Mestieri d'Arte & Design n°8

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Artista tra gli artisti. Sessantaquattro Oscar. Tutti disegnati a mano libera. Silvano Campeggi, in arte Nano (90 anni), appena terminata un’esposizione sulla tauromachia a Creta è subito volato negli Stati Uniti, ospite d’onore al decennale del Syracuse film festival con la sua Marilyn. Sì, perché se c’è un uomo che ha spogliato la Monroe solo per farne un ritratto è proprio lui, il disegnatore di Bagno a Ripoli che, dalla suo studio con vetrata sulla collina fiorentina, scruta ammirato la cupola del Brunelleschi. Con l’inseparabile Elena al suo fianco, modella, musa, curatrice dell’imponente archivio personale, angelo del focolare domestico. Nano è così. Un cartoncino, un carboncino, l’ispirazione.Dopo arrivano i colori, con una tecnica che spazia dall’acquerello alle rifiniture con pennarelli, chine e grafite. È di modi semplici. Anche nell’atto di donare il proprio autoritratto alla Galleria degli Uffizi, non si è smentito. Ha portato una tela nella quale si riconosce di schiena. «Che vuole» si schernisce «in mezzo a tutti quei capolavori...». Ovunque, nella casa-studio, è un inseguirsi di bozzetti, ipotesi e iperboli. Dal musetto di un coniglio alla passione di Via col vento, da Un americano a Parigi a Cantando sotto la pioggia, West side story, A qualcuno piace caldo, Colazione da Tiffany. Ricordate i cartelloni fuori dai cinema? C’erano solo quattro lettere, da qualche parte, a certificarne l’origine. «Nano». Per gli italiani ha realizzato anche i disegni di Orzowei del maestro Alberto Manzi. Già, ma come si diventa cartellonista? «Armandosi di tanta passione e curiosità. Osservando ciò che ci circonda. Immaginando. Conoscendo le tecniche di stampa, perché prima di improvvisarsi disegnatori, bisogna sapere come deve essere stampato ciò che andiamo a creare. Non è solo una questione di estetica. Io ho avuto una buona dose di fortuna. Mio padre era tipografo per Bemporad Marzocco. Ho seguito i suoi passi». Poi gli studi. La Scuola d’arte nella sua Firenze. I primi lavori per i libri illustrati delle case editrici Salani e Nerbini. Da Nerbini, nel 1938, ha pure lavorato (se così si può dire) con

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ACRILICO O TEMPERA, MA CONTANO SOLO AMORE

E UMILTÀ

Federico Fellini: «Faceva le vignette con me, per 420 (un foglio di satira, ndr), le firmava Fellas». Poi la Seconda guerra mondiale. Un viaggio nella Roma città aperta. «Arrivai che avevo 22 anni. Ero un disegnatore, esperto di stampa. Mi presentai dal cartellonista Martinati, il re del muto. Non riuscì a darmi un lavoro, ma mi presentò a una piccola casa cinematografica che nel 1946 produsse Aquila nera, con Gino Cervi. Videro il mio lavoro. Mi chiamarono per un altro incarico... Non ho più smesso». Incisore, anzi disegnatore dell’Unione fotoincisori, faceva i cliché alla Zincografica fiorentina che, poi, stamperà i suoi manifesti. Quanti? Tremila. «Tutti realizzati con un’unica tecnica. Un foglio bianco. Tempera o acrilico per il bozzetto. Una volta scelto, si passa al manifesto. Facendo attenzione a lasciare lo spazio per i titoli. Mica esistevano photoshop o programmi come in-design. Era tutto fatto a mano. E forse ai giovani di oggi manca questo. Il gusto della sperimentazione. Noi dovevamo fare di tutto. Disegnare, seguire le fasi della lavorazione, mettere l’olio alle macchine e anche pulire per terra». Il valore dell’esperienza si sintetizza in una filosofia: «Lavoravamo con gli americani, perché gli italiani non pagavano. Non tanto me, io i soldi li prendevo dopo il bozzetto. Non pagavano lo stampatore». Gli sorridono gli occhi mentre mostra i cavalli di Ben Hur, «il più bel manifesto della storia del cinema secondo i critici statunitensi». Dal 1945 al 1972 è stato lui a creare l’immagine delle produzioni firmate Metro Goldwin Mayer, Universal, Paramount e Rko. Nell’immaginario collettivo ha definito le silhoutte di Gary Cooper, Marlon Brando, Rita Hayworth, Liz Taylor, Ava Gardner, Vivien Leigh. E di Marilyn. Senza disdegnare alcun incarico: «Per disegnare Tom & Jerry o la Pantera rosa, pagavano la stessa cifra di Ben Hur». Ma c’è un futuro per questa professione? «La fotografia digitale, le app, le reti wireless hanno cambiato il modo di percepire il mondo. Ma il piacere del bello, per chi lo sa apprezzare, è il vero futuro di un artigianato contemporaneo».

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