n. 26 La Bella Politica

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’Ndranghetisti? Brava gente! …Perdono per tutti? Precisazioni, distinguo che non hanno evitato l’incendio della polemica, coinvolgendo familiari di vittime, studiosi e associazioni antimafia e facendo registrare la replica irritualmente piccata dello stesso vescovo contro “certi professionisti dell’antimafia”. Il primo a dolersi per le parole del presule - insofferente anche per la cattiva reputazione del santuario è stato Mario Congiusta, padre di Gianluca, commerciante trentaduenne assassinato nel 2005 a Siderno “Questa ricorrenza è preparata sempre con i soliti ricordi: ’ndrangheta, il santuario della mafia, i raduni. Come se Polsi, e il santuario, fosse solo trattabile in termini di mafia ‘sì’, mafia ‘no’. Mi chiedo: - ha ragionato Congiusta - il vescovo Morosini, ovvero la Chiesa, ha diritto di perdonare gli assassini delle tante vittime innocenti di mafia, essendo prerogativa della Chiesa solo assolvere, rimanendo il diritto del perdono prerogativa di chi il torto lo ha subito, cioè le vittime? (…) Gli aspetti che accomunano la maggior parte dei familiari di vittime innocenti, ne conosco moltissimi, sono la mancanza di odio e il grande dolore che scandisce la quotidianità, con l’unico e primario obiettivo di avere giustizia, prima di tutto attraverso l’espiazione della pena. Da quello che ho potuto percepire dalle parole dell’omelia, l’espiazione della pena assume

secondaria importanza, non gestendo la Chiesa la giustizia terrena”. Al di là della querelle sul perdono, insomma, le parole di Morosini hanno acceso i riflettori sulla complessità del rapporto tra Chiesa e ’ndrangheta, tra giustizia divina e umana, tra don e boss. Nella loro costante ricerca di consenso, le cosche calabresi sono spesso davanti all’altare, a trafugare simboli, riti e figure da imbrattare nelle cerimonie di affiliazione, a mescolarsi nelle processioni, mettendosi in spalla Santi e Madonne, ad organizzare feste patronali. In questo scenario per il procuratore di Palmi, Giuseppe Creazzo, “il problema vero del quale si deve parlare, posto che la ’ndrangheta è e rimarrà davanti all’altare, è cosa fa l’altare dinanzi alla

’ndrangheta”. E le considerazioni del magistrato, intervenuto il 10 settembre a Reggio Calabria al dibattito sul tema organizzato da Stopndrangheta.it e Sabbiarossa edizioni, non sono state rassicuranti: “Ancora oggi alcuni sacerdoti in pubbliche interviste minimizzano il fenomeno mafioso. Ancora oggi, nei processi contro le più agguerrite cosche di ’ndrangheta, vengono chiamati a testimoniare in difesa

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di imputati alcuni sacerdoti, i quali, come emerge dalle deposizioni rese, non testimoniano tanto su fatti concreti a loro conoscenza, ma si affannano a dare patenti di brave persone, peraltro processualmente inammissibili, ad imputati di mafia. E a questi fenomeni, spiace dirlo, purtroppo non fa eco nella maggior parte dei casi una più autorevole voce di Chiesa a stigmatizzarli”. Pur mai nominato da Creazzo, il riferimento chiarissimo era a don Memè Ascone, l’anziano sacerdote di Rosarno che nel luglio scorso, deponendo al processo All Inside contro la cosca Pesce, aveva garantito: “Francesco Pesce è un mio amico, Domenico Varrà è un gran gentiluomo e Franco Rao è una brava persona”. I suoi amici devono tutti rispondere di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma don Memè non ha dubbi: “In questo processo ci sono persone detenute ingiustamente”. Il pm, durante la sua deposizione, ha abbandonato l’aula. Don Memè non è in Calabria il solo prete finito “in cronaca”. Ci sono sacerdoti ammazzati come boss - nel 1966, nell’ambito della faida di Ciminà, viene ucciso don Antonio Esposito che circolava con la pistola sotto la tonaca, nel 1989 tocca all’economo di Polsi, don Peppino Giovinazzo - e ci sono sacerdoti entrati in Tribunale da imputati, come don Giovanni Stilo, accusato di associazione mafiosa e poi assolto, e come don Nuccio Cannizzaro, cerimoniere


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