castagnola. Da quella rialzata di terreno posso guardare, attraverso i miei ricordi, tutta la città fino al mare; ma non in senso prettamente visivo, con la forza della memoria storica ai miei sensi arriva tutto. La foto rappresenta una delle tante volte in cui sono andato a trovare la mia mamma. Lei era ancora viva ed io trentenne, in un momento della vita in cui un poco di felicità mi si era affacciata accanto e mi accompagnava: il giornale, le collaborazioni, l'attivismo contro le mafie, il monologo proprio sulla mia vita nel quartiere e l'amore...

permetto un momento di svago e di liberazione. Ed eccomi allora là su quella collina dove tutto si fonde nella mia mente e nella mia memoria. Gli anni in cui sono andato ad abitare a Librino, quelli in cui gli spazi erano ancora ampi, perché i palazzi enormi e desolati ancora dovevano essere costruiti. E gli anni della mia adolescenza, durante i quali, mio malgrado, sono stato escluso dagli stessi amici con cui avevo giocato negli anni dell'infanzia. Perché? Perché vigeva la legge del più forte, prepotente, spocchioso… e io forte in quel senso non lo sono stato mai.

Rivedo mia madre, la sua vita difficile e mi strugge il cuore. Sto con lei e prima di ritornare a casa mia, mi Casablanca 16

Dalla collina rivedo tutto il quartiere, così come l'ho visto mano a mano trasformarsi, da spazio vuoto, un paradiso, nella mia immaginazione di bambino. Prima un grande cantiere, in cui passano gli operai, le ditte che costruiscono, la cementificazione che avanza e che velocemente ingloba tutta la campagne di cui ormai si ricorda poco. Una enorme e compiuta violenza politica. Una costruzione gigantesca di questa enorme parte della città di Catania. Una grande opera della mafia catanese. La stessa che, con altre facce in diversi modi, senza lupara, ancora oggi vuole che i ragazzini del quartiere non abbiano un futuro, una educazione, un centro dove poter imparare che la vita può essere altra da quella conosciuta per la strada. Una fortuna che è capitata nella mia vita. Non senza dolore. Poco più che bambino me ne andai a lavorare alla pescheria. Lavoro duro. Umile. Ma mi pagavano bene: trecento mila lire a settimana,


La Storia di Uno di Noi neanche un adulto e padre di famiglia. Parte dei soldi li portavo a casa, visto che non bastavano mai, il resto lo tenevo per me. Mio fratello maggiore amava giocare a poker e non andava molto per il sottile: prima voleva piccoli prestiti, che si fecero via via più grossi. Poi ritorsioni e minacce. Poi anche le botte per potermi togliere il salario che mi guadagnavo col sudore… Adolescente scelsi di andare via da Librino, dalla mia famiglia, dalla mia casa. E da lì cominciò una trafila interminabile e problematica. Ma quella è tutta un’altra storia.

Ciriello sulle pagine della Repubblica delle Donne. Eravamo lì, appunto, per fotografare il quartiere e alcune sue situazioni di degrado. Ci trovavamo nella Piazza dell'Elefante, a ridosso del viale Bummacaro, quello che ai tempi della mia infanzia era chiamato semplicemente Stradale Librino. Dietro alle mie spalle, avevo per-

cepito dei passi, il rumore dei tacchi di una donna. Mi sono girato e davanti a me ho visto la mia mamma. Non la vedevo da un anno. Vado verso di lei e l’abbraccio. L’ultima cosa bella della mia mamma: la mia storia di abitante ed ex abitante di Librino porta la sua memoria, la sua storia, la sua resistenza, la sua solitudine. La sua forza. Una forza grazie alla quale poco prima di andarsene via riuscì a farsi promettere da mio fratello che avrebbe cambiato vita. Se oggi posso decodificare, raccontare e analizzare ogni violenza subita le devo anche questo, il mio abc.

*** Ero ritornato a Librino con l'amica fotografa che, qualche anno fa, ha raccontato la mia storia con la scrittura di Marco

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Nel cuore del Mediterraneo e degli USA

Follie Criminali Antonio Mazzeo Segretamente a Sigonella sta per entrare in funzione la Joint Tactical Ground Station (JTAGS), la stazione di ricezione e trasmissione satellitare del sistema di pronto allarme USA per l’identificazione dei lanci di missili balistici con testate nucleari, chimiche, biologiche o convenzionali. Nell’area 465 della base sorgerà il nuovo sito di guerra missilistico e nucleare. Della nuova “ricollocazione” a Sigonella grande felicitazione del Presidente del Consiglio Renzi e della Ministra Pinotti. Il governo italiano pare non abbia ritenuto doveroso informare il Parlamento e l’opinione pubblica. Mister Trump ha annunciato un piano di “modernizzazione” degli arsenali che costerà più di 1.300 miliardi di dollari nei prossimi 30 anni. Vorrebbe testate nucleari per «effettuare attacchi chirurgici con un numero ridotto di vittime». In Calabria per le opere urbanistiche la US Navy ha affidato i lavori di costruzione degli impianti JTAGS alla D’Auria Costruzioni S.r.l. di Lamezia Terme che sembrerebbe una società quantomeno discutibile. C’è un sistema che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale consente di misurare il tempo mancante all’olocausto nucleare planetario. Si tratta di un orologio virtuale, il Doomsday Clock, le cui lancette si avvicinano o si allontano dalla fatidica mezzanotte dell’umanità a seconda della gravità dei conflitti in atto o dell’evoluzione della corsa al riarmo atomico. Questo sistema è stato adottato da centinaia di scienziati di fama internazionale che periodicamente pubblicano un report sul Bulletin of the Atomic Scientists dove “fotografano” la

distanza delle lancette dalla maledetta ora X. Qualche giorno fa, nel corso di una conferenza stampa a Washington, il Presidente della prestigiosa rivista scientifica, Rachel Bronson, ha lanciato l’allarme: «Mancano solo due minuti alla mezzanotte». Lancette così vicine all’ecatombe nucleare non si vedevano dai tempi della guerra fredda USA-URSS e dell’installazione in Europa dei missili a medio raggio (i Cruise, i Pershing e gli SS-20) e di 112 testate atomiche nell’allora base statunitense di Comiso, Ragusa. «L’odierna minaccia nucleare è Casablanca 18

insostenibile», ha aggiunto Rachel Bronson. Nel pianeta la guerra è globale e permanente, anzi perpetua, e il presente e il futuro prossimo sono pesantemente minacciati dall’escalation nucleare di decine di grandi e medie potenze, dalle crescenti tensioni tra USA e Russia, USA e Cina, USA e Corea del Nord e – come avvertono gli scienziati No War – dal «miglioramento tecnologico delle armi nucleari che producono la concreta possibilità che esse vengano usate». A rendere ancora più inquietanti gli scenari internazionali e mettere


Nel cuore del Mediterraneo e degli USA profondamente in pericolo la stessa sopravvivenza di ogni forma di vita nel pianeta ci ha pensato la nuova amministrazione statunitense: Mister Trump ha annunciato una radicale riforma della postura nucleare a stelle e strisce grazie a un piano di “modernizzazione” degli arsenali che nei prossimi 30 anni dilapiderà più di 1.300 miliardi di dollari. Obiettivo chiave della nuova dottrina nucleare statunitense, lo sviluppo di testate nucleari a potenza ridotta, anche di un solo kiloton (17 volte meno potente della bomba sganciata su Hiroshima) per «effettuare attacchi chirurgici con numero ridotto di vittime». E poi ancora altre atomiche più precise e più potenti da utilizzare con i nuovi caccia, i sottomarini e i missili a medio e lungo raggio, forse anche con una nuova generazione di aerei senza pilota e senza controllo umano a distanza. I moderni dottor Stranamore del Pentagono puntano alla supremazia assoluta in campo tecnologico e nucleare e all’annientamento ovunque e comunque di ogni minaccia, anche di quella rappresentata magari da piccoli gruppi insorgenti contro cui potrebbero essere sganciate le nuove mini-atomiche per la “guerra nucleare limitata”. Un mixer di ultra sofisticati sistemi radar e satellitari, centri di comando, controllo, comunicazione e intelligence consentirebbe – sempre secondo Trump & Co. – di poter “controllare” preventivamente

ogni eventuale operazione missilistica nemica e scatenare dunque il “primo colpo” nucleare, evitando qualsiasi ritorsione e dunque i limiti-pericoli della cosiddetta “Mutua distruzione assicurata” ARMIAMOCI E PARTITE! Follie criminali con immediate ricadute innanzitutto sui paesi partner alleati di Washington, Italia in testa. I nuovi sistemi di distruzione di massa, infatti, sono destinati ad essere installati (e utilizzati) principalmente in Europa, a partire dalle ammodernate bombe aviotrasportate a guida laser B-61 da custodire nei bunker delle basi di Ghedi (Brescia) e Aviano

(Pordenone) o delle potentissime testate che armeranno i sommergibili a propulsione atomica che incrociano le acquee nazionali e sempre più spesso approdano ad Augusta, Napoli, La Spezia, Taranto. Anche la base di Sigonella, capitale mondiale dei droni da guerra e base avanzata per le forze speciali e di pronto intervento Casablanca 19

USA e NATO, assumerà un ruolo strategico nei programmi di supremazia nucleare planetaria delle forze armate degli Stati Uniti d’America. Segretamente, senza che mai il governo italiano abbia ritenuto doveroso informare il Parlamento e l’opinione pubblica, sta per entrare in funzione nella grande infrastruttura militare siciliana la Joint Tactical Ground Station (JTAGS), la stazione di ricezione e trasmissione satellitare del sistema di “pronto allarme” USA per l’identificazione dei lanci di missili balistici con testate nucleari, chimiche, biologiche o convenzionali. «JTAGS è il principale sistema di US Army per integrare ed espandere le capacità di allarme, attenzione e pronta informazione sui Missili Balistici da Teatro (TBM – quelli con gittata compresa tra i 300 e i 3.500 km) ed altri eventi tattici che interessano il teatro operativo che utilizza i network di comunicazione esistenti», spiega il Pentagono. “«Esso è in grado di ricevere e processare tutti i dati trasmessi a banda larga dai sensori della costellazione satellitare del Defense Support Program. JTAGS determina la fonte TBM identificando il punto e il momento di lancio del missile, la sua traiettoria e il punto e il momento dell’impatto. Quando è installato nel teatro di guerra, riduce la possibilità di singole interruzioni nei sistemi di comunicazione dei rispettivi Comandi. I benefici operativi includono anche quello di poter dare i segnali d’attacco agli assetti operativi per individuare e


Nel cuore del Mediterraneo e degli USA distruggere le capacità di lancio del nemico. JTAGS svolge un ruolo operativo a favore dei Comandi di guerra all’estero e dei Sistemi di difesa dai missili balistici (BMDS) per la protezione degli assetti militari, delle popolazioni civili e dei centri geopolitici. Opera pure nell’ambito del Theater Event System (TES) del Comando per le operazioni spaziali USA e supporta l’Agenzia per la difesa missilistica e le sue reti di collegamento con i sistemi strategici antimissile come l’Aegis, il THAA (Terminal HighAltitude Area Defense), il Kinetic Energy Interceptor e i Patriot». Operativamente la Joint Tactical Ground Station utilizza i più aggiornati sistemi di telecomunicazione satellitare a partire da quelli UHF - Ultra High Frequency (il MUOS con uno dei suoi terminali terrestri a Niscemi è uno di essi) - o l’Integrated Broadcast System (IBS). CONTROLLO E DOMINIO PLANETARIO A prima vista la JTAGS potrebbe apparire come un moderno “scudo protettivo” per difendersi da eventuali attacchi missilistici nemici, ma a ben analizzare i manuali e i documenti delle agenzie di guerra USA, la portata tutt’altro che “difensiva” del sistema, in avanzata fase d’installazione a Sigonella, è evidentissima. «JTAGS può essere descritta come un sistema mobile di elaborazione delle informazioni, ma in verità è molto più di ciò, in quanto i dati raccolti sono un elemento chiave per stabilire e

mantenere il dominio», si legge nell’apposito manuale operativo Field Manual FM 40-1 - Joint Tactical Ground Station Operations, redatto dall’Esercito USA nel settembre 1999. «JTAGS supporta i tre pilastri che

sostengono la cosiddetta Difesa dai missili di teatro (TBM), cioè la difesa passiva, la difesa attiva e le operazioni di attacco, nonché la gestione del campo di battaglia, delle comunicazioni e delle strutture informatiche e d’intelligence». Per ciò che riguarda la difesa passiva, il sistema JTAGS «consente di notificare agli staff di comando il pronto allarme di lancio da parte del nemico dei missili balistici e l’immediato trasferimento del messaggio d’allerta alle unità che stazionano nell’area minacciata». Sempre secondo il Field Manual di US Army, le misure di difesa passiva includono «la protezione elettronica ed NBC (nucleare, biologica e chimica), la controsorveglianza, la mobilità, il Casablanca 20

camuffamento, la dispersione, il ricovero, ecc.», in modo da «ridurre la vulnerabilità e i danni causati dai TBM”». La cosiddetta difesa attiva del sistema JTAGS punta invece alla “distruzione della minaccia nemica” con gli intercettori della difesa anti-missile e all’«azione in profondità contro tutti i sistemi missilistici da teatro e i sistemi difensivi del nemico». «I dati raccolti dalla JTAGS possono supportare le operazioni d’attacco», conclude il manuale operativo di US Army. «Gli attacchi puntano alla distruzione, disgregazione o neutralizzazione delle piattaforme di lancio dei TBM e dei loro centri di comando, controllo e comunicazione; delle infrastrutture logistiche; dei sistemi di riconoscimento, intelligence, sorveglianza, ecc. I comandi e i centri di controllo preposti alle operazioni d’attacco riceveranno da JTAGS le informazioni sui punti e i tempi di lancio in modo da facilitare la pianificazione e l’esecuzione delle missioni di fuoco e di altre missioni offensive (strike aerei o da parte delle forze operative)». La storia e l’evoluzione della JTAGS è strettamente legata al multimiliardario programma di “difesa anti-missile” varato dal Pentagono a metà degli anni ’80 del secolo scorso, per «contrastare la crescente minaccia di missili balistici a livello globale». Elaborazione, progettazione e produzione dell’architettura del sistema fu affidata ai colossi industriali Aerojet e Northorp Grumman.


Nel cuore del Mediterraneo e degli USA I PRESCELTI DI US NAVY? SEMPRE I PIÙ CHIACCHIERATI Lo scorso luglio, la società lametina D’Auria costruzioni S.r.l. è stata oggetto di attenzione da parte dei ROS dei Carabinieri e della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria nell’ambito della cosiddetta operazione Mandamento Jonico, relativa all’infiltrazione criminale nella realizzazione di alcuni collettori fognari nel Comune di Gerace e del depuratore consortile a Siderno. Secondo quanto riportato da Lacnews24.it, l’imprenditore Mario D’auria, titolare e amministratore unico della D’Auria Costruzioni, è stato raggiunto da avviso di reato per «truffa in concorso, aggravata dalle modalità mafiose». Immediata la replica dell’azienda calabrese che con una nota stampa ha smentito di aver ricevuto notifiche relative ad indagini pendenti a suo carico. «Possiamo, soltanto, in questa sede, limitarci ad evidenziare che in ordine a quei lavori di cui si fa cenno in quell’articolo, vi sono stati controlli giurisdizionali che hanno legittimato l’aggiudicazione della gara e riconosciuto l’esistenza dei titoli funzionali all’aggiudicazione della stessa», riporta la D’Auria Costruzioni. In verità il nome di Mario D’Auria compare tra i 291 indiziati di reato della monumentale ordinanza emessa dalla DDA di Reggio Calabria. Nello specifico, gi inquirenti ipotizzano che Antonio Barbaro e Rocco Perre, «membri della cosca Nigri, di Platì», avrebbero acquisito «con il concorso di Mario D’Auria della D’Auria Costruzioni S.r.l. e altri, l’appalto pubblico per la realizzazione di collettori fognari al servizio dei comuni di Canolo, Agnana Calabra, frazione di Gerace, al depuratore consortile di Sidern. Gara finanziata dalla Regione Calabria e gestita dal Comune di Canolo, per euro 1.088.447, aggiudicata in data 26.06.2009». La DDA annota, inoltre, che sempre sul conto di Mario D’Auria, «con particolare riferimento ai pubblici appalti, alla Banca Dati delle FF.PP. figurano due denunce in stato di libertà per subappalto non autorizzato, la prima del Comando Stazione Carabinieri di Serrastretta (CZ), in data 16 aprile 2006 e la seconda del Comando CC di Girifalco (CZ), in data 25 maggio 2010». I due presunti componenti del clan di Platì, Antonio Barbaro e Rocco Perre, sono pure accusati di aver acquisito «in modo indiretto, con metodi mafiosi, in concorso con altre aziende, il controllo dell’appalto pubblico concluso tra la Provincia di Reggio Calabria (Stazione Appaltante) e l’appaltatrice A.T.I. con capofila DE.MO.TER. S.p.A. e successivamente alla subentrante Cubo S.p.A., per la costruzione e ammodernamento della ex SS.112 Bovalino-Bagnara – Lotti D ed E (1° e 2° stralcio), attraverso l’esecuzione di contratti di nolo a caldo stipulati con l’impresa appaltatrice dal 2008 al 2012, per un importo superiore ad euro 500.000». Coincidenza vuole che proprio la DE.MO.TER. S.p.A., con sede sociale a Messina, eseguì per conto della Pizzarotti di Parma i lavori del valore di 5,2 milioni di euro per il completamento del Residence Mineo, nell’omonimo comune siciliano, dove furono ospitati per un decennio quattrocento alloggi familiari per il personale americano in forza a Sigonella, poi riconvertito nel febbraio 2011 nel più grande Centro di mala accoglienza per richiedenti asilo di tutta Europa.

IL PENTAGONO: SICILIA MY LOVE Attualmente la 1st Space Company (JTAGS) si compone di alcuni distaccamenti con personale misto dell’esercito e della marina militare: due presso l’installazione di comando di Colorado Springs; una per le attività di addestramento a Fort Bliss (Texas) e altri tre rischierati fuori dal territorio USA: presso la base aerea di Osan in Corea del Sud; a Nasawa (Giappone) e, in Europa, ieri a Stoccarda ed oggi a Sigonella.

Logisticamente, ogni stazione JTAGS è ospitata all’interno di shelter protetti dagli attacchi NBC e può essere facilmente trasportata via terra a bordo di camion pesanti o per via aerea grazie ai velivoli cargo C-141, C-17 e C-5 dell’US Air Force. Il Pentagono ha riservato ingenti investimenti per potenziare le funzioni e le caratteristiche tecniche della Joint Tactical Ground Station. Nell’aprile 2011, la società produttrice del sistema di difesa/attacco anti-missile, Northrop Grumman (la stessa che Casablanca 21

ha realizzato i droni spia e killer ospitati a Sigonella) ha ottenuto un contratto di 24 milioni di dollari per fornire un addizionale supporto ingegneristico al programma. L’anno successivo ancora a Northop Grumman è stato affidato un progetto di ricerca e sviluppo quadriennale per un importo complessivo di 31.397.000 dollari (poi ampliato a 37.986.896 dollari) per incrementare l’operatività della Joint Tactical Ground Station nell’ambito della Difesa Aerea e Anti-missile Integrata delle forze


Nel cuore del Mediterraneo e degli USA armate USA e consentire la sua piena integrazione con i nuovi satelliti dello Space-Based Infrared System – SBIRS (un network satellitare a raggi infrarossi che consente il costante monitoraggio di ogni punto della superficie terrestre) e altri sensori strategici disseminati da Washington in tutto il pianeta. Tanto per citarne alcuni. Numerose le esercitazioni di “pronto allarme” che la 1st Space Company (JTAGS) di US Army ha effettuato negli ultimi anni n Europa, Asia e Medio Oriente. Durante le esercitazioni congiunte israelo-statunitensi fu simulato un attacco missilistico nucleare iraniano combinato al lancio di missili a corto raggio dal territorio siriano e libanese, e la loro distruzione in volo mediante il lancio dei missili di produzione israeliana Arrow II, degli intercettori anti-missile THAAD, dei missili anti-aerei Patriot PAC-3 e dei nuovi sistemi di combattimento navale Aegis. All’attivazione dello “scudo antimissile” in Israele, concorsero allora gli uomini e le apparecchiature del distaccamento Joint Tactical Ground Station di Stoccarda, assicurando la connessione della rete di monitoraggio terrestre e satellitare USA con le postazioni radar e le batterie missilistiche delle forze armate statunitensi ed israeliane. Secondo il report progettuale (titolo: Joint Tactical Ground Station – JTAGS. Relocation at the Naval Air Station II Sigonella, Sicily, Italy), approvato il 26 novembre 2014 dal Naval Facilities Engineering Command (NAVFAC EURAFSWA) di stanza presso l’aeroporto di NapoliCapodichino, il terminale terrestre JTAGS di Sigonella «fornirà lo spazio operativo, di manutenzione, stoccaggio e amministrativo per i sistemi di processamento delle informazioni del sistema JTAGS».

IL SOSTEGNO DEL GOVERNO ITALIANO La nuova installazione si compone di un edificio con una superficie di 500 metri quadri e un’area recintata con tre antenne di telecomunicazione satellitare del diametro di 4,5 metri, un raggio di elevazione compreso tra i 5 e i 90° e una copertura completa all’orizzonte di 360°. Queste antenne ricevono le comunicazioni satellitari trasmesse in banda Ku (frequenze comprese tra i 10.9 e i 12.75 GHz) e banda C (tra i 3.7 e i 4.2 GHz). «Le fondamenta per sostenere le tre antenne saranno adeguatamente rinforzate e tutte le utilities sotterranee saranno collocate all’interno di condotte protette e connesse alle nuove antenne e all’edificio che fungerà da centro di controllo», si legge nel progetto NAVFAC. «Saranno pure installati reti e sistemi d’illuminazione di sicurezza e videocamere, mentre il nuovo edificio ospiterà gli uffici amministrativi, le sale per i server e i sistemi di telecomunicazione elettronica. La stazione JTAGS opererà 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana; il numero degli addetti impiegati per gli scopi del programma sarà di 35 unità». Sempre secondo le indicazioni del Comando d’Ingegneria di US Navy, l’area prescelta per il nuovo sito di guerra missilistico e nucleare è quella a ridosso dell’edificio n. 465 di Sigonella, in direzione sudest, vicina anche al grande impianto di trattamento acque di NAS 2 e della strada d’accesso agli hangar e alla pista di volo. La “ricollocazione” a Sigonella della facility di pronto allarme missilistico è stata inserita tra i programmi strategici delle forze armate USA nel bilancio di previsione per l’anno fiscale 2016 (budget di spesa previsto, Casablanca 22

1.850.000 dollari), congiuntamente alla realizzazione nella base siciliana degli hangar e dei centri operativi dei nuovi droni-spia “Triton” di US Navy (40.641.000 dollari) e degli hangar e della facility di supporto per nuovi velivoli pattugliatori P-8A “Poseidon” (62.302.000 dollari). Secondo il data base con i contratti sottoscritti dall’Amministrazione USA, i lavori di realizzazione della stazione JTGS hanno preso il via nella primavera 2016 e si sono conclusi il 6 ottobre 2017. Sulla rilevanza strategica della nuova Joint Tactical Ground Station di Sigonella si è soffermato il 13 aprile 2016 il generale David L. Mann (a capo del Comando generale per la difesa missilistica strategica e spaziale di US Army), durante la sua audizione nel Comitato per le forze armate del Senato degli Stati Uniti d’America. «In supporto al Joint Force Commander, il nostro Comando per la difesa missilistica continua a fornire il pronto allarme sui missili balistici in diversi teatri operativi», ha spiegato Mann. «I nostri distaccamenti JTAGS sono installati all’estero per assicurare il controllo missilistico da parte di USSTRATCOM e delle nostre forze militari operative fuori dai confini nazionali. Continuiamo ad ottimizzare queste capacità e quest’anno abbiamo ottenuto il sostegno del Governo d’Italia per ricollocare il JTAGS in Europa presso la Sigonella Naval Air Station». Nel 2016, Presidente del Consiglio era Mattero Renzi, Ministra della difesa (come oggi) Roberta Pinotti, entrambi PD. Il Dipartimento di US Navy ha affidato i lavori di costruzione degli impianti JTAGS alla D’Auria Costruzioni S.r.l. di Lamezia Terme (Catanzaro), per un importo complessivo di 1.776.232 euro.


Catania – Una giornata in Cattedrale

La miseria dentro al

Tempio Daniela Giuffrida Le 20 famiglie occupanti non lasceranno la Cattedrale. Non ostacoleranno i festeggiamenti della Santa Patrona ma non andranno via. Forse le posizioni delle famiglie sono diverse fra loro, forse bisognerà trovare una soluzione diversa per ognuna di loro, forse si troverà una sistemazione d'emergenza… forse. Nel frattempo, tra le antiche e preziose navate, aspettano una visita del Sindaco Bianco la cui sede dista trenta metri, reclamano il loro diritto a vivere dignitosamente. Resistono al freddo della notte, resistono ai disagi. Resistono agli sguardi incuriositi dei fedeli e dei turisti fra la tomba di Vincenzo Bellini e sotto gli occhi pietosi della santa. Sembrerebbe – dice qualcuno dell’amministrazione – che la «protesta in sé interessi i manifestanti ancor più della reale soluzione dei problemi». Visibilità? Strumentalizzazione? Forse, ma soprattutto problemi vitali. La festa più importante della città è alle porte. I preparativi fervono e le cerimonie preparatorie si sono già consumate. Davanti al grande portone monumentale della Cattedrale, Piazza Duomo appare in tutta la sua sontuosità. Splendida. In questo periodo la piazza, che ospita anche il Palazzo del Comune, con la Cattedrale da un lato e i palazzi che si affacciano magnifici e prestigiosi sulla Fontana dell’elefante, simbolo della città, è straordinariamente pulita. Catania quando si prepara alla festa della sua “santuzza” fa bella mostra di sé. Tuttavia, sul piccolo colonnato che fa da perimetro alla Cattedrale, alcuni striscioni dal mese di novembre stanno in bella mostra. La Cattedrale – teatro delle Feste Agatine – da due mesi è occupata da un folto gruppo di senza casa che protestano per l’assenza

dell’amministrazione nei quartieri periferici. Entrando nella Cattedrale sembra tutto normale: la navata centrale e quelle laterali arricchite da grandi quadri sacri che ricordano la vita di S. Agata, sono maestose; i marmi delle pareti, degli archi e degli stessi pavimenti nella loro magnificenza conferiscono un’aria di gelido rigore all’ambiente. Fra le navate della chiesa un silenzio irreale e austero che da due mesi a questa parte spesso viene spezzato dalle risa di alcuni bambini. Venti famiglie sono ospitate dalla Curia di Catania e vivono dentro la Cattedrale. Sfidano il freddo notturno e continuano a resistere, decise a farlo finché dall'Amministrazione Comunale e dal Sindaco in persona non arriveranno soluzioni concrete. Chi sono? Da dove vengono? Sono i più disagiati dei quartieri Casablanca 23

periferici. Invivibili. Di frontiera. Rioni dove gli alloggi popolari restano chiusi per anni per ristrutturazioni che non vengono nemmeno cominciate. Dove mancano le infrastrutture, dalle strade ai parchi giochi per i bambini. Dove ci sono famiglie costrette a vivere dentro un garage, insieme alla propria bestiola d’affezione o addirittura col proprio cavallo. Appoggiati sul portone di ferro, che chiude l’ingresso della navata destra della chiesa, una pila di materassi, coperte e cuscini donati dalla Caritas e da altri volenterosi cittadini. Altri materassi in terra sono ricoperti di piumoni e coperte. Affaccendate per rendere pulito quell'angolo di “mondo” solo alcune mamme. Qualcuna seduta perché incinta e poi i loro bambini. Bambini che trascorrono la notte nelle case dei nonni e di


Catania – Una giornata in Cattedrale altri parenti, rassicurano i presenti. I più grandicelli vanno a scuola regolarmente e la sera, comunque, tornano dai nonni. Per i pasti? Alla cena ci pensa la Caritas, per la colazione i bar e ristoranti vicini. Fra gli ospiti del Duomo molte donne. Donne che hanno lasciato una sistemazione più o meno scomoda presso parenti, spinte dal sacrosanto diritto di dare una sistemazione degna di tale nome ai propri figli: «perché non si può condividere una casa in undici persone – ci racconta Daniela una delle mamme presenti –, perché, per quanto tutti siano carini e gentili in casa, a lungo andare la convivenza diventa impossibile». Nel frattempo, un bambino si avvicina – avrà due o tre anni –, sorride mentre porge una bottiglia d’acqua più grande di lui. Sorride, poi raggiunge la sua mamma e insieme a lei si dirige dove sono accampati gli altri. Due bimbe, due cuginette di tre anni ciascuna, giocano su un materasso; un altro bimbo dorme sereno e la sua mamma lo accarezza adagio; un'altra mamma cambia un pannolino, mentre il bimbo che, già una volta aveva offerto una bottiglia d'acqua, adesso sorridendo offre il suo ciuccio. NEL TEMPIO I BAMBINI NON CI POSSONO STARE Intorno alle 11 del mattino, entrano dei ragazzi accompagnati dai loro insegnanti, passano davanti alle mamme che

continuano a fare le loro cose e si soffermano davanti alla tomba di Vincenzo Bellini. Mentre il loro insegnante racconta delle affascinanti note del “cigno di Catania”, qualche sguardo distratto si volge in direzione delle mamme, ma dura solo qualche istante, scivola addosso alle stesse per tornare al resto del gruppo; poi i ragazzi proseguono il giro per il resto della Cattedrale. Una mamma giovanissima passeggia con una bambina fra le braccia. Una bimba bellissima, di poco più di un anno, e ben curata. È una grande fatica gestire quella situazione con una bimba così piccina. Anche questa trascorre la notte a casa della nonna e la mamma va a riprenderla al mattino. La stessa cosa fa un’altra mamma, sempre giovanissima, con un altro bimbo altrettanto piccolo.

Grandi sacrifici, meno male che la stagione non è stata per niente fredda, altrimenti la notte sarebbe stata veramente insopportabile. Per non parlare, al mattino, dell’acqua fredda dei bagni della Cattedrale. E mentre le prove dell’organo proseguono e coprono le voci, una vecchietta dal fondo della navata chiede: «Ma allora non ne avete speranze?». Il tono della sua voce Casablanca 24

è davvero rammaricato e nei suoi occhi appaiono due lucciconi. È una assidua e quotidiana frequentatrice della chiesa e si dispiace dinanzi a quelle madri, obbligate dal bisogno a sacrifici così grandi. La si racconti come si vuole, ma vivere per oltre due mesi accampati a quel modo non è possibile se non si è spinti da un bisogno urgente e reale! Nel frattempo, accompagnate da un sacerdote, arrivano due signore distinte che si presentano e si dicono preoccupate per la salute dei due fratellini, per i quale, nelle scorse settimane, si è dovuto ricorrere alle cure dei sanitari. Le due signore, che si rivelano essere dell'Ufficio Minori della Questura, propongono alla giovane mamma di lasciare la Cattedrale e trasferirsi in una casa famiglia, dove potrà stare insieme ai figli. Soluzione che sembra apparire ottima finché la nonna dei bimbi non fa presente che la figlia lavora durante il pomeriggio, per cui sarà lei a prenderne il posto nelle ore pomeridiane. Qui cambia tutto: ad accudire i bambini può essere solo la mamma o gli educatori della Casa Famiglia. La mamma allora ci ripensa e rifiuta la proposta facendo adirare le due signore che con tono categorico concludono: «I bambini qui non possono stare!». Appena le due signore vanno via, fra le mamme vi è una sorta di scambio di vedute e quindi si spostano fuori sul sagrato della chiesa. Poco distante, nella piazza


Catania – Una giornata in Cattedrale vi sono diverse pattuglie della Polizia parcheggiate sotto Palazzo dei Chierici e alcuni capannelli di persone che discutono animatamente. La Polizia aveva tolto gli striscioni dei” disagiati” posti attorno alla Cattedrale, in quanto intaccherebbero il “decoro” della città. Al loro posto restano, ciondolanti, solo i resti delle corde che li assicuravano al perimetro del sagrato. Decoro della città? Quattro striscioni sulla piazza offendono il decoro? Ci si chiede: problemi vitali, apparentemente senza soluzione, che costringono uomini, donne con i loro bambini a restare dentro una Cattedrale, bella sì ma fredda e senza comodità, offendono o no il decoro di questa città? Mantenere le periferie in stato di abbandono totale offende il decoro della città? C’è qualcuno che strumentalizza? Potrebbe, ma ci sta. Alle tredici, la Cattedrale chiude i battenti e “chi c'è, c'è””! Stampa e affini sono invitati da Sua Eccellenza in persona ad uscire. Le due signore di prima sono ritornate e bisogna fare una riunione con le mamme. Nessuno potrà assistere. LA VOCE DELLA VOLONTARIA «Quello che queste persone chiedono per se stesse e per le altre famiglie dei quartieri disagiati della città è il riconoscimento della loro dignità» dice Adele, una volontaria che sta condividendo giorni e notti con queste famiglie. La sua voce è rauca per il freddo e l’umidità sofferti nelle lunghe notti trascorse nella Cattedrale. «Siamo abbandonati dalle istituzioni, nessuno viene a parlare con noi – dice – io sto insieme a loro, cerco di venire loro incontro e mi rendo utile come posso». I quartieri di provenienza – che sono diversi – hanno gli stessi

problemi: Carenza di alloggi, di strade, servizi, parcheggi… «Le famiglie qui presenti sono una ventina ma loro sono soltanto una specie di avamposto: esistono quartieri che non scendono in piazza e noi siamo qui anche per loro, perché il loro disagio è il nostro e viceversa e gli appartamenti che chiediamo non sono solo per i gruppi qui presenti». Ma esistono gli appartamenti che vengono chiesti all’Amministrazione? «A S. Giorgio esistono tre palazzine vuote che potrebbero contenere trecento famiglie – racconta la volontaria – un altro palazzo a Librino, una costruzione che di fatto è chiusa da più di 25 anni e poi c’è il palazzo di cemento, ancora a Librino, un palazzo tristemente famoso perché ricettacolo di spacciatori e quant’altro, una specie di rudere che avrebbero dovuto abbattere e che, invece, stanno cercando di ristrutturare, spendendo un patrimonio! Il degrado è ovunque, spazzatura e nient’altro. Le nostre periferie sono fatiscenti. Io ci abito, mi affaccio alla finestra e vedo solo rifiuti. Nessun servizio per gli anziani, niente scuole, strutture sportive o centri di aggregazione per i ragazzi. Vivono in strada ma con quale futuro? Destinati a delinquere? È vergognoso!». Quindi per il comune un lavoro immane rendere “dignitosi” questi quartieri? «Sì, ma se in questi quattro anni l’Amministrazione avesse fatto qualcosa, oggi non saremmo a questo punto. È una situazione assurda che somiglia a quella delle favelas… e l’ospedale San Marco? Doveva essere pronto in qualche mese, aveva detto il sindaco, ma sono passati quattro anni e non se Casablanca 25

ne parla ancora. Lì dove abito io, ci sono due palazzine che da trent’anni sono senza ascensori e dentro vivono anziani che non possono gestirsi minimamente. Inoltre non ci sono centri di incontro per gli anziani o per ospitare i ragazzini. Perché il sindaco non viene da noi? – prosegue Adele – Questa è una manifestazione silenziosa, siamo persone pacifiche, ha paura di venire da noi? Il sindaco è venuto a chiedere i voti nei nostri quartieri e senza scorta: è venuto in giro con noi sui motorini. Nel giorno dell’Immacolata, è arrivato fino all’angolo lì in fondo e si è fermato, non si è fatto vedere qui da noi. Forse pensano di prenderci per stanchezza ma noi da qui non ci muoviamo, saremo qui anche a sant’Agata e oltre, fin quando non ci daranno risposte certe». «Il sindaco Bianco deve capire che non si fanno false promesse – interviene Mario altro ospite del duomo – e che nelle periferie vivono uomini e donne civili e per bene che non meritano di essere trattati come animali, abbandonati a sé stessi. A noi non interessa la politica, non ci interessano i politici, abbiamo bisogno di aiuto!». «In quei quartieri vivono persone, non animali! – aggiunge una donna avvicinandosi – E se qualcuno fra loro ha commesso qualche reato (e lo sta pagando) è per questo giusto che i suoi figli percorrano la stessa via e continuino a delinquere? Ma se li a se li lasciamo per strada, senza un lavoro, senza scuole… cosa ne sarà di loro? Capisce cosa intendiamo per identità, imprescindibile dal nostro essere persone bisognose di aiuto, considerazione e anche di rispetto?».


Palermo: Biagio Conte e la povertà

Palermo: Biagio Conte e la Povertà Aldo di Vita Negli ultimi tempi a Palermo sono morte 9 persone che non avevano dove andare a dormire. Senza tetto? Disoccupati? Clochard…? Non importa, l’indifferenza è stata generale. "Starò al fianco di chi non ha casa né lavoro" Biagio Conte dorme per strada per protesta. Una protesta che porta avanti da parecchi anni andando in giro per l’Italia. Da parecchi giorni a Palermo, fa lo sciopero della fame, è molto debilitato. “Non riesco ancora ad accettare l'idea che tanti ancora siano senza lavoro, senza casa e devono morire per strada, voglio condividere questa vita con loro, stare insieme a loro”. “ Loro, che oltre ad avere problemi concreti spesso diventano obiettivo di raid notturne. Li aggrediscono mentre dormono. Solo nell’ultimo mese a Palermo sono state tre le vittime di accanimenti e assalti da parte di balordi o peggio, l’ultimo il 2 febbraio in piazza don Luigi Sturzo alle spalle di piazza Politeama. In pieno

centro. No nella giungla. Biagio conte da parecchi anni ha scelto di fare questa vita per attirare l’attenzione delle istituzioni che sul problema sono latitanti. Una notte di alcuni anni addietro è intervenuto per difendere alcuni extracomunitari che

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dormivano davanti il centro "Missione di speranza e carità “di Palermo, voleva sedare gli animi invece fu colpito da una pietra alla testa. Intanto alla Posta centrale di Palermo… *Foto di Aldo di Vita


Palermo: Biagio Conte e la povertĂ

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La Nuova Resistenza Palestinese

La nuova Resistenza Palestinese Franca Fortunato Ahed Al Tamimi, ragazzina di sedici anni, dal 19 dicembre 2017 è in carcere. Si è ribellata a un gruppo di soldati israeliani occupanti che il 14 dicembre 2017 si erano appostati nella proprietà della famiglia. Alcuni cercavano di entrare in casa, ma Ahed a uno dà uno spintone a un altro tenta di dare uno schiaffo. La mamma presente filma l’accaduto e lo pubblica in rete, un video che subito diventa virale. Arrestata anche lei. Indignazione su tutti i fronti. Il 13 febbraio il processo. A giudicare sarà un tribunale militare che non vuol sentire parlare di occupazione e condanna il 99,9% dei processati palestinesi. Ma è una ragazzina! In piazza e sui social tutti chiedono la sua liberazione. Per i sostenitori dei soldati conta poco o nulla: per un giornalista israeliano che difende i soldati “umiliati” “meriterebbe una punizione, al buio, senza testimoni e senza telecamere”. Riemerge con forza la questione dei minori palestinesi. Il recente riconoscimento di Gerusalemme capitale d’Israele da parte del presidente americano Donald Trump se ha avuto un merito è quello di aver tolto il velo dell’ipocrisia al cosiddetto “processo di pace”, la foglia di fico con cui Israele, dopo la Guerra dei sei giorni del 1967, ha giustificato l’occupazione militare e la colonizzazione della striscia di Gaza e della Cisgiordania. Trasformata in un “carcere di massima sicurezza”, la prima, e in una “prigione a cielo aperto” la seconda. (Ilan Pappé, storico israeliano, parla dell’esistenza ormai di due Cisgiordania, una ebraica e una palestinese). Finalmente dopo 70 anni si rende sempre più palese il progetto politico militare sionista perseguito da Israele

sin dal 1948. Cacciare i palestinesi (Ilan Pappé parla di “pulizia etnica”), riprendersi la terra dei padri biblici per fondare lo Stato ebraico, e dare una patria in cui sentirsi al sicuro a tutti gli ebrei. E finalmente, dopo 70 anni di sofferenze e di lutti, nella resistenza palestinese è accaduto qualcosa di nuovo, di impensato, di inaspettato: ha sedici anni e si chiama Ahed Al Tamimi. Ahed proviene da un piccolissimo paese della Cisgiordania, Nabi Saleh, molto vicino a Ramallah, un villaggio di 500 persone completamente circondato da insediamenti israeliani. È una ragazzina, ma già nota nella lotta contro l’occupazione militare israeliana nei territori. Il 14 dicembre del 2017 un Casablanca 28

gruppo di soldati si apposta nel cortile della famiglia Al Tamimi. Secondo le loro dichiarazioni, per impedire ai palestinesi di lanciare pietre contro gli automobilisti israeliani, di opinione diversa la famiglia Al Tamimi – secondo la quale alcuni soldati cercano di entrare in casa. Ahed vuole scacciarli, a uno dà uno spintone e a un altro uno schiaffo. La mamma presente filma l’accaduto e lo mette in rete. Il video diventa subito virale e gli israeliani occupanti si scatenano. Per il giornalista israeliano che difende i soldati “umiliati” la ragazza “meriterebbe una punizione, al buio, senza testimoni e senza telecamere”. Chiaro, vergognoso, disonorevole invito allo stupro


La Nuova Resistenza Palestinese di una ragazza di 16 anni. Sull’altro fronte invece si racconta la nascita di un mito. Una giovane dalla folta criniera in sella a un cavallo bianco che salverà tutti come Giovanna D’Arco. Folti e lunghi capelli biondo acceso, occhi azzurri come pochi in Palestina (lo si sottolinea solo perché ci piace immaginarla), coraggiosa come pochi, Ahed Al Tamimi appartiene a quella generazione di ragazze e ragazzi nati dopo l’Intifada del 28 settembre 2000, cresciuti nell’era dei social e della rete. Dal 19 dicembre 2017 è in carcere con l’accusa di avere schiaffeggiato e spinto fuori casa due soldati che erano andati a sequestrare il suo pc, divenuto, insieme al telefonino, la sua arma di lotta e di resistenza contro l’occupazione e i comportamenti dell’esercito e dei coloni in terra palestinese. Anche sua cugina Nour di 21 anni e sua madre Nariman sono in carcere, in attesa di giudizio. La famiglia Tamimi è una famiglia di resistenti. Bassem al Tamimi, il papà di Ahed grande organizzatore di proteste nel suo villaggio è un noto esponente di al-Fatah; dal giorno dell’arresto della ragazza fa appelli per la liberazione della figlia. «Mia figlia ha passato tutta la vita all’ombra della prigione israeliana, dalle mie lunghe incarcerazioni durante la sua infanzia, ai ripetuti arresti di sua madre, a quelli di suo fratello

Mohammad di 15 anni e dei suoi amici. Il suo arresto era quindi solo questione di tempo. Un’inevitabile tragedia che ci stava aspettando». NON VOGLIO ESSERE UNA VITTIMA Aveva solo nove anni quando insieme alla madre partecipò nel suo villaggio alla prima manifestazione contro i coloni che cercavano di prendersi una fonte d’acqua. In quella manifestazione la madre portò per la prima volta una fotocamera ed iniziò a fotografare le proteste e il comportamento dei soldati israeliani. A poco a poco, dato che continuava a fare foto e a documentare i fatti, la fotocamera divenne un enorme problema per l’esercito israeliano. In uno dei suoi ultimi video, prima di essere arrestata, Ahed Casablanca 29

racconta cosa vuol dire per una sedicenne vivere sotto occupazione militare. «Mi piace andare a scuola – dice – la mia materia preferita è educazione fisica. Se non ci fosse l’occupazione sarei una giocatrice di footbal. All’entrata del villaggio – continua – vi è un checkpoint. Più di una volta non sono riuscita ad andare a scuola perché il checkpoint era chiuso. Non posso fare progetti a lungo termine perché l’occupazione non me lo permette. Ricordo che, quando andavo a giocare per strada, l’esercito israeliano faceva irruzione nel villaggio e apriva il fuoco. Ogni madre palestinese cresce i propri figli insegnando loro ad essere forti, a lottare per i propri diritti e a resistere all’occupazione della nostra terra». Tutte le bambine e i bambini palestinesi hanno la stessa storia della famiglia Tamimi. Ciascuno di loro è stato imprigionato. In un viaggio in Sudafrica, dopo aver presentato, insieme al padre, un video sulla storia della resistenza palestinese nel suo villaggio, difronte al pubblico in lacrime disse: «È vero, siamo vittime del potere israeliano, ma siamo anche fieri della nostra scelta di lottare nonostante il prezzo da pagare. Oltre le sofferenze, la repressione dei prigionieri, i feriti, i morti, conosciamo l’immensa forza di far parte di un movimento di resistenza, il valore della decisione di


La Nuova Resistenza Palestinese rompere i muri invisibili della passività. Non abbiamo bisogno di sostegni fatti di lacrime fotogeniche, ma di essere sostenuti perché abbiamo scelto di lottare per una causa giusta. Solo così un giorno potremo smettere di piangere. Sappiamo dove ci conduce questa strada

ma la nostra identità, come popolo e come persone, è radicata nella lotta e da questa trae ispirazione… Non voglio essere considerata come una vittima, non saranno le loro azioni di forza a definire chi sono e cosa voglio diventare. Mi rappresento da me stessa, per quella che sono».

Quando Ahed è stata arrestata, il suo gesto in Israele da molti commentatori televisivi, preoccupati dal fatto che i soldati non avevano reagito, è stato vissuto come un affronto, un’umiliazione alla propria mascolinità e virilità. Una mascolinità che ben conosciamo anche in questa parte del mondo dove potere, forza, razzismo e sessismo si mescolano. Eppure, quando il 2 luglio 2010 a Hebron in Cisgiordania, la colona israeliana Yitaf Alkobi prese a schiaffi un soldato, nessuno si agitò in Israele. La donna fu fermata, interrogata e poi rilasciata. Era già conosciuta alle forze militari e di polizia. Più volte era stata segnalata per la sua aggressività e per i lanci di pietre. Nessun ministro israeliano chiese una punizione esemplare come per Ahed. Nessun commentatore televisivo si sentì umiliato nella sua virilità. A giudicare lei e la madre è un tribunale militare, il tribunale degli occupanti che – come dice l’avvocata Gaby Lasky del consiglio comunale di Tel Aviv – Jaffa per il partito di sinistra, che difende Ahed – non vuole stare ad ascoltare chi parla di occupazione e condanna il 99,9% dei processati palestinesi. Il processo contro Ahed che doveva iniziare il 31 gennaio, giorno del suo compleanno, è stato rinviato al 13 febbraio. Rischia una condanna a 10 anni di carcere.

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La meglio gioventù

La meglio gioventù Giusy Calcagno In provincia di Messina l'imprenditrice palermitana Magda Scalisi ha vinto un bando pubblico per la gestione del Rifugio del Parco dei Nebrodi a San Fratello. Può una giovane donna gestire un meraviglioso rifugio tra i boschi dei Nebrodi? Per l’interessata significherebbe realizzare il suo sogno, ma la mafia locale, la mafia dei pascoli, non la pensa allo stesso modo. I dipendenti, i fornitori, non parlano con una “fimmina”. “Idda” cioè donna, è signora? Signorina? Non si sa e poco importa, meglio aspettare che arrivi il papà di Magda, tra uomini si ragiona meglio! E poi questa sua fissazione per la legalità, gli scontrini, le fatture… la trasparenza…Una battaglia che le è costata cara: minacce, intimidazioni e l'uccisione di alcuni dei suoi animali. E Magda, allora, comincia a denunciare. Una strada che attraversa pioppi, aceri e betulle e si arriva al Rifugio del Parco tra San Fratello e Cesarò, all’interno del cuore scalpitante dei Nebrodi. Un edificio tutto in pietra, grandi finestre sul bosco. Magda, pantaloni di pelle e occhi azzurrissimi, ti accoglie insieme ai suoi “bimbetti pelosi”, dei cani trovatelli di cui si è presa subito cura, cominciando così la sua immersione nella vita di montagna. Uno degli aggettivi con cui definire Magda, responsabile aziendale del rifugio, bisogna pescarlo dalla meccanica statistica, usando il suo concetto di entropia. Sì, Magda è decisamente entropica, secondo l’etimologia del termine, ovvero: «dentro» e «trasformazione». Magda sta provando a «entropizzare». Magda Scalisi, vincitrice di un

bando di evidenza pubblica, si aggiudica, nell’ottobre 2016, la gestione del Rifugio del Parco; “chiavi in mano” era la premessa delle condizioni in cui avrebbe dovuto trovare la struttura che, invece, ad oggi, continua a necessitare di ingenti operazioni di restauro. Primo fra tutti, il rinnovamento dei pannelli fotovoltaici che – specie nei giorni di nebbia, «quando sembra di stare nello Yorkshire», dice Magda – non riescono, a causa di batterie troppo vecchie, ad accumulare l’energia essenziale a poter svolgere le attività di conduzione del rifugio che avrebbe dovuto essere, appunto, come da bando, ecosostenibile. Aspettando e sperando ancora e ancora, Magda, il cui motto è “non mollare”, si è addossata, fino ad ora, i costi del gasolio per mandare avanti casa e baracca, pur non Casablanca 31

essendo di sua competenza ma del Parco dei Nebrodi, continuando nel frattempo, anche, a inviare perizie e cercando possibili soluzioni alternative, sempre troppo costose per una ragazza e i suoi sogni. La gavetta per realizzarli è davvero lunga e tempestosa, ma grinta e carattere sono dalla sua parte. Magda arriva in montagna convinta che legalità, trasparenza, cordialità e parità dei sessi siano ormai state conquistate anche lì su, dove magari non c’è la corrente, ma la natura che sgorga e risplende, da sempre, insegna ad andare in profondità e vivere con saggezza. Diversamente Magda scopre che esiste una strana legge non scritta, non proprio naturale, per cui imparare a comportarsi secondo il suo codice è di vitale importanza. Secondo questa legge, non è


La meglio gioventù previsto, richiedere fatture o scontrini o pagare il conto al ristorante. Sempre “secondo legge” poi, se uniti dal luogo, si diventa tutti all’improvviso amici e compari e allora oltre a banchettare insieme, si assume automaticamente il diritto di proprietà delle cose altrui, che sembrerebbe molto gentile e democratico. In fondo perché non compartire, spartire? Ma Magda è “donna forestiera” giacché viene dalla città di Palermo e non è abituata a capire perché un maialino che non è selvatico, perché non è di dominio del Parco e che appartiene ad un allevatore, riconoscibilissimo grazie al “muerco”, un taglio nell’orecchio che ne indica proprio l’appartenenza, debba invece girovagare libero di distruggere ogni cosa all’interno del rifugio. E Magda, allora, comincia a denunciare quello che non capisce, perché la sua legge morale le dice che legalità, è sentire il dovere, oltre che di denunciare ciò che non lo è, di costruire un’azienda sana, un circuito protetto, dove gli animali abbiano una loro certificazione. IDDA È FIMMINA Essere donna, “Idda” come si dice da queste parti, è un altro grande ostacolo. I dipendenti, i fornitori, non parlano con una “fimmina”, soprattutto se non è ancora chiaro se signora o signorina. Meglio aspettare che arrivi il papà di Magda anche tutto il giorno, tra uomini si ragiona meglio! No, non è così che funziona per Magda, «so di essere rompicoglioni quando voglio, racconta, e di qua non me ne vado». Magda ha studiato, portato con sé le sue competenze, ha iniziato un lavoro di formazione ad un personale che non conosceva e

non accettava una gestione manageriale, si è sbracciata insieme alla sua famiglia che l’ha sempre sostenuta, ha liquidato il suo portafoglio, fidandosi, per esempio, di alcuni dipendenti che non sapevano giustificare certi consumi improbabili per un piccolo rifugio di montagna. Nonostante “una certa agitazione”, scherza Marta, nonostante costi caro, il suo compromesso, la sua motivazione per restare, è la voglia di insistere nella cultura della legalità. La voglia di non darla vinta a chi la normalità la vuole cambiare. Forse tornando indietro, sarebbe

stata meno ingenua Magda. Molte cose all’inizio sembravano non connesse fra loro. La scomparsa di alcuni cani, addirittura un tentativo di avvelenamento con il glutine a danno della sua celiachia…in seguito si sono uniti ad un solo filo che l’hanno portata a vedere diversamente le cose e a muoversi attivamente, cercando la solidarietà delle autorità, istituzioni e associazioni antimafia che non l’hanno mai lasciata sola. «Ho imparato tanto dalle autorità», precisa Magda, «adesso so cosa fare, senza discutere litigare, con chi non vuol capire come lavoro». Anche il presidente del Parco dei Nebrodi Antoci e il direttore Geraci hanno sempre spalleggiato Magda, andando a trovarla e rassicurandola. Casablanca 32

Per quanto riguarda le amministrazioni locali, pochi i sindaci che hanno mostrato di essere presenti. E se di appoggio, conforto e amicizia si tratta, allora Magda parla subito di Paolo Chiavetta dell’azienda Dono, Nuccio Calanni del bar Campidoglio e Peppe Casella dell’azienda agricola Casella, produttori locali con cui ha iniziato a fare rete e con cui condivide il progetto di una fattoria didattica, ma che più di tutto sono diventati la sua famiglia dei Nebrodi, insieme a Domingo suo compagno, di cui non si stanca di ripetere quanto sia bello dargli il buongiorno. Certo la sua vita è cambiata da quando viveva a Palermo, dai tacchi è passata agli scarponi, dagli apertivi al bar ai laboratori sulla confettura e sulla trasformazione del suino nero. Che la meglio gioventù sia proprio questa? Questa idea di libertà, di possibilità. La voglia di restare, di parlare, di sognare senza dover pensare che sia banale? Chiedo a Magda a cosa deve assomigliare il futuro e lei risponde, veloce: ad un arcobaleno. Pensa ai colori e a come sui Nebrodi puoi entrarci dentro, percorrendoli a strati: l’azzurro, il verde, il rosso e il giallo… Alla luce del sole che filtra la nebbia e che rende chiare le cose così limpide e pulite che ci si può guardare dentro!!! Il rifugio del Parco essendo una cooperativa sociale è una onlus di diritto. Chiunque voglia affiancare economicamente il progetto di Marta e della sua fattoria didattica può farlo facendo una donazione a Karasicilia onlus, p.iva 06259130828, scrivendo contributo fattoria didattica.


L’acqua potabile sotto l’Etna

L’acqua potabile sotto l’Etna Graziella Putrino Una vecchia questione ancora non risolta: la qualità delle acque dell’Etna, la presenza di metalli, quali il vanadio. Studi specifici finora non ne esistono: si sa che sia la carenza che l’eccesso presente nell’organismo crea patologie. Il desiderio di saperne di più…una certa preoccupazione, una corretta informazione. Il ruolo delle amministrazioni. Alcuni sindaci hanno già informato le comunità, altri non prendono posizioni. Intanto a Maletto… Un pomeriggio di inizio gennaio, degli amici d’infanzia mi invitarono da loro a Maletto. Sì. Maletto è casa mia. È un paese sospeso tra la mia infanzia spensierata, fatta di giochi inventati sul momento e di famiglia, anche tra persone con cui non avevo nessuna parentela, e l’età adulta che pretende risposte, trasparenza e chiarezza. In tutto. Quel pomeriggio non sapevo ancora cosa avrei visto e in quale seria discussione mi fossi imbarcata per ore e ore. Eravamo un bel gruppetto, riuniti in cucina, e Rita stava riempiendo la moca per fare il caffè. La moca, quella grande, era già sotto il flusso dell’acqua che esce dal rubinetto, quando la sentimmo imprecare di brutto. Non abbiamo avuto il tempo di chiederle spiegazioni che subito ci presentò nella moca l’acqua fangosa che sgorgava dal rubinetto. Ma come? Non dovrebbe essere acqua potabile? Non sembrava tale. Per cui Rita ricorse alla riserva d’acqua nei bidoni. Acqua che scorre

apparentemente da una sorgiva a chilometri da Maletto. Sarebbe dovuto essere un pomeriggio tra vecchi amici che rievocato i ricordi, le marachelle di un tempo, invece si è trasformato in una tavola rotonda. La discussione si fece più colorita quando gli anziani di casa si aggiunsero a noi. Così si rivangavano quei tempi in cui Maletto, negli anni ’50, vantava un’acqua potabile per eccellenza, quella della sorgente Schicci, per la quale venivano pure da Catania, per le sue qualità benefiche e salutari. Oggi sono i Malettesi che percorrono chilometri, muniti di bidoni e altro, per rifornirsi di acqua salutare, visto che allo stato attuale l’acqua che esce dai rubinetti nelle case è spesso torbida e di colore giallastro. Giovanni, l’avvocato del gruppo, s’infuriava sull’andazzo dell’attuale amministrazione comunale e sul Sindaco, Salvatore Barbagiovanni, che non vieta e neanche limita l’uso dell’acqua che arriva agli abitanti del paese, Casablanca 33

malgrado i malettesi abbiano numerose volte chiesto delucidazioni sul tipo di acqua che scorre nei loro rubinetti privati e per la quale il Comune fa pagare la bolletta. Inoltre, ci ricorda che l’ultima ordinanza emanata fu nel maggio 2017 per superamento dei valori di una determinata flora batterica (coliformi totali) dell’acqua proveniente da Poggio Monaco. Altre informazioni non sono pubblicate né tramite affissi per il paese, né sul sito del Comune. Qui interviene Sara, il medico del gruppo, portando l’attenzione sul fatto che, da un decennio a questa parte, a Maletto si registrano molti casi di tumore e altre patologie. Se sono una conseguenza dell’acqua inquinata, è solo un’ipotesi. Studi specifici finora non ne esistono. LE FAMOSE ACQUE ETNEE Assistiamo a un corso accelerato sulla flora batterica e ci soffermiamo sul tanto denominato vanadio. Sara ci spiega che si tratta di un metallo, così come il ferro. E


L’acqua potabile sotto l’Etna

come altri metalli, il vanadio lo abbiamo nel nostro corpo. Sono le carenze o gli eccessi di un determinato metallo nel nostro corpo che ci rendono malati. Della presenza del vanadio, soprattutto nell’acqua, noi non ce ne accorgiamo subito, dato che il vanadio è incolore e inodore. Allo stato attuale si sa soltanto che un eccesso di vanadio è tossico, può provocare malattie tumorali e causare malattie psichiche come la depressione maniacale. Ci torna così alla memoria la dibattuta questione, tuttora apparentemente non risolta, sulla qualità delle acque dell’Etna, e in particolare sulle conseguenze che potrebbe avere l’alta concentrazione- non di poco fuori dai parametri europei e consentiti in Italia e in Sicilia, di alcuni minerali, tra cui il vanadio. Da un decennio, oramai, la burocrazia, la politica nazionale e regionale cercano di dettare i parametri del vanadio affidando alla sorte l’immissione in rete idrica dell’acqua del pozzo di Perdipesce, scavato nel 2011. Un pozzo che serve Maletto. La regolamentazione europea per il vanadio stabilisce la soglia non

tossica per l’essere umano del limite massimo di 50 ug/litro. Lo stesso parametro valido per Maletto grazie al decreto legislativo n. 31/2001. È vero che la Regione Siciliana ha concesso la proroga all’immissione nelle reti di acqua con vanadio superiore al parametro consentito, ma è altresì vero che Maletto non beneficia di questa proroga, altrimenti dovrebbe essere resa pubblica, come ad esempio lo è a Bronte. Allo stato attuale, dall’Ars non ci è giunta conferma che Maletto sia stato inserito fra i Comuni che possono derogare e con quali direttive la normativa sul vanadio nell’acqua ad uso umano. Se da una parte, l’acqua dell’Etna, tenendo conto delle trasformazioni ambientali attuali, è stata sempre utilizzata dagli abitanti nei pressi del Vulcano per uso potabile, senza gravi o Casablanca 34

sconosciute conseguenze patologiche ad essa direttamente riconducibili, dall’altro lato emerge una profonda preoccupazione e il desiderio di saperne di più, considerato che il Comune di Maletto tralascia di informare i propri cittadini in modo trasparente. Dal nostro amico avvocato e in via ufficiosa, apprendiamo che a Maletto un laboratorio privato ha fatto delle analisi dell’acqua da tre rubinetti nel paese, non alla fonte dei pozzi. In queste analisi, il vanadio nell’acqua è di 80 ug al litro. Quindi supera di non poco il limite previsto dall’Unione Europea, dall'Italia e in vigore in Sicilia. Dato che i Malettesi non vengono adeguatamente informati dalle autorità competenti del paese, resta la legittima domanda: è veramente potabile e dunque non tossica l’acqua che a Maletto scorre nei rubinetti privati e nelle piazze pubbliche? Perché le analisi complete con le dovute spiegazioni, non sono pubbliche?


Centro popolare Colapesce

Noi Podemos Occupar Claudia Urzì Secondo la leggenda più diffusa, Colapesce è l’uomo che con la sola forza delle braccia regge la Sicilia e non la fa affondare. Era il figlio di un pescatore di Messina, sapeva nuotare benissimo, come un pesce, tanto che Nicola, in dialetto Cola, divenne Colapesce. Andando sott’acqua e scendendo in profondità Colapesce vide che la Sicilia posava su tre colonne, delle quali una piena di vistose crepe e destinata a crollare: decise di restare sott'acqua, non risalì mai più per sorreggere la colonna, salvando così la Sicilia e i siciliani. Non c’è che dire, l’ispirazione oltre che poetica e romantica è anche molto ambiziosa. Ben venga Colapesce. Sorreggere le colonne del quartiere e combattere contro le ingiustizie e le disuguaglianze sembra proprio un bel progetto. Si può fare. Podemos. Nel 2004, a Catania, nel cuore del centro storico, fra gli archi della marina, via Plebiscito e Porta Uzeda, in via Cristoforo Colombo 10, apriva, in franchising, dopo due anni di lavori per sistemare i locali, il secondo Hard Rock Cafè italiano – il primo era stato aperto a Roma – ma, già nel 2006, l'attività è cessata. L'Unicredit, che aveva elargito un voluminoso mutuo mai restituito, nel 2008 entra in possesso dell'immobile, che viene chiuso e mai più riaperto. Ad oggi, l'immobile ha un valore catastale di circa 700 mila euro. È uno spazio enorme sottratto alla città. Una città che, da due mesi, ha la cattedrale occupata dai senza tetto e dai bisognosi.

A riaprirlo, senza scassinare nulla, mercoledì 17 gennaio, sono stati le ragazze e i ragazzi della “PIAZZETTA” comunità resistente. L'hanno occupato, dichiarandolo non centro sociale, ma Centro Popolare Occupato (CPO) e lo hanno chiamato Colapesce. Colapesce è uno spazio aperto al quartiere, restituito alla città: doposcuola per i bambini, sportello supporto al quartiere, sportello per i migranti, sportello disoccupati, consulenza legale gratuita. E, in questo periodo, luogo di incontro per la campagna elettorale. «La nostra comunità – si legge nel Casablanca 35

primo documento diffuso subito dopo l'occupazione – nasce da una percezione condivisa, un’ingiustizia costante che dilania le nostre vite e l’umanità intera, un’ingiustizia alimentata da bugie e false narrazioni, e dall’esigenza di studiare la realtà per trasformarla tutti insieme, attivandoci in prima persona! Diversi gli strumenti da utilizzare al fine di creare un altro mondo, che noi crediamo necessario e possibile. Uno di questi è riprenderci gli spazi della nostra città, sottraendoli all'abbandono e al degrado, entrare e radicarci nei quartieri popolari, vivere ogni giorno le


Centro popolare Colapesce contraddizioni della gente e le ingiustizie sociali per poterle toccare con mano, provando a risolvere attraverso la costruzione di reti solidali e alternative sociali e politiche... Ci siamo organizzati, non solo per riprendere uno spazio, ma anche per poter riacquistare voce, insieme a chiunque voglia farlo con noi, per costruire dal basso un’alternativa al mondo grigio e disperato che vediamo quotidianamente nelle nostre strade». LIBERARSI DAL MARE DELL’INDIFFERENZA All'indomani dell’occupazione si è tenuta la prima “Assemblea pubblica popolare”, a cui hanno partecipato un centinaio di persone e anche alcuni abitanti della zona. Tanti gli interventi, fra i quali quelli dei rappresentanti del CSA Officina Rebelde, Gapa, Federazione del sociale Usb, CSP “Graziella Giuffrida”, laboratorio libertario Landauer, Pci, Catania Bene Comune, associazione Gammazita, collettivo Red militant e Arci. Tutti gli interventi hanno evidenziato lo scontro che il CPO Colapesce ha aperto con la banca Unicredit, e la necessità di sostenere gli occupanti in questo conflitto «che dev’essere sostenuto e fatto proprio dalle organizzazioni che a Catania sono realmente impegnate nella lotta contro lo sfruttamento capitalista. Lo scontro con il colosso bancario è un’ottima opportunità per mettere a nudo la macelleria sociale che determinano le banche, e l’Unicredit in modo particolare». Molto positivo, costruttivo ed entusiasmante il rapporto che il centro popolare occupato ha stabilito con il quartiere: alcuni fruttivendoli della vicinissima Pescheria hanno donato a Colapesce un bancale di verdura, alcuni operai hanno portato al

centro del legname da trasformare in tavoli e librerie. Tanto per fare qualche esempio. Inoltre, da parte del CPO è stato realizzato un video diffuso su facebook nel quale agli operatori della pescheria si chiede il loro parere sull'occupazione dell'edificio abbandonato. Un videodocumento, dove i pescivendoli, “pisciara”, mettono a nudo lo stato di abbandono del quartiere, denunciano l'attività di spaccio della droga e considerano positiva l'azione dell'occupazione «perché fa bene al quartiere». «Con questa occupazione, così come già facciamo in Piazzetta – dichiarano i Colapesce – vogliamo occuparci del quartiere, parlare con la gente, proporre iniziative e attività politiche, sociali e culturali che rientrano dentro una progettualità politica specifica, ampia e precisa. Vogliamo ricostruire quel tessuto sociale smantellato totalmente dal sistema capitalistico, che ci spinge quotidianamente a competere, a

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vivere di individualismo, a conformarci, ad essere mediocri, piatti e pessimisti. Vogliamo ricostruire rapporti sociali, consapevolezza e conflittualità anche in questo quartiere, proporre un’alternativa sociale e politica, ludica, ricreativa e aggregativa» – si legge in un documento. Intanto, la banca ha già avvisato che si è rivolta alla questura per chiedere lo sgombero dell’immobile, che, a detta degli stessi funzionari dell'Unicredit venuti a constatare l'avvenuta occupazione, verrebbe di nuovo chiuso perché non ci sono acquirenti privati né interessi pubblici per eventuale affitto. Nonostante le cifre da capogiro, tutto resterebbe chiuso e abbandonato all'usura del tempo, al vandalismo e agli interessi di chi vuole mantenere la zona in uno stato di abbandono fisico e culturale. «Colapesce è il nome che abbiamo scelto « si legge nel primo comunicato della Comunità Resistente Piazzetta CPO Colapesce – come quel Colapesce che non risalì mai più perché si accorse delle crepe presenti in una delle colonne che sorreggevano la Sicilia e la volle salvare. Anche noi vogliamo sorreggere questa terra tanto amata affinché non crolli». E non affondi nell’indifferenza.


Economia Rinnovabile e Circolare

ERiC Economia Rinnovabile e Circolare. Energia fotovoltaica a basso costo - la green economy siciliana Oggi più che mai c’è bisogno di impulsi positivi e propositivi che coinvolgano la società civile. Idee, progetti e azioni che abbiano come obiettivo quello di scardinare i fondamenti dell’attuale sistema economico (improntato sulla classica “economia lineare”) attraverso l’attuazione della cosiddetta “economia circolare”, un modello di crescita che punta alla riduzione dell’impatto ambientale, riduzione dei gas serra e alla massimizzazione del recupero dei rifiuti. All’insegna di questo nuovo modello economico, in Sicilia arriva ERiC un ambizioso progetto che punta alla diffusione di impianti di produzione di energia elettrica fotovoltaica di tipo distribuito (energia prodotta dalle singole famiglie) a scapito della produzione di tipo centralizzato (classiche centrali elettriche fossili, impattanti e inquinanti). Obiettivo principale del progetto è quello di ridurre significativamente le emissioni di CO2, garantire il recupero dei rifiuti a fine vita (cioè dei pannelli fotovoltaici una volta dismessi) e trasformare tutti i partecipanti in utenze energeticamente 100% green, grazie al coinvolgimento di un trader ad energia verde certificata. Da qui il nome, ERiC Economia Rinnovabile e Circolare. Attraverso lo strumento del gruppo di acquisto ERiC garantirà alle prime 600 famiglie siciliane la possibilità di installare in casa loro un impianto fotovoltaico quasi a prezzo di costo, poiché lo spirito del progetto è incentrato sulla diffusione di impianti di energia rinnovabile, non sul profitto. Due le tipologie impiantistiche da poter scegliere: il 3 kW per chi ha bassi consumi; il 6 kW per le famiglie più energivore. I benefici ambientali conseguiti saranno: facilitare la diffusione della green economy in Sicilia (i pannelli fotovoltaici producono energia pulita e vengono interamente recuperati); raggiungere la soglia minima di 700.000 kg di CO2 evitata; avviare al recupero oltre 3.000 pannelli a fine vita (vale a dire, sottrarre oltre 60.000 kg di rifiuti alle discariche e recuperarli sotto forma di materie prime seconde). Il beneficio per le famiglie siciliane è rappresentato dal bassissimo prezzo degli impianti conseguito dal potere del gruppo di acquisto. È possibile verificare l’idoneità del proprio tetto sul sito www.progettoeric.it Per informazioni scrivere all’indirizzo email informazioni@progettoeric.it oppure contattare il 3249955059.

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Economia Rinnovabile e Circolare

Progetto ERiC: quando la green economy incontra l’economia circolare La riduzione di 950.000 kg di anidride carbonica e l’immissione sul mercato di 90.000 kg di prodotti interamente recuperabili a fine vita (sottratti cioè alle discariche), sono questi gli obiettivi che l’associazione no profit ARSE persegue con il suo progetto denominato ERiC Economia Rinnovabile e Circolare. Per comprendere meglio il “beneficio ambientale” che si otterrà grazie al progetto, possiamo dire che 950 mila chili di CO2 equivalgono alle emissioni emesse da un’automobile che percorre 1.000 volte il tragitto CataniaCapo Nord! Beneficio di gran lunga più soddisfacente di una domenica senza auto. Come conseguire questo successo? Incentivando la diffusione di impianti di energia rinnovabile, che in Sicilia non può che non essere rappresentata dall’energia solare. Grazie alla formazione di un grande gruppo di acquisto, ERiC permetterà a 600 famiglie siciliane di dotarsi di un impianto fotovoltaico per produrre energia verde ed avere contestualmente benefici economici in bolletta. Si tratta solo della prima delle tante iniziative promosse da ARSE che alimenteranno un ciclo virtuoso basato su economia circolare e fonti energetiche rinnovabili. Per visualizzare l’iniziativa è possibile visitare il sito www.progettoeric.it

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http://www.lesiciliane.org/casablanca/pdf/CB33Inserto.pdf

Le Siciliane.org – Casablanca n. 52


“A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare?” Pippo Fava

Le Siciliane.org – Casablanca n. 52


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