Casablanca n.48

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"...Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo... "


Le Siciliane - CASABLANCA N.48/ marzo - aprile 2017/ SOMMARIO

A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare? Pippo Fava 5 – Ancora Ustica…ancora misteri Graziella Proto 9 –Etica di Stato? No Grazie! Marco Cappato 11 – A teatro con Stefania, Mina e Beppino Graziella Proto 13 Graziella Proto – Non volevo essere vedova 16 – Lascia che la morte accada – Graziella Proto 20 –Guerra all’Ambiente Gianmarco Catalano 22 – Fulvio Vassallo Frontex attacca Operatori Umanitari 24 – Dafne Anastasi Se non valgo non produco. Io l’8, Lotto 27 - Brunella Lottero – via Zamboni, 36 30 - Sindaca Antimafia? Troppo riduttivo Franca Fortunato 32 - Sulle orme di Elisabetta Franca Fortunato 34 - Dio Odia leDonne di Giuliana Sgrena – seconda rassegna nazionale immaginARTE Libri dalle città di Frontiera 35– Patrizia Maltese: Stampa e potere; violenza degenere Lettere dalle città di frontiera 36 – A proposito di scuola - Rosangela Pesenti

…un grazie particolare a Mauro Biani Contributo alla copertina di Stefania Mulè Frase in copertina tratta dal libro “Se questo è un Uomo” di Primo Levi

Direttore Graziella Proto – protograziella@gmail.com - Redazione tecnica: Vincenza Scuderi - Nadia Furnari – Simona Secci –Edizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Lillo Venezia

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Editoriale

La Politica del Sogno e della Speranza È successo. Lo sapevamo, ma... speravamo che non fosse così. La produttività viene prima di tutto! L’operaio aveva chiesto di poter lasciare la catena di montaggio per andare alla toilette ma aveva ricevuto solo dinieghi. L’operaio ha insistito ancora per andare in bagno, ma per troppo tempo gli è stato vietato, alla fine se l’è fatta addosso. Dentro i pantaloni. Una umiliazione che lascia senza parole. Non ci sono interventi sindacali che la possano alleggerire. Non c’è solidarietà che la possa eliminare. Non siamo dentro un romanzo di Dickens. È accaduto alla SEVEL di Chieti uno stabilimento della FCA - ex Fiat. Da troppi anni ormai i ritmi e i carichi produttivi hanno subito un aumento smisurato nel silenzio assordante della politica, della… fretta, della velocità, del decido io da solo; del sindacato, forse troppo debole… forse troppo distratto… probabilmente messo da parte… spesso. Insomma è successo che queste operazioni a favore della produttività e contro i lavoratori sono state accolte come un fatto positivo. Come una opportunità che li potesse favorire. Ma davvero per un attimo abbiamo pensato che l’aumento della produttività grazie ai sacrifici dei lavoratori potesse portare a una ridistribuzione della ricchezza alla

collettività? Ma abbiamo dimenticato chi è Marchionne? La sua politica? Certamente dentro la ‘questione lavoro’ ci sta di tutto, da Monti, alle riforme sul lavoro, al Jobs Act, alla cancellazione dell’articolo 18. (Pur di abolirlo hanno tentato di farci credere che questo articolo fosse l’ideologia per antonomasia). Eppure, in questo episodio dai risvolti tristissimi, antichi, totalitari e dispotici, non vedo la giusta indignazione. Non vedo la rabbia. Non ci si incazza. L’assurdo e l’impensabile si fondono. Succede anche che molti oppressi guardino a destra, forse fidandosi, forse lasciandosi comprare… sicuramente molto delusi. I giovani per lo più disoccupati o sottoccupati che attraverso il referendum di dicembre hanno manifestato la loro rabbia e la loro sofferenza, non si organizzano verso una lotta sociale unitaria. Come se mancasse il collante. L’ideale comune. Guardare e preferire le liberalizzazioni, oppure pensare e sperare in un capitalismo più umano, accontentarsi di riformine, finti referendum dentro la fabbrica o, peggio, cercare di capire Renzi o il suo amico Marchionne con le loro politiche, i loro obiettivi ha fatto intravedere un mondo più leggero? Le donne con i loro movimenti stanno dicendo che bisogna

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ripartire, nell’impegno e nella lotta. Non UNA di meno, non UNO di meno. Bisogna sbracciarsi, svegliarsi dal torpore e ritornare alla collettività. Al bene comune. Al ‘tutti insieme si può’. Non si può continuare a tollerare… al peggio non c’è fine. Ribelliamoci alla politica che non risolve i problemi estendendo la democrazia; ai nostri ministri – cari ragazzi che avrebbero voluto giocare con la delega ai servizi segreti o che invitano al calcetto – salvati, salvatori, da salvare. Intrecci e intrallazzi non ci portano da nessuna parte, ritorniamo a fare politica: la politica che dà risposte per fare uscire dalle povertà, per i disoccupati, per gli immigrati. La politica della speranza e del sogno. Certo il periodo non lascia intravvedere nulla di tutto ciò, troppe divisioni, dispersioni, protagonismi… una ragione in più per non rimanere alla finestra a guardare. Io sono già in pista.


Mario Alberto Dettori: Verità sottratte

Ancora USTICA…

Ancora misteri Graziella Proto Trent’anni fa fu trovato impiccato ad un albero con i piedi che toccavano a terra. Oggi la procura di Grosseto accettando l’esposto della famiglia e dell’Associazione Rita Atria, ha fatto riesumare la salma del maresciallo dell’aeronautica Alberto Dettori. Ci sarebbero dei dubbi inquietanti. Una indagine frettolosa e senza autopsia. Dettori si suicidò o fu qualcun altro a farlo fuori? Aveva visto o sentito qualcosa di spaventoso? La sera della strage di Ustica (27 giugno 1980) il maresciallo – radarista alla base di Poggio Ballone – era di servizio ed ha visto cosa succedeva nei cieli d’Italia. In una agitatissima telefonata col capitano Ciancarella allora leader del movimento democratico dei militari a proposito di Ustica gli aveva detto “Capitano siamo stati noi… qui mi fanno la pelle”. La tesi ufficiale sostenuta negli anni dai suoi superiori non sembrerebbe che coincida con quello che pensava lui. Pian piano fu emarginato, trasferito in Francia, messo da parte. Dichiarato inabile al lavoro. Morto impiccato. Un altro testimone di Ustica morto… Quante strane coincidenze… Quanti suicidi. «Quando mio padre è morto avevo appena 16 anni, ero una ragazzina. Papà era una persona tranquilla, molto legata alla famiglia, credeva nel suo lavoro». Barbara Dettori ex sartina di Grosseto è emozionata mentre ripercorre le vie dei ricordi, le ultime ore del papà. Il Maresciallo dell’aeronautica Alberto Mario Dettori non era uno qualunque. Era radarista – identificatore di caccia – alla base di Poggio Ballone, in Maremma. Quella famosa e infausta notte del 27 giugno 1980, cioè la notte della strage di Ustica, era davanti ai radiorilevatori. Lì lui ha visto in diretta ciò che succedeva nei cieli italiani. Quando tornò a casa la mattina dopo sembrava intontito. Scosso. Non parlava. Stava zitto. Un silenzio che diventò una costante nella quotidianità.

Esortato disse solo «è successo un casino… qui vanno tutti in galera…», poi basta. Non ne fece più parola. Tranne una frase, solo una frase detta alla cognata Sandra nei giorni subito dopo il 27 giugno del 1980: «Abbiamo sfiorato la terza guerra mondiale, sai, l’aereo di Ustica, c’è di mezzo Gheddafi, è successo un casino». A voce tutto era lì. Non nella sua testa. Non nel suo cuore. Mario Alberto Dettori proprio la sera della strage di Ustica, sullo schermo aveva visto tutto. Sapeva cosa significavano quei punti luminosi che saettavano intorno al DC9. Secondo lui, nei cieli di Ustica il DC9 si era trovato al centro di uno scenario di guerra, abbattuto da un Casablanca 4

missile aria-aria. Telefona al capitano Ciancarella che volava sugli Hercules C -130 della brigata soccorritori, si interessava di sindacato e gli dice «Capitano

siamo stati noi… altro che Mig libico».


Mario Alberto Dettori: Verità sottratte La sera del 27 giugno 1980 l’aereo Itavia che da Bologna sarebbe dovuto arrivare a Palermo, si squarciò sopra il mare di Ustica e precipitò portandosi tutto e tutti dietro. 69 adulti e 12 bambini. Chi andava in vacanza, chi ritornava a casa, chi leggeva il giornale. Chi faceva i capricci e chi giocava con una bambola. Ottantuno persone che si sono ritrovate a loro insaputa dentro un gioco più grande di loro. Ottantuno persone innocenti morte senza sapere il perché. Troppi morti nel disastro, troppi morti dopo. Bisognava forse depistare? Manovrare? Imbrogliare? Sono state segretate le esercitazioni di caccia di Grosseto. Sono stati lasciati in bianco i registri. Su Ustica c’è una verità pretesa. Non ci sono prescrizioni. Non si vorrebbe aspettare altri 30 anni. Dopo la tragedia di Ustica, il maresciallo Dettori era diventato serio, preoccupato. Non volle dare alla famiglia motivo di preoccupazione, non fece trapelare niente. Non voleva tirare in ballo i famigliari, tentava di proteggerli. Loro, hanno iniziato a sospettare dopo la sua morte. Ma già da subito Alberto Dettori aveva parlato col suo amico Capitano Mario Ciancarella, punto di riferimento di moltissimi colleghi perché assieme al suo amico colonnello Sandro Marcucci aveva tentato di portare la democrazia fra le reclute e gli ufficiali «Capitano – gli disse agitato – siamo stati noi… Qui ci fanno la pelle», aveva aggiunto alla fine.

SEGRETO MILITARE! Riferendosi a queste frasi l’avvocato Goffredo D’Antona (legale dell’Associazione Antimafie Rita Atria e di Barbara Dettori), ha dichiarato «non esiste una qualche prova audio ma rimangono nella memoria di Ciancarella. Il capitano radiato con firma falsa di Pertini non è il solo ad affermare che quella notte il radarista aveva visto qualcosa di spaventoso. Lo dicono soprattutto i suoi familiari. Era sconvolto e proprio a loro più volte disse che non poteva raccontargli quello che aveva visto quella sera». Il capitano Ciancarella e il colonnello Marcucci insieme avevano cercato di fare piccole indagini – private, molto segrete – sulla strage di

Ustica e si erano fatti delle idee contrarie a quelle dei loro superiori. Secondo loro ci si trovava difronte a un crimine orrido, scellerato, premeditato e volontario. Forse l’esecuzione di un progetto di destabilizzazione internazionale. Un mistero garantito dal segreto militare. Nel frattempo il maresciallo Casablanca 5

Dettori, controllore di Difesa Aerea al Centro Radar dell’Aeronautica militare di Poggio Ballone, vicino a Grosseto, sede del 21° Gruppo radar dell’Aeronautica militare, spaventato, sprofonda in un tunnel da cui non uscirà più. Inizia a sospettare di tutti. Diventa strano e taciturno. Inoltre, si era saputo che lui – radarista in servizio la sera della strage di Ustica – la pensava diversamente dai suoi superiori, lo si guarda con sospetto e, piano piano, lo si isola. Lo si trasferisce in Francia. Dissero per sei mesi. «Ma mio padre stava abbastanza male – racconta Barbara – non riuscì a mantenere i sei mesi di trasferimento, per missione o cosa? Quando rientrava per il fine settimana vedevamo che era sempre più magro. Partiva da Grosseto che stava bene dopo 10 giorni lì ritornava magro. Era una cosa impressionante». «Lassù non mangio Carla, vado a mangiare al bar prendo una pizzetta o un panino», disse una volta alla moglie. I famigliari scoprirono così che il loro congiunto aveva paura di mangiare alla mensa militare. Temeva che gli mettessero qualcosa nel cibo? «Io lo osservavo e mi chiedevo perché? Mia madre per tranquillizzarmi mi disse mangia male… Non capivo. Non riuscivo a dare una risposta a questa cosa». Barbara Dettori mentre racconta si arrabbia, come se rivivesse l’ansia di allora. In Francia il maresciallo restò appena tre mesi, a luglio di quell’anno affittò una casa a Cap Martin, una palazzina in riva al


Mario Alberto Dettori: Verità sottratte mare e fece arrivare la famiglia per un mese di vacanza. Montecarlo, Nizza, erano felici. La moglie Carla andava a prenderlo alla fermata quando lui scendeva dal pulmino. Tutto bene allora? No. «Aveva molta paura… non si fidava…», prosegue Barbara. «Non ci spiegavamo, o per lo meno io non mi spiegavo, il perché». «L’ultima volta che è partito dalla Francia per rientrare a casa – continua – era di sera, io e mamma aspettavamo in terrazza. Telefonava a mia madre da ogni stazione… “Carla ma tu mi vuoi ancora a casa?” chiedeva».

tolsero dal suo lavoro di radarista e lo misero in panchina, aveva la morte nel cuore. “Questo non è il mio lavoro – diceva spesso – io sono radarista”. Un lavoro che lo appassionava e che faceva con

Francia era peggiorato. Dopo il rientro, inoltre, non riusciva a mettersi in contatto con Poggio Ballone e raggiungere i suoi colleghi, anche con quelli distanti, tra radar e radar si potevano parlare, adesso non aveva più contatti, e questo aumentava il suo malessere. La famiglia e Barbara in particolare non sapendo nulla del suo

L’ULTIMA PARTITA Arrivò l’indomani. «Lo stesso giorno del suo arrivo io stavo rientrando da scuola, lui usciva dal portone “Ciao Barbara, come stai? Non ti preoccupare, va tutto bene.” Papà va bene… lo rassicurai – racconta Barbara –. Aveva un sorriso strano, nevrotico. Quando entrai in casa mia madre mi guardò come per dire tutto ok stai tranquilla, non fare troppe domande. Anche lei era impaurita, non riusciva a capire nemmeno lei quello che ci stava accadendo». Sospira amaramente Barbara, è turbata e arrabbiata insieme nel ricordare. Per lei è molto faticoso rivivere gli ultimi tempi del padre, soprattutto quei momenti in cui lui passava da fasi di assoluto silenzio a momenti in cui parlava a raffica di aerei. Di persone che lo guardavano… Era preoccupato? Fuori di testa? Spaventato? Dal racconto emerge che anche quando era lucido si incupiva, faceva una cosa poi ne faceva un’altra…Non era lui. Dopo la Francia non era più lui. Il suo più grande dispiacere è stato quando lo

molta serietà, quando il suo comandante doveva assentarsi, o andava a prendere il caffè, lasciava lui al suo posto, perché di lui si fidava ciecamente. Una settimana prima che lui morisse Barbara interrompe gli studi, voleva andare a lavorare, il padre non fece alcuna opposizione, anzi questa nuova situazione diventò una occasione per stare sempre insieme. Gli altri due figli Marco e Andrea erano piccoli, loro due avevano un legame fortissimo. Inoltre a differenza della moglie lui aveva un carattere più aperto. Padre e figlia parlavano di tutto. L’ex sartina, allora ex studentessa si ritrovò a stare col padre in ogni occasione. Ma lui continuava a stare male, a tormentarsi, ad avere paura. Era terrorizzato. Dal rientro dalla Casablanca 6

tormento davano la colpa di tutto al trasferimento in Francia. Alberto Dettori era molto bravo a tennis, quel giorno la ragazzina gli disse «papà ho preso appuntamento per andare giocare insieme a tennis mi raccomando alle undici cerca di venire a casa». Uscì senza guardarla negli occhi, le disse di non preoccuparsi… e che sarebbe andato a prendere l’acqua. Da quel momento è scomparso. Nella ricostruzione, accompagnò Marco il piccolino a scuola e gli disse di non fare arrabbiare la maestra… Andò alle Sante Marie dove di solito prendeva l’acqua. Lì è stato trovato morto. «Secondo me aveva appuntamento con qualcuno». Barbara è più che convinta che lì, in quel luogo, trenta anni fa, suo padre aveva appuntamento con qualcuno. Ma chi? Ha avuto trenta lunghi anni


Mario Alberto Dettori: Verità sottratte per riflettere, per mettere a posto alcuni pezzi del puzzle. PER UNA MANO DI VERNICE SI PUO’… MORIRE Quel giorno la ragazza aspettò suo padre per tutta la mattinata. Quando sua madre, Carla Dettori, rientrò e seppe che il marito non era ancora rientrato andò in camera da letto e nel cassetto trovò la catenina e il braccialetto che lui aveva comprato in Francia per tutti e due con inciso il loro nome… è stato un attimo, poi folgorata dall’angoscia, agitatissima disse alla figlia di andare a chiamare Fernando, un loro carissimo amico. Nel frattempo lei andò a chiedere aiuto ad un collega del marito. Corse a casa del maresciallo Bocelli. A questo collega subito dopo il rientro dalla Francia Dettori si era aggrappato affinché lo aiutasse a mettersi in contatto col comandante, ma Bocelli gli disse tu adesso non ci vai perché altrimenti succede casino. Altra nota di calore umano: quando Carla Dettori si presentò a casa Bocelli – disperata per la scomparsa del marito, chiedendo aiuto – la moglie del maresciallo Bocelli le disse che suo marito non poteva affacciarsi perché stava dipingendo le pareti di casa. E dài, come si può pretendere che si interrompa di dare la vernice alle pareti per andare a cercare un collega che è scomparso. La vernice diventa secca! Nel frattempo erano arrivati Fernando e Carla, due cari amici che si misero subito a cercarlo… Non si tratta di colleghi dell’aeronautica, li avevano conosciuti ai giardinetti. E da lì era nato un rapporto di amicizia profondo. Il maresciallo Dettori ha anche battezzato il loro figlio. Fernando e Carla con in braccio il piccolino per tutto il tempo della

ricerca in campagna, andarono alle Sante Marie dove Dettori aveva detto alla figlia sarebbe andato per prendere l’acqua. Alla fontanella c’era il furgone ma non c’era Alberto. Chiamandolo ad alta voce lo cercarono lungo l’argine del fiume Ombrone. Conoscevano bene la zona perché vi facevano scampagnate o prendevano il sole. Dalla strada presero uno scivolo, lo percorsero e sotto i loro occhi si presentò una scena agghiacciante: Alberto Dettori impiccato ad un albero. I piedi poggiavano a terra ma questo fatto non incuriosì nessuno degli addetti ai lavori. Nessuno successivamente ne parlò. Carla sempre col suo piccolino in braccio, raggiunse una villetta che si trovava a poca distanza e telefonò. Quando arrivarono, i carabinieri presero la situazione in pugno e congedarono Fernando e Carla …voi potete andare via… dissero a Fernando, adesso ci siamo noi. Molto strano. «Sono loro, Fernando e Carla, che ritrovarono papà e non come si disse i suoi colleghi. Assolutamente no. Fernando – continua Barbara Dettori – mi ha sempre detto: “Ma come io ho

Fernando è morto, ma Carla è ancora viva ed ha fatto una dichiarazione scritta con la quale dice che il cadavere è stato trovato da loro e non dai colleghi di papà». Inoltre, l’amica Carla ha sempre detto che il furgone lo hanno trovato alla fontanella e non dove hanno detto che è stato trovato.

trovato il cadavere di tuo padre e mai nessuno mi ha interrogato?”. Me lo ha ripetuto per anni. Adesso

collaterali’, ma non basta. Per non andare molto lontano, Marcucci il 2 febbraio del 1992

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INTRIGHI? IMBROGLI? MISTERI? Tutta una cabala da decifrare. Nella versione ufficiale il cadavere fu ritrovato dai suoi colleghi e dalla moglie della vittima. Non si disse e nessuno cercò di spiegare perché la vittima, l’impiccato, poggiava i piedi per terra. «La verità è che papà mio non si è ammazzato, ne sono convintissima. Non è possibile che l’abbia fatto. Lui amava troppo la vita e diceva che la vita va vissuta a 360 gradi». E aggiungiamo, attorno alla tragedia Ustica ci sono troppo cose che non hanno spiegazioni, troppi dogmi, troppe vittime, troppi testimoni morti, troppi possibili testimoni suicidi, troppi incidenti. Troppi misteri in Italia. Qualcuno le ha definite ‘vittime


Mario Alberto Dettori: Verità sottratte muore in un incidente aereo con il suo piper, troppo strano per una persona con le sue competenze tanto che un anno fa la procura di Massa ha disposto la riesumazione dei resti. Ciancarella è stato espulso dall’aeronautica con un falso provvedimento firmato dall’allora presidente Sandro Pertini, firma dichiarata falsa dal tribunale di Firenze lo scorso settembre. Dettori convive con segreti e paure, terrorizzato dall’idea che gli possa accadere qualcosa. Barbara e la sua famiglia in tutti questi anni hanno cercato di scoprire la verità ma mai nessuno li ha aiutati. Solo l’Associazione Rita Atria, una piccola associazione che non può farsi carico da sola di circostanze così pesanti e intricate. Dopo la sepoltura del maresciallo

Dettori i colleghi dell’aeronautica non si sono preoccupati minimamente della sua famiglia. Carla Dettori si ritrovò sola a crescere i suoi figli. Spesso, raccontano, il frigo era vuoto. Li aiutavano i parenti. Ma la tanto magnificata solidarietà fra militari? «Il giorno del funerale – racconta Barbara – lo zio Riccardo senza essere notato ha assistito a un episodio strano. C’era un gruppo di colleghi di papà, uno di loro disse dobbiamo aiutare la famiglia di Alberto… voi dovete farvi i cazzi vostri rispose uno dall’accento sardo. Non avevano visto il fratello di mamma, che ce lo raccontò successivamente». Fecero anche tante chiacchiere, troppe per essere vere. Dissero che Dettori si era ammazzato perché la

moglie aveva l’amante; oppure che era impazzito perché i figli non volevano andare a scuola… «Lo stesso giorno del funerale qualcuno disse a zia Ninetta che sarebbe stato opportuno non fare l’autopsia… per non danneggiare i figli». L’indagine svolta in poche settimane si limitò alla conclusione che il radarista era depresso, anzi ossessionato, tanto da decidere di farla finita. Perché non fare l’autopsia? Di cosa avevano paura? Cosa gli avevano fatto? Cosa gli avevano dato? Chi tramava?

ALCUNE STRANE MORTI COLLATERALI (pubbl. su CASABLANCA n° 47) Maurizio Gari, capitano dell’Aeronautica Militare. Morto il 9 maggio 1981 d’infarto a poco più di trent’anni. La sera del 27 giugno ’80 era in servizio in quanto capo controllore del centro radar di Poggio Ballone (insieme al maresciallo Dettori). Scrivono gli investigatori: “Dalle poche conversazioni telefoniche che sono state rintracciate si denota un particolare interessamento dell’ufficiale per l’incidente del DC9 Itavia. Certamente la sua testimonianza sarebbe stata di grande utilità all’inchiesta”. Mario Albero Dettori, maresciallo dell’Aeronautica Militare. Morto impiccato il 31 marzo 1987. La sera del 27 giugno 1980 era in servizio al centro radar di Poggio Ballone. Mario Naldini e Ivo Nutarelli, tenenti colonnelli dell’Aeronautica Militare. Morti il 28 agosto 1988 durante l’esibizione delle Frecce Tricolori a Ramstein, in Germania. Alessandro Marcucci, tenente colonnello dell’Aeronautica Militare. Morto il 2 febbraio 1992 in un incidente aereo sulle Alpi Apuane. Nel 1980 era pilota presso la 46° Aerobrigata di Pisa. Aveva indagato sulla vicenda Ustica ma le sue informazioni erano indirette. Antonio Pagliara, maresciallo dell’Aeronautica Militare. Morto il 2 febbraio 1992 in un incidente stradale. Nel 1980 era in servizio al centro radar di Otranto (insieme al maresciallo Parisi) con la funzione di controllore di Difesa Aerea. Le indagini hanno concluso per la casualità dell’incidente. Roberto Boemio, generale dell’Aeronautica Militare. Ucciso il 12 gennaio 1993 a Bruxelles, in viaggio di lavoro come consulente per l’azienda Alenia. Nel 1980 Capo di Stato Maggiore presso la Terza Regione Aerea di Bari. Scrivono gli investigatori: “Esaminato già per entrambi gli incidenti aerei del 27 giugno e del 18 luglio 80, sicuramente altra sua testimonianza inerente gli incidenti aerei in disamina, a seguito delle risultanze istruttorie emerse dopo le sue prime dichiarazioni, sarebbe risultata di grande utilità.” La magistratura belga non ha potuto identificare moventi e colpevoli dell’omicidio. Gian Paolo Totaro, maggiore medico dell’Aeronautica Militare. Morto impiccato il 2 novembre 1994. Nel 1980 in servizio presso la base delle Frecce Tricolori di Ghedi. Rimangono sospetti sulle modalità del suicidio (Totaro si sarebbe suicidato con una corda appesa alla porta del bagno, a poco più di un metro di altezza da terra), ma le indagini hanno riscontrato in una delusione sentimentale la causa del gesto. Franco Parisi, maresciallo dell’Aeronautica Militare. Morto impiccato il 21 dicembre 1995. Nel 1980 (il 18 luglio) era controllore della Difesa Aerea al centro radar di Otranto. Casablanca 8


Una legge contro la disperazione

Etica di Stato? No Grazie! Marco Cappato Associazione Luca Coscioni 3.000 emendamenti, ostruzionismo, rinvii ad oltranza per una legge che dovrebbe essere operativa già da decenni. Uno dei punti di scontro: la nutrizione e idratazione artificiale non dovrebbero essere trattate come "terapie", e dunque non dovrebbero essere rinunciabili da parte del malato. Intanto la legge non c’è e nessuno di lor signori del Parlamento ne sembra turbato. La storia di Eluana non ha insegnato nulla. Quella di Piergiorgio non è servita a niente. Il povero Fabo ci ha fatto piangere, ma … peggio per coloro che vivono giornate scandite dalla disperazione. Se è vero che nelle parole rischiamo di perderci, in materia di fine vita potremmo aggiungere che rischiamo di perderci "per sempre". Non sembri solo sarcasmo per i ritardi biblici del dibattito politico. È anche questo, lo ammetto, ma la mia è soprattutto preoccupazione per le conseguenze devastanti che la cortina fumogena delle definizioni rischia poi di avere nel concreto, sulla pelle della gente. Intanto, mi dichiaro subito: penso che ciascuno abbia il diritto di scegliere come morire. Di più: mi pare aberrante la pretesa di imporre su qualcun altro nostre preferenze o credenze, o, peggio ancora, un'etica di Stato in nome della quale condannare qualcuno a una vita che non vuole. Certo, sappiamo bene che la libertà

"assoluta" non esiste, e che prima di fornire un aiuto medico alla morte di una persona è bene fare molte ed attente verifiche, sia sulla sua effettiva volontà, sia sulle sue condizioni fisiche e psichiche, accertandosi ad esempio se non ci siano delle forme di assistenza psichiatrica o di cure palliative in grado di convertire una richiesta di morte in richiesta di aiuto. Proprio

per realizzare tutte queste verifiche sarebbe necessaria, per l'appunto, una buona legge, che però alla fine riconosca alla libertà individuale un suo spazio, magari non "assoluto", ma certo non Casablanca 9

subordinato a volontà altrui. A 40 anni dalla prima proposta di legge per l'eutanasia legale, a firma del socialista e radicale Loris Fortuna (non a caso padre di un'altra grane riforma di libertà, quella del divorzio), a 10 anni dalla morte di Piergiorgio Welby e a 3 anni e mezzo dal deposito di una legge di iniziativa popolare (mai discussa) promossa dall'associazione Luca Coscioni, il Parlamento italiano si è mosso (lentamente) almeno sul testamento biologico. Un anno fa, il 4 febbraio 2016, ha avviato la discussione in Commissione Affari sociali della Camera, ha proceduto a decine di audizioni, ha designato una relatrice del provvedimento (Donata Lenzi, PD) e aveva


Una legge contro la disperazione persino definito una data per la discussione in aula: il 30 gennaio, scadenza poi slittata a, se va bene, il 20 febbraio. Nel dibattito in corso, la guerra delle definizioni allontana la possibilità per il cittadino di comprendere, e soprattutto allontana dalla chiarezza della decisione di fondo: alla fine chi sceglie? Il testo base della relatrice su questo propone la soluzione più ragionevole: alla fine, sceglie il malato, che può affidare a un fiduciario le proprie disposizioni di trattamento vincolanti per quando non dovesse più essere in grado d'intendere e di volere. Apriti cielo: oltre 3.000 emendamenti, ostruzionismo e, per l'appunto, nuovo rinvio. Uno dei punti di scontro: la nutrizione e idratazione artificiale non dovrebbero essere trattate come "terapie", e dunque non dovrebbero essere rinunciabili da parte del malato. In poche parole, si cerca di cambiare le definizioni per sottrarre un diritto.

Fabo potrebbe andarsene senza problemi attraverso la sospensione delle terapie, quella sì legale. A parte la strana pretesa che chiunque debba avere voglia, tempo e mezzi per infilarsi in iter giudiziari complessi come quelli di Welby, Englaro, Nuvoli, Piludu e altri casi del genere, stupisce che questi dotti conoscitori del frasario del fine-vita non abbiano considerato che, nel caso di un ragazzo giovane, forte e non dipendente da una macchina come è Fabo, la sospensione delle terapie potrebbe condurre alla morte solo dopo molti giorni, lasciando così la madre, che lo accudisce 24 ore su 24, a dover attendere la lenta consunzione del figlio per poterne piangere la morte. Sarà anche una soluzione legale, e certamente è una soluzione che molti possono preferire alla prosecuzione di una tortura, ma non ha senso spacciarla per la soluzione in grado di superare le richieste di eutanasia.

Attribuire la responsabilità delle guerre terminologiche solo al campo dei contrari sarebbe ingiusto. Quando “Fabo”, il trentanovenne DJ reso definitivamente immobilizzato e cieco da un incidente stradale ha chiesto l'eutanasia, lanciando a Mattarella un appello per una buona legge, qualche azzeccagarbugli ha pensato di venirgli in soccorso sottolineando come il precedente del caso Welby abbia dimostrato che non è necessaria l'eutanasia o una nuova legge, ma che Casablanca 10

C'è infine che guarda tutto dall'alto verso il basso, considerando che sono temi troppo delicati per essere affidati alla legge. Meglio la "zona grigia" (copyright Angelo Panebianco) di un diritto che resta fuori dalla porta, assieme a gendarmi, preti e magistrati. Non si potrebbe essere più d'accordo. Se non fosse che in Italia è punibile con una quindicina d'anni di carcere l'omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio, anche nel caso di un malato terminale. Altro che zona grigia: siamo in piena "zona nera" fatta di clandestinità e soprusi. Come sull'aborto, per non perdersi nella giungla delle proibizioni e delle definizioni, la strada è semplice: sostituire l'eutanasia clandestina con l'eutanasia legale. L'opinione pubblica è pronta, il Parlamento meno, ma almeno non ci si imbrogli con la guerra delle definizioni.


A Teatro con Stefania, Mina e Beppino

A Teatro con Stefania, Mina e Beppino Graziella Proto Un piccolo teatro. Tante storie importanti. Difficili. Tristi. Pesanti. Tanto impegno. Tanta politica. Tanti ospiti per parlare di temi scottanti a costo di pagare un prezzo. Il 24 febbraio due ospiti speciali: Mina Welby e Beppino Englaro che dopo lo spettacolo parlano di autodeterminazione, eutanasia, testamento biologico, fine vita. Il tema è rischioso, ma il modo con cui Stefania Mulè – interprete e regista della pièce Sospesi tra terra e cielo – lo porge al pubblico è quantomeno unico e personale. Il teatro arriva prima della politica? L’arte ascolta e la politica rimane sorda? Certamente è solo teatro, ma quanta emozione! L’occasione? Un incontro dibattito al teatro Agli Archi di Palermo organizzato dall’Associazione immaginARTE. Un teatro piccolo, anzi, piccolissimo. Settanta posti in tutto. Per accedervi non si salgono scale come nella maggior parte degli altri teatri. Qui si scende. Una scaletta anonima che ti porta al disotto del livello della strada e quando arrivi, capisci il perché del nome: un susseguirsi di archi sostiene il tetto a volte. Una

struttura strana ma suggestiva. Un centro artistico, culturale, sociale nel centro storico della città arabonormanna. Da dove è spuntato? Cosa era prima di essere un teatro? Era semplicemente un rifugio di guerra, ma Stefania Mulè l’ha adattato, sistemato e, alla fine, è riuscita a creare un’atmosfera meravigliosa. Infatti non appena metti piede nel teatro dimentichi che sei al centro storico, in mezzo al traffico, rumoroso e fastidioso

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delle grandi città meridionali. Siciliane in particolare. Il direttore artistico, la giovane, brava, bella e brillante attriceregista Stefania Mulè, nutre il sogno di trasformare la struttura in un centro culturale di iniziative artistiche e sociali dove le persone possono incontrarsi, dibattere, dialogare. Oppure dedicarsi a qualsiasi altra attività artistica. Ovunque vada Stefania trasforma strutture in “luoghi” sociali e di


A Teatro con Stefania, Mina e Beppino socialità. Collante: l’arte. Welby) e Peppino Englaro (papà Due protagonisti di due Non è un caso che il tabellone di della giovane Eluana). Due avvenimenti italiani che da stagione preveda spettacoli teatrali personaggi che ancora oggi decenni portano avanti tematiche o musicali, presentazioni di quali autodeterminazione, libri, workshop, all’insegna eutanasia, testamento dell’impegno politico e biologico, accanimento sociale. terapeutico, fine vita, cure Dentro questo quadro lo palliative… mentre il spettacolo Sospesi tra terra Parlamento fra un governo e cielo e il conseguente e l’altro si trastulla e dibattito di venerdì 24 rinvia. febbraio scorso. Sul palco Stefania entra Sospesi tra terra e cielo è prepotentemente nella vita il racconto delle vite di di Eluana e di Piergiorgio e Eluana Englaro e con grande maestria evoca Piergiorgio Welby, due le loro storie. Entra vite che per anni sono state delicatamente, ma con veramente sospese fra terra grande passione nelle loro e cielo. Un testo scritto, uniscono o dividono, che loro vite. Dà voce ai pensieri e ai interpretato e diretto dalla stessa malgrado sono stati protagonisti turbamenti di Beppino – papà di Stefania che sul palco con arti dentro la vita dei loro cari che non Eluana. Scaraventa sul palco e sul diverse – danza, musica, riuscivano a morire pubblico il suo dolore ma anche la recitazione, effetti di luce – ti definitivamente. Due fantastiche e sua grande determinazione nel trasporta su un territorio coraggiose persone che hanno portare avanti la battaglia della sua inesplorato, difficile, irto, spinoso. dialogato col pubblico ragazza. Unica figlia. Fa rivivere Te ne fa vedere le difficoltà, appassionato e forse anche Piergiorgio, la sua vitalità, la sua intravedere le soluzioni. Stefania frastornato, ma ci sta. rabbia, la sua fragilità. La sua con la sua voce calda e vigorosa energia. Il suo essere appassionata, con la goffo quando la sensibilità che le è malattia lo travolse. Associazione culturale immaginARTE congeniale butta il Sul palco Eluana e mostro sul palco e Piergiorgio sono trasforma il tema sempre vivi. insidioso della Sempre presenti. “dolce morte” – il Quasi palpabili. mostro – in uno Inutile dire che spettacolo che ti l’atmosfera è da travolge tuo incantesimo. A tratti malgrado. E tu da groppo in gola. Del resto l’ARTE è di tutti: poveri, ricchi, operai, professionispettatore – tuo Sempre avvincente. sti, belli, brutti, cattivi, buoni...proprio di tutti! e come disse malgrado – ti ritrovi Coinvolgente. Una Eduardo De Filippo: a percorrere vera magia, quell’incertezza in soprattutto se si "...Quando il sipario si apre sul primo atto d'una mia commecui la vita non è vita pensa che il tema dia, ogni spettatore deve potervi trovare una cosa che gli intee la morte non è affrontato – il fine ressa. E alla fine, mentre li ringrazio degli applausi, la mia morte. Tutto è vago, vita – è un tema gioia è sapere che uscendo dalla platea ognuno si porterà via tutto è dolore. molto duro, distante con sé qualche cosa che gli sarà utile nella vita di ogni dal teatro, che giorno" alcuni vorrebbero ....Dunque immaginARTE, con umiltà, ma anche con determiAllo spettacolo fosse solo lustrini e nazione, desidera tentare di raggiungere, anche in minima segue un’avvincente risate parte, questo risultato. chiacchierata tra A questi diciamo… Mina Welby (moglie non sapete cosa vi http://www.stefaniamule.it/ac -immaginarte/ di Piergiorgio siete persi. Casablanca 12


Non volevo essere vedova

Non volevo essere vedova Graziella Proto «Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio… è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti» scrive Piergiorgio Welby al Presidente della Repubblica, nel settembre 2006. Piergiorgio Welby, che è stato anche copresidente dell’Associazione Luca Coscione, era affetto da distrofia muscolare, una malattia neuromuscolare degenerativa che causa l’atrofia progressiva della muscolatura scheletrica. Da malato e da politico radicale si è battuto contro l’accanimento terapeutico e per legalizzare l’eutanasia. Ha chiesto insistentemente di morire senza soffrire, è morto – aiutato – il 20 dicembre 2006. La sua vicenda, come quella di Eluana, Fabo ed altri meno noti, per l’Italia è stata una bufera che ha coinvolto piani e fronti diversi: giustizia, famiglia, filosofia, religione, medicina, etica. Mina è piccola e gracile. Apparentemente. Con un sorriso sempre pronto per te. I capelli scompigliati e senza tante ricercatezze. Abbigliamento di chi viaggia in lungo e in largo. Quando arriviamo alla stazione centrale di Palermo è là che aspetta dritta in piedi dietro la sua valigia. Un attimo, il tempo di decifrare chi la saluta da lontano agitando la mano fuori dal finestrino della macchia e anche lei agita la mano per rispondere al saluto. Mettiamo il bagaglio nel cofano e ci accomodiamo in auto. Da subito inizia a parlare per mettere al corrente, informare e

condividere. Insomma un vulcano di idee, un vulcano di impegni e – scopriremo dopo – un vulcano di allegria. Quante risate al ristorante! Chissà perché spesso si associa la durezza delle esperienze personali e delle competenze al carattere tetro e triste. Alla fine della pièce teatrale Stefania la chiama sul palco. Sembra ancora più gracile, ma l’emozione che suscita mentre suona all’armonica del suo Piergiorgio la loro canzone preferita è grandissima. Da pelle d’oca. Il brivido che serpeggiava lungo la schiena l’abbiamo visto volteggiare per tutto il teatro Agli Casablanca 13

Archi. Mina è la vedova di Piergiorgio Welby, poeta, attivista radicale che dieci anni fa, gravemente ammalato di distrofia muscolare, chiese che venissero interrotte le cure che lo tenevano in vita. In vita… Quelle cure lo stancavano, lo torturavano, lo sfiancavano. Una disperazione quotidiana. «Personalmente ho fatto teatro fin da piccolina. Da grande ho capito che il teatro, la scrittura, l’arte in generale aiuta le persone a capire determinati problemi e li porta molto più vicino alle persone perché stimola il sentimento e il


Non volevo essere vedova cervello insieme». faceva per far star tranquilli, in medico che a questo malato fa la Afflitto di una patologia torpore, altrimenti i malati sedazione e lo accompagna con le invalidante progressiva, quello di avrebbero visto gli altri ricoverati cure palliative a morire. Questo Piergiorgio è stato un tragitto della sala che stavano male. per la sua malattia, perché è drammatico. Una malattia che ben malato di SLA. Con le cure presto coinvolse e causò una totale «Quando al reparto arrivava palliative – spiega ancora Mina – difficoltà muscolare alle gambe e qualche giovane dopo incidente il medico poi può togliere il alle braccia. Lui un uomo attivo, con moto e per esempio i suoi respiratore automatico. Ciò che ha travolgente, fatto il dr. energico… attore Riccio con LE CURE PALLIATIVE del suo mondo Piergiorgio – costretto a starsene scandisce – Le cure palliative dicono esattamente cosa sono: insieme interventi in disparte, cosa è successo terapeutici, diagnostici, di assistenza, rivolti al malato e alla sua aspettando che gli “poi”? È famiglia finalizzati alla cura attiva e totale del paziente. altri lo aiutassero successo che il Paziente la cui malattia di base è caratterizzata da inarrestabile… nella sua Giudice per le evoluzione e prognosi infausta e non risponde più a trattamenti quotidianità. indagini specifici. Tragico. preliminari Le cure palliative mettono al centro non la malattia ma il malato e il Poi è arrivato il (Gip) ha suo dolore totale, vale a dire fisico, psicologico, spirituale, sociale, computer e per lui accusato il dr. familiare. Perciò il malato va preso in cura totale, accompagnato per arrivò il mondo: Riccio di non sentire dolore, agitazioni, conati di vomito, dolori di testa, 24 ore poteva scrivere, omicidio del su 24… Anche la famiglia deve essere aiutata a stare serena vicina al contattare persone, consenziente». malato e attorno a tutti loro Deve esserci un gruppo di persone non solo il medico. A tal proposito parlare con loro, ci sono gruppi, reti, ma molto sporadici. Legge del marzo 2010 n. 38 partecipare ai Ma ci fu un – cure palliative. forum. Aiutare giudice a alcuni studenti a Berlino. organi venivano espiantati laurearsi. Nella sua stanza arrivò il Piergiorgio si arrabbiava mondo. Il giudice dell’udienza preliminare tantissimo. Gli faceva male, ha voluto leggere il libro di perché non sono morto io? Che ci “Io all’estero non ci vado – diceva Piergiorgio Lasciatemi morire, e sto a fare ancora? Perché devo spesso Piergiorgio – devono volle sentire anche la vedova. vivere ancora? Perché non mi accorgersi di me”. E questo gli fa lasciano morire? Perché mi hanno onore ancora adesso. Piano piano «Era la prima volta. Fino a quel tracheotomizzato contro la mia Mina rievoca la vita assieme a suo momento non ero stata mai volontà?». marito, soffermandosi su alcuni interrogata. Polizia, carabinieri, passaggi che sottolinea dando più giudici. Come se io non esistessi. Già in passato Piergiorgio aveva vigore alla sua voce. Io so le cose, le devono chiedere chiesto ad un giudice civile di però – e mentre parla Mina si essere esonerato del suo Per esempio, si sofferma su quanto ventilatore automatico e questi gli infervora – potrebbero chiedere fosse struggente quando diceva alla madre, alla sorella, a tutti rispose che lui non poteva dire al che non era troppo morto per i quelli che erano presenti, Pannella, medico che lo doveva fare. morti, non era troppo vivo per i Cappato…». «In Sardegna qualche mese fa – vivi. Una specie di riassunto di Durante l’interrogatorio la vedova racconta Mina – è successa una tutto quel tempo in cui è stato in di Piergiorgio parlò per due ore cosa simile e il giudice ha detto rianimazione dove lui non voleva circa e tutto ciò che disse è stato alla Asl: tu Asl devi trovare un essere sedato. La sedazione si scritto nella sentenza. Zaira Casablanca 14


Non volevo essere vedova Secchi Welby praticamente ha prosciolto il dr. Riccio, il medico che ha fatto il suo dovere verso il paziente, un fatto previsto dalla nostra Costituzione il cui articolo 32 sancisce che nessuno può essere obbligato a sottoporsi a trattamento sanitario contro la sua volontà. Ma se al posto di quel giudice ci fosse stato quel Gip che diceva che la vita è sacra e indisponibile, che un giudice non può mai dire al medico che lo deve fare? Certamente ci vogliono leggi chiare, ma bisogna ricordare sempre che le carte internazionali danno gli stessi diritti agli uomini di tutta la terra.

del suo corpo, oppure come essere curata, quali terapie volere o non volere. Il medico dovrebbe spiegare bene per dare al paziente la possibilità di scegliere consapevolmente cosa e come, e deve accertarsi che il paziente abbia capito. Tuttavia, ancora oggi, come nel 2009, si ripropone l’annosa questione linguistico-semantica della distinzione tra cura e terapia. Piergiorgio pur avendo la tracheotomia non aveva accettato l’alimentazione artificiale e il medico si era spaventato per il rischio di una infezione

“La vita è mia e della mia vita posso farne quello che voglio” non può essere solo uno slogan. Tutti abbiamo diritto ad essere seguiti, curati, informati dal medico su come essere curati. «Sul fine vita si cominciava a parlare dagli anni ’80 – dice Mina Welby – e nel tempo sono state fatte molte proposte di legge. Questa attuale è buona… tre paginette, che sono anche facili da leggere e sono state già emendate… Ho paura che si stia lavorando per fermarla, e non ne capisco il motivo». I dubbi sarebbero parecchi, ma dovrebbe interessare tutti il fatto che la persona può disporre di sé e

polmonare, per la quale sarebbe potuto morire. Ha avuto molte infezioni polmonari ma non per questo motivo. Il medico aveva il dovere di fare delle cure, ma le cure palliative non erano note e quindi non obbligatorie. A Napoli Mina è riuscita ad avere cure palliative per una signora con cancro al colon. Non riusciva a digerire nulla, aveva una infezione Casablanca 15

terribile alla pancia, lei soffriva molto e il marito disperato si rivolse a Mina per aiutarlo a trovare un medico per le cure palliative. La signora voleva morire a Roma, e il medico dopo due giorni si presentò nella sua casa per cominciare. Iniziò a bere succo di mirtillo, dopo una settimana mangiò una pasta al forno e per 5 mesi lei era stata bene, «siamo andate a mare insieme…», racconta ancora Mina, ha vissuto con suo marito l’ultimo periodo, era informata, sapeva, era serena e fiduciosa. Poi è riapparsa la malattia forte, aggressiva, ha iniziato la sedazione e alla fine è stata addormentata per non sentire il dolore, per non sentire il morire, e spegnersi serena nel sonno. Bisogna esigere queste terapie. «Nessuno vorrebbe morire ma nessuno vuole soffrire. Il malato non vuole dolori, non vuole star male, le cure palliative fanno vivere più a lungo perché non ci sono i dolori che lo struggono. Tutti noi possiamo e dobbiamo educare i dottori, che risponderanno ‘ma cosa fa, pensa di morire’? No, ma voglio dire al medico come la penso». In Italia dopo che è stato inventato il sondino ci sono tanti, forse troppi malati vegetativi. Il sondino tira avanti una vita fisica ma non può risuscitare il cervello, la corteccia cerebrale dove ci sono i centri della fame, della sete, del piacere, della gioia, del dolore. .


Lascia che la morte accada

Lascia che la morte accada Graziella Proto Una mattina, all’ospedale di Lecco, dopo un incidente arriva una ragazza in coma profondo per un gravissimo trauma cranico e la frattura della seconda vertebra cervicale che la condanna quasi sicuramente alla paralisi totale. Per i medici l’imperativo è strappare la ragazza alla morte. La ragazza viene intubata e le vengono somministrati i primi farmaci. Non resta che attendere il decorso delle successive 48 ore, poi quattro giorni, poi… poi … poi… niente. La ragazza continua a vegetare. Per 17 lunghissimi anni. Solo che la ragazza, Eluana Englaro, dalla folgorante radiosità, se avesse potuto avrebbe rivendicato l’autodeterminazione terapeutica, una libertà e un diritto fondamentale costituzionale. Suo padre, interpretando la volontà della figlia, dà voce alle sue battaglie di libertà. Dopo 17 anni la determinazione di Eluana viene ricostruita attraverso l’istruttoria giudiziaria e la Corte Suprema della Cassazione le riconosce il diritto fondamentale costituzionale e la toglie dallo stato vegetativo permanente. «E je lade Bepino, tu le as liberade», «Se n’è andata Beppino, l’hai liberata». Erano le 19:35 del 9 febbraio 2009. Una telefonata semplice. Telegrafica. Non c’era più nulla da dire. All’altro capo del telefono Amato De Monte, l’anestesista a capo dell’équipe che seguì Eluana negli ultimi giorni fino alla morte naturale per disidratazione dopo l’interruzione della nutrizione artificiale. Eluana era libera. Non sapremo mai cosa è successo nel cuore di Beppino e Saturna, la dolce Saturna che per stare vicino alla figlia si è consumata e distrutta.

Certo non c’era più nulla da dire, ma per Beppino c’era da continuare a lottare… per gli altri. Beppino Englaro è il presidente della Associazione “Per Eluana”, una associazione nata subito dopo la morte di Eluana Englaro, l’unica figlia di Beppino. Appena lo vedi immediatamente ti rendi conto che sei difronte a un uomo di straordinaria onestà, civiltà, sensibilità, rispetto per gli altri. Un signore di altri tempi che vede e legge l’odierna realtà in modo molto moderno. È un uomo a cui piace l’approfondimento, una parola che Casablanca 16

lungo i suoi discorsi ripete spesso. Una persona a cui piace documentarsi per poi confrontarsi con gli altri. Parla della figlia in terza persona, la ragazza Eluana, mai “mia figlia”. Una specie di scudo, probabilmente, una protezione, come se si volesse riparare da chissà quale ondata di dolore. Ma forse sono solo supposizioni. La realtà è molto più semplice, siamo difronte a un uomo che ha trasformato il suo dolore privato in impegno civile per tutti noi. Ha messo a disposizione la sua tragedia per difendere i diritti e la dignità non solo di sua figlia, ma di


Lascia che la morte accada tutti. Quotidianamente si batte per l’autodeterminazione, per il diritto al rifiuto dell’accanimento terapeutico in Italia, il testamento biologico, il fine vita.

– continua Beppino – cosa avrebbe voluto Eluana. E si è data la risposta… Figuratevi noi genitori». IL PAPÀ DI ELUANA

Un padre che, suo malgrado, è stato obbligato dalla situazione ad essere un protagonista dentro la vita della propria figlia che in seguito al grave incidente automobilistico per 17 lunghissimi anni ha vissuto in stato vegetativo. Impossibilitata a morire. Costretta a non vivere. Eluana Englaro ha avuto un incidente stradale che le ha procurato danni cerebrali e cervicali gravissimi, sarebbe rimasta immobile, per sempre. Avrebbe potuto muovere solo la testa. Priva di coscienza e di sensazioni. Terribile. «La straordinarietà di questa ragazza Eluana è stata veramente sorprendente, per tutti – comincia da subito – chi l’ha conosciuta si è sempre chiesto se lei sapeva di essere così straordinaria. Vi do un esempio, una sua compagna che ha fatto con lei il liceo linguistico per 5 anni, Francesca, che è stata la prima che ha parlato coi medici del pronto soccorso su quello che avrebbe incontrato Eluana per i danni subiti. Francesca che oggi è un avvocato civilista e penalista, già al pronto soccorso si è chiesta

Beppino nel suo dialogare ricorda che Eluana è stata una bambina che aveva un concetto definito e preciso sulla libertà e sulla dignità. Non aveva nemmeno 10 anni quando durante una disputa familiare non si è sentita rispettata dai genitori e si è ribellata dicendo “voi cosa centrate con la mia vita, con la mia dignità e con la

mia libertà”. Una determinazione e una chiarezza di pensiero che con l’adolescenza prima e con la maturità dopo sono diventate consapevolezze. Certezze su ciò che si vuole o no. Poi nel ’92 l’incidente. Aveva compiuto 21 anni. «Quando ci siamo misurati con questa situazione abbiamo dialogato con la responsabile della rianimazione di Lecco, che ci ha convocati al quarto giorno per dirci che l’indomani avrebbero fatto la tracheotomia… Per noi era il segnale della rianimazione ad Casablanca 17

oltranza. Quella che lei, Eluana, aveva già visto con il suo amico Alessandro». L’anno precedente al suo incidente, Eluana si era misurata con un incidente occorso a dei suoi amici. Alessandro era arrivato proprio nella stessa rianimazione. Lì lei ha visto fino a che punto si può spingere la rianimazione e quali sbocchi si possono avere. Attraverso il suo amico Alessandro, aveva quindi percepito i pericoli a cui si può andare incontro con l’accanimento della rianimazione e si era espressa nello specifico. Era peggio della morte. L’incognita che aveva Eluana era a 360 gradi, non si poteva escludere lo stesso sbocco del suo amico Alessandro. «Il caso ha voluto che noi la pensassimo allo stesso modo – sottolinea Beppino –. Noi non eravamo impreparati a perdere Eluana, ad affrontare questa prima tragedia, perdere la figlia e – aggiunge – abbiamo fatto presente al medico la straordinarietà di Eluana e che per lei era inconcepibile che un altro potesse decidere delle conseguenze della sua vita». «Per Eluana era impensabile che qualcuno decidesse della sua vita». È suo padre che lo dice.


Lascia che la morte accada Perché l’ha cresciuta, perché l’ha argomento, i coniugi Englaro che tabù della profanazione del suo educata. Perché vuol dire che erano più avanti rispetto a tanti corpo, cioè dipendere in tutto e per quelle idee sono anche le sue e altri, potevano sembrare strani. tutto da mani altrui». Questo lo dell’altro genitore, la mamma che, aveva detto chiaramente. BASTA NON FARMI NULLA dal primo giorno dell’incidente, è «Non ci saremmo mai sognati di scomparsa, lasciare Eluana in inghiottita dalla mano di altri, ma VADEMECUM, CONSIDERAZIONI, CONCLUSIONI stanza dell’ospedale non ci hanno dato dove c’era sua figlia. scampo come noi Per Eluana ci sono volute tre sentenze negative del Tribunale di Sempre attaccata alla non lo abbiamo Lecco, tre della Corte d’appello di Milano e una della Cassazione, ma oggi la situazione culturale è come il giorno e la notte, rispetto figlia. In silenzio. dato a loro, – a una volta. Oggi ci sono risposte concrete da parte dei massimi Nessun clamore. scandisce organi giurisdizionali per l’esercizio di una libertà fondamentale Nessuna Beppino, che che è l’autodeterminazione. rivendicazione per aggiunge – per la A meno che non venga fuori la storia della indisponibilità e sé. Si è lasciata medicina, era sacralità della vita – convinzioni religiose rispettabilissime ma consumare dal assurdo, nessuno non obbligatorie per tutti – oppure che non c’è la certezza del dolore, stando si era sognato mai diritto, per esempio un pazzo di magistrato che sostenga che sempre appresso alla che potesse secondo il codice civile e penale italiano la vita non è tua, ma è figlia. Se n’è andata accadere che della società. dopo che ha risolto qualcuno dicesse La regione Lombardia, dovrà pagare per i danni che ha causato con sua figlia, per no all’accanimento alla famiglia Englaro, perché l’ex onorevole Formigoni in qualità sua figlia. terapeutico, lascia di Presidente della regione Lombardia nonostante la sentenza del che la morte Consiglio di Stato non ha accettato Eluana nella struttura «Noi dando voce ad accada. Non solo i ospedaliera, di fatto ha costretto gli Englaro a trasferirsi in Friuli Eluana eravamo in medici, tutta la per attuare il decreto. grado di dire ‘No società. Quindi Ad oggi si è in attesa di una legge nazionale, ma il Parlamento grazie abbiamo dovuto ancora si trastulla, tuttavia grazie alla buona volontà, alcuni all’accanimento fare tutto ciò che comuni si sono attrezzati con i registri sul testamento biologico. terapeutico’, lascia abbiamo fatto. Ho Infine, la conclusione del racconto e delle denunce di Beppino: So che la morte aspettato anni e che volete il mio bene, mi accontento che non mi facciate del accada». Il tono di male. Beppino è sempre pacato, come se stesse parlando di Nessuno si altri e non di sé, del suo dolore. sognava di Quel dolore che nessun tempo parlare o pensare potrà mai scalfire, perché la morte come loro, di un figlio è contro natura». l’istinto è sempre stato verso la vita «Il medico capì subito – continua e vita è – – e rispose in tutte le lingue ‘non secondo la esiste, noi non possiamo che medicina – tutto curare fino alla morte cerebrale’». ciò che non è anni, prima di trovare un morte cerebrale. Certo 25 anni fa quasi nessuno interlocutore. Mi si diceva ma cosa Eluana, il padre lo racconta in tutte parlava nel modo in cui parlava vuoi fare? Cosa possono fare i le salse e in tutte le lingue, non Beppino Englaro, culturalmente la medici? Non vedi che è così? Ma aveva il tabù della morte «aveva il società era indietro su questo Casablanca 18


Lascia che la morte accada così come? Peggio della morte? È stato un inferno». Grazie a questa vicenda oggi quella visione bigotta vacilla. La classe politica nel suo insieme per troppo tempo se n’è disinteressata, ma… la sua latitanza sul tema, la sua inerzia nel legiferare in questo campo oggi è messa in discussione. Può bastare? No, ma in passato non c’era nemmeno questo. Oggi, in una situazione del genere, chi vuole può fare un approfondimento e chiedersi ciò che vuole o non vuole per il suo fine vita e in base alla sua coscienza personale, decidere, continua a spiegare l’instancabile papà, che aggiunge: «La rianimazione è risaputo, può fare cose egregie, ma pochi sanno che se non va a buon fine può creare situazioni tragiche che non esistono in natura, perché la rianimazione interrompendo il processo del morire cronicizza la situazione tragica». Per avere una risposta definitiva Beppino Englaro ha dovuto attendere 15 anni e 9 mesi. Fino a quando è arrivata la sentenza della Corte Suprema della Cassazione che riconosce a Eluana il diritto fondamentale costituzionale: l’autodeterminazione terapeutica. Essa non può incontrare un limite, anche se la conseguenza può essere la morte. Un principio che per la famiglia era ovvio già dal primo istante. Quel famoso 18 gennaio ’92.

La corteccia cerebrale compromessa da un trauma come nel caso di Eluana oppure da un’emorragia, va incontro a una degenerazione definitiva. E con essa tutte le funzioni di cui è responsabile: dall’intelletto agli affetti, e più in generale alla coscienza. Ma c’era anche la seconda vertebra rotta e quindi l’immobilità. Se lei avesse potuto, lo avrebbe detto lei No – lasciatemi morire, ma Eluana si era già espressa, attraverso il suo modo di agire e di considerare la vita. Nelle sue cose lei era estrema, nella sua vita conosceva solo il bianco e il nero ‘se non posso essere quello che

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sono adesso… non c’è la possibilità di essere lasciata oltre’. «Ma i grigi dove li metti? Mi si chiedeva – è ancora Beppino che racconta –. Ma io sono così e non ti chiedo niente, meno di chiederti niente… non posso…». Il ragionamento non fa una grinza. Oggi, grazie a questa vicenda, anche se non c’è una legge specifica ma c’è la legge principale che è la Costituzione, posso lasciare scritto ora per allora ciò che voglio: «Se io ho scritto ‘lasciatemi morire’ nessun medico o giudice tutelare può evocare tutto ciò che è stato evocato per Eluana». .


Guerra all’ambiente

Guerra all’ambiente Gianmarco Catalano Da Nord a Sud, da Est a Ovest, proseguono senza sosta le prove di guerra in Sicilia. Archiviata la terza edizione della mega-esercitazione in mare Nato Dynamic Manta, l'Isola rimane a fare i conti con le ordinarie e insostenibili esercitazioni a fuoco delle forze armate italiane. Notevoli danni ambientali denunciati dalle associazioni Mare Amico, Mare Vivo e Legambiente. Giunta la primavera, mentre la marina militare si addestra nelle acque dello Ionio e del Mediterraneo Centrale, ad occupare vasti spazi terrestri ci pensano le intense attività belliche della brigata meccanizzata “Aosta”. Con l’utilizzo di armi portatili e di reparto, artiglieria pesante, bombe a mano e mortai, questa unità dell’esercito italiano impegna – contemporaneamente almeno quattro poligoni di tiro siciliani: “San Matteo” in territorio di Erice (Trapani), “Santa Barbara” nei comuni di Tripi e Novara di Sicilia (Messina), “Drasy” tra la riva di levante del fiume Naro e Punta Bianca (Agrigento) e “Masseria dei Cippi” nelle campagne di Montelepre (Palermo). Sono aree di grande valore naturalistico, archeologico ed

etnoantropologico, da decenni soggette a servitù militare e seriamente minacciate nella loro sopravvivenza. Esemplare è il caso di Drasy: un poligono che si trova a due passi dalla Valle dei Templi (patrimonio Unesco) e comprende

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un’incantevole fascia costiera in attesa del riconoscimento come riserva naturale orientata, dopo la dichiarazione di “notevole interesse pubblico” emanata dalla Regione Siciliana nel 2001. Questo, però, non è bastato a porre fine ai continui bombardamenti dei carrarmati, da terra verso il mare, che stanno provocando l’inesorabile crollo della falesia di Punta Bianca e un probabile inquinamento del suolo e delle acque. Nell’oasi dell’Agrigentino, il 29 aprile si concluderà il primo quadrimestre di esercitazioni condotte sotto la direzione del Comando militare Autonomo di Sicilia. Da gennaio, al netto delle festività, fanno 90 giorni consecutivi – dalle ore 8 alle ore 17 - di addestramento a fuoco. Dopo la pausa estiva, si tornerà a sparare in autunno. In totale sono circa 8 mesi all’anno di


Guerra all’ambiente esercitazioni, senza contare i war games svolti nello stesso luogo dalle forze armate statunitensi. Un calendario serrato che si ripete da oltre 60 anni, nonostante i danni ambientali denunciati dalle associazioni Mare Amico, Mare Vivo e Legambiente. Proprio quest’ultima, in una memoria depositata presso la Commissione Difesa della Camera dei Deputati, ha chiesto che «si ponga fine allo svolgimento di queste attività che nulla hanno a che fare con le finalità di un’area protetta, ma rappresentano un anacronistico e pericoloso utilizzo del nostro territorio in barba a leggi e regolamenti nazionali e direttive europee e internazionali, che nemmeno i Comitati Misti Paritetici tra Forze Armate e le singole Regioni sono stati in grado di garantire». Un destino analogo è toccato anche al parco naturale di San Matteo. Un’area inclusa nel sito d’importanza comunitaria (SIC) denominato “Monte San Giuliano”, appartenente alla Rete Natura 2000, eppure inspiegabilmente adibita a poligono militare “occasionale”. Nel settembre dello scorso anno, dopo un’inchiesta del quotidiano MeridioNews, la vicenda è finalmente approdata sul tavolo del Ministero della Difesa, attraverso un’interrogazione parlamentare firmata dal senatore Vincenzo Maurizio Santangelo (M5S). TANTO RUMORE PER NULLA! Senonché «a detta dello stesso ministero, tutto è nella regola», ha

riferito qualche giorno fa il senatore Santangelo al termine di un’apposita audizione in Commissione Difesa. Il risultato è che, anche per quest’anno, le esercitazioni di tiro andranno avanti in aperta violazione delle direttive comunitarie, in assenza di una valutazione d’impatto ambientale (VIA) e nell’ignavia delle istituzioni locali. «Faranno solo un gran rumore, ma nulla di pericoloso» commentava a MeridioNews Salvatore Angelo Catalano, assessore del Comune di Erice e ufficiale dell’esercito. Non vanno meglio le cose sul versante nord-orientale della Sicilia, nel Messinese, dove l’esercito testa i lanciarazzi anticarro “Panzerfaust 3”, tecnologia di produzione tedesca che ha rimpiazzato i vecchi bazooka. A soli tre chilometri dal borgo collinare di Tripi, in località Santa Barbara, «i militari sparano nella direzione di una grande roccia e il rumore si avverte sino

in paese», confermano dall’ufficio tecnico comunale. Le sessioni di tiro coprono l’intero anno – mesi estivi compresi - e si svolgono proprio a ridosso dell’alveo del Torrente Mazzarrà, a poca distanza dalla riserva naturale di “San Cono-Casale-Carnena”. Un’oasi regionale istituita per offrire protezione e rifugio agli animali selvatici, per i quali la presenza di un poligono, con il suo forte impatto acustico e per Casablanca 21

l'ecosistema, non può che rappresentare un pesante deterrente. Sul monitoraggio degli effetti ambientali di queste esercitazioni, in effetti, le autorità civili non sembrano particolarmente vigili. Come nel caso del poligono “Masseria dei Cippi”, alla periferia del Comune di Montelepre in provincia di Palermo. «E’ una zona di campagna, a poche centinaia di metri dai pascoli, che insiste sopra una falda acquifera» spiega Giacomo Maniaci, giornalista del quotidiano MontelepreWeb. A sparare in questo poligono, accanto ai reggimenti dell’esercito, si recano il corpo forestale, l’XI reparto mobile della polizia di Stato, carabinieri, guardia di finanza e polizia scientifica. «Il rischio è che a lungo andare queste attività possano avere degli effetti negativi sull’acqua del pozzo Cippi, principale fonte di approvvigionamento idrico di Montelepre», sottolinea il giornalista. «Per il momento le analisi sul pozzo sono perfette, ma i controlli sul terreno non spettano al Comune», afferma Maria Rita Crisci, sindaca di Montelepre eletta col sostegno del Partito Democratico, poco più di un anno fa, dopo lo scioglimento del consiglio comunale per mafia avvenuto nel marzo 2014. «Tutti gli anni chiediamo contezza dei prelievi effettuati dall’assessorato regionale – aggiunge la sindaca – Per il momento non sono in possesso di dati da cui desumere motivi di allarme, ma mi riservo di approfondire con i miei uffici». Da tempo però, secondo Maniaci, «sulla questione si fa troppo silenzio, a causa del disinteresse delle istituzioni e degli stessi cittadini».


Frontex attacca operatori umanitari

Frontex attacca Operatori Umanitari Perché? Prestano soccorso in mare Fulvio Vassallo – Associazione Diritti e Frontiere Avete salvato migranti in mare? Colpevoli! Avete contribuito ad infestare le nostre città. Mare Nostrum finì così in mille polemiche e sotto accuse. Ovviamente Mare Nostrum non era la soluzione… ma non era la causa dell'aumento degli sbarchi sulle nostre coste. Per le Organizzazioni non governative la precedenza assoluta in mare è salvare le vite umane. Un proposito e una pratica che non aggrada ai vertici di Frontex, che da alcuni anni vanno all’attacco di dette organizzazioni. Un atteggiamento che si è attenuato per un brevissimo periodo nel 2015, dopo le stragi più terribili che sono costate migliaia di vittime nel Mediterraneo, in particolare sulle rotte Libia-Italia. Oggi l'Agenzia è super attrezzata per respingimenti e, in generale, per tutte le operazioni di mare: 26 elicotteri, 22 aerei, 113 navi, attrezzature radar. Insomma Frontex potrà rendere il viaggio dei disperati ancora più pericoloso. Tutti possono ricordare in quale clima l’Italia fu costretta a chiudere l’operazione Mare Nostrum nel 2014, e quante accuse furono rivolte ai vertici militari italiani, “colpevoli” di avere salvato troppe vite umane in mare e di avere “contribuito” ad un aumento degli arrivi in Europa, di migranti in fuga dalla Libia, quasi tutti migranti in transito, generalmente esposti ad abusi di ogni genere e, nel caso delle donne, a stupri sistematici.

Basti ricordare i voli di rimpatrio finanziati da Frontex, a partire dal 17 settembre del 2015, che hanno riportato in Nigeria decine di quelle donne. Con una pesante complicità tra autorità italiane e vertici di Frontex, che ha stipulato da tempo accordi diretti con la Nigeria. Ovviamente, nessun intervento di ricerca e soccorso può ridurre drasticamente il numero delle vittime quando si permette, in un territorio come la Libia nordoccidentale, alle milizie colluse con i trafficanti di far partire, dallo stesso tratto di costa, anche venti gommoni

Sul fronte dei diritti umani non si può dire che Frontex ci abbia messo molta attenzione, comprensione e delicatezza. Casablanca 22


Frontex attacca operatori umanitari contemporaneamente, carichi di 4.000-5.000 persone. Tuttavia, la presenza delle navi di soccorso europee, siano esse civili o militari, nelle acque internazionali, a ridosso delle acque territoriali libiche, può incidere sensibilmente sul numero delle vittime, morti e dispersi, che si è costretti a registrare ormai con cadenza quasi giornaliera, nell’indifferenza dei media e dell’opinione pubblica europea. Se oggi in Libia la situazione è quella di uno scontro militare interno, si dovrebbero ricercare bene le responsabilità europee, anche per evitare ulteriori scelte disastrose sul piano politicomilitare e devastanti sotto il profilo umanitario. Ma Bruxelles e Varsavia (sede di Frontex) la pensano diversamente. Si continua a lavorare solo per ridurre le partenze dalla Libia, aumentando i canali di finanziamento (ed i mezzi di intervento) delle autorità di un paese che non rispetta neppure la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Inoltre, l’opinione prevalente ritiene che si possano delegare alle milizie, già responsabili di innumerevoli abusi, compiti sempre maggiori di arresto a terra e di blocco nelle acque territoriali,

magari allontanando le navi europee, altrimenti costrette ad intervenire in operazioni di ricerca e salvataggio (SAR) sotto il coordinamento della Guardia Costiera italiana. ITALIANI: BRAVA GENTE Basti ricordare che, a differenza di Frontex, la Guardia Costiera italiana, prima di indagare su chi effettua le chiamate di soccorso, se i mezzi in difficoltà sono localizzati con la necessaria precisione, avvia immediatamente le attività di ricerca e salvataggio. E magari riesce ad intervenire, con il concorso delle navi civili umanitarie, prima che siano le milizie libiche a riprendersi i migranti o prima che questi possano naufragare. Chi non muore in mare e viene riportato in Libia va incontro a terribili abusi, ancora più gravi nel caso delle donne e dei minori non accompagnati. È dimostrato che, dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum, quando l’Operazione Triton di Frontex venne limitata alle 35 miglia a sud di Malta e Lampedusa, il numero delle vittime aumentò in modo esponenziale, anche perché, in assenza di altri mezzi di soccorso, le autorità italiane, di fatto responsabili anche delle zone SAR (Search and Rescue) maltese e libica, venivano costrette a chiamare in soccorso navi commerciali, come petroliere e portacontainer, del tutto prive non solo di e strutture apposite per il salvataggio, ma anche di un semplice salvagente. Immagini agghiaccianti, presto rimosse dalla memoria collettiva, confermano il ribaltamento di Casablanca 23

gommoni proprio quando la salvezza sembrava ormai raggiunta, sottobordo alle grandi navi commerciali, nella ressa per conquistare un gradino delle esili scalette gettate lungo le fiancate per fare arrampicare i naufraghi. Per i più deboli il destino era segnato. E infatti la strage più terribile che mai si ricordi in Mediterraneo, il 18 aprile del 2015, fu dovuta alla collisione tra una nave commerciale ed un barcone carico di migranti proprio mentre erano in corso attività di soccorso, a ridosso della nave soccorritrice. Nessuna Convenzione internazionale prescrive il porto più vicino come place of safety per lo sbarco dei naufraghi. Sarebbe tempo che cessasse la campagna diffamatoria contro le organizzazioni umanitarie e si chiarisse che gli unici porti di sbarco sono stabiliti dalle autorità che coordinano i soccorsi, dunque dalla Guardia Costiera italiana. La Libia come la Tunisia o Malta non sono porti sicuri anche se più vicini, perché le prassi di polizia applicata dopo gli sbarchi continuano a violare i diritti fondamentali della persona migrante e non garantiscono a tutti un accesso effettivo alle procedure di asilo.


Nuovi Femminismi

Se non valgo non produco Io l’

,

Lotto

Dafne Anastasi

8 tavoli tematici per 8 prospettive: gli albori degli 8 punti per l'8 marzo. Immagini mozzafiato. Emozionanti. Migliaia di donne tinte di nero e fucsia hanno colorato le piazze e le strade. Chi ha un velo da sposa rigorosamente fucsia, chi indossa parrucche o una ciocca di capelli colorata con la bomboletta spray. Uno sfolgorio di colore. Abbiamo tolto l’apostrofo per riappropriarci della vera essenza dell’otto marzo, una giornata di lotta e di orgoglio. Perché uno sciopero globale l’otto marzo? Per mostrare il ruolo, il valore e il peso specifico tramite la privazione di ciò che ogni giorno le donne portano avanti. A Milano, come quasi in tutte le altre città, la giornata dell'8 marzo è stata caratterizzata dal simbolismo delle azioni, dalla sincronia delle rivendicazioni del mondo studentesco e del lavoro e dalla componente infragenerazionale. Vedere tutte quelle ragazzine è stato una boccata di ossigeno per tutte. Fra le rivendicazioni il diritto all’aborto, la ribellione contro ogni forma di violenza, un welfare a partire dai bisogni delle donne, la necessità di "fare spazio ai femminismi". Vecchi e nuovi. Il femminismo riparte da qui. In principio fu la chiamata internazionale: l'urlo di dolore delle donne argentine dopo l'ennesimo, violentissimo femminicidio. Un dolore che non poteva rimanere sordo e che ha avuto la potenza immediata di propagarsi come una marea montante in tutto il mondo. Una risposta globale per un dolore globale. In Italia, la marea montante ha cominciato a fluttuare in un sabato romano di fine novembre: in 200.000 abbiamo percorso le strade della capitale, unite all’insegna de «le strade libere le fanno le donne che le attraversano». Subito dopo la piazza, la creazione condivisa. Abbiamo cominciato a organizzarci, già dal giorno dopo, all'Università La Sapienza. 8 tavoli

tematici per 8 prospettive: gli albori degli 8 punti per l'8 marzo che andranno poi a confluire nel piano femminista dal basso contro la violenza. Tavolo tecnicolegislativo - Lavoro e Welfare - Diritto alla salute sessuale e riproduttiva Misure di fuoriuscita dalla violenza - Educazione e formazione - Femminismo e migrazioni - Narrazione della violenza attraverso i media Sessismo nei movimenti. Quella domenica di fine novembre, mista tra emozioni e presa di coscienza collettiva, ci siamo lasciate con l'impegno di continuare, ciascuna nella sua città, ciascuna con la sua prospettiva, ciascuna con la sua Casablanca 24

sensibilità e il suo coraggio. Poi abbiamo continuato a incontrarci nei percorsi territoriali di diverse città d'Italia, con l'obiettivo di ricominciare ad ascoltarci e ragionare tutte insieme su quelle 8 prospettive, di far diventare la giornata dell'8 marzo una giornata di riappropriazione che cacciasse via la retorica ormai insopportabile della festa.


Nuovi Femminismi campagne governative quale può essere la via praticabile all'emancipazione reale? Se i primi a fare gli screening sulle abitudini private di una donna sono gli avvocati di un processo per stupro, come si potrà mai riuscire a estirpare le radici della violenza culturale?

In migliaia a Bologna ci siamo incontrate nuovamente ai primi di febbraio all'università, ancora una volta dentro un luogo del sapere intriso di energia giovanile. Da lì siamo uscite ancora più forti e consapevoli che la marea montante non era solo onda emotiva, ma anche onda di immaginari, prese di posizione contro i provvedimenti in materia di lavoro e Stato sociale, rivendicazione di proposte reali. Proposte reali che analizzano la condizione femminile nella sua interezza: se una donna nella società non gode di piena autonomia economica, viene relegata a un welfare domestico, è la prima cavia del precariato, è spinta al part time involontario, perde o non trova il posto di lavoro per la sua gravidanza, è pagata poco e male, non ha reddito, come potrà mai affrancarsi da un percorso di violenza? Se i primi a metterla nella condizione di vivere dentro l'eterno stereotipo duale della madre perfetta e della puttana che se l'è cercata sono i media e se i primi a farle sentire sulla pelle il fallimento per la mancata maternità sono le

Se non si parte dallo Stato e dalle Convenzioni internazionali che non attua, o dalle misure di sostegno per la fuoriuscita dalla violenza che non prevede o dall'assenza di formazione specializzata per giudici, operatori sociali e sanitari, forze di polizia, come si potrà intercettare il seme della violenza prima della sua esplosione? «Non è più tempo di leggere la lotta contro la violenza sulle donne nei termini di una battaglia esclusivamente culturale o emancipatoria…». Consapevoli di questa chiave di lettura abbiamo proclamato lo sciopero generale «se non valgo, non produco» per rivendicare la congiunzione imprescindibile tra i diritti civili (libertà, autodeterminazione, laicità, identità, uguaglianza) e i diritti sociali, senza i quali i primi non trovano espressione concreta: il welfare pubblico e accessibile, il servizio pubblico, il reddito di autodeterminazione, il diritto all'abitare, la parità salariale, la formazione, la tutela contro i ricatti sul posto di lavoro, le misure di sostegno per la fuoriuscita dalla violenza. RAPPER, RIVENDICAZIONI, RIVOLUZIONE A Milano la giornata dell'8 marzo Casablanca 25

è stata caratterizzata dal simbolismo delle azioni e delle denunce, dalla componente infragenerazionale e dalla sincronia delle rivendicazioni del mondo studentesco e del lavoro. La composizione di quella giornata era assolutamente meravigliosa. C’era un enorme numero di ragazze giovanissime dei collettivi universitari, insieme ad una componente di lavoratrici e di lavoratori, di femministe storiche e di semplici donne ribelli. Dopo aver srotolato dalla statua di Cairoli gli 8 punti per l'8 marzo, è partito il corteo, poi snodatosi per la città attraverso diverse azioni simboliche e soste davanti ad alcuni “simboli” fra i quali: Zara, ovvero il mondo della moda, che di fatto rappresenta il modo in cui si propongono dei modelli di perfezione tanto falsi quanto stereotipanti. Davanti al consolato curdo per ricordare l’enorme ruolo che in questo momento hanno le donne curde nel contrasto al regime di Erdogan, che combattono ogni giorno contro un sistema patriarcale, un sistema che le vede come soggetti posti in quasi clandestinità ormai. Davanti al consultorio in via Santo Stefano si è urlato lo slogan: «via la chiesa dalle nostre mutande». Chiesti a gran voce i consultori laici, dove appunto vi sia la possibilità di non subire restrizioni in forma cattolicizzata (abbastanza diffusa anche nel


Nuovi Femminismi dimostrazione che Non una di meno parla il linguaggio universale e non conosce gli steccati delle frontiere!

servizio pubblico). Dentro al Fatebenefratelli per denunciare lo svuotamento della legge 194 e per

fatto che non vi sia un numero unico di prenotazione del servizio, né una mappa delle sedi che si

chiedere l’abolizione dell’obiezione di coscienza negli ospedali pubblici. Infine al palazzo della Regione Lombardia, che si caratterizza proprio per una serie di peculiarità: tipo la presenza della cosiddetta “obiezione di coscienza di struttura”, secondo la quale i consultori familiari privati possono escludere dalle prestazioni quelle previste per l’interruzione volontaria della gravidanza; o il

oppongono all’interruzione. Quindi, di fatto, le donne devono fare un ping pong per tutta la regione. Molto presente negli slogan il simbolismo legato alla Chiesa e alla sua considerazione della donna. Durante il corteo abbiamo avuto anche il piacere di avere una rapper boliviana fantastica, che ha intonato per noi una canzone internazionalista e femminista a Casablanca 26

Il corteo serale, invece, è partito dal Pirellone, luogo simbolo di denuncia dell'obiezione di coscienza di struttura e delle politiche restrittive che arrivano a mettere a repentaglio la stessa salute delle donne. Da lì, dopo il rito di Ana-suromai siamo ripartite e abbiamo reinventato la toponomastica milanese, dedicando le strade alle tantissime donne dimenticate dalla storia: da Alda Merini a Rosa Parks, passando dalle prime streghe finite al rogo a Berta Caceres e alle vittime del caporalato. Insieme a noi tanti uomini e spezzoni di migranti. Rivendichiamo la pratica dello sciopero come strumento di lotta attuale, necessario e trasparente. Riteniamo che lo sciopero per essere reale e non puramente estetico non può che mutare la fisionomia delle città e dei posti di lavoro, per cui chi evidenzia l'aspetto divisivo del disagio, sganciandolo dalla sua funzione connaturata, fa il gioco della guerra tra poveri. Lo sciopero deve causare disagio. Praticarlo l’8 marzo non cambia. La retorica dell’8 marzo come festa o come giornata di protesta e basta, non vale. Vale come percorso di costruzione. Già calendarizzati gli incontri a Milano, per discutere in particolare di lavoro e welfare fino alla prossima marea; a Roma, poco prima della Festa di Liberazione: il 22 e il 23 aprile. Il piano femminista contro la violenza deve ancora vedere la sua luce, Lotto marzo era solo l'inizio, gli abbiamo solo tolto l'apostrofo e abbiamo vissuto una giornata indimenticabile dove la parola più gridata in piazza era rivoluzione.


Via Zamboni, 36

Via Zamboni, 36 Brunella Lottero Bologna. Il 9 febbraio scorso la biblioteca di via Zamboni 36 – luogo simbolo e di studio - è stata occupata. Gli studenti intorno alle ore 12 sono entrati da una porta laterale e si sono messi a studiare. Tutto in perfetto ordine. Alle 5 è arrivata la celere, in tenuta antisommossa. Ha picchiato chiunque fosse sulla sua strada, ha sfasciato libri, zaini. Ha lanciato sedie addosso agli studenti. Come se nessuno volesse tener presente la vera e antica natura di questa biblioteca, punto di riferimento sociale e culturale. Luogo di aggregazione e anche di autogestione. Una immagine che è stata costruita negli anni lotta dopo lotta. Una situazione abbastanza accolta e protetta sotto le due Torri. Gli studenti universitari dove e con chi e devono parlare delle loro esigenze? Dei loro sogni e dei loro progetti? Dove è finita la Bologna Città Aperta? La città dell’ascolto e dell’abbraccio collettivo? Nel secolo scorso io studiavo a Bologna al 36. La biblioteca era aperta a tutte le ore, ci entrava chiunque volesse studiare, sia che fosse uno studente dell’università di Bologna, sia che non lo fosse. Era uno spazio autogestito dove tutti studiavano in silenzio. Per noi studenti era come varcare la porta della conoscenza. Al 36 abbiamo imparato un’idea di democrazia e di pensiero. Abbiamo praticato il diritto allo studio indiscriminato, abbiamo dato spazio al “noi” come soggetto di gestione di beni comuni, di spazi e di ricerca di identità. Bologna era un abbraccio accogliente per chi arrivava da altri paesi a studiare nella sua prestigiosa università. Oggi Bologna è una città che sta morendo dietro ai recinti e ai tornelli che invece di accogliere,

respinge gli studenti che sono il nostro futuro. Picchiare, zittire o peggio ancora ignorare le proteste degli studenti sembrerebbe la parola d’ordine. Recentemente, Bologna è stata al centro del dibattito pubblico nazionale. Per giorni e giorni da una parte gli studenti dell’università di Bologna, i loro collettivi, il loro diritto allo studio, dall’altra la stampa che prima ignora i fatti, poi riduce la questione ai tornelli sì, tornelli no all’entrata della biblioteca di Lettere e Filosofia in via Zamboni 36. Poi il primo attacco mediatico con l’intervista sulla prima pagina del Corriere alla studentessa dell’università aderente al Pd che, in nome della biblioteca, ormai Casablanca 27

luogo degradato dove ne succedono di tutti i colori, difende la linea dura del Rettore che lo scorso giovedì 9 febbraio ha mandato la polizia alla biblioteca di via Zamboni 36. Il pomeriggio di studio e pace di quel giovedì si è trasformato in un terribile pomeriggio di guerra: gli studenti sono stati picchiati con violenza inaudita. «Siamo entrati giovedì verso mezzogiorno da una porta secondaria. – racconta uno di loro – Siamo consapevoli di ciò che abbiamo fatto e ci comportiamo bene. Siamo tranquilli. Ci mettiamo a studiare. La celere arriva alle 5, chi era sulla porta viene subito manganellato e cazzottato. I carabinieri hanno una


Via Zamboni, 36 foga e una rabbia da far rabbrividire, tirano sedie addosso agli studenti, devastano libri e tutto quello che incontrano, manganellano chiunque gli sia vicino. Zaini buttati a terra, mensole e sedie ribaltate, antitaccheggio per i libri distrutto». Gli studenti scappano nella sala studio e poi escono in strada… al 38 di Via Zamboni ed è il finimondo: esplode la rabbia reciproca… Genova, la scuola Diaz non hanno insegnato nulla, sembrano paurosamente vicine. Le grandi testate e le grandi firme, al posto dei fatti inauditi, hanno commentato il grave episodio riesumando il lontano ’77 a Bologna, dove, per la cronaca, nemmeno l'allora ministro dell’interno Cossiga aveva osato tanto. In via Zamboni 36 preferì mandare come si disse allora i carri armati. Dei mezzi blindati per intimidire gli studenti, confessò lo stesso allora ministro Cossiga che conquistò la K sul campo: Kossiga.

«La zona universitaria è problematica – racconta Morgan, 24 anni studente di storia che il 9 febbraio scorso era presente – gli affitti in centro storico non sono certo per noi studenti. Il sindaco Merola e il questore Coccia sembra che abbiano deciso di comune accordo col Rettore Francesco Ubertini che la colpa del degrado di questa città sia solo degli studenti. Chi non rientra in certi parametri di decoro, chi prova ad opporsi, viene allontanato». Ed ecco l’idea di altri tornelli al 32, 36, 38 di via Zamboni. E vorrebbero mettere i tornelli anche alla biblioteca comunale della Sala Borsa. SIMBOLI, IDEOLOGIE E PREGIUDIZI «Il tornello quale simbolo di un sapere riservato a pochi. – è sempre Morgan che parla e aggiunge – La biblioteca di via Zamboni 36, in piena zona

Ora il procuratore capo Giuseppe Amato sta valutando le associazioni degli studenti che organizzano le manifestazioni. Secondo lui, queste manifestazioni non sarebbero spontanee e naturali ma nasconderebbero un disegno. Bologna sta vivendo una trasformazione, raccontano in tanti. E in nome del controllo e della sicurezza si militarizzano i quartieri, peggio, e ci sono state guardie armate che giravano per l’università.

universitaria, che è una zona problematica e ricca di contraddizioni, è un luogo aggregativo e gli studenti che la attraversano, che passano lì il loro tempo per studiare, sanno valorizzare da soli il concetto di sicurezza. La questione sicurezza è legata alla zona universitaria, degradata, dove si tocca con mano l’abbandono delle politiche di welfare municipale e di assistenza sociale. Ma il controllo in nome della sicurezza è partito da tempo, dal 23 gennaio scorso... Io frequento normalmente la biblioteca di via Zamboni 36, che può contenere 28 studenti, ma durante la giornata ne transitano centinaia e centinaia e non ho mai visto né pericoli né ho provato mai paura –conclude Morgan». È vero, alcune di queste persone usano i bagni del 36 per lavarsi, compreso alcuni tossicodipendenti. Ma questo non sarebbe la dimostrazione del fatto che le politiche statali hanno pesantemente tagliato la spesa sociale, l’assistenza alle cosiddette “vite di scarto”? Qualche episodio accaduto in passato ha dimostrato che tornelli, barriere di vetro, dispositivi di controllo elettronico e telecamere non controllano ben poco quando il pericolo è legato allo studente munito di badge. «Gli spazi universitari – secondo Morgan – sono alternativi al modello istituzionale ma l’’occupazione in via Zamboni 36 non è spuntata dal nulla, gli studenti avevano protestato e avanzato proposte. Dopo decine di giorni di protesta e di assemblee per far aprire le porte della biblioteca, hanno raccolto 600 firme e le hanno portato alla

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Via Zamboni, 36 prorettrice ma nessuna risposta, poi un comunicato che diceva pressappoco si fa come vuole il Rettore. Fine della discussione. Quindi l’assemblea e la decisione di smontare i tornelli. Subito dopo il Rettore fa ri-chiudere la biblioteca. «Quando leggo sui giornali le dichiarazioni del prorettore vicario Mirko Degli Esposti, che a proposito di questo grave episodio afferma: abbiamo perso tutti, penso che invece siano stati il rettore e tutti loro a perdere una buona ed importante occasione di ascolto. Con noi studenti, è palese, loro non vogliono né dialogare né ascoltare, eppure noi vogliamo solo avere il diritto sacrosanto allo studio». Ma non è paradossale voler mettere i tornelli in una università pubblica? Qual è il senso? Bologna ha 85 mila studenti che vivono qui o vivono fuori sede, per tutti vale lo stesso diritto di studiare e di accedere alle biblioteche laddove si sta insieme e si può studiare collettivamente. Secondo qualcuno il Rettore, che si è insediato nel 2015, non è nuovo ad iniziative che, secondo gli studenti, sarebbero delle provocazioni. Qualche esempio: prima delle elezioni comunali a Bologna ha invitato e abbracciato pubblicamente e affettuosamente nell’aula di Ingegneria Matteo

Salvini, lo stesso che, per la cronaca, ha definito gli studenti che protestano: zecche da uccidere con l’insetticida e i manganelli. Lo scorso autunno ha fatto schierare per un mese le camionette della polizia davanti alla mensa universitaria dove, da tre anni, è in corso una lotta per il prezzo calmierato del buono mensa. Insomma un Rettore che sembra mite e dialogante, ma che nei fatti si comporterebbe in tutt’altro modo. Intanto è stato rispolverato il famoso ’77 Bolognese e lo si è paragonato con questi ultimi episodi del 2017 a Bologna. «Io sono uno studente di storia e lo trovo insensato perché questo paragone non considera il salto generazionale, le condizioni

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sociali mutate e soprattutto lo sguardo differente di noi studenti oggi rispetto a quelli di ieri. – spiega con molta calma Morgan – Si è detto anche che i lavoratori dell’università di Bologna ora sono spaventati e scontenti. Ma con un suo comunicato lungo e complesso la Cgil invita “l’Università di Bologna – a partire dal suo Rettore – a riflettere, ripartendo innanzitutto dal coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori interessati, che già hanno avuto modo di dimostrare una reale conoscenza delle dinamiche che interessano le strutture nelle quali svolgono il proprio servizio, e di poter partecipare, se adeguatamente ascoltati, all’individuazione di soluzioni maggiormente condivise e rispondenti allo spirito dell’Università” ». «Noi studenti abbiamo ottimi rapporti con il personale dell’università Noi vorremmo dare al nostro diritto allo studio il valore sociale che si merita.». NdA. Per completare l’articolo, abbiamo cercato Emilia Garutti, la studentessa dell’università di Bologna che ha rilasciato l’intervista al Corriere della Sera sopra citata. La signorina Garutti però non ci ha mai risposto.


STEFANACONI al tempo di Elisabetta Carullo

Sindaca Antimafia? Troppo Riduttivo Franca Fortunato STEFANACONI è un paesino dell’entroterra calabrese che conta circa 2500 abitanti. Posta nella valle del fiume Mesima, un tempo era ricco di uliveti e frutteti. Nel tempo della mia infanzia, era un paesino sereno e tranquillo, le donne ogni giorno partivano a piedi per raggiungere il mercato cittadino di Vibo Valentia, mia città nativa, distante due km. Ho avuto la fortuna di abitare sulla strada che dovevano attraversare per arrivare al mercato, poco distante da casa mia. Le vedo ancora passare con le loro ceste sulla testa piene di frutta, di verdure e di forme di pane; le vedo procedere dritte e altere, con quella fierezza tutta contadina che ho conosciuto anche in mia nonna. Ogni settimana una di loro si fermava ed entrava in casa per venderci “il pane di Stefanaconi”. Un ricordo dolce il mio, legato al profumo e alla bontà di quel pane casareccio, e all’idea che quelle donne mi trasmettevano di un paesino tranquillo e sereno. Questa Stefanaconi l’ho ri-trovata nel racconto che Elisabetta Carullo ne fa, parlando della sua esperienza di sindaca dal 1994 al 2002, nel libro di Renate Siebert, sociologa e docente dell’università della Calabria, Storia di Elisabetta - Il coraggio di una donna sindaco in Calabria, scritto nel 2001.

È lei, con le sue parole, che mi ha svelato da dove veniva quella serenità e tranquillità, che pur sapevo esserci. Per lunghi anni, dal secondo dopoguerra alla metà degli anni settanta, le donne, come la nonna di Elisabetta, avevano vissuto da sole in paese, allevando i figli e le figlie, dopo che gli uomini erano emigrati in Nord America, Australia, Argentina, Germania e Svizzera, in cerca di lavoro. Le donne avevano assicurato per anni la civiltà del vivere dentro un ordine materno.

al portone di casa, e il suo amico Giuseppe Farfaglia, ucciso mentre mangiava la pizza con altri amici. La gente ha paura a uscire da casa, alcuni vanno via dal paese.

Tutto cambia quando tornano gli uomini e alcuni di loro pensano di investire i soldi guadagnati, nel traffico di droga, stringendo rapporti con le cosche di Gioia Tauro.

Nello stesso anno (1990), per la prima volta, viene sciolto il Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose. Nelle elezioni successive viene eletto il medesimo sindaco, esponente del Psi. Dopo pochi mesi anche questa amministrazione viene sciolta per ineleggibilità del sindaco a causa di una precedente condanna per truffa. È in questo contesto che Elisabetta, ventisettenne appena laureata, piena di rabbia e voglia di fare accetta la proposta di un gruppo di giovani della Proloco di candidarsi a sindaca alle elezioni del 1994.

Stefanaconi, da paese sereno e tranquillo, diventa un paese dominato dalla paura e dall’oppressione mafiosa.

La risposta della ‘ndrangheta è immediata: attentati,

L’attività mafiosa, dopo una fase embrionale, comincia a crescere e si consolida negli anni ottanta, raggiungendo il culmine all’inizio dei novanta. Nel giro di quindici giorni vengono ammazzati due ragazzi di vent’anni, Vincenzo Franzè, cugino di Elisabetta, ucciso davanti

minacce, intimidazioni, calunnie…

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STEFANACONI al tempo di Elisabetta Carullo Si cerca di fermare, lei e i suoi sostenitori, già prima della presentazione della lista. Lei denuncia gli atti criminosi alle forze dell’ordine e alla popolazione, e ben presto nasce il “caso Stefanaconi”. Arriva l’esercito, Elisabetta viene messa sottoscorta per un breve periodo, arrivano stampa e tv, nazionale e internazionale. La maggioranza della popolazione è con Elisabetta. Molti mafiosi sono stati arrestati e altri rinviati a giudizio. Tutto bene dunque? Solo per un periodo di tempo. MAFIOSI, AFFILIATI E AMICI DEGLI AMICI Ben presto, come succederà ad altre venute dopo lei, sarà accusata di protagonismo, di arroganza, di autoritarismo da parte di donne e uomini della sua stessa maggioranza. Malintesi, difficoltà di relazione, rotture, allontanamenti e veri e propri tradimenti renderanno difficile l’amministrare per Elisabetta, che, nonostante tutto, resisterà fino alla fine della legislatura. Nel 1998 si candida per la seconda volta e, nonostante il clima di grande ostilità, la popolazione di Stefanaconi la riconferma sindaca. «Ci siamo trovati ad avere contro tutti i mafiosi, tutti coloro che avevano una mentalità mafiosa, che avevano ricevuto favori dai mafiosi, tutti i parenti dei mafiosi e gli amici dei mafiosi, i compari che avevano battezzato e cresimato mezzo paese. Avevo contro anche tanti che prima erano con me e con i quali avevo vinto le prime elezioni – racconterà successivamente». Rieletta, porterà a compimento il Progetto per Stefanaconi, nono-

stante attraversi un momento difficile della sua vita di donna. Dopo una settimana dal parto, muore la creatura nata poco dopo la sua elezione. Durante il suo mandato, nonostante le amarezze e i malumori, i periodi negativi e le maldicenze, il lungo periodo è stato costellato da tante soddisfazioni. Il volto del paese è cambiato. Il piccolo centro ha fatto un balzo in avanti. La sua amministrazione ha realizzato piazze, case popolari, strade, biblioteche, palazzetto dello sport, rete idrica e fognaria, verde attrezzato, metanizzazione, lavori di difesa del territorio. Per il comune ha acquistato un edificio liberty e un palazzo storico, Palazzo Carullo, inaugurato nel 2001 la villa comunale, “Villa Elena – il giardino della cultura” aperto a mostre, concerti, rappresentazioni e corsi teatrali. Nel 1996, infine, ha siglato un gemellaggio con il Comune di Sesto Fiorentino. Gli anni della sua amministrazione sono stati anni di grande fervore culturale, sociale e politico, un impegno che ha tolto il piccolo borgo calabrese dall’isolamento e da una condizione di ripiegamento su se stesso a cui i mafiosi avrebbero voluto condannarlo, per poter continuare a dominare con la paura e la violenza. Alla fine del suo secondo mandato, nel 2002, Elisabetta decide di non ricandidarsi e si trasferisce con la famiglia in Toscana, a Prato, dopo aver sostenuto nella campagna elettorale il candidato eletto a sindaco: uno dei ragazzi del gruppo con cui aveva iniziato quell’avventura e che le era rimasto sempre vicino. Nel 2009, il Presidente della Repubblica le assegna il titolo di “ca-

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valiere al merito” per il suo impegno nella lotta contro la ‘ndrangheta quando era sindaca di Stefanaconi. “Sindaca antimafia” è un abito che le sta stretto. Una etichetta con cui lei e altre sindache calabresi, venute dopo di lei, hanno dovuto fare i conti. «Non voglio essere considerata il “sindaco antimafia” – scrisse nel libro –perché credo di aver agito per migliorare la società civile, e lo considero qualcosa che va oltre l’essere contro la mafia. Quando dico che non voglio essere considerata “il sindaco antimafia” non è perché abbia paura di dire che a Stefanaconi c’è la mafia, che non voglio combatterla, ma perché credo che questa sia soltanto una parte del mio impegno, seppur significativa. Perché tutta l’azione amministrativa e politica non può essere definita, nel suo insieme, solo antimafia, sarebbe molto riduttivo». Riduttivo, è il termine giusto.


Sulle orme di Elisabetta

Sulle orme di Elisabetta Franca Fortunato Un giorno mi sono ritrovata tra le mani il libro della Siebert su Elisabetta Carullo. Mentre lo rileggevo ho sentito nascere in me il desiderio di andare a Stefanaconi. Volevo ascoltare la gente, capire, sapere, vedere che cosa, a distanza di tanti anni, fosse rimasto di lei sindaca del paese nella memoria collettiva e nel paese. Sono arrivata una mattina piovosa di febbraio per incontrare, grazie alla mediazione del mio amico Amerigo Fiumara, Nicola Arcella, uno del gruppo dei giovani della Proloco e vicesindaco per pochi mesi nella prima amministrazione Carullo. Alla domanda di quali ricordi conserva di quegli anni, diventa un fiume in piena e con enfasi parla di quella che dice essere stata «la più bella esperienza politica » della sua vita. Parla di Elisabetta chiamandola Maria Luisa e alla mia osservazione risponde che in paese sin da piccola tutti la chiamavano così. Rievoca i vari passaggi dell’inizio di quell’esperienza, dai primi incontri alla Proloco alla vittoria del 1994, le intimidazioni e gli attentati. L’entusiasmo di quei giovani che allora potevano “fantasticare” e “fare voli pindarici”. «Dai primi incontri che abbiamo avuto con Maria Luisa, abbiamo visto che era

una ragazza molto aperta e disponibile, molto preparata, capace. E poi era una donna e questo era un ulteriore segnale di voler cambiare. Quando andavamo nelle case a spiegare il nostro programma e le nostre ragioni vedevamo molto entusiasmo intorno a noi. La gente ci ha dato fiducia». Entrati con emozione nella “Casa del Comune” – dice Arcella – «abbiamo cambiato l’approccio dell’amministrazione comunale, nel senso che il Comune era visto non più come un nemico, la gente si identificava con il Comune».

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Ritorna con la mente a quando ricopriva l’incarico di vicesindaco, da cui si dimise perché «io e Maria Luisa avevamo due caratteri molto forti e ci scontravamo sempre». Anni di grande fermento nonostante scontri e attriti con alcuni di loro, «ma ci tengo a dire che nonostante ciò, nei momenti cruciali siamo stati sempre uniti, almeno fino al 1998. Sono stati gli anni più belli – continua – perché eravamo riusciti a creare entusiasmo, voglia di comunicare, di socializzare ». A Stefanaconi arrivavano personaggi di fama nazionale e internazionale, per dare un contributo e farsi testimoni dell’avventura che si stava vivendo. «Sono stati i miei anni politici più belli. Eravamo riusciti ad aprire una finestra internazionale, parlavamo di Kurdistan, di Tibet, di Chiapas e poi il gemellaggio con Sesto Fiorentino…». E adesso? «Adesso ci siamo fatti risucchiare dalla mentalità paesana, c’è stato un arretramento generale. Qui, per me, oggi non ci sono neppure le condizioni per fare politica, preferisco farla a Vibo Valentia… Ho visto venire meno l’entusiasmo, vuoi perché i problemi erano grossi, vuoi perché


Sulle orme di Elisabetta incominciavano a scarseggiare le risorse finanziarie e i trasferimenti dello Stato. C’è stata anche una svolta, è subentrato il partito, il Pd. Non più una lista civica ma il partito. Pensavamo di fare un salto di qualità, invece non è stato un avanzamento». L’entusiasmo è venuto meno, anche perché parecchi del gruppo iniziale scelse di dedicarsi ad altro, altri si sono persi per strada e qualcuno è partito… Nostalgia? «Checché se ne dica quell’esperienza è stata uno sparti acque e nell’immaginario collettivo delle donne, in particolare, il ricordo di Maria Luisa, “a’ sindachessa” come la

chiamano ancora oggi, è ancora vivo e ne parlano con nostalgia. Ripetono sempre che “l’ultimi lavori risalunu a chij tempi” (gli ultimi lavori risalgono a quei tempi) e li elencano: la pavimentazione, la piazza, la Villa, la biblioteca, Palazzo Carullo, il palazzetto dello sport, e così via». Opere pubbliche, tracce indelebili del passaggio di una “sindachessa” amata e apprezzata dalla sua gente per il suo “carisma”, che oggi «avrebbero bisogno di cura e di manutenzione. Invece, la biblioteca comunale è chiusa, il palasport vive nel degrado e nell’abbandono tanto per fare un esempio ». Arcella è convinto che «i semi che

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abbiamo seminato hanno attecchito sia nei giovani che negli anziani» e si augura «che ci sia a Stefanaconi una nuova Primavera, una nuova fase storica dopo un lungo periodo di stasi ». volontà egemoni di altri e diversi Governi tesi al dominio sul mondo attraverso la corruzione e la violenta repressione di ogni “indisciplina”. Possiamo dunque ripartire da questa sentenza, ma per cortesia nessuno esulti o si fermi sull’orlo dell’indicibile e dell’inconfessabile.


Letture di Frontiera: Dio odia le donne

Dio odia le donne Seconda rassegna nazionale immaginARTE L’abbiamo conosciuta di più e ci siamo affezionati a lei perché Il 4 febbraio del 2005 mentre si trovava in Iraq a Baghdad venne rapita da un gruppo della cosiddetta «resistenza irachena». Un rapimento che ci ha fatto trepidare. Ma Giuliana Sgrena, è famosa soprattutto come storica inviata de “il manifesto”. Una inviata che per seguire i conflitti sanguinosi in Somalia, Palestina, Afghanistan, Algeria si trasferiva in quei paesi soprattutto per indagare cosa sta dietro lo scontro armato: la vita quotidiana di donne e bambini che sono le principali vittime delle guerre moderne. Nel suo percorso ha dedicato particolare attenzione all'islamismo e al suo effetto sulla condizione delle donne. Il libro “dio odiale le donne” Non è il primo che affronta il rapporto difficile fra religione e mondo femminile. Non è il primo ma è Unico nel suo genere. E’ snello, è agile. E’ profondo. E’ molto documentato. Ti dà la possibilità di rintracciare i documenti utilizzati. Soprattutto i testi sacri. Il libro affronta – detto in maniera molto semplice l’integralismo delle religioni monoteiste – L’Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islamismo e mentre tratta questo tema scottante e attuale, ci consegna una Sgrena nella sua totale sensibilità. Umanità. Complessivamente è un libro che non lascia indifferenti, per certi versi è toccante. Commovente. Dal punto di vista informativo prezioso. Una occasione per fare una riflessione e una chiacchierata sul ruolo della donna nelle varie società. La narrazione è fluida, intrecciata di ricordi personali e aneddoti. Riprendendo l’episodio del rapimento Giuliana ci racconta delle cose che non sapevamo o non ricordavamo e che ci mostrano una Giuliana molto diversa da come – allora ce la siamo immaginata o ce l’hanno presentata. Forse per la toccante lettera che mandò al suo compagno? Così come ci dice la stessa Giuliana nella introduzione non è un libro esaustivo, è uno studio, una ricerca che potrebbe essere di grande aiuto in questo momento in cui la crisi dei valori ha raggiunto livelli incredibili. Una crisi dice la Sgrena che forse ha alimentato notevolmente i conflitti molto aspri fra forze estremiste e forze moderate. In ogni caso a piangerne le conseguenze sono sempre le donne. Molto belli e appassionanti i passi in cui l’autrice parla in prima persona e si racconta…. Di quando era credente, di come è arrivata ad essere atea. Una donna atea che è rimasta tale anche nei momenti in cui molti, moltissimi troverebbero facile e di conforto rivolgersi a un dio buono, che fa sperare, che farà giustizia. Una donna atea che affronta la tematica delle religioni con un grande senso laico. Casablanca n. 34


Letture di Frontiera: Patrizia Maltese

«La democrazia è il potere di un popolo informato». Spesso, però, i giornalisti trovano diversi ostacoli nell'esercizio della loro professione: querele, licenziamenti e minacce, velate o manifeste, da parte di editori, potenti e mafiosi sono all'ordine del giorno. Alcuni abbassano la testa e obbediscono, altri decidono di reagire; sono proprio questi ultimi i protagonisti del nostro libro, giornalisti siciliani che, nonostante le pesanti ripercussioni, hanno deciso di non rinunciare alla loro etica e alla loro missione professionale.

Violenza Degenere Un Capolavoro http://www.patriziamaltese.it/ Io non credo che mi abituerò mai, se anche dovessi scrivere centinaia di libri. La gente in fila che ti allunga il volume per fartelo firmare, la seguace feisbucchiana che ti chiede la dedica per sé e un'altra amica e ti ripete venti volte i nomi da scrivere e tu venti volte te li scordi perché nel frattempo altre venti braccia ti hanno allungato il libro da firmare. E ti dispiace, perché può pensare che di lei non t'importi niente mentre in realtà sei stordita perché stai vedendo un film e ti stai chiedendo cosa ci faccia dentro un film una che ti somiglia pari pari. E poi stai conversando con un tuo ex fidanzato, che ti fa un sacco di piacere perché non lo vedevi da quasi dieci anni ed è venuto lì apposta per te ma devi scegliere se interrompere il racconto che vi state facendo oppure mettere il pilota automatico e firmare le copie distrattamente, senza avere il tempo di mettere a fuoco la faccia che leggerà il tuo libro, come una scrittrice consumata. E le foto che manco una diva del cinematografo (che fra l'altro mi imbarazzano e perciò vengo sempre male). E ve lo devo dire: mi sento una stronza che se la tira. Perché io quando scrivo un libro vorrei dargli due braccia per abbracciare gli amici, due occhi per leggere affetto negli occhi che incontrano, due mani per stringere mani sincere; e poi due piedi e un paio di scarpe per farlo camminare da solo. Senza di me e a prescindere da me. Soprattutto se si tratta di un libro come quello - "Violenza degenere" - che ho scritto con la mia amica/collega/nipote (sorella no, ma soltanto perché lei ha la metà dei miei anni) Roberta Fuschi: perché questo libro lo hanno scritto le donne che ci hanno raccontato nei minimi e raccapriccianti dettagli le violenze subite da parte di chi finge di amarle, che ci hanno messo nelle mani le loro vite per evitare che altre donne patiscano ciò che loro hanno patito e per fare sapere ad altre donne che ne possono uscire.Questo libro noi due non lo abbiamo scritto: lo abbiamo trascritto. E le firme sulla prima pagina dovrebbero essere quelle delle donne forti che - sfidando le convenzioni, le ostilità, l'ipocrisia, il giudizio sociale - hanno compiuto il capolavoro di liberarsi da uomini violenti.

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Lettere dalle città di frontiera…

…A proposito di Scuola Rosangela Pesenti In mezzo a tanti professori con tutte le maiuscole e le granitiche certezze da liceo classico sono stata una piccola profe dal percorso anomalo, guardata all'inizio con supponenza e diffidenza perché ragioniera, laureata in filosofia, docente di storia e italiano. Una dei pochi bambini e bambine saliti sulla zattera della scuola media unificata e salvati in extremis dalla liberalizzazione dell'accesso a tutte le facoltà. Ho insegnato a leggere, scrivere e parlare in italiano senza partire mai dalla grammatica che, come sappiamo, è riflessione sulla lingua possibile solo se e quando la lingua prende senso per te e non è l'esercizio di un patimento o la pratica del sacrificio. Come ho fatto? Facendoli scrivere e parlare e scrivere e parlare e scrivere e parlare e correggendo correggendo correggendo infiniti compiti nei quali l'errore era segnalato e poi discusso insieme ma soprattutto era valorizzato tutto ciò che era ben scritto. Mi ha ritrovata in occasione del 8 marzo un'ex alunna e insieme abbiamo ricordato un suo riassunto rifatto nove volte e nove volte corretto. Come ho fatto? Con una fatica che non posso raccontare ma posso dimostrare che si può se si vuole. L'ho fatto a scuola e contro la scuola che suggerisce anche agli insegnanti la strada più facile e liquida come buonismo la sperimentazione di nuove metodologie didattiche. La maggior parte degli insegnanti che ho avuto a scuola erano placidamente classisti e non m'importa di essere stata il loro fiore all'occhiello perché se la mia scrittura è senza errori lo devo a mia madre e alla zia Maria, quarta elementare, serve di mestiere, che mi hanno trasmesso l'amore per la forma scritta e orale, il piacere dei libri, il rispetto per le persone e la convinzione che non si nasce già "imparati" come si usa dire con frase simpaticamente sgrammaticata. Potrei scrivere e scrivere e scrivere sulla scuola e perfino insegnare come si fa, ma in questo paese il problema non è la grammatica, purtroppo è ancora la realizzazione del dettato costituzionale anche nella scuola. E in cattedra purtroppo ho la sensazione che ci siano sempre gli stessi o i loro figli. Con amarezza e inguaribile speranza

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Letture‌ di Frontiera

Casablanca n. 48


“A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare?” Pippo Fava

Le Siciliane.org – Casablanca n. 48


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