Anne Brouillard

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“Il tempo torna sempre. Ritorna la primavera e poi l’estate e poi l’inverno. È bello ma è anche strano, perché il tornare del tempo lo rende permanente, ma contemporaneamente lo cambia. Mi chiedo se il tempo esista davvero, se non si tratti di una visione dell’essere umano. Bisognerebbe consultare gli alberi su questa cosa...”

Anne Brouillard

euro 15 20006 anne brouillard OBLÒ n°8

Anne Brouillard

pag. 5

Introduzione

pag. 12

A casa di Anne Brouillard

• Hamelin

pag. 74

Le scritture di Anne Brouillard

• Sophie Van der Linden

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Biografia

pag. 87

Letture

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Bibliografia

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OBLÒ n°8

Introduzione

Un grande piacere accompagna questa nostra introduzione all’Oblò dedicato all’opera di Anne Brouillard, compimento di un desiderio che coltiviamo da tempo nel rendere finalmente visibile anche in Italia il lavoro di un’artista che davvero fa parte di un ristretto numero di autori e autrici fondamentali e irrinunciabili nel panorama dell’albo illustrato contemporaneo. La presente pubblicazione, le mostre che ne accompagnano l’uscita in occasione della sessantunesima edizione di Bologna Children’s Book Fair e la risposta positiva di Babalibri e di orecchio acerbo alla nostra sollecitazione circa la necessità di portare i suoi libri sui nostri scaffali sono davvero una soddisfazione. Crediamo infatti sia importante far conoscere anche in Italia il percorso artistico di una vera maestra nel suo campo, per una produzione che conta decine di titoli senza cedimenti nella qualità e nella forza espressiva, per una poetica personalissima che riesce a essere universale per approccio filosofico e capace di rivolgersi a tutti, giovanissimi o adulti che siano, per una costante ricerca nel forzare e spostare, pur senza dichiarati sperimentalismi, i confini di un linguaggio come l’albo illustrato.

Incontrare le storie per immagini e parole di Anne Brouillard, avere la possibilità di passare del tempo con e nei suoi libri e lentamente addentrarsi nel suo universo è un’esperienza intensa e per certi versi perturbante. Così è stata per noi. Si arriva a percepire la possibilità dell’arte nel farci vivere all’interno dei paradossi, di farceli vivere al di là di quelle che sembrerebbero incongruità irrisolvibili.

A ben vedere è possibile riconoscere un nodo strutturale del suo lavoro nella costruzione di dicotomie e nella negazione del loro contrasto in nome di una “naturale sapienza” secondo cui ogni polarità inevitabilmente sfuma nell’altra, trascolora per la mobilità e la pluralità del vivente e per il suo

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essere nel tempo, perché niente e nessuno è mai fermo e niente e nessuno è mai solo. Questo sguardo, che è prima di tutto visione del mondo e del nostro esistere in esso, dona una incredibile compattezza al suo immaginario e al suo operare che, dal primo albo fino al lavoro in corso, sembra incessantemente insistere sugli stessi nodi tematici (il tempo, la luce, l’abitare, il rapporto tra interno ed esterno, le relazioni tra personaggi) e riesce a tenere insieme elementi apparentemente inconciliabili: la struttura solida e ben studiata di ogni libro, che l’artista padroneggia fino al più piccolo movimento dello sguardo, e allo stesso tempo una continua “con-fusione” dei confini fra gli oggetti, fra il mondo e le cose, fra l’aereo e il solido; l’astrattezza di concetti complessi come il tempo insieme alla concretezza di banali oggetti d’uso come una caffettiera; il sogno che è anche la realtà. Queste polarità estreme, che nel nostro modo consueto di pensare sono rompicapi irrisolti, in Brouillard diventano “semplicemente” condizioni dell’esistente che abita con facilità e con curiosità estreme.

Non è un caso che la parola chiave che ci ha seguito nell’intero percorso di studio sia stata “scivolare”. Infatti è costante la sensazione che le cose si muovano per un principio di slittamento: scivolano una sull’altra la dimensione del sogno e della realtà, del presente e della memoria, del naturale e dell’artificiale, scivola la materia sempre metamorfica e sorgiva. E scivola il tempo, motore e artefice originario nello scorrere delle ore, dei giorni, delle ere. Mai con il cruccio di un rovello che consuma, ma con l’attitudine di un giocare a prendersi: ogni indagine, ogni storia è fonte di nuove scoperte, sempre, che lasciano in un’opera che si colloca fra adulti e bambini (o forse non sente affatto la necessità di collocarsi) il senso profondo e tutto infantile della scoperta. Per questo nonostante la coerenza e la compattezza di tutti i suoi lavori, la filosofa Brouillard si sfida ogni volta, si situa sempre in un posto ignoto in ogni suo libro, un luogo da scoprire, percorrere e in cui farsi portare. Per questo, ancora, le sue opere ri-

fiutano una gerarchia tra viventi, a favore di una spontanea orizzontalità: la genesi del mondo ha la stessa importanza della genesi di una merenda. Possono cambiare le tipologie di azioni di queste due missioni, ma non la partecipazione e la meticolosità con cui vengono compiute e, conseguentemente, vissute da chi è nella storia. Del resto nell’opera di Brouillard sono sempre le piccole cose che contano (anche quando prendono l’afflato cosmico di una nascita): una folaga che fa un nido, un bambino che va all’avventura con un gatto e un peluche, un paesaggio che sfila fuori dai finestrini di un treno.

Tale orizzontalità porta anche, come naturale conseguenza e non come messaggio da consegnare a chi legge, la rappresentazione di viventi in una comunità, non perché ci sia una “bontà” innata in essi ma perché vivono nella stessa piccola porzione di mondo e nello stesso intervallo di tempo. Ciò induce per forza a una convivenza che è un dato di fatto più che un’ipotesi di società. L’unità di tempo e di luogo, in quel teatro che è la vita, ci fa stare insieme, che lo vogliamo o no, e non possono esserci distinzioni tra uomini, animali, vegetali, oggetti, elementi impalpabili con la luce o il suono.

È impossibile pensare la poetica di Brouillard incarnata in un altro linguaggio se non quello dell’albo illustrato, dispositivo che continuamente esplora e ibrida, attraverso una orchestrazione sapiente del dosaggio ritmico in ogni doppia pagina e nel passare tra una pagina e l’altra. Un passaggio anch’esso eluso nella sua perentorietà perché anche il giro pagina diventa uno scivolare, in un bilanciamento perfetto fra il suo annullarsi nello scorrere metamorfico del tempo e il suo compito di metronomo. L’interrelazione fra immagini e parole e una particolare sensibilità per i suoni che riesce a evocare visivamente permettono all’autrice di sperimentare i modi dell’attesa, di lasciar parlare la sospensione, di dare alla normalità un’aura, di poter esprimere una tenerezza profonda senza mai essere scontata o consolatoria. Il testo merita un discorso a sé stante: Brouillard ha una re-

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lazione intensa con le parole, così come ce l’ha con la tempera e con gli inchiostri. I suoi scritti si avvicinano alla poesia, per il fraseggio, per la cura nella sonorità, ma anche per la consistenza e l’esattezza della parola usata. Senza timore e con grande rispetto usa una lingua laconica e sospesa, capace, come la sua pennellata e il suo segno, di definire le cose senza intrappolarle. Ci sembra necessario sottolineare l’esemplarità di questo aspetto, sempre raro nel panorama dell’albo illustrato. Per orientarci nel “mondo Brouillard” abbiamo raccolto una lunga intervista che pensiamo riesca e trasmettere bene la sua temperatura umana e la grandezza artistica. Assieme alla voce di Anne Brouillard, Sophie Van der Linden compie un affondo nel lavoro poetico della stesura dei testi. Chiude l’Oblò una ricca selezione di commenti a singoli libri, analizzati uno a uno e secondo una scansione cronologica: ci è sembrato uno strumento utile, visto ancora i pochi titoli disponibili in italiano, per ricostruire l’unicità di questa artista.

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Hamelin
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Hamelin

A casa di Anne Brouillard

L’intervista che segue è stata raccolta nel mese di febbraio 2024 ad Archennes, nella casa studio di Anne Brouillard. Brouillard ci ha accolti con grandissima allegria e generosità e con molta pazienza, ci ha guidati in un sentiero tra la foresta, la casa, i personaggi, i giochi d’infanzia, i quaderni di appunti e i libri, mettendoci a disposizione materiali inediti, fotografie e oggetti personali.

Ci piacerebbe iniziare questa conversazione chiedendoti del tuo percorso. Come e quando hai cominciato a disegnare?

Faccio fatica a ricordare esattamente come ho cominciato. Disegnavo da piccola, come tanti bambini; disegnavo, sempre. E non mi sono mai fermata. Il disegno faceva parte dei giochi.

Sono stata molto titubante sugli studi da fare dopo le superiori. Avrei voluto fare tutto, tutto mi interessava. Poi ho scelto il percorso per insegnare alla scuola dell’infanzia.

C’erano i lavori manuali, la musica. Avevo già avuto contatti con dei bambini e mi era piaciuto, ma si trattava di pochi alla volta; pensavo che una classe di scuola dell’infanzia non dovesse essere poi così male, ma di fatto non avevo tenu-

to conto di un piccolo dettaglio: i bambini stessi.

Ho fatto un anno di studi e si è trasformato rapidamente in un incubo perché non erano solo due o tre bambini con cui stare per un’ora; erano venticinque, tutta la giornata, tutti i giorni della settimana, tutte le settimane dell’anno!

E se ami disegnare, ami disegnare da solo e a scuola non c’era modo di farlo; insomma in poco tempo mi sono resa conto che non faceva per me. Inventavo attività troppo difficili: pensarle era una cosa, ma farle fare a venticinque bambini veri era completamente diverso.

Puoi imparare se sei veramente motivata, ma ho capito che non era il mio campo e ho cambiato rotta. Ero indecisa tra animazione e illustrazione, e ha vinto l’illustrazione perché era il corso che durava meno. Volevo sbarazzarmi della scuola il prima possibile.

Ecco come ho cominciato.

Hai studiato a Bruxelles?

All’ESA, École Supérieure des Arts - Saint Luc. All’epoca in cui l’ho frequentata, la Saint Luc non era così convincente, ma si potevano imparare molte cose, anche solo per il fatto di stare con altri studenti che facevano lo stesso percorso; e poi ci portavano a vedere delle mostre, potevamo seguire i corsi di storia dell’arte. Ho l’impressione di avere imparato, perché potevamo sperimentare molte cose, perché avevamo il diritto di sbagliare.

Pagine

10 e 11: quaderno d’infanzia dell’artista

Les aventuriers du soir, Les éditions des éléphants, 2015

Dopo la scuola è stato automatico andare verso l’editoria per l’infanzia?

L’ultimo anno ho partecipato ad un festival di animazione, grazie a una borsa di studio; l’animazione era uno dei miei grandi interessi e c’era un focus sulla sceneggiatura. In quell’occasione ho incontrato Marie Wabbes, un’illustratrice più grande di me. Le ho mostrato i miei lavori scolastici e lei mi ha dato il suo bi-

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Pagine 14 e 15: Promenade au bord de l’eau, Le Sorbier, 1996

glietto da visita; appena uscita da scuola l’ho contattata, perché mi sentivo un po’ persa. È stata lei a darmi il nome dell’editore belga, che poi è stato il mio primo editore, con Trois chats. Era un progetto nato un po’ per caso, non era fra quelli di scuola e lei mi disse che era già un libro e che dovevo assolutamente farlo vedere.

La seconda casa editrice era sempre belga e aveva un dipartimento infanzia che distribuiva solo nel Belgio francofono, quindi per ogni libro c’erano delle coedizioni per la Francia. Non ha avuto lunga vita, ma l’editrice con cui ho lavorato era una vera perla. Era Marie David, che è tuttora un’amica, anche se non è più nell’editoria. È stato davvero un bel modo di partire perché il rapporto lavorativo era così sincero, così preciso e ricco… avevo l’impressione che non ne avrei più avuto uno simile, senza scendere a compromessi. Grazie a questo inizio, riuscivo a capire se con un editore avrebbe funzionato o meno, se era quello giusto.

Ho avuto fortuna penso.

Una delle parole che torna in continuazione quando discutiamo dei tuoi libri è “scivolare”. Abbiamo l’impressione, molto forte, che ci sia sempre una fluidità: dei lettori, che scivolano all’interno del libro e fra gli elementi del libro stesso. Ne La grande vague ci ha colpito il tipo di giro pagina dell’albo. È come se ci fosse un rapporto tra il giro pagina e la possibilità di dimenticarsene, come a ribadire il legame tra il libro e l’animazione. Accade anche in Promenade au bord de l’eau, ci sono delle cose che sembrano scivolare nella pagina seguente…

C’è uno spazio di continuità. Non so se sono in grado di spiegarlo. Quello che ho capito è che, anche nei libri che faccio adesso, dove c’è dell’azione, c’è una sorta di “pensiero cinematografico”.

Quando penso a Le château [il terzo volume della saga dei chintiani ndr] che sto finendo, ho l’impressione di aver fatto un film, non un libro. È diviso in capitoli come La Grande Forêt: ho

cominciato a lavorare dal capitolo centrale, ho fatto il 2, il 3, poi il capitolo 5 e il 6. Non so più in quale ordine, ho ripreso il 4 e il 7 e ho concluso con l’1 e 8, i due che completano. C’è una questione legata ai luoghi dove vanno personaggi, nell’ottavo e nel primo ci sono la partenza e il ritorno. E mentre creavo il primo capitolo, l’avvio dell’intera storia, avevo l’impressione di averla già vissuta, di aver vissuto un film e che tutta l’avventura in cui avevo guidato i miei personaggi non fosse veramente un libro.

Credo che il mio modo di sentire e di mettere le cose su carta forse possa essere più vicino al cinema.

Quello che stai dicendo è evidente in Viaggio d’inverno…

Viaggio d’inverno non era pensato come libro; avevo una lunga tela e volevo dipingere liberamente, godermi l’idea di non dover pensare al meccanismo del passaggio da una pagina all’altra; ci sono molti libri in cui bisogna, girando pagina, tornare negli stessi luoghi, pensare a come ridisegnarli. Mi piace tantissimo questa parte di lavoro, ma al tempo stesso è molto vincolante e non è per niente semplice, mi ci scontro spesso. Ma in Viaggio d’inverno il paesaggio cambia sempre e non dovevo mai rifare la stessa cosa. E se sbagliavo, potevo tagliare il pezzo di tela!

Tornando al racconto che ci hai fatto sui tuoi studi, vorremmo sapere se già all’epoca avevi in mente di fare libri per l’infanzia.

Sì, in maniera molto chiara. Alle superiori, nel progetto per la maturità avevo scelto di lavorare sulla letteratura per l’infanzia. Avevo già l’idea di fare dei libri, e mi immaginavo come futura insegnante che alle quattro di pomeriggio, una volta finita la scuola, si metteva a disegnare. Invece no, alle quattro una volta finita la scuola dormivo! È quello che succede quando hai venticinque bambini che reclamano la merenda in qualsiasi momento.

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Pagine 20 e 21: Viaggio d’inverno, orecchio acerbo, 2023

Le mie tre sorelle più grandi, tutte e tre brillanti negli studi, facevano il loro percorso universitario in maniera impeccabile. E io invece avevo iniziato i miei studi e nel giro di qualche mese mi ero resa conto che non ero in grado di farli. Nella mia testa era chiaro che non avevo altra possibilità, perché da me nessuno cambiava corso di studi. Un giorno sono tornata a casa e mio padre, che mi aveva visto molto depressa, mi ha chiesto che cos’altro avrei avuto voglia di fare. E lì mi sono detta “Ah, forse posso fare qualcos’altro!”. Quali erano le cose che ti interessavano nella letteratura per l’infanzia, le caratteristiche che ti piacevano?

Passavamo intere giornate così, il disegno era nel gioco, per noi era

normale

Il disegno, l’alleanza tra la scrittura e il disegno, e il fatto che ci sia tutto un universo che si può sviluppare.

Quando da piccola mi chiedevano che cosa volessi fare da grande rispondevo: conduttrice di treni, guardiana di gatti o disegnatrice.

Quello che faccio oggi esisteva già in quello che facevo da bambina; non immaginavo che scrivere, raccontare storie e disegnare potessero essere un mestiere. Il disegno era veramente parte integrante dei giochi con le mie sorelle, soprattutto con la più vicina in età. Giocavamo alla scuola — forse è per quello che ho creduto di poter diventare maestra — ma in quel caso gli allievi erano orsacchiotti e bambole e

non si muovevano (o si muovevano come volevamo noi).

Io e mia sorella avevamo circa cinque anni e nella nostra scuola degli orsacchiotti e delle bambole costruivamo per ciascuno dei quaderni, prendevamo loro le zampe con le mani e li facevamo scrivere, c’erano i mancini, i destri... e c’era il giorno della foto. Li prendevamo uno alla volta, li mettevamo davanti a noi e li disegnavamo, facevamo una foto che non era vera, ovviamente. Passavamo intere giornate così, il disegno era nel gioco, per noi era normale.

Nel gioco, inventavate anche dei mondi?

Sì. Il paese di Chintia, ad esempio, è stato inventato dalle mie sorelle per me. Non so precisamente quando, ma ne trovo le tracce in tutti i nostri quaderni d’infanzia. Non c’entra nulla con il paese che ho poi ideato da adulta, Killiok e compagnia sono arrivati ben più tardi. Tuttavia, mentre cercavo un nome per Quaderno d’infanzia dell’artista

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Foto

dell’artista con le sorelle

il luogo delle mie storie, non riuscivo a togliermi dalla testa Chintia. E Chintia è diventata.

Da piccola ero chintiana, parlavo chintiano. Mi ero appropriata del paese creato dalle mie sorelle. Facevo anche la maglia chintiana con i binari dei lego, decidevo i modelli. Scrivevo una finta lingua (ne ho ancora qualche esempio). Quando ho cominciato le elementari, mia mamma un giorno è venuta a prendermi e vedendo che stavo imparando a scrivere in francese mi ha detto: “Non avrai mica dimenticato il chintiano?”.

Per tornare alla letteratura per l’infanzia, penso che la Svezia abbia avuto un ruolo nel consolidare l’universo della letteratura per l’infanzia.

E poi la lettura. Entrambi i miei genitori erano dei grandi lettori, si interessavano alla letteratura, mio padre aveva anche molti fumetti. Così ho conosciuto Tin Tin, Spirou… Ero veramente immersa e penso che disegnare sia stato naturale.

E anche fare del bricolage: ricordo che pasticciavamo, mischiavamo i colori e se il giallo diventava verde non era poi tanto grave, stavamo sperimentando. C’erano altri bambini per cui pitturare a casa era fuori questione, perché ci voleva tutta un’organizzazione; da noi lo facevamo sempre. La mia camera era sempre in disordine. L’avrei voluta ordinata, ma avrei preferito che si ordinasse da sola.

C’erano bambini che non avevano diritto al disordine, mia madre lo tollerava finché non le veniva una crisi perché avevo cose sparse per tutto il pavimento e la mia camera non era tanto grande. Ricordo che avevo un’amica da cui andavo spesso e rimanevo impressionata dall’ordine: tutti i suoi giocattoli erano ben riposti e, mentre io cercavo di spiegare come fosse casa mia, lei mi ribadiva che anche da lei c’era un gran disordine! E mi mostrava una scatola con un po’ di cianfrusaglie dentro: il suo disordine era tutto in una scatola. E intanto io pensavo alla mia camera.

Non ero molto fiera della confusione: quando c’erano amici di scuola che passavano vicino a casa mia, li salutavo dalla finestra perché non volevo che vedessero il disordine dentro.

Che differenza d’età c’è tra te e le tue sorelle?

Eravamo cinque sorelle. La più grande ha sei anni più di me, è morta da qualche tempo, un’altra ne ha quattro più di me, la più vicina tre anni e la sorella più piccola ha sei anni in meno di me. Io giocavo con lei, meno le sorelle più grandi. Quando si hanno sei anni di differenza non si condividono gli stessi giochi. Ero più propensa a proteggerla, non era lo stesso tipo di rapporto, questo è vero.

Nei libri ci sono dei personaggi che non hanno un nome, come Killiok, ma che ritornano e che creano una specie di intimità familiare, come se ci fossero, ad esempio, le tue sorelle in alcuni libri…

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Pagine 24 e 25: Le grand murmure, Le Sorbier, 1999

Ci sono veramente. Ne Le grand murmure, ho disegnato quasi solo persone che conosco: c’è mia sorella Elisabeth, mia sorella Maria, mia sorella Bénédicte.

Ci sono anche dei personaggi inventati. I due bambini che si telefonano, ad esempio, non esistono veramente. E poi c’è il cane, Killiok, che qui cammina ancora su quattro zampe. In questo albo ho scritto per la prima volta il suo nome, perché nei risguardi ci sono i personaggi con i loro nomi. Tutti ne avevano uno e quindi doveva averlo anche lui. Ho preso un vecchio atlante, l’ho aperto e ho puntato il dito a caso, finendo da qualche parte in Russia. Non vedevo troppo bene — forse non avevo ancora gli occhiali — ho letto un nome, ma non sono veramente sicura che fosse proprio quello che poi ho usato. E ho scritto Killiok. La prima volta era Kiliok, con una “l” sola, e poi, quando in seguito ho raccontato la sua storia, non ricordavo più come lo avessi scritto, non l’ho riguardato e alla fine ho messo due “l”.

È buffo che ho inserito alcune persone che non si conoscevano fra loro e che poi si sono conosciute per caso.

Torniamo alla questione della letteratura per l’infanzia e al perché di questa scelta di campo: per noi la letteratura per l’infanzia è lo spazio della libertà totale, dove mettere in connessione la propria infanzia con il futuro, dove è possibile mantenere il legame con il mondo più intimo, fantastico e il quotidiano e dove c’è per chi legge la possibilità di capire subito quello che vuoi dire. Potrebbe essere una delle motivazioni che ti ha spinto verso la letteratura per i piccoli?

Sono d’accordo con questa “definizione”, ma penso che nel mio caso la ragione resti l’importanza del disegno: per me è naturale forse più della scrittura, anche se scrivo molto per me, senza pensare alla pubblicazione. Con il disegno posso dire e raccontare molto. Questo modo di vedere trova più facilmente posto nel mondo dei bambini e nella letteratura per l’infanzia. Tuttavia, i confini non sono così netti; noto che

molti adulti se ne interessano, ci sono molti strati. Potrei sbagliarmi completamente, ma l’universo legato all’infanzia mi sembra meno codificato, come se qui provassi una libertà totale.

Non sento davvero di scrivere “per” l’infanzia, ma allo stesso tempo è un pubblico che mi appassiona: si può avere una vera conversazione avvincente con un bambino, non si tratta di mettersi al suo livello.

Ho l’impressione di non aver davvero chiuso con l’infanzia: sono adulta, in tutto e per tutto, ma non sento per forza una rottura. Quando sei bambino non sei adulto, ma quando sei adulto puoi ancora mantenere il bambino.

Come uno scivolare tra l’infanzia e l’età adulta...

Sì. Perché quando sei bambino non sei adulto? L’infanzia deve avere delle protezioni che le permettano di costruirsi. Sono temi su cui rifletto spesso e di cui parlo con altri adulti, soprattutto in termini di rapporto con la loro infanzia. C’è una costruzione di sé che avviene quando si è molto piccoli. A volte, anche in contesti perfettamente regolari, possono accadere cose che non vanno bene, non irreparabili, ma che sono poi, per gli adulti che si diventerà, difficili da capire. Bisogna riandare a cercare in che punto dell’infanzia qualcosa si è rotto.

Ho una sorta di nocciolo interno molto solido, perché la mia infanzia — quel momento fra i tre e cinque anni — combaciava con qualcosa che mi si addiceva molto. Ciò che ho vissuto da piccola mi andava così bene che lo sento ancora forte e ho l’impressione di essere indistruttibile.

Quando ho cominciato le elementari, mia mamma un giorno è venuta a prendermi e vedendo che stavo imparando a scrivere in francese mi ha detto: “Non avrai mica dimenticato il chintiano?”
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