Brand Care magazine 005

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che si sta producendo, analizzando i problemi di comunicazione visiva, di multimedialità e interattività, sviluppando le competenze necessarie per progettare le interfacce afferenti al prodotto o ai servizi a esso connessi. Se, dunque, per design può intendersi qualsiasi attività di progettazione, si può affermare che l’industrial design ne costituisca la forma più estesa e minuziosa dal momento che, mentre il progetto può limitarsi a un modello mediante il quale le caratteristiche dell’oggetto siano abbastanza facilmente riconoscibili, l’industrial design comprende l’analisi di tutti i fattori che insistono sulla produzione e commercializzazione di un bene. In altre parole, è lecito riferirsi a un’attività di design ogni qual volta si progetta qualcosa, ossia si compie un’attività in grado di delineare un modello – attraverso l’applicazione appropriata di norme tecniche, calcoli e specifiche – rigorosamente corrispondente a tutti i processi necessari affinché una qualsiasi cosa venga ad esistere. Ma in che modo il design (anche nella sua accezione di industrial design) può applicarsi a quel particolare tipo di produzione che si occupa di audiovisivo (film, tv, gioco interattivo e quant’altro) e che sembra sottrarsi a ogni regola economica e a ogni impaccio progettuale? E, prima di tutto, è lecito applicare tale concetto ad un tipo di produzione in cui le necessità estetiche e comunicative si ritengono (non sempre a ragione) predominanti? La risposta non può che esser positiva per ambedue le questioni e va ricercata proprio nel carattere specifico che connota tale tipo di produzione, cioè la trasformazione di dati qualitativi in dati quantitativi. Si potrebbe obiettare che tale trasformazione riguarda tutti i processi produttivi, nel senso che una progettazione è protesa a indicare un certo numero di quantità mediante le quali il bene potrà essere prodotto con una certa qualità. Un edificio, una strada o un pasto corrispondono a una determinata quantità di materiali, di ore di lavoro, di materie prime, ecc. e la loro qualità è – in massima parte – affidata a quelle quantità, oltre che naturalmente alla giusta esecuzione dei processi produttivi descritti e descrivibili. Il che è certamente vero se non si tiene conto del processo alchemico che regola l’economia della creatività consistente nella trasformazione di quantità materiali in qualità immateriali. Nella produzione di artefatti espressivi, quali un libro, un disco, un film o una performance teatrale, le quantità impiegate non bastano, da sole, a raggiungere la qualità progettata. Ciò dipende dal fatto che la qualità (allargandone il significato al valore d’uso) di un artefatto espressivo è in massima parte soggettiva mentre quella di un bene materiale o di un servizio possono ragionevolmente assumersi come oggettive: l’uso di un’auto o di una stanza è abbastanza comune a chiunque utilizzi il mezzo o abiti il locale; l’’emozione derivante dal vedere un film o dal

leggere un libro, invece, è diversa per quanti e per ciascuno veda il film o legga il libro. Per tale motivo (ma anche per l’endemica mancanza di cultura produttiva che affligge il nostro Paese) in molti credono che la progettazione (il design) di un artefatto espressivo abbia poca o nulla importanza in quanto la sua qualità resterebbe affidata al “genio” dell’autore molto più che a qualsiasi sforzo progettuale. Ovviamente sbagliano: è proprio la natura immateriale del prodotto audiovisivo e l’alto grado d’imprevedibilità del risultato (estetico ed economico) a rendere necessaria una minuziosa attività di design. Con l’aumentare del grado di imprevedibilità del processo produttivo, l’attività di progettazione – che comprende quella di pianificazione – è sempre più destinata ad assumere anche un valore specifico di controllo inteso a ridurre l’alea del rischio produttivo. A differenza degli altri tipi di produzione, quella audiovisiva risulta infatti caratterizzata da un andamento del flusso di cassa (Cash Flow) del tutto anomalo in quanto concentra, in una fase di produzione relativamente breve (le riprese), la maggior parte del fabbisogno di cassa (circa il 65%). La conseguenza di tale andamento – peraltro legato all’altra sua caratteristica, costituita dal prevalere del costo del lavoro su tutti gli altri tipi di costo – è data da un’obiettiva difficoltà di controllo che può essere ridotta notevolmente solo mediante un modello d’andamento che risulti elaborato a partire da una rigorosa analisi di tutte le componenti progettuali. D’altra parte, il sorgere in parecchie università italiane di corsi di laurea specifici dedicati al design della comunicazione, indica chiaramente quanto sia erronea la convinzione che gli artefatti comunicativo-espressivi si facciano da soli. Eppure, per quel che riguarda la produzione cine-audiovisiva (film o serie tv), poco o nulla si è ancora mosso.

Il design della comunicazione si occupa di prodotti editoriali, segnaletica stradale, eventi museali, di sistemi di identità visiva per aziende ed enti culturali, di comunicazione sociale, di interfacce comunicative, ecc., mentre la produzione audiovisiva resta affidata, in genere, a singole professionalità formate in scuole specifiche (ad es.: il Centro Sperimentale di Cinema, a Roma).


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