Casablanca n.21

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f r o n t i e r a ANNO VI NUM.21

EdizioniLeSiciliane

novembre 2011

LESICILIANE/ NINETTABURGIO

"CIAO MAURO" A CURA DI LILLO VENEZIA

Chi, secondo i potenti, dovrebbe pagare la crisi? Questo si sa. Ma chi è disposto a pagarla? Questo ancora non si sa

LIPARI: PARTO PROIBITO NOKIA DECIDE, JABIL LICENZIA MALABARBA: "YES WE CAMP"

E'FINITALAPAZIENZA GULISANO/ COLORI IN PIAZZA


CASABLANCA N.21/ NOVEMBE 2011/ SOMMARIO

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Sebastiano Gulisano 4 Colori in piazza Ornella Balsamo e Graziella Proto 8 Nokia mandante, Jabil killer Rosita Rijtano 14 Lipari/ Parto proibito Graziella Proto 18 Le Siciliane/Ninetta Burgio DISEGNI DI GIANNI ALLEGRA Ornella Balsamo 22 Una siciliana a Milano Gigi Malabarba 24 ”Yes, we camp!” Rosa Maria Di Natale 28 Cronaca di un bavaglio Simonetta Zandiri 30 Diario No-Tav Amalia Bruno 32 Cronachette Lillo Venezia, Rino Giacalone e Franca Fossati Ciao Mauro A CURA DI LILLO VENEZIA

Casablanca - direttore Graziella Proto graziellaproto@interfree.it Edizioni Le Siciliane di Graziella Rapisarda Progetto grafico: Riccardo Orioles e Luca Salici – da un'idea di Piergiorgio Maoloni Registr.Tribunale Catania n.23/06 del 12.7.06 – dir.respons.Riccardo Orioles

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Editoriale

Buon lavoro, dottor Salvi Giovanni Salvi, sostituto pg in Cassazione è stato nominato Procuratore di Catania. Una nomina che tanti in città hanno accolto con gioia e sollievo. Speranze. Gli auguriamo buon lavoro e speriamo tanto che abbia chiara la situazione di Catania. Nella città etnea, la magistratura non è mai stata considerata estranea ai così detti poteri forti; il Palazzo di Giustizia è stato sempre attanagliato da lotte interne mettendo in cattiva luce i bravi operatori della giustizia che, a Catania ci sono. Quando in città si è diffusa la notizia con i nomi dei candidati - probabile, futuro capo del tribunale, ci sono state molte perplessità, ed anche a volte, allarme. Gennaro? si chiedeva qualcuno, perché ti sembra meglio Tinebra? rispondeva qualcun altro. Sembrava una vicenda senza sbocco. Il papabile dott Gennaro a molti non era gradito e soprattutto negli ultimi tempi, ci sono state delle proteste: sit-in, volantini, e

perfino un posterbus con un cartellone sei metri per tre, posteggiato proprio davanti al Tribunale. Una specie di telo del cantastorie con i fumetti della storia. Qui nel posterbus invece, c'erano le foto del magistrato. In particolare una sua foto in cui parla amabilmente con un mafioso su una bellissima terrazza, una festa probabilmente, In altre, sono riprese alcune villette fra le quali la sua e tante scritte, stralci di articoli di giornali. Una vecchia storia. Cose già chiarite nelle sedi appropriate? Solo sospetti? Interpretazioni diverse, ma dall'esterno sembrerebbe proprio che Gennaro sia rimasto bloccato dai sospetti e dalla "foto irrilevante" Il dott Gennaro, protagonista del "caso Catania" ( una cosa di cui non si deve parlare) non ce l'ha fatta per pochissimi voti, due per l'esattezza a dimostrazione del fatto che le forze che si battono contro sono quasi uguali. *** A Catania c'è una specie di cappa di

sfiducia e d'amarezza nelle istituzioni che, soffoca. . La disinformazione e il silenzio la fa da padroni, perché la stampa "ufficiale" fa parte di quel giro di poteri forti di cui si diceva prima. Per il Caso Catania per esempio, i pochi che tentano, parlano, scrivono o hanno scritto, che hanno raccontato fatti e costruito il contesto sono stati intimiditi, minacciati, a volte sopraffatti. Il caso Catania a firma della sottoscritta, pubblicato su diverse testate nazionali, è diventato un grave misfatto quando è stato pubblicato su una piccola testata locale, on line. L'allora Procuratore Generale, Giacomo Scalzo, mandò alla redazione una lettera su carta intestata e consegnata se non ricordo male da un maresciallo, sostenendo all'incirca che io in quella "nota" raccontavo "fabule".Tentativo d'intimidazione? Finito nel nulla. Anzi smentito. Ma era il procuratore generale! Dopo pochi giorni, sempre per lo stesso articolo e per una motivazione diversa, sono stata messa sotto processo per quattro anni e mezzo, per essere alla fine assolta con formula piena. Non è vero che sono cose da nulla. Il pensiero che qualcuno potesse dubitare della mia buona fede, credibilità e professionalità, non mi faceva dormire. Sono energie sprecate. E poi, ero sicura - e la rabbia mi rosicava - che il querelante non c'entrasse nulla, era morto subito dopo aver firmato la denuncia. Ma veramente volete farmi credere che una persona in fase terminale abbia la voglia di fare querele? Buon lavoro dottor Salvi Graziella Proto

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Colori

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in piazza Piazze e strade in Italia, 15 ottobre 2011

di Sebastiano Gulisano

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LAVORATORI SENZA RIFLETTORI

Nokia mandante

e Jabil killer di Ornella Balsamo e Graziella Proto

Due anni di cassa integrazione ordinaria ed un anno di cassa straordinaria. All'inizio i trecentovencinque lavoratori della Nokia - Jabil sono sgomenti, disorientati, poi un bel giorno decidono: presidio ad oltranza dell'azienda. Temono lo smantellamento e così si alternano per ventiquattrore su ventiquattro. Solo un fax per dire: adesso tocca a voi. Nemmeno un incontro fra lavoratori e dirigenti. I lavoratori della Nokia - Jabil adesso sono veramente arrabbiati. Il dodici dicembre la scadenza definitiva. e mentre qualcuno piange il marchio installa in Germania. La lettera d'intenti del Presidente del Consiglio inviata all'Europa, conferma - qualora ce ne fosse bisogno - l'andazzo e la tendenza della Nokia - Jabil e tante altre imprese e fabbriche. Bisogna licenziare, licenziare, licenziare. Da più parti giurano che, dopo, si potrà assumere! Ma il problema dei disoccupati? La furia "Che cazzo dò da mangiare ai miei figli? - La voce di Letizia Cremonesi è disperata. Dietro quelle poche parole c'è una storia di sacrifici, di speranze spezzate, di futuro buio, Un tunnel dal quale non s'intravede uno spiraglio di luce. Innanzi alla sede della provincia di Milano giovedì ventisette ottobre scorso, i dipendenti della Jabil, sono poche decine, ma, tutti incazzati. Molto di più che indignati. Una cosa è fare una battaglia per gli ideali, lodevolissima, un'altra, la lotta per la sopravvivenza dei tuoi figli. Mentre gli altri loro colleghi presidiano l'azienda, loro aspettano l'uscita dei manager in riunione con parti sociali ed istituzioni. Più di tre ore di attesa. Gli operai sapevano l’esito negativo dell’ennesima mediazione istituzionale, e così, quando sono usciti il direttore del personale, Adriano Caponetto e l’amministratore delegato Bruno Soler, la reazione dei manifestanti è stata rabbiosa. Li hanno aggrediti. Bastardo, delinquente, in galera…Alcune uova, una mischia rabbiosa con la po-

lizia, momenti di gran tensione. Alla fine, per qualcuno dei manifestanti tante lacrime. Troppa tensione. Inoltre, la frustrazione di due anni di cassa integrazione, il lavoro a rotazione per sei giorni a mese, la nuova porta sbattuta in faccia e la scadenza del dodici dicembre, per i dipendenti Jabil, ci sono tutti gli ingredienti per un mixer esplosivo, anche se, fino adesso hanno dato dimostrazione di lotta civile, seria, pacata. Forse speravano in qualche miracolo? Prodigio? Grazia? Il presidio 25 ottobre -Piove che Dio la manda, oggi a Milano. E fa freddo. Ma, il presidio dei lavoratori di Cassina de' Pecchi è sempre lì, in pianta stabile Sono e rimangono lì per evitare lo smantellamento dei macchinari che producono sofisticati ponti radio anche per la stessa Nokia Siemens Networks. Sono lì da più di quattro mesi, nonostante tutto, a dispetto del caldo, la pioggia ed il freddo e malgrado l'ostinato silenzio della Jabil.La dirigenza della fabbrica ha comunicato ai suoi trecentoventicinque dipendenti che sarebbero andati in

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mobilità attraverso un fax Un fax? Si, un fax e ciò non deve stupire, alla Fiat i lavoratori in cassa integrazione sono chiamati in servizio - per lavorare in media tre giorni a mese - con un sms. Quanti riflettori su tali notizie? Le proteste dei precari sono all'ordine del giorno, ma, sono spesso trattate dalla media con superficialità, perché c'è sempre qualcosa di nuovo e di più importante di cui occuparsi e soprattutto, si da la notizia ma non si scava in fondo alla questione, non ci si chiede perché una fabbrica o una piccola impresa chiuda e non ci si chiede cosa ne sarà degli "epurati. Una chiacchierata con i lavoratori Al presidio Jabil, ci accoglie un gruppetto di lavoratori: Anna Lisa, Valentino, Tina, Gino, Francesco. Facce pulite. Traspare un'enorme dignità e pacatezza. Rompiamo subito il ghiaccio e s'inizia a parlare della loro situazione, delle loro attese e paure. Da subito ci si rende conto che sono persone dai modi cordiali ma fermi.


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Appena fuori dal presidio c'è una volante dei carabinieri, ma nessuno di loro è riottoso o agitato. Annalisa, tu sei impiegata… « Ma impiegata dove? "Faccio fatica a citare il nome dell'azienda presso cui lavoro, forse perché un po' provo vergogna ad associarla al mio nome, forse perché non mi riconosco più in essa da quattro anni a questa parte, da quando la "famosa" Siemens Nokia di Cassina de' Pecchi è stata ceduta a una multinazionale americana che porta il nome di Jabil. Da quel momento sono iniziati problemi per tutti i lavoratori e ora di tutto il nostro impegno e le nostre competenze lavorative davvero non sappiamo più che farcene, da quando con strane pressioni psicologiche siamo stati quasi tutti demansionati e relegati a lavori che non rispondono affatto al nostro inquadramento professionale... » esordisce con forza Anna Lisa Minutillo, lavoratrice della Jabil e curatrice della comunicazione tra il presidio dei lavoratori ed i medi . Da quattro mesi state facendo un presidio perché... « Trecentoventicinque lavoratori hanno deciso di presidiare l'azienda per tutelare il loro posto di lavoro. La maggior parte delle persone che lavorano qui hanno tra i

quarantacinque ed i cinquanta anni, quindi troppo giovani perché vadano in pensione ma troppo vecchi per tentare di ricollocarsi nel mercato lavorativo; si vuole tutelare il diritto al lavoro, di tutti i dipendenti dell'azienda, oltre a noi c'è il personale "collaterale" della mensa, i manutentori, gli elettricisti, anche loro a rischio» spiega « Ma tu pensa quale ironia della sorte ha voluto che negli anni Novanta io abbia deciso di lasciare il mio precedente impiego presso una piccola azienda perché desideravo maggiore stabilità e maggiore sicurezza - interviene Francesco, quarantasettenne - Quella piccola azienda oggi esiste ancora e io invece sto qui, in mezzo alla strada». Avevate fatto progetti particolari, investimenti a lungo termine magari? «Considera che una buona parte di noi, con questo lavoro, porta in casa l'unico reddito per mantenere spese e famiglia dice Anna Lisa - molti altri hanno anche il proprio coniuge impiegato nella stessa azienda, ci sono giovani che hanno pensato di costruire il proprio futuro, che avendo deciso di acquistare una casa hanno le rate del mutuo da pagare». S'intromette Francesco: «Ho due figli di quattordici e ventuno anni, studiano en-

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trambi ho fatto tantissimi sacrifici, anche con i turni a lavoro, per tirarli su insieme a mia moglie, che è precaria. Ci hanno spremuto fino all'osso e ora ci buttano via». Il passaggio alla Jabil, quattro anni fa, è stato un errore? Si sarebbe potuto evitare il tracollo, questa crisi nel vostro settore che, nonostante tutto, regge ancora? «Che il settore non brilli più di luce propria, come succedeva anni fa, è vero, la crisi è a livello mondiale, ma, la causa principale è sicuramente la non-volontà di mandare avanti un discorso valido e di non sfruttare a pieno le competenze delle persone - ci spiegano a più voci - La Jabil come fama è collegata alla chiusura delle aziende, un po' come se la Nokia fosse il mandante e Jabil il killer di questa mattanza. Per evitare che i licenziamenti fossero associati direttamente al marchio Nokia. Sicuramente per motivi economici, ma anche d'immagine». « Noi lavoriamo bene, con competenza, offriamo qualità e non ci rassegnamo perché di lavoro in questo settore ce n'é eccome - rilancia Gino, trentanove anni, vive da solo - Spero nella soluzione migliore, in un ripensamento dell'azienda, voglio crederci ancora… ne ho bisogno perché


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quando non lavori sei tagliato, fuori, non solo non hai più modo di mantenere le spese, non ti calcola nessuno. A noi non interessa avere i soldi, noi vogliamo un lavoro, vogliamo il rilancio dell'azienda, vorremmo trovare qualcuno che abbia il coraggio di farlo ». Come pensate di affrontare il futuro? Credete che il presidio possa risolvere la situazione? «Il presidio è la nostra risposta a questa mossa subdola e vigliacca - risponde immediatamente Anna Lisa - è una risposta fatta a viso aperto da persone che tutti i giorni ci mettono la faccia. Tutto l'impegno per garantire che, attraverso dei turni a continua rotazione, giorno e notte, vi sia sempre qualcuno al presidio. Per ora la nostra contromossa è questa, restare qua e rendere ben chiaro il concetto: di qui non ci muoveremo». Valentino ha quarantasei anni e lavora in questo stabilimento Nokia-Jabil dal 1986. «Mi occupo di montaggio e collaudo. Non cercherò un altro lavoro, finché potrò agire in questo contesto, terrò duro fino all'ultimo. Anche perché, non c'è molta domanda di lavoro ed alla mia età è davvero difficile trovare qualcuno che voglia investire su di me. E ad ogni modo, fino

all'ultimo tutti noi resteremo qui». Voi credevate di poter andare in pensione con questa azienda? Anna Lisa sorride e annuisce: «Sì, quest'azienda è sempre stata un fiore all'occhiello nel campo delle telecomunicazioni, stiamo pur sempre parlando di Nokia. Ci sentivamo sicuri anche perché quando abbiamo iniziato a lavorare qui, era una s.p.a. E invece...». «E pensare che in passato mi dicevano che con questo lavoro avevo vinto un terno al lotto - dice sospirando Tina - ho 48 anni e lavoro qui dal 1985 - aggiunge - avevo già vissuto l'esperienza della cassa integrazione, pensavo non mi sarebbe più accaduto. Ho due figli. Anche loro partecipano alla mia lotta, perché anche loro ne patiscono le conseguenze. Inoltre, spesso porto a casa con me molta tensione, tanto nervosismo». Esistono secondo voi gli estremi per intraprendere un'azione legale? « Gli estremi ci sarebbero. Il problema è che le leggi vigenti oggi in Italia o sono disattese o, non consentono tanto di realizzare la tutela del lavoratore - dice Gabriella che, fino a questo momento è rimasta ad ascoltare - ad esempio anche in Regione a noi è stato risposto che le aziende hanno li-

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bertà d'impresa». Cha a voler interpretare la cabala significherebbe libertà di licenziare. Proprio mentre a Cassina de'Pecchi e a Milano centro trecentoventicinque lavoratori protestano e si affannano per il prossimo licenziamento, la lettera del presidente del Consiglio all'Europa, aumenta la possibilità delle imprese in tal senso. Ma per questioni economiche sottolinea la maggioranza. Ma licenziare porta soldi? Risolve i problemi dell'economia? Risolve il problema dei disoccupati? Alcuni tra coloro che ci governano rispondono, sì perché si può assumere. Bisogna licenziare per poter assumere? Comico o tragico? Spontaneo, facile ed amaro pensare alla macchietta di Antonio Albanese, Cetto Laqualunque un politico non tanto fantomatico che alla domanda cosa farà dopo la sua elezione per i più deboli e disagiati risponde "Una beata min…!"


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PERCORSI

Riflessioni di una donna

fra il bene e il male di Dora Bonifacio Magistrato

Non aveva mai avuto paura, o almeno non fino al punto di annichilirsi e di non affrontare la realtà. La realtà. Ecco. Se lei aveva un pregio che si riconosceva era quello di guardarla sempre in faccia. Sì. A volte con troppo pessimismo verso se stessa e maggiore ottimismo verso gli altri, ma la guardava e la affrontava sempre a viso aperto. In ogni strada che aveva percorso aveva incontrato infiniti bivi: La scuola, la politica, l’università, la carriera, l’amicizia, l’amore… Eppure aveva imparato subito – o le era venuto naturale capire - che non si possono percorrere contemporaneamente più percorsi, camminare al bordo tra due strade, o scambiandole di volta in volta. Non era una scelta manichea tra il bene e il male. Non esprimeva quasi mai giudizi morali. Molti sceglievano percorsi ambigui e lei non li considerava peggiori o migliori di lei. Ma lei non poteva fare a meno di sceglierne uno. Le scelte erano il liet motiv della sua vita, e sempre dettate dalla sua natura, dai suoi istinti, dai suoi valori, dalle sue passioni. Sin dalla scuola - sempre privata e quindi spesso frequentata da snob, arrivisti, gente senza molti ideali -, lei aveva scelto di non adeguarsi, di non inseguire i “sogni” degli altri, ma solo i suoi. E da allora aveva capito che avrebbe sempre scelto, guardando in faccia la realtà, senza una menzogna. Era arrivato l’impegno politico. Considerata capace e incisiva, avrebbe potuto fare “carriera”. Ma aveva scelto, senza in-

seguire falsi ideali e senza rinunciare un attimo ai suoi valori. All’università, poi, tanti bivi. Professionali e non. Aveva pensato ad una carriera da ambasciatrice, ma mediare e dover rinunciare ai suoi principi non le era possibile. La magistratura. Indipendenza, imparzialità, giustizia, impegno al servizio degli altri. Tutto insieme. Che meraviglia, avere la possibilità di andare a fondo, di guardare in faccia la realtà (processuale, ma spesso anche sostanziale) e poi di scegliere….Sempre guidata dagli stessi principi. Non era stato un caso. Era lì che si sentiva a suo agio. Gli amici non dovevano essere “qualcuno”. Bastava che fossero onesti e sinceri. Meglio se erano saggi, impegnati, coerenti. Non le importava la loro condizione economica, anche se, purtroppo, per evidenti diversità d'ambiente, si era “naturalmente” distaccata da alcuni. Non senza rimpianto. E quando incontrava qualcuno che era rimasto “indietro” (in quell'odiosa scala creata dal denaro), ecco che arrivavano le sue carezze e i suoi sorrisi più luminosi. Per lei c’erano solo le persone. I fronzoli che le circondavano non erano importanti e li vedeva solo, quando notava che per quelle persone erano importanti. Allora sceglieva di nuovo. La sostanza. Sì è vero. Aveva scelto prevalentemente i sorrisi, donati e ricevuti. La sincerità emerge sempre da un sorriso. Quelli di convenienza, quelli sottili, quelli indifferenti, quelli per mettersi in mostra, quelli di circostanza, si distinguono sempre da

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quelli di “cuore”, tanto onesti quanto luminosi. Solo dopo aver osservato quei sorrisi – con il suo solito senza sguardo severo - lei sceglieva. Coerente e lucida allo stesso tempo. L’amore. Aveva scelto anche lì. Non certo le persone più facili da amare. Ma aveva scelto e fin quando era convinta della sua scelta le era rimasta fedele, anche rinunciando a parte (a volte buona parte) di se stessa. Ma scegliere non può che essere una pratica quotidiana. E tra una vita piena di solitudine ed un’altra senza più sogni, ideali, e piena solo di un’apparente tranquillità, lei non ha avuto dubbi quale vita scegliere. Non riusciva a nascondersi la realtà. La guardava in faccia e la affrontava. Così. Con la sua istintiva naturalezza. È vero. A volte sembrava essersi adagiata, nascosta alla vita, all’impegno, all’inseguimento dei suoi ideali. Invece non li aveva mai persi di vista. Erano lì e lei li guardava, conscia di non avere la voglia di inseguirli, ma pronta a scegliere di nuovo se qualcuno o qualcosa le imponeva di abbandonarli. Nessuno avrebbe mai potuto toglierle la sua lucidità. La sua voglia di guardare in faccia la realtà e scegliere… Perché la vita per lei era scelta. Anche di essere donna, perché il genere può essere mutato e non solo fisicamente ma anche nella mente e nei comportamenti. Di essere madre, figlia, compagna, amica. Sì, anche di accontentarsi…ma sempre solo….fino alla prossima scelta…


CATANIA/ LA CONDANNA DI SCAPAGNINI

Il valore

della verità di Pierpaolo Montalto Segretario Provinciale PRC-Federazione della Sinistra L’ex sindaco di Catania Scapagnini e i componenti delle due sue giunte sono stati condannati dal Tribunale etneo per aver falsificato il bilancio comunale. Sono gli amministratori che l'opposizione sociale ha attaccato nelle piazze, denunciando uno stato di fatto opaco e fosco. Spregiudicato. Ora parte di quella realtà la troviamo scritta in una sentenza e alcuni di quei responsabili sono stati condannati. Buona parte di loro, però, è ancora oggi ancorata saldamente al potere Per aver falsificato il bilancio comunale l’ex sindaco Scapagnini e i componenti delle due sue giunte sono stati condannati dal tribunale di Catania a pene tra due anni e nove mesi e due anni e tre mesi di carcere. Questa sentenza, oltre ad avere il suo significato intrinseco e giuridico ha una qualità particolare, ha il valore della "verità" che deve essere affermata ben oltre le aule di un Tribunale. Una verità troppo ingombrante anche per la stessa sfera privata degli imputati che, da anni, dalle loro poltrone o dai salotti dell’alta borghesia catanese, avevano l’arroganza di chiamare la "nostra verità". Vero, esiste ancora un secondo grado di giudizio, il garantismo è un valore irrinunciabile e la vera giustizia dobbiamo ottenerla nella società, oggi, però, questa sentenza ci racconta come era amministrata la città. Come un'intera classe dirigente s'impegnasse a falsificare il bilancio comunale di Catania, per dare copertura finanziaria a clientele, consulenze strapagate, sperperi e corruzione diffusa. Un saccheggio delle risorse che dovevano essere destinate al benessere di tutte e tutti. Un'intera classe dirigente (ancora saldamente al potere) ha truccato un atto pubblico, nascondendo una condizione drammatica che avrebbe portato il comune ad avere un buco di bilancio di un miliardo di euro. Con assoluto disinteresse per il bene della città e disprezzo per il ruolo esercitato in rappresentanza di tutti i cittadini. Questi comportamenti meritano una condanna non solo giuridica ma anche politica e sociale. Scapagnini, Strano, Arena, Rotella, Vasta, Drago e tutti gli altri, sono, infatti, tra i massimi esponenti di quel centrodestra ancora al comando della città e della provincia, e sono quasi tutti ancora in prima linea a difendere il loro regime feudale.

C’è chi è ancora indegnamente sindaco del comune di Acicastello come Filippo Drago, c’è chi è ancora altrettanto indegnamente assessore della giunta provinciale Castiglione come Mimmo Rotella, già assessore regionale della giunta Capodicasa di centrosinistra, c’è chi è semplicemente ancora un autorevole dirigente del suo partito. Ma soprattutto c’è ancora una classe politica altrettanto responsabile delle imprese della cricca Scapagnini che spacciava una truffa contabile, la “Catania Risorse”, per una mirabile operazione amministrativa che purtroppo aveva ad oggetto il nostro patrimonio immobiliare culturale. C’è ancora tutta la casta di Firrarello e Castglione, del nostro sindaco Stancanelli, di Fagone e Frisenna, in carcere per appartenenza alla mafia. Del nostro presidente Lombardo. Ancora indagato, apparentemente a suo agio con esponenti mafiosi, vicesindaco di Scapagnini al momento dei fatti . Una sentenza che fa notizia anche perché viene emessa nella città dove in carcere generalmente ci finisce solo chi ruba per mangiare. Tuttavia, essa, dà parziale giustizia solo di uno dei tanti scandali cittadini, non può certamente essere in grado di inchiodare alle sue responsabilità politiche chi da troppo tempo si traveste da amministratore per curare gli interessi di una casta politica, economica e criminale, corrotta e senza scrupoli. Infatti, sono ancora tutti là decisi a riciclarsi nuovamente, pronti a ringiovanire i volti, a cambiarsi d’abito e a continuare il saccheggio. I ritardi nell’approvazione del bilancio di previsione 2011, la crisi occupazionale che continua ad affamare la città, lo scandalo dello Iacp, la crisi della multiservizi, l’incapacità a dare risposte ai bisogni che diventano emergenze ed il baratro in cui è

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sprofondata Catania, sono tutte prove che nulla è cambiato in chi comanda. Non è cambiato il sistema di corruzione, non sono venute meno incompetenza e approssimazione, non sono cambiati i padroni della città e la nostra gente è ancora schiava di quella ricattabilità che ha permesso alla politica di regime di costruire il suo consenso con vergognose elemosine alle clientele. Non è cambiata la presunta opposizione di un Partito Democratico incapace di vigilare, denunciare e distinguersi. Sembra però che qualcosa stia cambiando lì dove nessuno se lo aspetta. nei bar pieni di disoccupati, tra le famiglie che non riescono ad arrivare a fine mese e nei nostri quartieri popolari dove sempre più gente capisce di essere stata ingannata e sfruttata. Qualcosa è già cambiato grazie a chi per difendere il diritto al lavoro ha presidiato per mesi Piazza Duomo, ha occupato i palazzi della politica, ha finalmente fatto sentire la sua voce e lottato. Qualcosa cambia ogni giorno, quando si denunciano nuovi abusi e nuove ingiustizie, quando si difende dallo sfratto una scuola in un quartiere a rischio o si provano a creare nuovi spazi di socialità. Qualcosa fa credere che Catania finalmente riuscirà a sbattere in faccia a chi ci governa una verità che prima di essere certificata in una sentenza era stata urlata nelle piazze e nelle strade, troppo spesso in omertoso silenzio. Una verità conosciuta dai lavoratori della Cesame, da chi è rimasto al buio nella sua città, da chi è costretto ad emigrare. Da chi abita nei quartieri abbandonati. Da chi “s’incazza” ogni giorno. Ma anche semplicemente da un bambino che non può più giocare a Piazza Europa - distrutta perché qualcuno voleva realizzare saccheggi, scippi e rapine alla città.


DIVERSAMENTE INCINTA

Future mamme

senza sala parto di Rosita Rijtano A Lipari da qualche tempo va avanti una battaglia alquanto particolare. Tante donne col pancione, in prossimità del parto sono impegnate a difendere il reparto di ostetricia e ginecologia che la regione vorrebbe sopprimere. Le donne che devono partorire o rischiano una folle corsa in elicottero all'ultimo momento, o si trasferiscono quindici giorni prima della data prevista per il parto presso un ospedale sicuro. Le spese? A carico della famiglia ovviamente.

" E' la mia prima gravidanza, sono già abbastanza spaventata dal mio corpo che cambia, e come se non bastasse devo trovare una risposta a domande che mi sembrano assurde: dove metterò al mondo mia figlia? Chi ci sarà al mio fianco? Con quali soldi pagherò le spese dei viaggi e dell’affitto?" - dice Manuela, presidentessa del comitato "Giù le mani dal nostro ospedale" e futura mamma. Con la mano destra reggeva il grembo, con la sinistra impugnava il microfono, urlando slogan contro la chiusura del reparto ostetricia. Questa è la prima immagine, così ho conosciuto Manuela, ed è una immagine difficile da dimenticare. Con quel suo pancione al vento. Siamo a Lipari, la più grande delle Isole Eolie, dove da diversi mesi è de facto impossibile mettere al mondo un bebè. A mancare non sono i medici ma i requisiti di sicurezza stabiliti dall’assessore alla sanità Massimo Russo: almeno 500 parti l’anno, personale specializzato e strutture idonee. Così mentre i dottori hanno le mani legate, le partorienti sono

costrette a salire sugli aliscafi, con il pancione e con qualunque tempo, e a trasferirsi nelle vicinanze di un ospedale ‘sicuro’ due settimane prima della fatidica data. O rischiano un viaggio in elicottero. "Ho sempre desiderato un giro turistico gratis - scherza Manuela, ma la voce la tradisce, trema". La rivedo una seconda volta lontano dal campo di battaglia. Seduta su un gran divano, la panciuta agitatrice sociale non sembra più così battagliera: ha gli occhi lucidi, dolorosi, e le guance scarne. Per la stanchezza, suppongo. Con lei rivivo l’emozione della prima ecografia; la gioia incontenibile nel veder lampeggiare sul monitor quella macchia bianca, la sua bimba; i sogni; le speranze. E poi la domanda inaspettata: ha già pensato a dove partorirà? "Vivo qui, ho casa qui, vorrei partorire qui - rispose ingenuamente". " Cosa le hanno detto?". " Non è fattibile. Ordini superiori!" Manuela ha vissuto a Torino per trenta anni e al sud si è trasferita da poco.

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Per amore. Fa ancora fatica ad accettare i cambiamenti cui è stata costretta, soprattutto perché certe banalità le credeva scontate: l’ospedale, ad esempio, è una di quelle. " Quando ho iniziato a convivere con il mio compagno, potevamo scegliere di abitare in un’isola che ci offrisse più opportunità lavorative. Lui è un marmista e qui, con quattro persone che svolgono la stessa attività, è condannato al precariato. O, peggio, a lavorare in nero! Ma siamo rimasti a Lipari proprio perché credevamo che fossero concentrati tutti i servizi di cui potessimo avere bisogno". " E invece?" "Invece, di fatto, non è così. Lo dico molto sinceramente e senza vergogna, perché non ho nulla di cui vergognarmi: io i soldi per andare a partorire altrove non li ho! Mi sono informata e sono davvero troppi! Al momento sono disoccupata, così come il mio compagno. Dove li trovo cinquanta euro per ogni notte trascorsa fuori di casa?" S'infervora, si arrabbia.


DIVERSAMENTE INCINTA

“Quel che è troppo è troppo! – scrive un giorno Manuela sulla bacheca di Facebook – Amo Lipari, ma ciò che sta accadendo all’ospedale è vergognoso…” Nel giro di un paio d’ore il suo sfogo rimbalza sui principali siti d’informazione locali. Accanto a lei ci sono decine di future mamme eoliane e l’intera popolazione riunita nel comitato "Basta, giù le mani dal nostro ospedale", di cui lei diventa presidente. "Sono solo un simbolo – dice timidamente – e non sono neanche bene integrata nella vita di paese (è tutta casa e lavoro). Ma credo che le ingiustizie vadano combattute sempre e in ogni caso. Non siamo partorienti di serie B!". Così le manifestazioni si susseguono e il nosocomio è presidiato giorno e notte. Fino ad una piccola e parziale vittoria: stop di un mese alla pubblicazione del decreto Russo che sancisce la chiusura definitiva del punto nascita di Lipari e di altri ventitré comuni siciliani. Era il 6 ottobre. "E ora?" "Ora siamo punto e a capo: o mi fanno partorire qui, o mi trasportano con l’elicottero. Partorirò da sola. E, se Dio vuole, i miei parenti, mi raggiungeranno.

Così hanno trasformato quella che avrebbe dovuto essere l’esperienza più bella della mia vita in incubo dal quale non vedo l’ora di svegliarmi! Ai signori in giacca e cravatta che prendono le decisioni, senza ascoltare il nostro parere voglio dire: siate onesti! Mettetevi nei nostri panni. Che cosa fareste se a dover nascere fosse vostro figlio o vostro nipote?": Eppure le ultime notizie dal fronte politico sembrano promettenti: due nuovi ginecologi per Lipari, venti milioni per le isole minori, assistenza economica per le partorienti. Manuela scuote la testa, sdegnosa… "Venti milioni di stanziamenti complessivi! Cosa ci fanno? È il solito contentino per la massa. Fanno credere che si sia risolto qualcosa e poi non è cambiato nulla. E queste false speranze poi chi le ripaga? Adesso la situazione si è perfino ribaltata!" Cioè? "Prima si partoriva solo in caso d'emergenza, mentre dal primo novembre, se le promesse saranno mantenute, si tornerà ad eseguire solo parti ‘normali’. Ma l’alternativa è sempre l’elicottero, vedi Ramona".

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La giovane Ramona è diventata mamma dopo tre viaggi in elisoccorso da Messina a Lipari. Il terzo è stato il volo decisivo e al suo arrivo i medici del Papardo l’hanno rimproverata: credi forse che sia un gioco? Non lo sai quanto costa l’elicottero? Manuela l’ha incontrata ieri, per strada. Ciao Ramona, come va?’ le ha chiesto. "Bene, grazie", non aveva molta voglia di parlare: "Ora che ho la mia bimba, il passato non ha più importanza - ha detto accarezzando teneramente la guancia color ebano della piccola Giorgia". "È vero. Non tutto funziona all’ospedale di Lipari - incalza Manuela, ma questa può forse essere una buona scusa per chiuderlo? Possono utilizzare la salute dei cittadini come pretesto per fare i tagli che vogliono e dove vogliono? Sono arrabbiata – prosegue – ma ciò che non mi abbandona è la speranza. Continuerò a lottare come posso: i medici mi hanno ordinato riposo assoluto. E la mia gravidanza è la cosa più importante". Annuisco. "Certo, ci mancherebbe - ribatto e la saluto". Lei ricambia, con la mano sinistra, perché la destra è ancora una volta impegnata. Accarezza il pancione: tondo, bellissimo.


TRAPANI

Pizzo

al pomodoro di Rino Giacalone A Trapani l'ultima inchiesta giudiziaria si chiama "Pizzo al pomodoro" per obbligare il commerciante a scucire i soldi che non gli voleva dare Ciccio Cammareri, soprannominato “Ciccio pummaroro”, mandava i " picciriddi" tutti minorenni, che facevano baccano, mettevano tutto sottosopra e facevano fuggire via clienti e avventori. Sale giochi, esercenti di piccoli negozi di ortofrutta. Quando è stato coinvolto un ristorante del centro il ristoratore dinanzi alle minacce ha alzato il telefono e ha avvertito la Polizia

CAMMARERI F.: non ti ha fatto capire niente?...CAMMARERI I.: non hai parlato tu...inc,...CAMMARERI F.: eh...gli ho detto digli a questi cornuti....che si muovono...e che sistemano la cosa...altrimenti gli faccio " danno "...scendo li sotto...e gliela " metto in culo "...e mi ha detto ora gli faccio bordello io a tutti...ma c'è pure…..CAMMARERI I.: inc...CAMMARERI F.: minchia ti sento male IGNAZIO...aumenta il volume...CAMMARERI I.: inc...i soldi...CAMMARERI F.: come?...CAMMARERI I.: stanno finendo i soldi...50 centesimi sono rimasti...CAMMARERI F.: va bo..o..o.o...o.....se per sera non sistemano la cosa..domani prende i " picciriddi "...eh...e gli dici che vanno...nella saletta...CAMMARERI I.: di Paolo...

CAMMARERI F.: e gli bruciano la saletta..a lui...e a quello....CAMMARERI I.: va bene,..inc,..CAMMARERI F.: però te lo faccio sapere io questo...CAMMARERI I.: va bo...CAMMARERI F.: domani...CAMMARERI I.: io domani mattina...ti chiamo io...non mi chiamare per telefono...CAMMARERI F.: va bene...digli ai " picciriddi "...questa cosa....ai " picciriddi " non dirgli niente però...***

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E’ la trascrizione di una intercettazione tra i fratelli Cammareri di Erice. Due pregiudicati specializzati in quei reati che sono maggiormente avvertiti dalla popolazione, furti, rapine, scippi, che, però avevano pensato al salto di qualità. La mafia non chiede il “pizzo” a Trapani, e questa è una storia vecchia, sancita da sentenze definitive, ad animare il racket spesso sono risultate bande di criminali piccoli e grandi, come l’ultima sgominata dalla Squadra Mobile di Trapani, un gruppo di delinquenti che avevano anche un tarifarrio sul modello Cosa nostra, 500 euro al mese. A essere presi di mira erano sale giochi, esercenti di piccoli negozi di ortofrutta, in un caso un ristoratore del centro storico ma solo perché questi aveva un debito non saldato con un altro imprenditore e questi aveva incaricato un paio di componenti della banda “Cammareri” a fargli da esattori.


TRAPANI

Solo che il ristoratore dinanzi alle minacce ha alzato il telefono e avvertito la Polizia. Ma la cosa sorprendente delle indagini sono i “picciriddi”, i ragazzini, i carusi come li chiamano a Catania. Carusi - spesso nella nostra Sicilia diventati troppo presto e troppo spesso “militari” a disposizione del crimine. Come purtroppo si è scoperto nell’inchiesta trapanese, i “picciriddi” avevano il compito di sostituire i tradizionali mezzi intimidatori, chi non voleva sottostare ai voleri della banda si vedeva presto invaso il negozio da questo gruppo di ragazzini, tutti minorenni, che facevano baccano, mettevano tutto sottosopra e facevano fuggire via clienti e avventori. "Picciriddi” per obbligare il commerciante a scucire i soldi che non voleva dare a Ciccio Cammareri, soprannominato “Ciccio pummaroro”, da qui il nome dato all’operazione, “Pizzo al pomodoro” coordinata dalla Procura di Trapani (pm Anna Trinchillo). Di solito quando il commerciante rifiutava di pagare, l’osservazione dell’estorsore era questa:

“Ah, accussì è ?! Ora ci penso iò” e poco dopo spuntavano i “picciriddi” per una baldoria fin troppo eccessiva . Non sono poche le intercettazioni durante le quali i capi banda, i fratelli Ignazio e Ciccio Cammareri, fanno riferimento ai “picciriddi” “per sistemare la cosa”. CAMMARERI F.: va bo..o..o.o...o.....se per sera non sistemano la cosa domani prende i " picciriddi "...eh...e gli dici che vanno...nella saletta...CAMMARERI I.: di Paolo... CAMMARERI F.: va bene...digli ai " picciriddi "...questa cosa....ai " picciriddi " non dirgli niente però... dico ai "picciriddi" e li faccio entrare...rompete le macchinette e andiamo...prima che me ne vado gli faccio del danno a tutti e due...del danno grosso...se riescono a farmi bloccare...mi possono bloccare a Messina...invece io non gli devo fare niente...io me ne devo andare...dopo chiamo i "picciriddi"...gli mando 500 euro a testa..."sburiddatici" (ndr spaccategli) tutte le salette”. ***

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Il fatto che tutto quello che andavano seminando in giro poteva fare scattare il loro arresto era affrontato dalla banda quasi con sfrontatezza, l’esercente non pagava e scattava la ritorsione, e se fossero stati scoperti “mi faccio la galera cu u sugo”, è stato sentito dire a Ciccio “pomodoro”. Pensare se soggetti come questi potevano avere rimorsi ad usare minorenni per le loro malefatte, anzi impartivano ai “picciriddi” ordini precisi. Il retroscena dell’indagine è ancora più clamoroso. Quei ragazzini, minorenni che, frequentano normalmente la scuola e che nel pomeriggio è la strada che diventa non sempre esaltante palestra di vita, sarebbero stati consapevoli che quelle “spedizioni” nei negozi non erano certo organizzate tanto per divertimento. Vivevano nell’ombra di quei ragazzi più grandi di loro, che erano divenuti ambiti punti di riferimento, ragazzi di strada come quelli spesso raccontati nei film e non sempre la realtà è da meno di quella raccontata nelle pellicole cinematografiche.


LE SICILIANE/ NINETTA BURGIO

La piccola mamma di Pierantonio

di Graziella Proto

I disegni delle pagine seguenti sono di Gianni Allegra

Ninetta Burgio adesso è una donna molto malata, stremata. Per quindici anni ha girato il paese per cercare e parlare di suo figlio che il tre settembre del 1995 non è ritornato più a casa. Non si è risparmiata mai. Ha risposto al telefono al rientro da una seduta di chemioterapia. «Pieroantonio studiava a Catania, mi chiamava sempre, per dirmi qualunque cosa faceva. Per questo ero molto preoccupata da subito per il fatto che quel giorno è uscito di casa e non aveva telefonato per dire che tardava a rientrare». Dopo quindici anni un pentito racconta che il giovane Pierantonio Sandri è stato ucciso da una banda di stiddari perché aveva visto compiere un attentato. A Niscemi in quegli anni era in atto la guerra fra Cosa nostra e Stidda, l'organizzazione che preparava i ragazzi alla malavita. Il 19 novembre prossimo la sentenza. Storia di una mamma e di una donna che la fortuna ha dimenticato di baciare

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LE SICILIANE/ NINETTA BURGIO

Piccola, esile, minuta. Occhi sorridenti. Dolce e decisa. Grande. Lo ha cercato in ogni strada. Lo ha cercato in ogni quartiere e nei paesi vicini. Alle feste paesane e alle manifestazioni. Fra i giovani e non. Ninetta Bugio, mamma di Pierantonio Sandri, il giovane scomparso il tre settembre del 1995, girava per la Sicilia con una foto di suo figlio, ovunque arrivasse subito, la mostrava. Chiedeva. Raccontava. « Pieroantonio s'era appena diplomato in odontotecnica e una decina di giorni dopo la sua sparizione avrebbe dovuto fare i test d'ammissione ad Odontoiatria. Studiava, a Catania, mi chiamava sempre, per dirmi

qualunque cosa faceva. Per questo ero molto preoccupata da subito per il fatto che quel giorno era uscito di casa e non aveva telefonato per dire che tardava a rientrare. Ho aspettato la chiamata per tutta la notte, ma non è mai arrivata. Lui non è più rientrato». Pensava di trovarlo vivo? La ragione diceva no, ma il cuore di una madre non smette mai di sperare, sognare il miracolo. Desiderava sapere qualcosa sulla fine che aveva fatto Pierantonio. .Nella peggiore delle ipotesi voleva avere almeno una tomba su cui piangere. Ninetta Burgio non si è mai stancata di

SCHEDA CRONACA DI UN OMICIDIO Giuliano Chiavetta, collaboratore, allora amico di Pierantonio, durante un interrogatorio, racconta i particolari, dopo che hanno prelevato il ragazzo. "…di pomeriggio, verso le tre, quell'orario era, verso le tre, quattro,Siamo andati in questo bosco, siamo scesi dall’auto e ha cominciato Cancilleri: “Pierantonio, l’altro giorno mi hai visto bruciare la macchina di qua, di là”, lui ha risposto “no, io non ho visto nessuno, che stai dicendo?”, allora io gli ho detto “Pierantonio, mi devi dire la verità, hai visto bruciare la macchina, lo hai detto a qualcuno? La sa qualcuno questa cosa di qua? “, dice “no Giuliano, non so completamente niente, ma io manco l’ho visto a Salvatore che bruciava la macchina io non ho visto niente”. Una tortura psicologica pressante. Chiavetta ci dice: “Prima Cancilleri e poi io, gli ho detto, “ma è sicuro?”, e poi ha cominiato Marcello Campisi: “sei sicuro?" in modo animatamente, io gli ho detto: “Pierantonio, mi devi dire la verità, a me devi dire la verità, Pierantonio”. dice “No, io manco l’ho visto”. Ora questa cosa che lui ha detto, ma io manco l’ho visto a Cancilleri " è stato peggio, allora cosa ho fatto, ho tolto la cintura, per farlo spaventare, e gliel’ho messa al collo…per farlo spaventare, gli ho detto “Pierantonio, mi devi dire la verità, sei sicuro, non hai

cercare, di chiedere verità e giustizia su quel figlio svanito nel nulla. "…è importante per una mamma conoscere cosa è successo al proprio figlio, è importante per una comunità conoscere cosa è successo ad un proprio giovane" - ripeteva spesso. Si è rivolta a tutti quelli che potevano sapere, conoscere, invitandoli a parlare, anche con mezzi anonimi. Ha bussato a tutte le porte. Sempre in punta di piedi. Sempre con tanta delicatezza. La voce spezzata dal dolore. La dignità di una mamma che, cerca la verità, per il proprio figlio. Perantonio era un ragazzo diciottenne bravo, pulito, onesto, sensibile.

detto a nessuno niente? “, perché eravamo presi di cocaina, non si è capito diciamo in quel momento niente, dico “sei sicuro?”, arriva Campisi insieme con me e comincia a stringere, Pisano e Cancilleri lo tenevano, e stringendo…è successo quello che è successo, e poi lo abbiamo preso da in mezzo alla strada e lo abbiamo buttato in mezzo al bosco. Lì vicino dove c’era la strada c’erano delle pietre, perché non si è capito niente in quell'attimo, e gliele buttavamo addosso, io, Cancilleri, tutti e quattro, prendevano, che erano pietre grandi, e gliele buttavamo addosso”. Dopo di che, o quattro delinquenti hanno lasciato il corpo in mezzo alla campagna e sono ritornati in città. Come se avessero fatto una normale commissione. Comunicarono tutto ai loro "capi" che li accolsero benevolmente: anche se avevano agito di volontà propria. Di solito quando si uccide senza autorizzazione si viene uccisi, questa volta invece i capi si limitarono a dire ”..Ma ragazzi cosa combinate?”. Il Consiglio Comunale era stato sciolto per infiltrazione mafiosa, i capi crimine cercavano di tenere tutto sotto apparente tranquillità onde evitare che le forze dell’ordine, la cittadinanza potesse reagire. Unica punizione, per i" ragazzi indisciplinati", dover nascondere il cadavere.

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LE SICILIANE/ NINETTA BURGIO

SCHEDA BIMBI KILLER A NISCEMI A cavallo fra gli anni ottanta e novanta, nella zona fra Gela e Niscemi, c'era in atto una guerra per il predominio delle cosche tra la vecchia mafia e la Stidda, il cui esercito era formato da ragazzini tra i tredici e i sedici anni " picciriddi". Tuttavia la stidda, è una mafia veloce e feroce. Dichiara guerra a Cosa Nostra e in pochissimo tempo diventa la 'padrona' della parte meridionale dell'isola grazie al traffico di droga, alle estorsioni e alle esecuzioni spietate. La cronaca del tempo ci consegna brandelli di storie atroci. Mostri buttati in prima pagina. "Bimbi killer" " la strage nella sala biliardo". " Baby gang" violente, disumane, insensibili. Bimbi ammaestrati alla violenza. Trasformati. Il braccio armato della "stidda" Fra i sopravvissuti a quell'esperienza, oltre a Giuliano Chiavetta, c'è Antonino Pitriolo prima irriducibile, indomabile, oggi collaboratore. Pitriolo oggi, racconta cose e gesti di una ferocia e violenza inaudita. Impensabile. Inverosimile. Impossibile credere siano state fatte da ragazzi. Una specie di gioco, a chi la fa più grossa e più brutale. Uno dei capi stiddari più autorevoli è stato Alfredo Campisi, che secondo gli inquirenti fu assassinato perché il suo gruppo criminale, formato da giovani violenti e senza scrupoli, era in grado di fare la voce grossa e contrapporsi a Cosa Nostra, rappresentata sul territorio dal clan Emmanuello. Quando è stato ucciso assieme a lui in machina, c'era giuliano Chiavetta che si è salvato perché si finse morto.

Un ragazzo al quale Ninetta, da sola, ha cercato sempre di insegnargli i valori dell’onestà, della legalità, dell'amore, dell’amicizia. Sebbene, in quegli anni in paese ci fosse e si seminasse tanta violenza. Tuttavia, la sua tragedia non le ha impedito di capire e di voler comprendere gli altri, i giovani, soprattutto in un piccolo centro di provincia quale Niscemi, " …la vita è preziosa - ha sempre detto con gli occhi sorridenti - non la si deve consumare…guai lasciarsi affascinare dal guadagno facile, dallo stordimento che crea la dipendenza delle droghe…state alla larga da coloro che si arricchiscono sulla morte dei ragazzi, che li scippano dei loro sogni…". In particolare ai giovani, di Niscemi, ha sempre detto di non essere mai omertosi, che bisogna parlare sempre e per gli adulti aggiungeva - esortandoli - che bisogna ascoltare sempre i loro ragazzi, non bisogna mai lasciarli soli, nei momenti di fragilità, di solitudine che vive un ragazzo perché l’adolescenza è un momento difficile, e quindi, entrare frettolosamente nel mondo degli adulti, li fa sentire fragili e facili prede. Alla luce di ciò che è stato scoperto due anni fa, sicuramente non pensava che, stava parlando della sua storia, della sua tragedia. Così, alle scolaresche, raccontava fatti e storie che sembravano quasi presagire quello che era successo a Niscemi nel periodo in cui è scomparso Pierantonio. *** In quel periodo, a cavallo fra gli anni ottanta e novanta, nel comune nisseno la delinquenza organizzata e oppositrice a Cosa Nostra, la "stidda", assoldava i ragazzini, e regalava droga. I più spregiudicati fra loro, potevano fare parte della “squadra” che seminava terrore, morte, violenza, danneggia-

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menti. Necessario che non, pensassero, si ponessero domande. Eseguire e basta. Un tirocinio per la carriera mafiosa. *** Ma chi è Ninetta Burgio? Lei stessa ci tiene a porre l'accento che è stata una bimba felice, che la sua era, una famiglia santa, dove tutto si risolveva a tavola. Adolescenza serena poi una delusione d'amore. Ninetta di innamorarsi non ne vuole più sapere. A quarant'anni incontra il suo futuro marito, si sposa e va vivere a Verona. Con loro, anche la suocera. Il matrimoio da subito si rivela disastroso e peggiora dopo la nascita di Pierantonio. Qualcosa di particolare? No, però avvertiva che non era gradita. Come se io non servissi più a nulla, racconta. Sono arrivata al punto di dormire chiusa a chiave nel salotto col bambino perché temevo che mio marito e sua madre me lo portassero via. Un giorno, in un momento d'ira il marito tentò di buttarla da una finestra, si è salvata sol perché gli ha detto che aspettava il secondo figlio di cui il marito ancora non sapeva nulla. Ninetta col bambino, senza nemmeno fare le valigie, allora fugge in Sicilia. Si rifugia presso la sua famiglia d'origine. Giovanni il secondo figlio morirà a soli sei anni. Una tragedia. Mamma Ninetta, sola, addolorata, si dedicherà a Pierantonio totalmente. *** Dopo quasi quindici lunghi anni, un pentito, Giuliano Chiavetta, oggi collaboratore, in galera, allora luogotenente del boss Enzo Campisi racconta: “ ….Una sera Salvatore Cancilleri stava bruciando un’auto…involontariamente si è trovato a passare Pierantonio Sandri, perciò quella sera è finita così,


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all’indomani è venuto da me Cancilleri Salvatore e mi ha detto “Giuliano, è successo questo, ieri sera stavo bruciando una macchina, si è trovato a passare Pierantonio e mi ha visto che ho bruciato questa macchina…aveva bruciato quest’auto perché a noi in pratica ci davano delle direttive, nel senso che ci davano il numero di targa, la via: “vai a questo numero di targa e bruci l’auto”. Giuliano Chiavetta è stato alunno della professoressa Burgio. Quante volte avrà incontrato in questi lunghi anni la sua ex insegnante? L'avrà salutata? Rideva alle sue spalle assieme ai suoi compari? Alla fine degli anni ottanta era considerato uno bravo, tanto che aveva già iniziato la scalata. Il Chiavetta ancora dichiara “…allora, cosa è successo, è venuto da me, è venuto preoccupato, dice “Giuliano, mai sia se ne va alla Polizia, mi fa arrestare, cose”, gli ho detto: “va bene, non ti preoccupare ora gli parliamo, non ti prendere pena”, dice “va bene, siccome, lui con la Polizia ci va bene”, nel senso che ha, come posso dire… non era un ragazzo omertoso, era un ragazzo serio” Salvatore Cancilleri, Giuliano Chiavetta,

Vincenzo Pisano, Marcello Campisi - nipote del boss Alfredo Campisi - decidono di incontrare Pierantonio. “…abbiamo visto Pierantonio che è passato con la sua macchina, gli ho detto “Piero, fermati un minuto che ti dobbiamo parlare, andiamo a fare un giro”, si è fatto il giro, ha parcheggiato l’auto ed è venuto. Ed è salito, noi avevamo la macchina di Marcello Campisi, una Panda 30, è salito, siccome avevamo una grossa amicizia soprattutto con me, che ci andavo anche a mangiare a casa, dice “Giuliano, che c’è” , “ niente, andiamo a farci un giro”, e siamo saliti tutti e cinque in questa Panda quattro più

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Pierantonio”. Lo portano in un bosco vicino, lo torturano e lo uccidono. A settembre del 2009, dopo quattordici anni, un funzionario della Questura di Caltanisetta e uno del Commissariato locale, si presentano a casa della professoressa Burgio. In sintesi, le comunicano che in seguito alle dichiarazioni di un pentito hanno ritrovato il cadavere di Pierantonio. Non aveva parole, non aveva lagrime, non aveva sorriso, Solo dolore. Tanto dolore. Ha aspettato e lottato affinché si trovasse il cadavere di Pierantonio, si sapesse la verità, raccontava dei ragazzi violenti, ma mai e poi mai avrebbe pensato che proprio quei ragazzi, suoi ex alunni avessero ucciso il suo ragazzo. Adesso, è una donna molto malata, non gira più con quella foto, il cadavere di Pierantonio è stato ritrovato «è un miracolo che mio figlio finalmente sia tornato a casa e che dona al mio cuore la serenità perduta». Agghiacciante.


EMIGRANTI

Una siciliana

a Milano di Ornella Balsamo

Una storia come tante, una r4agazza qualunque. Emigrata? No. Non si usa più, però un bel giorno si fa la valigia e si va su al nord. Un sogno nel cassetto? Voglia di lavorare? Una cosa è certa non è una storia di disperazione, il nostro Marta vuole diventare giornalista e al sud, in Sicilia, a Catania è molto difficile. Invece a Milano… nemmeno rispondono. «Non mi vogliono manco come fashion blogger, a me». Nel frattempo si studia, si sbarca il lunario, si spera e nel frattempo ci si lascia sfruttare all'ombra del Duomo. Per il momento la Walter Tobagi scuola di giornalismo - può attendere

Se c'è un personaggio nel quale m'identifico pienamente da qualche mese a questa parte, è senz'altro quello di Marta, la giovane precaria siciliana del film di Virzì Tutta la vita davanti. Da quando sono andata via dalla mia città, Catania, subito dopo essermi laureata, ho la sensazione di vivere dentro una bolla, sospesa, ed ogni situazione è per me nuova e surreale. La mia è una delle tante storie di precari, di meridionali col fuoco negli occhi e nulla nelle tasche, con la speranza nel cuore e le immagini di un paese in sfacelo nella mente. Ma al di là della retorica e dei cliché, la mia non è una storia di disperazione: ho lasciato una casa confortevole a spese zero ed il privilegio di cercare lavoro senza troppi patemi, che prima o poi una raccomandazione l'avrei avuta; ho semplicemente preferito tirare fuori la testa dal guscio e tastare con mano l'impegno, la difficoltà e la sensazione di trovarsi sull'orlo di baratro tipica di chi non ha un futuro certo. Da brava siciliana, sono andata via dalla mia terra come i miei nonni ed i loro figli prima di me, sentivo di doverlo fare, non per fame ma per necessità di evolvermi, perché sentivo di non aver più nulla

da fare a Catania, ed in effetti trascorrevo le mie giornate in casa, sempre uguali. Sono andata a Milano perché ho un sogno nel cassetto (ho preventivamente collocato una scorta decennale di antitarme, in quel cassetto), ossia diventare una giornalista. E non una giornalista qualsiasi, magari una brava giornalista. Per poter diventare brava, ho bisogno di uscire dal siculo recinto, di fare nuove esperienze e mettere in discussione le mie abitudini tout court, di potermi almeno illudere di avere qualche chance in più qui che nell'asfittica realtà editoriale catanese. Chiaramente tra il dire e il fare ci sono di mezzo parecchi mari (ed insidiosi litorali, e porti, e dazi salati da pagare). A Milano non ho trovato esattamente ciò che cercavo. Di una giovane neolaureata quasi-giornalista non se ne fa niente nessuno, intendo dire che nessuno vuole pagare una ventiquattrenne per occuparsi di articoli o interviste che qualcun altro farà gratis, e che nove volte su dieci si prediligono i curriculum “gonfiati” (fenomeno interessante, lo ammetto) di persone che millantano competenze e capacità che non hanno, confezionano alla meglio il pacchetto e pare che questa strategia funzioni.

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Ovviamente le offerte di “stage gratuito” o di “collaborazione volontaria quindi non retribuita” non mancano. Vanno alla grande anche le “fashion blogger” o gli “esperti di new media” (ma talvolta anche essere laureati alla Bocconi o avere un proprio blog possono costituire un titolo preferenziale; requisiti importanti, insomma), molto richiesti gli stagisti-tuttofare-senza-pretese. Non ho mai ricevuto risposta da nessuna delle aziende che ho contattato in risposta ai loro annunci, chiaramente non mi sono rivolta al Corriere della Sera, ma a semplici testate telematiche locali. Una bella sferzata inferta al mio ego: «Tanto non mi vogliono manco come fashion blogger, a me» - ho detto l'altra sera al mio ragazzo in un momento d'ottimismo. Date queste premesse ho iniziato a cercare un lavoro qualsiasi e l'ho trovato, ovviamente a tempo super-determinato e senza la possibilità di pormi domande sul mio futuro o di sapere se mi verrà rinnovato o meno fino a pochi giorni prima della scadenza; “oggi il lavoro c'è, domani si vedrà”, intanto io ed il mio compagno abbiamo avuto difficoltà nel trovare casa in affitto perché siamo precari e quindi non “sicuri”.


EMIGRANTI

Poco importano le garanzie fornite o che in Italia oggi ci siano tantissimi precari, che essere precario non significa necessariamente essere disoccupato, quel “1 Novembre” indicato come data di scadenza del rapporto lavorativo è uno stigma. Alla fine abbiamo trovato un buco (ma qui lo chiamano “monolocale”) dove grazie al cielo non manca nulla, abbiamo persino il posto per la bici! Attualmente lavoro come commessa in un negozio del centro, sto sempre a contatto con le persone – tantissime persone, forse troppe – e con i turisti. I colleghi di lavoro si sono accorti della mia bravura nel parlare inglese e spesso mi chiedono di tradurre e di interfacciarmi con i clienti stranieri. A proposito di colleghi, i milanesi si contano sulla punta delle dita: qua siamo tutti meridionali o di origine straniera (la famosa seconda generazione sulla quale si potrebbe e dovrebbe dire tanto!). In metrò, in giro per le strade, nei negozi, almeno il 50% delle persone sono straniere: africani, mediorientali, sudamericani, slavi. I loro figli sono nati in Italia ed hanno l'accento milanese; non è sempre possibile parlare d'integrazione a tutti gli effetti, perché a pulire sono sempre i filippini, ma non mancano manager o responsabili di origine marocchina o

thailandese. Alcune delle cose che mi fanno sorridere, a lavoro (e sorrido spesso: i miei colleghi pensano che io sia gentile e serena) sono l'auto-applauso di gruppo che lo staff si rivolge all'inizio d'ogni giornata; oppure quello che io chiamo “questionario-standard-per--meridionale” costituito dalle tipiche domande Ma come mai sei venuta a Milano??? (detto con immenso stupore), Ma come fa una siciliana a non essere abbronzata, non vai al mare? (detto durante il mese di agosto, mentre io lavoro sostituendo coloro che vanno in ferie) e, dulcis in fundo, Non ti trovi bene a Milano, vero? Questa città fa schifo; da segnalare anche l'utilizzo di termini inglesi in tutte le situazioni: non si dice “timbrare”, ma “clockare”, non si dice “facile”, si dice “easy”, e via discorrendo. Giusto per la cronaca, a me Milano non fa affatto schifo, pur con tutte le sue stranezze e le sue contraddizioni. Lungo la stessa strada ho visto camminare una ricchissima famiglia araba con mogli e nidiate di figli al seguito, bellissime modelle bionde, e ho visto un uomo lavarsi alla fontana, a torso nudo, alle sei e mezza del mattino, temperatura cinque gradi. Molte persone sembra soffrire in questa città così spersonalizzata e ansiosa, dove non

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incontri mai le stesse persone e dove vanno tutti di fretta, dove non ci si osserva l'un l'altro con fare sospettoso e ironico: cose inaudite, per una catanese. Sarei ingiusta nei confronti di Catania se dicessi di aver trovato il paradiso a Milano, ma la realtà dei fatti parla da sé: tre lavori (con contratto) trovati in tre mesi contro mezzo lavoricchio (alla bell'e meglio) in ventitré anni. Con i soldi che guadagno, cerco di pagare, oltre alle spese, il mio sogno di difficile realizzazione. Sto per diventare pubblicista in Sicilia, con molte perplessità ed altrettanto dispendio monetario, e l'anno prossimo vorrei provare ad entrare, alla prestigiosa scuola di giornalismo milanese, pagando solo 6000€ l'anno, ma continuando di questo passo 6000€ non li avrò nemmeno fra una vita. Fare la commessa, la promoter, la cassiera, la centralinista o lavorare per delle schifose multinazionali non mi rende soddisfatta, soprattutto intellettualmente e moralmente, ma sperare che questa sia solo una fase transitoria mi aiuta. Per moltissimi miei coetanei e conterranei è così: si, si confezionano lussuosi pacchetti per quel che rimane della “Milano bene” e ci si consola pensando che, in fondo, abbiamo tutta la vita davanti.


15 OTTOBRE: SIGNIFICATI E SPERANZE

Accampiamo diritti

Yes, we camp! di Gigi Malabarba Sinistra Critica

Che cosa dice il 15 ottobre ai lavoratori e alle lavoratrici in lotta per difendere il posto di lavoro? Non è antipoli tica. Due-trecentomila persone che si autofinanziano un viaggio a Roma per dire ‘No al governo unico delle banche e alla dittatura dei mercati’ sono un fatto straordinario. Una potenzialità di lotta e di resistenza gigantesca. Probabilmente "un’alternativa" di contenuti che renderebbe la vita difficile a qualsiasi successivo governo prigioniero e dominato dalla Banca centrale europea. Intanto, decine di fabbriche hanno chiuso senza aver neppure l’onore della cronaca, nel totale abbandono politico e sindacale. Con perdita di diverse centinaia di posti di lavoro. I signori del bla, bla, bla se ne sono accorti?

Non voglio affrontare qui le problematiche relative al corteo dello scorso 15 ottobre, che meritano una riflessione approfondita in tutte le sedi di movimento; Vorrei cercare invece di proporre una ricerca, avviata tra i lavoratori e le lavoratrici di alcune aziende in crisi del milanese. Sul come reagire alla pesante sconfitta delle lotte di resistenza che pur si sono date nel corso degli ultimi anni; cercando di capire come i cosiddetti ‘indignati’ possano essere un punto di appoggio vero anche per loro. Quindi solo un accenno in premessa ad almeno alcune coordinate di giudizio su quella giornata a Roma, nata all’interno di una protesta mondiale, che segnerà probabilmente un nuovo punto di partenza delle lotte contro un sistema economico e sociale in crisi. La prima è che due-trecentomila persone che si autofinanziano un viaggio a Roma per dire ‘No al governo unico delle banche e alla dittatura dei mercati’ costituiscono un fatto straordinario con grandissime potenzialità. Non si tratta

qui di antipolitica per la presenza più marginale dei partiti e sindacati, ma di politica diversa e alternativa a un sistema politico ritenuto giustamente estraneo ed ostile, che va rifondato daccapo. La seconda è che gli ‘incidenti’ provocati da un settore del corteo, che ha certamente danneggiato proprio la parte più radicale della manifestazione - quella che aveva deciso di accamparsi alla fine per dare continuità alla mobilitazione, non limitandosi alla tradizionale passeggiata, e che non ha potuto farlo – non devono essere ascritti a infiltrati di varia natura, ma costituiscono un problema politico del movimento stesso: non è possibile pensare che vertici nazionali di alcune organizzazioni rappresentative dei social forum di dieci anni fa possano decidere per tutti oggi; è del tutto aperta la questione di istanze democratiche di decisione autorganizzate che in Italia faticano a prodursi, mentre sono il perno delle mobilitazioni dalla Spagna agli Stati Uniti. Senza una ‘democrazia reale

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dal basso’ ognuno può essere legittimato a fare quel che crede, anche le cose più stupide e controproducenti (come quelle che ci sono state): criminalizzare è quindi sbagliato e soprattutto inefficace. La terza è che il Viminale sta mettendo in atto una propria strategia di escalation repressiva per impedire la nascita di un movimento di massa che potrebbe non solo far cadere un governo precario, ma anche costituire un’alternativa di contenuti che renderebbe la vita difficile a qualsiasi successivo governo che fosse dipendente –come Berlusconi- dai diktat della Banca centrale europea. Il 15 ottobre la polizia ha lasciato fare qualsiasi cosa per più di un’ora, dando l’idea persino di essere sopraffatta, per poi colpire tutti quelli che erano a San Giovanni. Il ‘morto’, evocato ufficialmente da Maroni per ben quattro volte da un anno a questa parte, è un progetto preciso, che intendono perseguire con determinazione: dovrebbe essere tra le forze dell’ordine e provocare discredito sulle proteste di massa.


15 OTTOBRE: SIGNIFICATI E SPERANZE

Un disegno inquietante, ma il ministro dell’Interno non ha fatto mistero di voler seguire l’insegnamento di un illustre predecessore, quale Francesco Cossiga. Il movimento No Tav ha finora la grande intelligenza di mettere in crisi quel disegno scellerato, che è tuttavia in campo. Ma veniamo alle aziende in lotta del milanese, uno spaccato di realtà operaie che però va al di là della collocazione territoriale specifica. A poco più di tre anni dall’inizio degli effetti devastanti della crisi il quadro è drammatico: decine di fabbriche hanno chiuso senza aver neppure l’onore della cronaca, senza neanche capacitarsi di come poter reagire, nel totale abbandono politico e sindacale. Ripeto decine di fabbriche, con perdita di diverse centinaia di posti di lavoro. Le fabbriche che invece hanno sviluppato una mobilitazione a fronte di attacchi all’occupazione a volte strumentali (cioè fabbriche con un mercato, ma spesso collocate su aree di possibile speculazione edilizia ‘grazie’ alla celebrazione dell’evento Expo 2015), parliamo di Agile Ex Eutelia, Mangiarotti, Maflow, Novaceta, e che nella primavera

del 2010 erano riuscite anche ad autoconvocarsi in un fronte di resistenza coordinato, hanno subìto accordi capestro non per cattiverie di burocrazie sindacali complici, ma per rapporti di forza troppo limitati rispetto alla posta in gioco. E così, pur restando in gran parte ancora ‘aperte’, queste aziende hanno visto falcidiati i posti di lavoro, con cassa integrazione a zero ore per i più. Ora gli ammortizzatori sociali sono in scadenza e per migliaia di lavoratori si avvicina lo spettro del licenziamento definitivo. Che fare, con un sindacato debole e anche diviso (una parte, ‘i complici’ come li chiama Sacconi, non muovono un dito) ? La speranza - è qui la riflessione tra gruppi di lavoratori e lavoratrici di queste e altre aziende, in parte anche presenti a Roma il 15 febbraio – è proprio di poter agganciare il movimento globale di contestazione del sistema capitalistico. A partire da una considerazione: le risorse per rilanciare il lavoro e il reddito ci sono, perché stanno nei profitti enormi delle imprese e degli speculatori finanziari. Mentre il debito pubblico, almeno quella parte illegittima che non ri-

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guarda le attività di servizio sociale e il risparmio dei cittadini (e cioè il 90 per cento del debito, che è di origine privata!) non deve essere pagato. A partire da questo si può delineare una diversa politica economica, costruita dal basso, che può essere il terreno principale di convergenza tra il mondo del lavoro, gli studenti e i giovani senza futuro e tutto il più variegato popolo che non ne più di questa situazione, in cui le donne giocano –non a caso- un ruolo non indifferente. Alcuni/e hanno contribuito alla nascita di un sito, www.rivoltaildebito.org, che vuole dare un contributo in questa direzione. Perché, dicono questi lavoratori /che hanno una vertenza in corso con la Regione Lombardia, garante insieme ai ministeri di tanti accordi per rilanciare il lavoro), non ci accampiamo tutti insieme sotto il Palazzo e non ce ne andiamo finchè non c’è una svolta concreta a nostro favore? E’ una strada che nasce dal basso e che si sta costruendo. La parola d’ordine ripresa dal corteo del 15 è: Accampiamo diritti, yes we camp! Se son rose fioriranno.


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UNA CASA-FAMIGLIA A ROMA

La “famiglia

del capitano Ultimo di Antonella Serafini A Roma è nata la casa famiglia voluta fortemente dal capitano Ultimo. Tutto OK? No, è solo l'inizio, però tutto fa presagire che andrà bene. Italiani e stranieri che si stringono la mano povera e che scherzano e ridono insieme giocando con i falchi e le civette. Una chiesa senza tetto, un tronco tagliato a metà che funge da altare, la domenica la messa, durante la quale si offre il pane fatto da un musulmano. Chi glielo ha insegnato? Un pizzaiolo napoletano. La falconeria, per la pet terapy, l'orto per la produzione degli ortaggi. Tanti laboratori. Ogni ragazzo svolge un compito e poi tanti volontari. Obiettivo? Un mondo pulito, tanta legalità, un rapporto famigliare e diretto con Ultimo: punto di riferimento per i ragazzi. A Roma, sulla Prenestina è nata una casa famiglia per minori. A volere il progetto è stato il capitano Ultimo, l'uomo che ha messo le manette a Totò Riina.Tutti abbiamo delle idee, tutti pensiamo “sarebbe bello se...”. La cosa che distingue Ultimo da molti altri, è che nel momento in cui l'idea nasce, c'è già in atto un progetto scritto che nel tempo alla fine si concretizza. Parlare poco e rimboccarsi le maniche. Il comune di Roma ha dato così in gestione un parco di 30 ettari di terreno ad un gruppo di fondazioni e cooperative sociali. Una di queste era la fondazione Capitano Ultimo che ha presentato il progetto della casa famiglia. All'inizio è stato necessario l'aiuto della nazionale cantanti, un intervento che ha messo in moto il meccanismo della partita del cuore, la partita/ spettacolo che ogni anno destina i proventi ad un'associazione no profit. E così, con i soliti “invia un sms per sostenere pinco pallo”, parte l'operazione solidarietà. Molti pensano che devolvere denaro in beneficenza sia una perdita di tempo, che va sempre tutto in mano alle solite persone che poi si spartiscono i soldi. E invece in molti casi sono stati creati e portati a termine progetti che senza il buon cuore della brava gente italiana non sarebbero stati possibili. Una gran fetta d'italiani ha fatto arrivare i primi soldi per ristrutturare lo stabile della casa famiglia, una mensa sociale, una saletta per le riunioni del personale, e un forno a legna. Una volta ristrutturato il tutto, serviva l'anima, della struttura. Senza i volontari, senza mobili, senza utenze, a quest'ora avremmo avuto un bel casale inagibile. Ristrutturato ma inutile. Questo è stato il motivo che ha spinto Ultimo a creare un'associazione di volontariato: l'Associazione Volontari Capitano Ultimo onlus. L'intento è di creare un futuro per ragazzi che hanno la sola colpa di essere meno fortunati di altri. L'associazione ha battuto cassa a chiun-

que, ed ha trovato aziende che l'hanno ammobiliata, aziende che hanno provveduto a generi alimentari, persone nobili che hanno offerto il loro 5 per mille, gente che si è iscritta come socio sostenitore, gente che ha voluto offrire denaro in anonimato. E tutto questo perché il progetto dell'associazione non prevedeva solo una casa famiglia, ma una serie di finalità tutte volte alla cultura della legalità. All'interno dell'area, c'è pure la chiesa. Una chiesa senza pareti, con un tronco tagliato a metà e che funge da altare, con la terra al posto del pavimento e un tetto di legno. Una chiesa in cui il prete dell'associazione celebra messa, offrendo il pane che un ospite della casa famiglia, musulmano, ha imparato a fare grazie ad un volontario pizzaiolo che da una mano. La cosa bella è proprio il fatto che non si percepisce nessuno scontro di civiltà religiose tra gli abitanti della casa, che è multietnica. Italiani e stranieri che si stringono la mano povera, scherzano e ridono insieme giocando con i falchi e le civette. Si, proprio falchi e civette, e ultimamente anche un'aquila. Sono gli animali della falconeria utilizzati per la pet terapy contro l'aggressività raccomandata anche per chi non abita nella casa famiglia. I rapaci sono stati voluti dallo stesso Ultimo, perchè un falco non si può addestrare con premi o punizioni. Un animale di questo tipo alle punizioni reagisce volando via per sempre. Al falco si può solo donare amicizia e affetto. Il rispetto per la libertà di un rapace si prova ogni volta che vola alto, caccia la preda, ma, poi torna. Un falco non dice “grazie per l'amicizia” e amare la natura e gli animali, non prevede nessun tornaconto personale. Si può solo dare e mai pretendere di avere in cambio qualcosa. Lo spirito del volontariato. . I ragazzi della famiglia, che adorano Ultimo, vivono in un mondo pulito, dove si coltivano ortaggi che poi si mangiano a tavola, dove

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ognuno a turno porta la spazzatura nei cassonetti, dove tutti si rifanno il letto la mattina, dove tutti a turno apparecchiano. I più grandi vigilano sui più piccoli, e a volte dimostrano una maturità che è il frutto di una vita sofferta, fatta di ferite e privazioni. C'è un rapporto familiare tra volontari e ragazzi ospiti. Un laboratorio di pelletteria è usato per fare borse, cinture, portachiavi, fermacapelli, il cui ricavato va alla casa famiglia. Dalla falconeria alla pelletteria, dalla mensa all'orto didattico, tutte le attività sono funzionali al funzionamento di questa struttura che è stata realizzata in due anni di tempo. Un miracolo. L'associazione di volontariato è stata registrata dal notaio il 23 maggio, data resa emblematica dalla strage di Capaci. Una semplice data per ricordare e per dire che si può risorgere dalle ceneri. Che la legalità torna a vivere grazie ad una casa famiglia che è guidata nei valori da chi, come Ultimo, è stato in grado di curare tutti i minimi dettagli della struttura: la selezione del personale assunto - ci sono otto persone che prendono stipendio come educatori professionali, fino a curare i corsi di formazione con la regione Lazio per la realizzazione di manufatti in cuoio, per fare i pasticceri, i panettieri. Insomma, nell'arco di due anni, l'idea è diventata realtà, e siamo solo all'inizio. Hanno provato a distruggere un carabiniere isolandolo, hanno provato ad infangarlo, hanno usato fuoco amico contro. Ma per ogni nemico, ci sono 100 amici pronti a lavorare per lui. Per i ragazzi ospiti è un punto di riferimento. E non solo per loro. “La nostra sarà un’azione sociale diretta, non mediata e non manipolata. Vi aspetto nelle periferie, nel degrado sociale e ambientale con l’umiltà totale, con la dedizione totale per gli altri, con il coraggio totale di rifiutare privilegi e benessere”. (Ultimo)


BAVAGLIO

Colpevole di

scrivere la verità di Rosa Maria Di Natale Ha raccontato la storia di una tredicenne stuprata da un anziano, ha spiegato ipotesi di persone coinvolte Chi te l'ha detto? Segreto professionale! Bene, venti giorni di carcere: favoreggiamento personale nei confronti d'ignoti, colpevoli di violazione del segreto d’ufficio. Insomma, Giulia Martorana - giornalista di Enna- è colpevole di avere dato una notizia vera e di avere rispettato le regole deontologiche della professione. Perché è solo pubblicista? Perché la legislazione in merito è poco chiara? In ogni caso si creano precedenti che mettono in serio pericolo la libertà d'informazione. Come se già questo terreno non fosse abbastanza minato Venti giorni di carcere sulla fedina penale per non avere rivelato al giudice la fonte della sua notizia. E non certo per aver coltivato marijuana sul balcone, o per aver fatto uno scippo finito male. Giulia Martorana, 51 anni, madre di due figli, è una brava e stimata giornalista d'Enna che ha iniziato a fare informazione nel 1976 con le radio private, che ha poi proseguito con l’Ora, con il Giornale di Sicilia, l’agenzia Agi e con infine con il quotidiano, la Sicilia di Enna. Una vita trascorsa, ad inseguire e a raccontare i fatti in mille modi e in mille contesti diversi. Sempre sul campo. Sempre a contatto diretto con la realtà. Eppure Giulia si è “sporcata” la pagella di brava cittadina per non aver rivelato al giudice l’entità del suo informatore. Che, ironia della sorte, era pure vera. Succede nella democratica Italia e succede a centinaia di chilometri di distanza da quell’Iran che mette in carcere i blogger e che tanto ci ripugna. La cronista Giulia Martorana si è

avvalsa del segreto professionale, ma in tasca ha un tesserino di giornalista pubblicista. Troppo poco per potersi permettere di tutelari le fonti, che per qualunque cronista, indipendentemente dall’elenco a cui si appartiene, sono sacre.

Qual è la colpa principale di Giulia? Quella di avere raccontato, nel settembre di tre anni fa, come tanti altri colleghi, la storia di due sorelline, soprattutto di una delle due, una tredicenne stuprata da un anziano, in un secondo tempo individuato e arrestato. O meglio l’aver sottolineato l’ipotesi, piuttosto ragionevole, che in questa vicenda vi fossero coinvolti altri adulti. Una chiave di lettura che ha colpito il giudice. In effetti, il coinvolgimento di altre persone sa-

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rebbe stato realmente tra i fatti processuali in esame, ma la notizia non era ancora pubblica. “In quei giorni erano in fase di incidente probatorio- racconta Giulia- e c’era stata l’audizione delle due sorelline in un contesto protetto e secretato. L’incidente fu il lunedì e non avrei potuto sapere nulla da quel confronto, ma la mia notizia uscì il mercoledì, inclusa l’ipotesi di eventuali altri abusatori coinvolti”. Ebbene, destino volle che proprio il martedì sera venisse perquisita l’abitazione di un adulto tuttora sotto processo. Non è valso a nulla il fatto che la Martorana abbia posto la notizia- peraltro già paventata in un primo tempo dagli stessi investigatori, in conferenza stampa- in senso dubitativo. Il non avere rivelato la fonte ha fatto scattare a suo discapito il “favoreggiamento personale nei confronti d'ignoti, colpevoli di violazione del segreto d’ufficio”. La cronista, insomma, si è macchiata della colpa di avere coperto qualcuno che avrebbe violato il segreto d’ufficio. Risultato: venti giorni di carcere, pena sospesa.


BAVAGLIO

Ma sarebbe un errore pensare che la giornalista oggi punti il dito contro la magistratura. Il problema di fondo è un altro. Il codice di procedura penale (articolo 200) permette solo ai giornalisti professionisti di avvalersi del segreto professionale. Peccato però che la realtà editoriale conti centinaia di giornalisti “soltanto” pubblicisti, in grado coprire la domanda di informazione al pari dei colleghi che possiedono l’abilitazione di Stato. Lo stesso codice penale impone inoltre l’obbligo per i giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti, di tutelare le loro fonti, e sono anche previste delle sanzioni per chi le rivela. La norma è dunque contraddittoria e il caso della Martorana è un esempio lampante di come i giornalisti stessi abbiano perso tempo prezioso nel valutare i pericoli di una situazione così complessa. ”Sia chiaro: non voglio che questa vicenda sia un’occasione per attaccare la magistratura. Mi rifiuto mentalmente. E’ stata applicata la legge. Io mi avvalgo del segreto professionale ma poiché

sono pubblicista il pm mi rinvia a giudizio, il gup lo dispone e il giudice non può fare altro che applicare una norma e condannarmi. Uno più uno fa due... Sulla vicenda del favoreggiamento ce l’andremo a discutere in appello”. C’è di più. La Martorana ha anche un altro processo a suo carico per un reato analogo, stavolta a proposito di un articolo di cronaca nera. Stessa città, stesso tribunale, quello di Enna. E non sono chiare le conseguenze reali per la giornalista, nel caso di una seconda condanna. Intanto, l'Ordine dei giornalisti osserva che «una legge dello Stato garantisce ai giornalisti, senza fare distinzione tra professionisti e pubblicisti, e anche agli editori, il segreto professionale sulle informazioni di carattere fiduciario ricevute nell'esercizio del proprio lavoro, è la legge che ha istituito l'Ordine dei giornalisti, una legge di 50 anni fa, ma ancora attualissima». La solidarietà del sindacato dei giornalisti, Fnsi e Associazione siciliana della stampa è arrivata, puntuale. Per i colleghi è «ingiusta e incomprensibile la condanna a 20 giorni di

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carcere della cronista Giulia Martorana, C’è però una cosa che sanno in pochi: Giulia si aspettava la sentenza. Quando venne rinviata a giudizio insieme ad un altro collega, Josè Trovato, per l’articolo di cronaca nera, disse la sua e non a bassa voce. Una lettera aperta fu inviata all’Ordine ed è ancora disponibile su alcuni siti, compreso l’oramai famoso e irriverente ilbarbieredellasera.com: “Dissi chiaramente che non m'interessavano le solidarietà, non perché non mi facessero piacere (ne ho avute tante sincere in questi giorni, anche a titolo personale, e ringrazio per questo), ma perché m'interessavano azioni concrete. Nella norma c’è un corto circuito, dobbiamo prenderne atto. Il mio caso non sarà risolto, non ci sarà un effetto retroattivo se questa discrasia sarà finalmente sanata, la mia vicenda sarebbe comunque servita a qualcosa –dice Giulia – Sarò più chiara: non chiedo un’interpretazione evolutiva della legge, ma la sua modifica. C’è un problema della nostra categoria. E non lo possiamo più nascondere”


DISOBBEDIENTI MA NON VIOLENTE

Nina e Marianna:

Cella numero 5 di Simonetta Zandiri Due donne del movimento No TAV, arrestate a settembre. Tre giorni in isolamento, sotto pressione con interrogatori di sei ore e poi messe insieme, nella fredda cella numero 5, dove sono rimaste per altri dieci giorni. Dopo, arresti domiciliari per l'una e l'obbligo di domicilio per l'altra. Nell'attesa del processo le vogliono usare per impaurire tutto il movimento. Decine di fogli di via e fermi preventivi. Intimidazioni d'ogni genere. Persone insultate e minacciate da chi, dovrebbe tutelare la loro sicurezza. Ma si resiste. Turi è rimasto abbracciato ad un albero, ad un’altezza di 30 metri, per 50 ore, Fabrizio oltre al cibo ha sospeso l’assunzione di farmaci anti HIV. Per Nicola, Stefano, Elisabetta, Giorgio, Peo e tanti altri da settembre è ripartito il digiuno a staffetta. Oggi per le due donne, l'aggravante della “violenza a pubblico ufficiale”(pare che uno degli agenti nella corsa per afferrare Nina abbia riportato uno strappo muscolare al polpaccio) e il "concorso morale” Il nove settembre 2011 Marianna, una ragazza appena ventenne, e Nina, una madre di splendidi bambini, entrambe incensurate, sono finite in carcere per aver partecipato ad una delle tante manifestazioni NO TAV alle reti del “non cantiere” di Chiomonte. Marianna studia medicina, Nina è operaia e, nel tempo libero, infermiera volontaria per il 118. Sono rimaste tre giorni in isolamento, tenute sotto pressione con interrogatori lunghissimi, sei ore, e poi messe insieme, nella fredda cella numero 5, dove sono rimaste per altri dieci giorni. Dal carcere sono passate ad obbligo di domicilio per Marianna e arresti domiciliari per Elena, detta Nina. Una punizione più che una misura cautelativa, poiché, nulla nei comportamenti di Nina e Marianna può far pensare che possano “commettere reati”. Dopo due settimane ai domiciliari a Nina è stata concessa la possibilità di lavorare, ma solo dalle otto alle diciassette, quindi per lei non è stato più possibile fare i turni. di volontaria. E’ controllata costantemente, al lavoro, a casa, di giorno e anche di notte.

Una pressione continua, del tutto ingiustificata. Forse una strategia “intimidatoria” per chi sul territorio da ventidue anni, ormai, resiste e lotta per una diversa idea di progresso? Ma andiamo con ordine: La notte tra il 9 e il 10 settembre è stato compiuto un attacco - l'ennesimo contro i manifestanti del movimento No Tav che avevano cercato di radunarsi nella baita. Una casupola utilizzata come sede perché, molto vicino all’area del cantiere, che non c’è, a ridosso delle reti che ne delimitano l'area. I tralicci messi illegalmente, come provato dagli esposti fatti dal Movimento NO TAV, al posto del filo spinato hanno delle lame molto taglienti. Uno scenario che riporta ad altri tempi. Uno scenario veramente drammatico All’interno del “recinto”, ci sono le forze dell'ordine, Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Alpini, Vigili del fuoco, attrezzati con idranti, con camionette e tutti naturalmente con fucili che usano per sparare lacrimogeni di vario genere, tra cui quelli, al Cs molto tossici,

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vietati nelle guerre. Il nove settembre ancora una volta è stata utilizzata una quantità esagerata di gas lacrimogeni, perché hanno sparato anche a chi era molto lontano dalle reti, a chi era ancora sui sentieri. Hanno sparato a chi era nella baita. Tante le persone ferite perché tra i lacrimogeni che sono utilizzati, c’è un tipo molto particolare che ha un propulsore interno, che, quando ti arriva addosso fa parecchio male fisico, non solo la tossicità del contenuto, quindi. Questa è la ragione per cui Nina c’è di solito nelle manifestazioni. Nina curava i feriti. Nel suo zaino sono stati trovati oggetti pericolosi: garze, bende, ghiaccio istantaneo. È stata presa in un momento un po’ critico della nottata. Chi era presente nel momento dell’arresto, ha raccontato che i poliziotti sono corsi puntando proprio Nina e Marianna, addirittura scostando altri manifestanti che erano più vicini alle reti. E’ chiaro, quindi, che le avevano scelte, è chiaro che colpire “due donne” è stata una mossa pianificata, non casuale.


DISOBBEDIENTI MA NON VIOLENTE

E non è un caso che non avendo sufficienti motivi per sostenere l’arresto abbiano aggiunto l’aggravante della “violenza a pubblico ufficiale”, perché pare che uno degli agenti nella corsa per afferrare Nina abbia riportato uno strappo muscolare, al polpaccio. Il 28 ottobre il GIP ha sospeso gli arresti domiciliari e l’obbligo di dimora, fermo restando il divieto assoluto di frequentare i siti del cantiere e qualsiasi manifestazione NO TAV, nell'attesa del processo. Tuttavia, le accuse si sono aggravate, perché pochi giorni prima della recente manifestazione di ottobre al fascicolo di Nina e Marianna sono stati aggiunti i referti medici, di due altri “feriti” nella notte del 9 settembre. Sono accusate entrambe di resistenza e violenza a pubblico ufficiale aggravata dal “concorso morale”, perché i manifestanti erano un numero maggiore di 10. Gli elementi a loro carico sono determinati più dalla situazione nella quale le hanno prese che dai gesti individuali e le accuse sono molto gravi proprio per l’uso strumentale che viene fatto del “concorso morale” un monito per tutto movimento. Vogliono “usare” Nina e Marianna come esempio ma queste donne lo sono

già. Un esempio, da imitare e non da condannare. Il loro iter giudiziario è ancora lungo e tutto in salita, ma la loro storia deve essere raccontata partendo dal principio, spiegando come e perché due donne libere scelgono di rischiare tutto per difendere diritti che in quella parte d’Italia sono calpestati da 22 anni, per realizzare grandi truffe che chiamano “grandi opere”, spacciate come progresso! Questo processo è un gravissimo attacco al movimento perché continuare a dire che cerchiamo il morto e poi arrestare due donne che nulla hanno a che fare con violenti, black block ed altro. Si stanno usando dei pretesti per costruire l’immagine falsa del movimento, qualcosa d'organizzato per assedi violenti. Il rischio è che da questo partano altri arresti, si costruisce il caso mediatico, si va a cercare sempre di più di criminalizzare Ci sono decine di fogli di via, ci sono fermi preventivi, intimidazioni di ogni genere, persone insultate e/o minacciate da chi indossa una divisa e dovrebbe tutelare la loro sicurezza. Chi, come Nina e Marianna, vive questa lotta con grande partecipazione ed ha subito le violenze, sa bene quanta forza è necessaria per non cadere nella trap-

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pola della crudeltà, e lotta pacificamente mantenendo una presenza a tutte le manifestazioni anche per soccorrere i compagni feriti. Il movimento nonostante le forti provocazioni mediatiche e militari il ventitre ottobre, ha dimostrato, di saper creare una mobilitazione disobbediente, ma non violenta. In Valsusa la democrazia è sospesa, ma è proprio in Valsusa che contro la repressione e la militarizzazione, sta crescendo una forte resistenza con azioni “non violente, Turi è rimasto abbracciato ad un albero, ad un’altezza di 30 metri, per 50 ore, ad agosto. Fabrizio oltre al cibo, ha sospeso l’assunzione di farmaci anti hiv. Per Nicola, Stefano, Elisabetta, Giorgio, Peo da settembre è ripartito il digiuno a staffetta, ma, le grandi testate si ricordano del movimento No tav solo, quando si lancia la pietra. Nina e Marianna in questo momento non hanno il diritto di esprimere il loro pensiero e il loro dissenso; chi ha scelto di partecipare alla manifestazione “disobbediente” del 23 ottobre è stato accusato di essere un violento, un sovversivo, un criminale, un terrorista. Accusato da quella classe politica che oggi sta dando davvero l’esempio peggiore.


MONDO PRECARIO

Cronachette

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di AMALIA BRUNO


MONDO PRECARIO

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PUNTO FINAL

Il Kindle e i Siciliani di Riccardo Orioles Il 15 Amazon presenta una versione economica del suo Kindle, che costerà (in America) solo 79 dollari. Non so quanto tempo ci vorrà per il mercato italiano (su cui in questi giorni Amazon si sta attrezzando con magazzini e distributori): tre mesi, sei mesi, l'anno nuovo? Il mercato italiano (ma anche tedesco e francese: cioè non anglosassone, in definitiva) è molto indietro, nell'editoria elettronica, ma un supereconomico come questo arriverà senza dubbio anche qui. E segnerà una svolta, esattamente come fu per i primi telefonini economici: un aggeggio che prima era appannaggio di pochi nerd (danarosi) nel giro d'un paio d'anni finì in mano a ciascun ragazzino, con conseguenze epocali (da questo momento nessuno è più solo). La cultura di Facebook, che è il maggiore fra i partiti politici di questo momento, nasce proprio – tanto per dire - da quei primi goffi sms. E questo che cosa c'entra con noialtri? Non lo so. Però, se domani presentano il primo telefonino con sms, o la Ford T, o il primo foglio di pergamena per scrivere, o il primo ebook reader sotto i cento dollari, allora non siamo semplicemente di fronte a un'invenzione ma a una svolta sociale, a una trasformazione. Il fatto che entro due anni ogni ragazzino italiano avrà, oltre al suo telefonino, anche il suo leggi-libri portatile è uno di questi momenti di trasformazione.

Perciò stiamoci attenti (almeno io) e teniamone conto un tutto ciò che facciamo. Noi produciamo cultura (cioè politica) e comunicazione fra esseri umani (il “giornalismo”). Entrambe, entro pochi anni dalla svolta, ne verranno in tutto o in parte trasformate. *** Nel 1976 l'area politica emergente (la nuova sinistra: gli indignatos di allora) produceva ben tre quotidiani: il Manifesto, Lotta Continua e il Quotidiano dei lavoratori, oltre a un numero indefinito di settimanali, riviste, e chi più ne più ne metta. Non venne mai in mente a nessuno di quei benemeriti compagni che forse, invece di tanti giornali piccoli, se ne poteva fare uno grosso, e comune. La loro area di lettori, insieme con quella dei vecchi giornali “comunisti” come Unità e Paese Sera, fu quindi rapidamente travolta appena quancuno dell'establishment si accorse della sua esistenza, e fondò Repubblica. Che fece le sue fortune (chissà se qualcuno lo insegna a Storia del Giornalismo) esattamente coi movimenti del '77, di cui fece una cronaca seria e professionale (Carlo Rivolta) mentre i quotidiani “rivoluzionari”, ognuno rigorosamente per conto suo, facevano studi ideologici e volantini. Contemporaneamente era successa una cosa, di cui nessuno si accorse tranne pochi (per esempio, Impastato).Erano nate le

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emittenti libere, efficienti, economiche, e con un potenziale impatto non inferiore a quello quei quotidiani. In Italia ce n'erano 253, vagamente raggruppate nella Fred (Federazione radio emittenti democratiche). Che però non riuscì mai a funzionare concretamente, a produrre anche un solo programma in comune, perché nessuna di queste emittenti era seriamente intenzionata a fare qualunque cosa con le altre duecentocinquantadue. I compagni “seri”, d'altra parte, erano troppo impegnati a farsi (ognuno per sé) i loro giornali e giornaletti per accorgersi che forse il mondo era un po' cambiato. Così, ognuno per sé e Dio per tutti. I più esposti (Impastato) furono rapidamente ammazzati. I più seri e professionali (Umberto Gay, Popolare) si conquistarono un bel pezzo di mercato e in parte ce l'hanno ancora. Tutti gli altri si dissolsero semplicemente, passata la stagione. E un paio d'anni dopo, sul terreno che loro non avevano saputo coltivare, arrivò Berlusconi. *** Di che cosa stavamo parlando? Ah, già, del nuovo Kindle. Io veramente volevo parlare dei Siciliani, della rete e di tutta l'altra mercanzia, ma mi son fatto prendere la mano. Vabbe', ne parleremo un'altra volta. Il Kindle coi Siciliani non c'entra niente, compagni. (O no?) Riccardo Orioles


CIAO MAURO

Che non sia un processo fantasma

Il processo agli assassini di Mauro Rostagno è già ricominciato. La prossima udienza sarà mercoledì 9 novembre al tribunale di Trapani. Nonostante, gli sforzi dei familiari e di tante persone che hanno anche costituito un gruppo su FB, il processo ha scarso rilievo mediatico. La presentazione di “Il suono di una sola mano", scritto da Maddalena Rostagno e Andrea Gentile, in varie città d’Italia ha smosso un po’ le acque, soprattutto laddove sono intervenuti gli ex dirigenti di Lotta Continua, come Lerner, Deaglio, Sofri o scrittori come Lucarelli o la Bignardi. Ma ciò non è sufficiente. Questo processo potrà e dovrà essere utile, oltre che per far condannare gli assassini, per far venire fuori i retroscena di un assassinio feroce quanto crudele eseguito dalla cosca mafiosa di Trapani, capeggiata dal latitante Matteo Messina Denaro. La connivenza fra mafia-politica-imprenditoria, il traffico di droga ed armi, la massoneria trapanese, i servizi segreti, il ruolo dei carabinieri - veri depistatori delle indagini che inizialmente hanno portato all’arresto della moglie Chicca e a concentrare le indagini tra gli amici ed i compagni di Lotta Continua, tentando addirittura un nesso con l’omicidio del commissario Calabresi. Una tesi che recentemente è stata riproposta in modo problematico (“chissà che possa essere stato qualcun altro”...) in pieno svolgimento del processo da giornalisti di “sinistra". Allora è necessario che il processo abbia una grossa visibilità, perché solo così si garantisce la colpevolezza della Mafia e le complicità annesse. Noi seguiremo il processo e ne daremo la massima diffusione attraverso la rete. Lillo Venezia

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a cura di Lillo Venezia


CIAO MAURO

Trasi munnizza esce oro di Rino Giacalone

Ma non doveva essere una “questione di corna”? Dinanzi alla Corte di Assise di Trapani è ancora in corso il processo per il delitto di Mauro Rostagno. Per mano mafiosa. Una pista che ha ripreso quota nel 2008, grazie all' ex dirigente Giuseppe Linares che con l'attuale questore di Piacenza Rino Germanà sono stati tra i protagonisti di questo processo. Scenari inverosimili. Affari giganteschi. Emerge il ruolo dell’ex campione di tiro a volo della nazionale italiana, Vito Mazzara, autore di numerosi omicidi. Vincenzo Virga che trasformava la spazzatura in oro. Sono imputati due conclamati mafiosi, Vincenzo Virga, capo della famiglia mafiosa di Trapani e Vito Mazzara campione di tiro a volo che si allenava ammazzando “cristiani” per ordine di Matteo Messina Denaro, diverse cose le ha messe in chiaro, ma c’è chi insiste nel vedere tante cose come se fossero oscure. La responsabilità della mafia è uscita chiaramente affermata già nelle parole del pentito Sinacori, ex boss di Mazara del Vallo, che sarà sentito in una delle prossime udienze, e che nel verbale sottoscritto ha fatto mettere nero su bianco che dentro Cosa nostra non tanti chiedevano notizie su quel delitto, “segno questo che eravamo stati noi a commetterlo”. C’è chi fuori dell'aula insiste nel mettere in forse le responsabilità della mafia, un gioco antico che a Trapani viene condotto da tempo e soprattutto quando di mezzo la mafia c’è davvero. C’è chi ha cercato di fare rivolgere altrove lo sguardo speculando sulle parole, “mafia e non solo mafia”, spesso ripetute dal procuratore aggiunto della Dda, Antonio Ingroia, titolare con i pm Gaetano Paci e Francesco Del Bene, del fascicolo di indagine sul delitto del giornalista e sociologo, ammazzato a Lenzi, territorio di Valderice, estrema periferia di Trapani, il 26 settembre del 1988, a pochi metri dal cancello di ingresso della comunità Saman da lui fondata assieme alla compagna, Chicca

Roveri, e all’equivoco amico, l’ex guru Francesco Cardella La mafia trapanese si sa bene che non è solo mafia nel senso che se ne conosce la potenza e la capacità d'infiltrazione, di intrecciarsi con altri poteri, massoneria, servizi segreti, che quando vengono scoperti con le mani nella marmellata diventano subito “deviati”. Il delitto di Mauro Rostagno sembra essere stato deciso in mezzo a questi intrecci, quel “mafia e non solo mafia” probabilmente significa questo, Rostagno ucciso dalla mafia più potente che esiste in Sicilia proprio per le sue capacità a relazionarsi con ambienti “altolocati”. A fare immaginare scenari di questo genere è l’infinita serie di clamorose omissioni e incapacità mostrate dai carabinieri che per primi si occuparono delle indagini sul delitto. Clamorosi vuoti, brogliacci su intercettazioni telefoniche sparite, nastri smagnetizzati, verbali inerenti il delitto finiti perduti perché infilati dentro altri fascicoli. Non sarà un caso che il 19 novembre per la terza volta sarà chiamato a testimoniare l’attuale luogotenente dei carabinieri Beniamino Cannas indicato come una delle punte di diamante del nucleo operativo dell’arma e che però si è scoperto consegnò, tanti mesi dopo il delitto, la relazione sul sopralluogo compiuto sulla cosidetta “scena del crimine”. Cannas sarebbe stata una delle fonti di Mauro Rostagno, così il sociologo lo indicava ai suoi collaboratori; quello che si è scoperto durante il processo è che alla fine non era tanto Cannas a riferire cose segrete a Rostagno ma era Mauro a confidarsi con il carabiniere. *** La pista mafiosa sul delitto Rostagno ha ripreso quota nel 2008, quando ad occuparsi delle indagini è stata la Squadra Mobile. L’allora dirigente Giuseppe Linares ha ripreso in mano il filo d’improvviso spezzato, piegato in quel 1988 da oscure volontà che hanno portato la magistratura a non dare

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credito al delitto di mafia, tesi sostenuta dal capo della Squadra Mobile dell’epoca, l’attuale questore di Piacenza, Rino Germanà, sfuggito nel 1992 a Mazara ad un agguato di un super commando di mafiosi, Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano. Germanà e Linares sono stati tra i protagonisti di questo processo. «Non lo pensavo solo io che poteva essere stata la mafia – dice Germanà, ma tutti quelli che lavoravano con me, le modalità d'esecuzione del delitto ci hanno fatto subito sospettare del delitto mafioso». Lei è sfuggito ad un agguato dei mafiosi più pericolosi, la cosa che non riuscì a Rostagno. «Io sono stato fortunato, penso che la vita di ognuno è segnata dal destino, scoprire che chi voleva uccidermi e chi ha ucciso Rostagno è stata la criminalità organizzata e mafiosa, dovrebbe portare tutti a ribadire e confermare la volontà perché la criminalità organizzata debba essere sconfitta definitivamente, perché non rappresenta un progresso civile e sociale. Tutti ci dobbiamo impegnare su questo fronte, ognuno con la propria responsabilità, specialmente a livello culturale». Lei iniziò ad indagare sulle connessioni tra mafia, politica e impresa, altri hanno reso concreto il suo lavoro e sono andati avanti, ma si è mai spiegato perché esistono questi intrecci? Solo gestione di potere? «È una questione di uomini, se uno è delinquente riconosce in qualsiasi ambiente il suo omologo che vuole vivere comodamente non rispettando le regole». «Rostagno lo ritenemmo ucciso dalla mafia per le modalità seguite dal commando per ucciderlo - ha dichiarato in aula Germanà - non erano sprovveduti e doveva essere un gruppo ben organizzato, che aveva usato una macchina rubata mesi prima e che fu fatta ritrovare bruciata 48 ore dopo il delitto in una cava dove sia noi che i carabinieri eravamo stati per ispezionarla.


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Queste non sono cose che fanno sprovveduti, ma gruppi organizzati, quella di Rostagno fu una esecuzione per un fatto grave, non per una vendetta». L’ex dirigente della Mobile ha fatto ampio riferimento al suo rapporto del dicembre 1988, all’attività giornalistica di Rostagno che per le sollecitazioni che dava alla società poteva avere dato fastidio, «spesso si scagliava contro l'organizzazione mafiosa o contro gli episodi di malcostume e malagestione politica - ha dichiarato l'ex dirigente della mobile di Trapani». Tra i servizi citati da Germanà quelli sulla presenza nel territorio d'imprenditori catanesi, i Rendo, Graci, e Costanzo, «che avevano contatti forti con la mafia trapanese». Uno scenario che gli investigatori succeduti a Germanà alla Mobile hanno bene ricostruito tra il 1992 e il 2005 e da lì è saltato fuori il puzzle degli affari mafiosi esistenti nel trapanese già dai tempi in cui Rostagno non si stancava ad attaccare la congrega mafiosa dagli schermi di Rtc. Il capo della Mobile, Giuseppe Linares che nel 2008 diede improvviso slancio all’inchiesta sull’omicidio Rostagno - a rischio archivio - fece quello che qualsiasi bravo investigatore deve fare. Verificare se sono state fatte, ripetute, nel tempo, le comparazioni balistiche. Le indagini di Linares hanno fatto rileggere sotto nuova luce i verbali che molti pentiti sul delitto Rostagno avevano reso addirittura nel 1997, pentiti che avevano svelato il malumore di boss come i Messina Denaro di Castelvetrano contro Rostagno, e poi gli esami balistici hanno fornito il risultato che ha portato l’ex campione di tiro a volo della nazionale italiana, Vito Mazzara, sotto processo. Il delitto Rostagno per modalità di esecuzione, per armi usate, combacia perfettamente con altri delitti commessi da Mazzara, omicidi seriali, dove la firma di Mazzara è diventata anche la sua ripetuta abitudine a marcare le cartucce prima del loro utilizzo, facendole attraversare la canna del fucile e facendole colpire dalla culatta, senza però farle esplodere.

Alla Corte di Assise di Trapani Giuseppe Linares ha spiegato questi passaggi investigativi e descritto 20 anni d'indagine. Non è stata una lunga testimonianza perché le regole processuali prevedono che gli investigatori non possano essere dettagliati nei loro racconti, certo è che i pm Gaetano Paci e Francesco Del Bene, come le parti civili, sono usciti soddisfatti dall’udienza. *** Nel 1988, quando fu ammazzato, Mauro Rostagno faceva il giornalista in una tv locale di Trapani, Rtc, l’imprenditore Puccio Bulgarella, un giorno si e l’altro pure si incontrava con Angelo Siino, il ministro dei lavori Pubblici di Cosa nostra e di Totò Riina. Nello stesso anno, sempre il 1988, mafia, impresa e politica costituirono un tavolino dove veniva diviso tutto quello che era possibile spartire e trasformare in denaro, consenso, potere. Linares rispondendo ai pm e alle altre parti del processo e poi anche allo stesso presidente della Corte di Assise, giudice Pellino, ha descritto il vissuto investigativo del suo ufficio, a proposito della perenne presenza della mafia nel trapanese nel territorio, oggi dentro l’economia, le istituzioni, la società, e indicando le connessioni con le quali oggi la mafia di Matteo Messina Denaro riesce ad alimentarsi. Sui personaggi imputati nel processo, Vincenzo Virga e Vito Mazzara, Linares ha speso molte parole. Nel 1988 ha ricordato Linares era libero il gotha non solo trapanese ma anche siciliano di Cosa nostra, ed i gruppi di fuoco erano operativi. Gli affari e le alleanze crescevano. La mafia diventava tutta una cosa con l’imprenditoria e la politica, il territorio veniva assalito dalle speculazioni che nessuno ostacolava. A Trapani si parlava poco di mafia, anzi si parlava poco e c’era silenzio sulle cose che non andavano. Rostagno ruppe l’andazzo, “era un giornalista fuori dal coro” ha, detto l’ex capo della Mobile. “Questo suo modo di fare giornalismo, di fare le denuncie non era raccolto da nessuno, mentre in quel periodo si processava Mariano Agate boss di Mazara per

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a cura di Lillo Venezia

il delitto del sindaco di Castelvetrano, Lipari, lui da Rtc faceva la cronaca di quel processo che restava non considerato adeguatamente dagli altri organi d'informazione. Rostagno di questo processo parlava abbondantemente e per quello che abbiamo tratto noi investigatori, questa circostanza dava fastidio a Cosa nostra. La mafia non lo poteva sopportare e i pentiti lo hanno confermato, Mauro era circondato dai lupi e i lupi lo hanno azzannato. Questa è la convinzione che ci ha fatto riaprire il caso”. Linares ha ricordato come già “nel rapporto della Mobile del 1988 erano citati gli editoriali di Rostagno sui cavalieri del lavoro di Catania, interessati a lavori pubblici eseguiti a Trapani, ne parlava senza uno straccio di riscontro giudiziario, per questi fatti i riscontri giudiziari arriveranno anni dopo il suo assassinio”. Le sorprese sono venute fuori da una risposta di Linares all’avvocato di parte civile dell’associazione siciliana della stampa, il sindacato dei giornalisti, l’avv. Greco. Questi gli ha chiesto cosa fosse la “promozionale servizi”. “Era una società in mano a Virga che si occupava di ciclo dei rifiuti, di smaltimento di rifiuti ospedalieri e speciali”. Virga gestiva con prestanome l’impianto di riciclaggio di contrada Belvedere, alle porte di Trapani, amava dire, trasi munnizza (entra spazzatura) ed esce oro. E Rostagno in tv parlava spesso della città sporca, della spazzatura lasciata per le strade, e di come mai la gestione dei rifiuti costava miliardi alla collettività e la città restava sempre sporca. La gente lo ascoltava e gli dava ragione, per Cosa nostra a quel punto era troppo. E Rostagno finì presto con il non parlare più di munnizza e delle altre cose che interessavano la mafia, Cosa nostra lo fece uccidere mettendo poi in giro la voce che "si trattasse di un delitto per questione di corna". E ancora oggi nonostante tutto c’è chi nell’aula del processo tira fuori la questione di corna nonostante la firma della mafia che è indelebile e solo chi non vuol vedere non vede.


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Rostagno: un nordista siculo di Franca Fossati

Una giornalista del TG3, dirigente di Lotta Continua negli anni ’70 a Catania, ricorda Mauro Rostagno come amico, compagno e leader. Mauro per me è stato un amico particolare e anche un leader ammirato. Uno che, quando avevo vent’anni a Milano mi ha spiegato la politica e me l’ha fatta vedere affascinante, qualcosa per cui valeva davvero la pena di spendersi. L’idea della politica come una trasformazione, di se stessi e degli altri, che chiede rotture, a volte dolorose, ma anche mediazioni spregiudicate. E canzoni, molte canzoni. Lo ricordo a Palermo riuscire a parlare siculo con disinvoltura, lui, nordista come me che invece, pur vivendo a quei tempi a Catania, non riuscivo a staccarmi dalla cadenza milanese. Quel citare in dialetto non era frutto di una posa, tutt’altro. E’ che sapeva così bene immergersi nel mondo in cui aveva scelto di vivere, che gli riusciva facile assumerne i tratti. Restando se stesso. Facevamo Lotta Continua allora. Quaran-

t’anni fa. Poi ci siamo un pò persi di vista. Per riincontrarci a Saman, dove andai con Andrea e nostro figlio di dieci anni, nell’estate dell’88, un mese dopo l’arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani per il delitto Calabresi. Un mese prima che lo ammazzassero. Fu strano allora ritrovarlo di nuovo trasformato, vestito di bianco parlare di droghe e di mafia, dell’impegno in tv e dei progressi dei ragazzi ospiti. Mostrarci i bellissimi spazi della comunità, spiegarcene il significato simbolico: il roseto, le cupole, il gabbiano. E nello stesso tempo condividere l’indignazione per quegli arresti, la preoccupazione per gli amici incarcerati, la voglia di ristabilire la verità su Lotta Continua e sugli anni che avevamo vissuto insieme. Mai mi sarei immaginata che i giovani d'oggi avrebbero sentito parlare di lui per

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via di un processo di mafia. Era la persona più lontana dai “canoni” manichei, dalle ritualità, dal “politicamente corretto” che io abbia mai conosciuto. E non c’è dubbio che la cultura dell’antimafia grondi di riti e di retorica, oltre che di sacrosanto sdegno e di coraggioso e prezioso impegno. Il fatto è che Mauro è stato ammazzato dai mafiosi e quest'evento irreparabile rischierebbe di imprigionare per sempre la sua memoria se chi gli ha voluto bene, sua figlia Maddalena innanzitutto e Chicca la sua compagna, non cercassero di restituirci intera la storia della sua vita troppo breve. Una storia preziosa per noi suoi coetanei e suoi amici, non solo perché è la sua, irripetibile, ma anche perché racchiude pezzetti delle nostre.


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