Nuovi orizzonti

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IL PERSONAGGIO

CAPOLAVORO

ASSOLUTO

Esce nei prossimi giorni in tutte le librerie d’Italia, Cinema Calibro 9, il primo libro del nostro amico (e sancesariano doc) Fabrizio Luperto “Fabrizio, ti disturbo?”. “Sto per entrare al cinema, ti chiamo dopo”. Si sono aperte e chiuse tante telefonate come questa tra di noi. Il motivo? Sempre lo stesso: il cinema. Che questa fosse più di una passione l’avevo intuito già una decina di anni fa quando a casa sua, giù al nord, dopo una serata a base di vino e risate, si finì su un divano a parlare di sconosciutissimi film iraniani e a guardare Il Camorrista, con Ben Gazzara, uno di quei capolavori assoluti, come usa definire i film che più gli sono piaciuti. L’intervista che leggerete è il risultato di tante telefonate (quando non era in sala), mail e sms, a parlare di cinema e di calcio. Anzi, di Lecce. Cosa ti è saltato in mente? Hai deciso di diventare uno scrittore e critico cinematografico di successo? Addirittura “Repubblica” ha dedicato una pagina intera al tuo “caso”. Ricevere le attenzioni di un grande quotidiano come “Repubblic”a, ovviamente, mi ha fatto molto piacere. Inutile dire che non me l’aspettavo. È comunque motivo di soddisfazione appurare che i frutti di una semplice passione siano apprezzati. L’importante è non prendersi troppo sul serio. Il cinema, la tua grande passione. Avresti mai pensato che i tuoi appunti, le tue ricerche sarebbero finite in un libro? E perché di tutto il cinema proprio il poliziesco all’italiana anni ’70, forse il più violento e cinico di sempre? È inutile nasconderti che non avrei mai

pensato che i miei appunti e le mie ricerche finissero in un libro. Per quanto riguarda il “perché” del poliziesco all’italiana il discorso è più complicato. Bertold Brecht diceva “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”. Nella mia vita mi sono spesso ritrovato a confrontarmi con queste parole e così ho fatto anche in questa occasione. Molti si affannano a scrivere delle star milionarie, delle grandi produzioni... Troppo facile. Io mi sono “seduto dalla parte del torto” cioè mi sono occupato di quegli artigiani della celluloide relegati nella serie B del cinema, ghettizzati, dimenticati e spesso sbeffeggiati, che facevano film per portare a casa la pagnotta. Molti dimenticano però che senza di loro e dei loro incassi non si sarebbe potuto finanziare il cinema d’autore. Parliamo del tuo libro Cinema calibro 9 (Manni), tra pochi giorni in tutte le librerie italiane. Il libro è un viaggio nel “poliziottesco” e nei suoi ingredienti: rapine, stupri, sventagliate di mitra e giulie verde oliva lanciate a folle velocità. Si parla di registi, attori baffuti e attrici allergiche al silicone, ci sono schede e critica dei film più importanti, riferimenti alla cronaca nera dell’epoca, un dizionario del genere con quasi duecento titoli e un intervista a Don Backy protagonista dello stupendo “Cani Arrabbiati” di Mario Bava. Un libro per tutti o solo per appassionati? Assolutamente per tutti. Non avrebbe avuto senso scrivere un saggio o qual-

Foto R. Piscopo

cosa di troppo tecnico che poi avrebbero letto solo gli appassionati del genere. Il mio scopo è quello di far scoprire ai giovani questo tipo di cinema che qualche anno fa entusiasmava i loro padri. Gli anni ’70, quelli in cui questo genere ebbe più successo, coincidono con la tua giovinezza. Con chi andavi al cinema e come vennero accolti questi film in quegli anni? Al cinema ci andavo già a 6 anni, con mio fratello Giuliano, Andrea Mazzotta, Giuseppe e Raffaele Forcignanò e altri che ora non ricordo. Tutti in gruppo al cinema Iride che programmava i sottogeneri del periodo: dal Kung-fu al giallo-sexy, dallo zombie movies alla commedia scollacciata, passando ovviamente per il poliziottesco. Tutti vietati ai minori di 14 anni ma ovviamente, all’ingresso del cinema nessuno ci faceva caso. Ora condivido la passione per il grande schermo con mia moglie Carmen e altri amici cinefili. Il poliziottesco, come detto in precedenza, non venne accolto bene dalla critica ma aveva un buon successo di pubblico. Grazie a questo filone cinematografico gli italiani potevano vedere quei fatti che gli ingessati Tg dell’epoca non trasmettevano e che erano relegati nelle pagine di cronaca dei giornali. Perché questo titolo, Cinema calibro 9? In parte è un omaggio al semisconosciuto regista Fernando Di Leo, che nel 1972 girò uno splendido noir, che ovviamente passò inosservato, ma che oggi, con quasi quarant’anni di ritardo, la critica ufficiale ha rivalutato, il cui tiolo era “Milano calibro 9”. Ma l vero riferimento è di natura storica. Non tutti sanno che nella Seconda guerra mondiale gli eserciti che si scontrarono in Italia avevano tutti in dotazione delle pistole calibro 9. Al termine della guerra queste armi “sparirono”, i partigiani le nascosero, i

soldati le portarono a casa come ricordo o trofeo. Quando in Italia - nella metà degli anni ’60 - iniziarono le prime rapine e gli assalti alle banche, a far fuoco erano quelle stesse pistole che erano improvvisamente ricomparse. Da qui Cinema calibro 9. La tua rubrica di recensioni per il nostro sito è tra le più cliccate, I Cinemaniaci, il blog con il quale collabori, è finito addirittura sulle pagine della rivista Film Tv e la tua rubrica di cinema anni ’70 viene pubblicata anche in Spagna. Che succede? Innanzitutto sono contento di dare il mio piccolo contributo al sito de “l’alambicco”, una delle rare iniziative culturali del nostro paese. Per quanto riguarda I Cinemaniaci il discorso è più complesso, in redazione abbiamo gente validissima ed evidentemente i lettori se ne sono accorti. Più in generale succede che la critica su carta stampata, esclusa quella specializzata, è pressoché morta, i quotidiani ormai non fanno più critica, ma si limitano a pubblicare la trama dei film, quindi gli appassionati leggono di cinema sul web dove c’è possibilità di confronto oltre che maggiore libertà di opinione e grande approfondimento, cosa che i quotidiani non possono permettersi. Un’incursione nell’altra tua grande passione: il Lecce. Si ritorna a fare trasferte di un certo livello? Tradotto: andiamo in serie A? Le trasferte sono tutte di un certo livello come le chiami tu. Per me il Meazza di Milano o l’Olimpico di Roma valgono quanto il Matusa di Frosinone o il Liberati di Terni. Perché il Lecce si ama a prescindere dalla categoria in cui gioca. Di cosa parlerà il tuo prossimo libro? Quando sarà il momento te lo dirò, forse. Cristian Nobile cristian@alambicco.com

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