Artigianato 51

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MATERIALI Nella pagina a fronte, dall’alto e da sinistra: elementi grezzi di acciaio ; “Il mai”, maglio a testa d’asino per allargare e spianare gli elementi grezzi e per la punzonatura e lo stampaggio; mola con comando a pedale per lavoro di finitura, schema tecnico e tipo di mole. In questa pagina, da sinistra e dall’alto: “sacumis”, modelli in lamiera prodotti dal maglio; grandi mole per la riduzione e l’abrasione; mola con comando a pedale.

Dimostra anche l’esistenza di una struttura produttiva evoluta. Capace di programmare tempi e costi. Capace soprattutto di garantire qualità nel mondo delle lame. Mondo che, a quel tempo, richiedeva tecnologie molto sofisticate e difendeva, a volte, impenetrabili segreti. Durante il 1700, il degrado dei sistemi di collegamento e la politica disinteressata della Repubblica Veneta, accompagnata dalla vivace concorrenza delle fabbriche tedesche, modificarono il mercato e, con esso, i caratteri della produzione che si era venuta consolidando. Alle lavorazioni grosse,

& TECNICHE

principalmente legate all’agricoltura o al mestiere della guerra, si sostituirono i piccoli oggetti: temperini, forbici, coltelli da tavola, coltelli a scatto, stiletti, attrezzi chirurgici. Ai battiferri azionati dalle acque del torrente Colvera, si sostituirono le piccole botteghe artigiane disperse tra le case dei borghi. E’ il periodo questo in cui le tecniche di lavorazione diventano personali e di conseguenza si accentuano le differenze tra i vari modi di produrre. Si associano alla lama d’acciaio materiali diversi: legno, corno, madreperla. Si commercializza il prodotto a mezzo di venditori ambulanti. Si pongono le basi per quel grande cambiamento che trasformerà i fabbri di Maniago in coltellinai. La zona, in costante trasformazione sul finire del secolo scorso, subirà una nuova scossa. Lo slancio dell’industria, infatti, spingerà prima l’austriaco Albert Marx e, successivamente, dopo Caporetto, anche il tedesco Krusius, a modernizzare le tecniche di produzione e a realizzare il “fabricon”: la grande fabbrica. Per sfidare

l’artigianato delle botteghe con la produzione di serie. Per sostituire l’economia famigliare con quella cooperativistica e per creare una classe operaia più disponibile e collaborativa. Dopo anni di speranze e di alterne vicende, l’insuccesso fu fragoroso. Il “fabricon” non ebbe fortuna e non ebbe fortuna, né allora né mai, un sistema industriale teso a massificare od a rendere omogenee le linee di lavoro ed i conseguenti prodotti. Né ebbero migliore sorte le associazioni e le diverse strutture consortili che tentarono di rendere funzionale la zona e che, costituendo una sorta di gruppo di forza per la penetrazione corale nei mercati, tentarono di unire gli artigiani delle lame con piani e programmi comuni. I motivi di quest’ultimo insuccesso vanno ricercati nella frammentazione produttiva della zona ma anche nei principi della sua cultura. La storia delle botteghe, infatti, e la loro caparbia libertà operativa, ha lasciato inevitabilmente il segno nei modi di affrontare i problemi del fare, del produrre

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