Brand Care magazine 005

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marketing

affinché non si subiscano perdite); da qui inizia lo studio di posizionamento del prodotto. L’attenzione in più che dobbiamo dimostrare, semmai, è di natura “etica” e culturale. Da un lato in gran parte del pianeta ancora oggi il cibo costituisce, per la sua distribuzione territoriale iniqua, una problematica rilevante; dall’altro esso porta con sé un carico di valori che non si fermano al nutrimento: è, ed è sempre stato, un contenitore culturale, un vero e proprio linguaggio, per dirla alla Barthes. BCm: Nelle tue strategie di marketing per la ristorazione ti è mai capitato di iniziare cambiando il nome del ristorante? IL: Una delle cose che facciamo spesso è proprio questa. La cosa difficile però è che a volte il proprietario è così affezionato al nome e sicuro del fatto che sia adeguato, che fa molta resistenza. In questi casi sottolineo al titolare che si tratta di un atteggiamento tipico di coloro che non arrivano dal mondo della ristorazione, e gli faccio notare che il loro caso è ben diverso da quello delle famiglie di ristoratori, imprenditori navigati che di generazione in generazione non hanno mai avuto problemi di gestione poiché nascono e muoiono nel ristorante, sanno come trasformare la location, e alle volte proprio il non trasformarlo costituisce il loro plus. Il problema più grande in questo settore, insomma, è quando si ha di fronte l’imprenditore improvvisato, che apre un ristorante e lo chiama “I Cinque Sensi”, trascurando che magari quando entri nel suo locale riesci ad attivare soltanto il senso dell’olfatto, magari attraverso un odore cattivo... Riuscire a renderli partecipi della strategia non è sempre semplice. Si tratta di un percorso che facciamo insieme, in cui cerchiamo di far capire che cambiando con oculatezza si può avere l’occasione di ri-comunicare che il posto è sempre dello stesso proprietario, seppure con un nuovo nome e una nuova curiosità da andare a scoprire.

BCm: A tal proposito, connettere principi organizzativi e comunicativi “freddi” a dinamiche esperienziali, che hanno direttamente a che fare, appunto, con i sensi, sembra essere la direzione più in voga nel marketing, a partire dall’approccio relazionale e da quello olistico. Per questo la scelta di lavorare sul “gusto” appare molto in sintonia con le tendenze attuali... IL: Assolutamente sì. Oggi il cibo ha esasperato più che mai la sua funzione comunicativa, complici i vari media che lo esaltano mettendo in luce questo aspetto. Così ad esempio i produttori di cibi industriali (ma non solo loro) si affidano, per l’identificazione del proprio prodotto, all’aspetto e al valore simbolico. In questo modo il cibo diventa in sé insignificante, ciò che acquista importanza è il modo nel quale si consuma, ma soprattutto i valori che veicola: gioventù , vigore, sensualità, opulenza, moda, stile. Oggi parlare di finger food, fast food, slow food, street food e soprattutto food design è diventato di gran moda, ma quello che realmente emerge è che i ritmi accelerati propri del processo industriale, pronto a dover rifornire costantemente un mercato globale, sembrano andare di pari passo con i ritmi sempre più frenetici del consumatore tipo, il quale trascorre gran parte della propria giornata fuori casa fra lavoro, spostamenti e attività varie, riducendo così al minimo il tempo dedicato ai bisogni primari, primo fra tutti quello del nutrimento. Ci si trova a mangiare pasti frugali in piedi mentre si cammina, si lavora o addirittura si guida, prendendo il cibo con le mani o servendosi di nuovi invisibili strumenti e utensili; “invisibili” in quanto non li riconosciamo come oggetti dotati di identità propria, ma li associamo unicamente a quel cibo a quel prodotto (basti pensare alle posate usa e getta, che “nascono e muoiono in un sol boccone”). Sempre per mancanza di tempo ci si ritrova ad acquistare pietanze surgelate, precotte, pronte da mettere a tavola, che riconosciamo

©Paolo Barichella


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