Se finisce la carta?

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luglio_2009

14-07-2009

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DAL MONDO

IN COLLABORAZIONE CON IL CENTRO

“OSCAR ROMERO”

Parliamo di Africa. È doveroso farlo. L’economia di questo grande continente, sfruttato e dimenticato allo stesso tempo, è allo sfascio. E si intravvedono i segni di nuove schiavitù.

LA CONQUISTA DELL’AFRICA G

li 8 “grandi” della Terra, nei giorni scorsi, si sono incontrati a L'Aquila. Hanno parlato di temi “globali”. Hanno discusso di clima, di crisi economica, di aiuti ai Paesi poveri. Uso la definizione “paesi poveri” perché così sono definiti nel linguaggio comune. In realtà sarebbe più corretto definirli Paesi impoveriti. Impoveriti da chi o da che cosa? Ovvio: dalle politiche economiche adottate nei loro riguardi dagli stessi paesi ricchi che dichiarano di volerli aiutare. Scusate il giro di parole. In realtà, portato all'essenziale, il meccanismo è molto semplice: le politiche economiche dei paesi del Nord del mondo prosperano perché altri paesi, quelli del Sud, ne pagano le conseguenze. Poi, periodicamente, all'occasione di un G8, di un G14 o di un G20, i “grandi” della Terra si incontrano, discutono, proclamano intenzioni che, il più delle volte, restano disattese. Tutto qui. E, ogni volta, si ha l'impressione di assistere a una grande beffa! Eppure i mali del pianeta Terra hanno cause precise. I meccanismi che generano povertà hanno connotazioni e responsabilità certe. Talmente certe che, prima del Summit abruzzese, da più parti erano giunti appelli accorati perché il G8 non sfornasse solo parole ma si sforzasse di adottare misure concrete per la soluzione di alcuni problemi. Primo fra tutti la profonda crisi che attanaglia l’Africa. Il motore economico del Continente

africano è fermo. Sta pagando il prezzo più alto della crisi economica mondiale. «L'aumento della povertà in Africa – si legge in un recente rapporto di Amnesty International –, le disperate condizioni economiche e sociali potrebbero condurre all'instabilità politica e a violenze di massa... siamo seduti su una polveriera fatta di sperequazioni, ingiustizie e insicurezza che sta per esplodere». Ma non è finita qui! Un’altra minaccia, forse ancora più subdola della violenza generata dalla miseria, colpisce l’Africa e le sue popolazioni più deboli: la vendita dei terreni agricoli alle multinazionali straniere. L’allarme è stato dato tempo addietro dalla Fao: le terre del continente africano, ricche, fertili, produttive come poche altre sono alla mercé del migliore offerente. Avete avuto notizia di questo “traffico”? Ne ha parlato la Tv? Vi risulta che il G8 se ne sia occupato? Difficile a dirsi, perché questo shopping africano avviene nel silenzio quasi totale dei media. I paesi coinvolti sono diversi. Il Qatar ha firmato un contratto per l'acquisizione di 40.000 ettari in Kenya. Gli Emirati Arabi Uniti e la Corea del Sud hanno acquistato rispettivamente 378.000 e 690.000 ettari di terre in Sudan. L’India ha investito nel 2008 due miliardi di dollari per l’affitto di terre etiopiche e la costruzione di impianti per produrre té e zucchero. Tale somma potrebbe raddoppiare nel

corso del 2009. Uno dei casi più clamorosi coinvolge la sudcoreana Daewoo che nel luglio 2008 ha aggiunto alle sue proprietà l'affitto di 1,3 milioni di ettari di terre del Madagascar (circa la metà dello spazio coltivabile esistente) per una produzione di palme da olio e granturco. Il pagamento? Un prezzo simbolico per la terra e la promessa di investimenti per le infrastrutture del paese. Chi, più di altri, sta investendo in Africa è la Cina. Pechino ha comprato nel 2007 circa 2,8 milioni di ettari di terra in Congo per sviluppare piantagioni di palme da utilizzare nella produzione di biodiesel. Entro il prossimo anno ci saranno in Africa un milione di operosi contadini cinesi, addetti a 14 gigantesche fattorie che Pechino ha comprato in Zambia, Uganda, Tanzania e Zimbabwe. Per dirla in breve «nell'ultimo triennio – afferma Joachim von Braun, direttore generale dell'Ifpri (Istituto Internazionale Ricerche Politiche Alimentari) –, in Africa sono state vendute terre equivalenti a tutto lo spazio coltivabile della Germania (15-20 milioni di ettari), per una somma stimabile fra 20 e 30 miliardi di dollari». Stupefacente! Ma non è tutto. C’è da

ENI: (IR)RESPONSABILITÀ SOCIALE

aggiungere che le trattative di compravendita delle terre sono state realizzate a tavolino dalle élite politiche locali, senza il coinvolgimento delle popolazioni che le abitano. A pensarci bene è drammatico. In Africa, in questo momento, ci sono contadini e pastori che sono “venduti” assieme alle terre sulle quali risiedono da secoli. Questi contadini non possono più coltivare i campi per produrre cibo ma devono adattarsi alla monocoltura destinata all’esportazione imposta dalla multinazionale straniera. Sono obbligati a lavorare per i nuovi “padroni” in cambio di un salario che non possono in alcun modo contrattare. A me pare che esista una sola parola per definire questo stato di cose: schiavitù. Una nuova – nuova nella forma ma non nella sostanza – forma di schiavitù che svilisce la dignità degli esseri umani prima ancora di mettere in crisi le loro economie. E tutto questo accade mentre i “grandi” della Terra decidono di tendere la mano all’Africa per sollevarla dalla povertà. Davvero folle!

A SUD Gianni Albanese

Assegnato nei giorni scorsi, tra non poche polemiche, il premio internazionale per la responsabilità sociale, all’impresa di stato Eni.

S

arà capitato a molti di vedere nelle scorse settimane in tv, lo spot sull’aumento di capitale dell’ ENI a cui si è aggiunto nei giorni scorsi l’assegnazione all’Amministratore Delegato Paolo Scaroni, del premio per la Responsabilità Sociale d’Impresa. La motivazione è stata: "Valorizzazione delle persone, attenzione all’ambiente, sviluppo delle comunità, cultura e innovazione tecnologica". Il premio viene assegnato dalla FPA (Associazione per la Politica Estera) che dal 1918 si occupa di coinvolgere l’opinione pubblica americana in

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questioni di interesse mondiale, attraverso “programmi e pubblicazioni bilanciate e imparziali”. Stranamente la FPA nell’assegnare il premio non ha però valutato adeguatamente l’operato dell’impresa italiana relativa a molti dei paesi in cui è presente, dai quali arrivano numerose denunce sulla mancata sostenibilità ambientale e sociale delle attività estrattive. Prova ne è l’approfondita inchiesta della trasmissione Report (La Ricaduta), mandata in onda proprio qualche giorno prima dell’assegnazione del premio, che denunciava le condizioni in cui, ad oggi, versa

la devastata regione del Delta del Niger, dove le compagnie petrolifere, inclusa ENI, continuano - tra l'altro - nella dannosissima pratica del "gas flaring”, ripetutamente vietata ma puntualmente messa in atto. Essa consiste nel bruciare a bordo pozzo i gas di scarto che si presentano in superficie durante l’estrazione del petrolio. Questa pratica, ha collocato la Nigeria ai primi posti nel mondo per inquinamento da anidride carbonica. Le continue perforazioni petrolifere, hanno causato la contaminazione del terreno e dei corsi d’acqua e l’allontanamento di

migliaia di abitanti che traevano sussistenza da quelle terre. Di fatto, gli enormi ricavi dell’attività estrattiva, non hanno prodotto una redistribuzione della ricchezza in favore delle popolazioni locali, ma arricchito soltanto le multinazionali in accordo con i corrotti politici locali. Decisamente difficile coniugare le scelte di una politica estera di pace, rispetto dell’ambiente e dei diritti dei popoli con quelle di un’impresa di stato che di fatto continua ad operare senza rispetto dei diritti umani e ambientali delle popolazioni del Sud del mondo.


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