Itinerari Antonelliani nel Novarese

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Itinerari antonelliani nel Novarese Itinerari antonelliani nel Novarese


Itinerari antonelliani nel Novarese


Sommario

Comune di Novara

Comune di Boca

Comune di Bellinzago Novarese

Comune di Maggiora

Comune di Fontaneto d’Agogna

Comune di Borgolavezzaro

Museo Storico Etnografico della Bassa Valsesia

Comune di Ghemme

Comune di Romagnano Sesia

Comune di Oleggio

Diocesi di Novara. Ufficio Beni Culturali

© Novara 2016, ATL Agenzia Turistica Locale della Provincia di Novara Baluardo Quintino Sella 40, 28100 Novara (NO) tel. 0321 394059, e-mail: info@turismonovara,it www. turismonovara.it Progetto Cultura e Aree Urbane – Azione di sistema Itinerari Territoriali e Storytelling Edizione a cura di Interlinea www.interlinea.com Disegni di Marina Cremonini (1, 6, 8, 19, 28, 34, 40, 58, 66, 69, 76, 78, 84), Gabriele Genini (17, 30, 35, 42, 43, 44, 46, 47, 50, 55, 56, 57, 60, 70, 74, 75, 85), Andrea Longhi (4, 10-11, 14, 16, 18, 20-21, 22-23, 24, 32, 36, 38, 41, 54, 64, 80-81, 82), Bruno Testa (29, 59)

Presentazione

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Novara. Casa Bossi Novara. Casa Giovanetti Novara. Cattedrale di Santa Maria Novara. Cupola di San Gaudenzio Novara. Ospedale Maggiore della Carità Novara. Palazzo Avogadro Bellinzago Novarese. Chiesa e casa parrocchiale Bellinzago Novarese. Asilo infantile De Medici Boca. Santuario del Ss. Crocifisso Borgolavezzaro. Chiesa dei SS. Bartolomeo e Gaudenzio Fontaneto d’Agogna. Scurolo di Sant’Alessandro Ghemme. Scurolo della Beata Panacea Maggiora. Casa Antonelli Maggiora. Cimitero Maggiora. Piano regolatore Maggiora. Scurolo di Sant’Agapito Oleggio. Chiesa dei SS. Pietro e Paolo Romagnano Sesia. Villa Caccia

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Di fatto, il contrasto tra Antonelli e Novara non avrebbe potuto essere più evidente. Antonelli pensava “in verticale”; i novaresi vivevano, e pensavano, “in orizzontale”. Ancora oggi, dopo tanto tempo trascorso e tante vicende, il profilo basso è una componente essenziale della novaresità: un suo connotato, per così dire, storico, che si è costruito nei secoli, e che non scomparirà tanto in fretta. È un difetto ma è anche una virtù, che non serve a costruire città splendide ma serve a vivere bene, misurando i passi sulla lunghezza delle proprie gambe e senza scalmanarsi. Le principali opere di Antonelli a Novara: il rifacimento neoclassico del Duomo, il rifacimento di Casa Bossi già De Santis, la Cupola di San Gaudenzio nacquero al di fuori delle reali intenzioni dei novaresi… (Sebastiano Vassalli, Terra d’acque. Novara, la pianura, il riso, Interlinea)

La domenica mattina gli agricoltori dell’Oleggese sentivano il richiamo del capoluogo e già verso le dieci lasciavano le loro cascine sparse nelle frazioni della collina e della valle per venire al centro e scambiare quattro chiacchiere prima della messa delle undici nella bella chiesa dell’Antonelli, grande come una cattedrale… (Dante Graziosi, Le storie della risaia, Interlinea)


Presentazione

A

lessandro Antonelli nasce a Ghemme nel 1798 e viene considerato con Guarino Guarini (1624-1683) e Filippo Juvarra (1678-1736) uno dei tre architetti che nel corso di tre secoli hanno lasciato un’impronta indelebile della propria creatività in Piemonte. Ed è proprio dedicato ad Antonelli il capitolo più importante del progetto Cultura e Aree Urbane. Sistema Culturale e Casa Bossi. Azioni di Sistema Itinerari Territoriali e Storytelling che l’Agenzia Turistica Locale della Provincia di Novara ha ideato e si sviluppa con diverse azioni che vogliono raccontare dell’architetto novarese più famoso nel mondo. è attraverso la narrazione di storie, la lettura di documenti e lettere, l’osservazione di disegni e progetti che emerge la figura di una personalità unica che sapeva unire l’estetica della perfezione classica alla sperimentazione tecnica. Geniale nelle intuizioni, dalla volontà di ferro, scrupoloso in ogni dettaglio delle sue opere, di cui seguiva personalmente l’avanzamento dei lavori, era attratto sopra ogni altra cosa dalle altezze, una tensione continua verso il cielo come ben testimonia l’opera novarese sua più famosa, la Cupola di San Gaudenzio. Fu un precursore per le soluzioni costruttive scelte e un perfezionista per la realizzazione delle sue architetture che venivano modellate e rimodellate (spesso con tempi molto lunghi, si pensi ai quarantasei anni di costruzione della stessa Cupola) per arrivare al suo progetto ideale. Nell’ammirare tutte le sue opere ci colpiscono quattro elementi essenziali: la potenza e l’eleganza dello stile, ma anche la volontà e la tenacia che hanno sorretto Antonelli nel perseguire con ostinazione le sue intuizioni ingegneristiche. è nella sua provincia natia che ci ha lasciato le testimonianze di tutto il suo genio e delle molteplici competenze: edifici civili, monumenti religiosi, architettura pubblica e privata, urbanistica e piani regolatori tracciano un ampio Itinerario Antonelliano che, toccando nove Comuni tra cui il capoluogo, si snoda dalle risaie della “Bassa” ai declivi collinari coperti di viti, in cui l’opera dell’architetto si intreccia all’ordito della natura. Questa pubblicazione è un omaggio ad Alessandro Antonelli: ci guidano nella scoperta del personaggio e delle sue opere le narrazioni sapientemente descritte da storici locali, in cui troviamo dettagli inediti e a volte curiosi, e i disegni di Marina Cremonini, Gabriele Genini, Andrea Longhi e Bruno Testa, urban sketchers che hanno tratteggiato con sensibilità personale le architetture antonelliane offrendo un racconto figurativo in questo insolito e originale itinerario turistico culturale nel Novarese. Maria Rosa Fagnoni Presidente dell’Agenzia Turistica Locale della Provincia di Novara


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Casa Bossi

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asa Bossi è un edificio neoclassico commissionato nel 1857 all’architetto Alessandro Antonelli, il più importante architetto italiano del XIX secolo. La specificità di Casa Bossi, il suo essere “monumento assoluto”, il fatto di rappresentare il modello perfetto dello stile (il neoclassicismo) e dell’epoca (l’Ottocento) che più di tutti gli altri hanno forgiato il carattere di Novara sono stati tra gli elementi che nel 2010 hanno favorito la mobilitazione civica di un gruppo di cittadini che ha poi dato vita al Comitato d’Amore per Casa Bossi. L’edificio è ubicato nel punto più alto della città e fa da collegamento fra il nucleo antico e il baluardo panoramico sulle Alpi e il Monte Rosa a pochi metri dalla basilica di San Gaudenzio che con la sua Cupola, anch’essa opera dell’architetto Antonelli, rappresenta il simbolo di Novara e che, insieme alla Mole Antonelliana di Torino, è tra gli edifici più alti del mondo in muratura. L’orientamento planimetrico della Casa non allineato con il viale alberato su cui si affaccia, ma ruotato per migliorare il soleggiamento della facciata ovest, è la testimonianza di una sensibilità progettuale già improntata ad armonizzarsi con le condizioni ambientali e quindi in qualche modo già incline a una ecosostenibilità ante litteram. Il fabbricato, con una superficie complessiva di 6500 m2 e circa 250 stan-

ze, è un esempio straordinario di tecnica costruttiva grazie a una struttura basata su fulcri portanti che sostengono soffitti a volta molto ribassati. In tal modo viene anticipata con l’antica tecnica della muratura una versatilità costruttiva che nei paesi più industrializzati d’Europa si cominciava a realizzare in quegli anni solo con il ferro e il cemento armato. Con raffinate soluzioni estetiche gli spazi della Casa presentano un ricco apparato decorativo, oggi segnato dal tempo e reso unico da straordinari effetti délabré. Casa Bossi è stato il secondo sito più votato con 26.150 firme nella campagna del FAI I luoghi del cuore del 2010 e costituisce a livello nazionale una delle più interessanti e originali operazioni di rigenerazione da parte di un gruppo di cittadini attivi: il Comitato d’Amore per Casa Bossi. Con il progetto denominato Casa Bossi – Cantiere di bellezza si intende far rinascere la Casa come centro di sviluppo nei settori delle industrie culturali e creative. Il Comitato d’Amore per Casa Bossi nel corso del 2014 e 2015 ha prodotto un film documentario in due parti, Le Storie della Casa – parte I e II con i racconti (per voci e immagini) di coloro che Casa Bossi l’hanno vissuta davvero. I docufilm sono stati presentati in anteprima in due serate a Casa Bossi nel calendario di eventi dimostrando che «il vento continua a viaggiare tra le stanze della casa:


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Casa Bossi

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ha imparato ad attraversare i corridoi e a salire le scale e adesso arriva in ogni angolo, fino a sotto il tetto». Il «vento della casa» fa amicizia con quello che proviene da fuori con le infinite storie di una città e di un territorio. Storie di chi l’ha abitata, storie di chi è entrato per incontrare parenti, storie di chi è nato tra le mura di Casa Bossi. Voci di donne e di uomini da ascoltare, persone che racchiudono ricordi precisi anche se lontani nel tempo. Espressioni che ancora oggi volteggiano negli angoli bui della casa e si rincorrono soprattutto quando la luce del sole a poco a poco spegne le stanze. In questi momenti, facendo attenzione, si può ancora ascoltare l’eco dei racconti di un tempo. È un viaggio nella memoria con grandi suggestioni; adatte a tutti i tipi di pubblico. Chiunque potrà entrare nell’atmosfera della Casa per conoscerla e amarla ancora di più. Ma ci sono altre storie da raccontare: sono quelle degli illustri inquilini cui si è già fatto cenno e che hanno abitato o frequentato la Casa per oltre 150 anni di storia che rappresentano una delle eredità da interpretare nella progressiva realizzazione del progetto Cantiere di bellezza. Si tratta di personaggi notevoli che sono stati residenti importanti e che con il loro lavoro, la loro arte e il loro passaggio hanno impresso un incanto e un’energia che rimarrà per sempre nelle atmosfere della Casa. La residenza è stata abitata dai suoi proprietari, prima i Desanti e poi i Bossi, per due generazioni con molti inquilini, alcuni dei quali furono personaggi importanti. Si può ricordare l’artista “della luce” Antonio Calderara e l’aeropittrice futurista in arte “Barbara” (Olga Biglie-

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ri), oppure progettisti di fama e professionisti affermati quali l’architetto Luigi Vietti e l’ingegner Arialdo Daverio, ma anche giornalisti, poeti e scrittori importanti come Ignazio Scurto e Sebastiano Vassalli, solo per ricordare i più noti. È proprio la rilevanza della figura di Sebastiano Vassalli, scomparso da pochi mesi, a imprimere un genius loci letterario di prima grandezza, soprattutto per aver maturato presso l’Accademia di Svezia la candidatura al premio Nobel per la letteratura, candidatura che sfortunatamente non ha fatto in tempo a portare a segno, quale straordinario riconoscimento delle sue qualità di “narratore”. Il riferimento chiave è in tal senso il romanzo Cuore di pietra del 1996, dove Casa Bossi costituisce la principale ambientazione, assurgendo in qualche modo a vera “protagonista” della narrazione anche se in termini formalmente dissimulati. L’importanza di Vassalli si può articolare attraverso varie riflessioni e percorsi lungo altissimi itinerari della letteratura italiana contemporanea. Si veda a riguardo la trascrizione di una parte della video-intervista a Sebastiano Vassalli di Alberto Cicala Abitare un cuore di pietra, realizzata nel 2011 per il progetto “Casa Bossi Movies” (https://www. youtube.com/watch?v=rf1SKOacCNM, produzione Butterfly Cinematografica 2011 con la collaborazione del Centro Novarese di Studi Letterari). Casa Bossi incidentalmente, sia pure per un attimo, entra nella grande letteratura del Novecento, non per merito di chi ci ha abitato. Ci furono anche degli scrittori e nessuno, tranne un caso, si occupò di Casa Bossi, ma è entrata nella grande letteratura del Novecento per merito di

Casa Bossi

chi ci è passato davanti, una volta e per caso. L’ultima poesia, probabilmente fu proprio l’ultima, di Dino Campana, uno dei grandi del nostro Novecento, che s’intitola La dolce Lombardia coi suoi giardini, descrive proprio quest’angolo visuale che c’è tra i baluardi di Novara, con la veduta delle Alpi di fronte, la prospettiva di via Pier Lombardo e la basilica di San Gaudenzio, con la Cupola dell’Antonelli. Antonelli aveva costruito Casa Bossi, già Desanti, insomma aveva costruito questa villa monumentale per creare quello scorcio, per dare questa veduta e questo attimo che poi è servito appunto a Campana – e siamo nel 1917, siamo alla vigilia di Caporetto – per pensare quella poesia, probabilmente l’avrà scritta dopo, ma certamente è stata pensata lì. E non è cosa da poco. Ma le storie da raccontare sarebbero infinite. Ci piace ricordare in conclusione un pensiero che vuol essere anche un omaggio ad Arialdo Daverio, l’ingegnere novarese che per primo ha “scoperto” l’Antonelli e l’ha fatto conoscere al mondo studiandone l’opera e sollecitando

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gli interventi di tutela strutturale della Cupola di San Gaudenzio. Ma anche rispetto a Casa Bossi siamo debitori a Daverio. Egli ci ha infatti regalato una straordinaria “profezia” quando la Casa era normalmente abitata e nessuno poteva immaginare quanto sarebbe avvenuto dopo, affermando cioè oltre settantacinque anni fa che «in questa casa sarà il Quartier Generale della Città Nuova» (Arialdo Daverio, La cupola di San Gaudenzio, l’opera del massimo architetto italiano del secolo XIX, Novara 1940). È proprio accettando la profezia di Arialdo che trova senso ed energia il progetto Casa Bossi – Cantiere di bellezza. Le principali linee del progetto sono così elencate: Cantiere Conoscenza, Novara Glocal, Co-Working, Scenari (già Ri-Costruzione), Spazio di esplorazioni del contemporaneo, Piemonte antonelliano, Spazio Agorà. Per maggiori approfondimenti si può consultare il sito www.casabossinovara. com. Roberto Tognetti


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Casa Giovanetti

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l rinnovamento del fabbricato, già proprietà Bollini e poi acquistato da Giacomo Giovanetti nel 1824, è sicuramente una delle più importanti rea­lizzazioni di Alessandro Antonelli nel campo dell’edilizia residenziale, insieme a Casa Desanti, poi Bossi. Giacomo Giovanetti, avvocato ortese, era una figura molto importante della borghesia novarese dell’Ottocento; fu consigliere di Carlo Alberto ed artefice di alcune innovazioni dello Statuto Albertino, nonché appassionato studioso della società del tempo. A lui si devono infatti alcuni studi sul problema dell’istruzione elementare e sulla coltura risicola. La sua dimora doveva essere testimonianza visibile del ruolo da lui ricoperto nel tessuto sociale di allora. Appena dopo l’acquisizione, aveva affidato importanti lavori di ristrutturazione all’architetto Stefano Ignazio Melchioni. Il Bianchini a tal proposito scrive: «Semplice, ma di buono stile è la fronte di questo edifizio. Nella volta dello scalone con savio accorgimento vennero in tante piccole medaglie effigiati molti illustri italiani e tra questi alcuni celebri novaresi. Negli appartamenti i fratelli Baroffi distinti pittori d’ornato vi operarono dei graziosi rabeschi». Degli affreschi sono ancora visibili alcune tracce, mentre perduti sono i medaglioni. Qualche anno dopo i primi lavori, l’avvocato decise di intervenire nuova-

mente sulla struttura, affidando il cantiere a quello che all’epoca era sicuramente l’architetto più noto del territorio, Alessandro Antonelli. La consistenza del suo intervento è purtroppo scarsamente documentata da disegni o progetti, poiché quelli rimasti si riferiscono soprattutto all’abitazione di Felice Giovanetti, fratello di Giacomo, posta all’incrocio tra le contrade della torre di San Gaudenzio e di San Giulio; bisogna pertanto basarsi sulla struttura architettonica rimasta per cercare di intuire la portata del lavoro di Antonelli. Il suo intervento ha riguardato in particolar modo la porzione meridionale del fabbricato, a partire dall’androne, la manica su via Giovanetti e la manica interna. In un disegno rappresentante la variante di facciata, conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, vengono indicate come totalmente nuove le tre campate verso via Giovanetti, riplasmati l’androne e le due campate successive, immutate le campate fino a via San Gaudenzio. Il corpo settentrionale dunque, più antico e modesto, vide l’intervento sia di Melchioni che di Antonelli; il corpo meridionale e la manica interna solo del secondo. Fulcro dello spazio architettonico è l’atrio con volte a vela, le cui scansioni si estendono all’androne e al porticato.


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Cattedrale di Santa Maria

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ella storia del Duomo di Novara c’è un prima e un dopo: prima di Alessandro Antonelli e dopo di lui. Una basilica romanica e successivamente un tempio di elegante magniloquenza. Alla metà dell’Ottocento Novara si presenta ancora con il vecchio Duomo, dalle «muraglie nude da ogni ornamento e decorazione» mentre «la rozzezza dei marmi e dei sassi, la disformità tra delle colonne e dei capitelli e la

Le facciate sono disposte su tre ordini, realizzati con colonne in pietra nel portico, paraste nel corpo lungo il corso e semicolonne in tutti i piani nelle altre maniche. In corrispondenza dei piani corrono le trabeazioni. Tale struttura compositiva è tipica dell’attività di Antonelli in questo periodo: moduli simili si possono trovare infatti in strutture sia novaresi (Palazzo Avogadro, Casa Bossi) che torinesi (Casa delle Colonne).

La manica interna si limita a soli due piani, facendo presupporre l’incompiutezza della stessa. La facciata a blocco ha il pianterreno a bugnato modulato da aperture identiche, fasce marcapiano al piano nobile e cornicione a modiglioni nella parte alta. Purtroppo attualmente la struttura presenta evidenti alterazioni in diverse parti, anche se la matrice antonelliana di questo nobile edificio è ancora intuibile. Federica Mingozzi

semplicità di tutto il fabbricato gli danno un tale aspetto melanconico da giustificare appieno il volgare lamento che la cattedrale sia brutta anziché no, non armonizzi colla bellezza della città e non pareggi la basilica gaudenziana». Insomma, la basilica dimostra tutti i suoi anni e non fa bella figura nello spazio urbano che occupa, ancora privo del magniloquente porticato e stretta fra case «che non danno un conveniente


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aspetto e tettoie veramente indecenti al luogo santo». Sul nuovo Duomo la città si divide, perché si tratta di atterrare la vecchia struttura per erigerne una nuova. E il progetto di Antonelli non viene subito amato: «Il nuovo disegno è dell’architetto Antonelli; l’abbiamo visto; sembra promettere molto; ma nessuno creda che

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nell’atto pratico sia la fabbrica per appagare lo sguardo, come l’appaga oggi giorno il disegno; che sotto la matita l’ornato a facciata che sta adesso sulla piazza farebbe la più bella mostra al mondo… la spesa è calcolata a poco più di lire centomila». A ripercorrere oggi la sommaria cronologia del primo Duomo si rimane

Cattedrale di Santa Maria

impressionati: la chiesa oggi non più esistente risale al secolo VIII, anche se vi sono opinioni che la sua origine vada retrodatata almeno al IV secolo d.C., dato che – si narra – accolse il corpo mortale di Gaudenzio, primo vescovo della città, in attesa che sorgesse la basilica fuori le mura, quest’ultima anch’essa successivamente distrutta. Il progetto dell’Antonelli è, come al solito, magniloquente. Il nuovo tempio

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ha forme classiche ed eleganti, con un altar maggiore di grande maestosità, ma ancora una volta appare fuori scala con la città e non è azzardato pensare che forse nella sua mente sia balenata l’idea di travolgere anche il Battistero, per dare più ampio respiro al cortile e al tempio che vi si affaccia: «Non comprendiamo nei multipli e sovrapposti colonnati, che formano quasi un labirinto, aprendoci che la maestà del nuovo tempio e del


Itinerari antonelliani

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Cattedrale di Santa Maria

colonnato richiedessero antistante uno spazio vastissimo, per cui era forse necessario abbattere il Battistero, ed anche qualche fabbricato». Infine una traccia labile per rinvenire la memoria del vecchio Duomo nella città di oggi: cercate la statua di San Bernardo da Mentone, lungo gli ombro-

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si baluardi, alla sommità di quella che i vecchi novaresi hanno sempre chiamato la “salita del ghiaccio”: la colonna che lo sostiene e lo porta verso il cielo viene proprio dal vecchio Duomo atterrato. Renzo Fiammetti


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Cupola di San Gaudenzio

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eramente, la Cupola di San Gaudenzio fu l’opera della vita, per Alessandro Antonelli. Ed è curioso, forse una semplice coincidenza ma forse no, che la fine dei lavori di completamento della Cupola stessa, nel 1888, segnò anche l’anno di morte dell’architetto. D’altronde, Antonelli accettò l’incarico giurando di «nulla risparmiare onde l’opera riuscisse meno imperfetta». Insomma, molto di più di una semplice, quanto ardita, opera dell’ingegno. Quasi una sfida personale, una tensione verso la perfezione. Un impegno che risalta anche in merito alle questioni dei materiali da impiegare, la loro qualità e quantità: nel giugno 1861 il Consiglio Comunale di Novara riconosceva ad Antonelli che «essendosi proposto a modello la natura seppe dare all’artistica sua mole la maggiore elevazione col minor impiego di materiali conservandole in ogni parte la necessaria solidità». È giudizio diffuso che Antonelli si sentisse prigioniero degli spazi e delle costrizioni del terreno, del mondo orizzontale. «Antonelli ha vissuto in uno spazio troppo ristretto: il suo genio doveva spaziare in mezzo alle sterline inglesi», è uno dei tanti giudizi su di lui dei contemporanei. Naturale fu dunque il guardare al mondo verticale, innalzarsi sopra la linea dell’orizzonte, senza limiti. Chi ha affiancato la Cupola a uno spartito musicale non ha potuto non notare il

suo sviluppo ascendente, una intuizione quasi lirica. Antonelli ne sarebbe fiero. Nel 1841 Alessandro Antonelli consegna il primo progetto della Cupola, che viene esposto in Municipio con grande approvazione. Pensando a come sarà il progetto finale, quel primo cimento appare ben poca cosa. Il secondo progetto è del 1855, cui segue l’ultimo balzo verso il cielo, con il progetto del 1860, quest’ultimo prima respinto poi approvato dal Comune. Sono ormai trascorsi quasi quindici anni dall’avvio dei lavori del primo progetto, con la costruzione di otto arconi portanti, e il cantiere sembra prendere decisamente velocità: dal 1875 al 1878 la Cupola si innalza e, il 16 maggio 1878, viene completata con la statua raffigurante il Salvatore, posta sulla sommità della Cupola stessa. E infine dieci lunghi anni per lavori di completamento. Benché unica, la Cupola di San Gaudenzio si inserisce appieno negli stilemi del “secolo senza architettura”, l’Ottocento, in cui le correnti romantiche segnavano la cultura in generale e il neoclassicismo spadroneggiava con i suoi modelli nell’arte. Una Cupola che è anche una raccolta di primati: fra le più alte cupole realizzate in mattoni; certo, di poco più bassa dell’altra realizzazione antonelliana, la Mole di Torino, ma più alta della gran


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guglia della Madonna sul Duomo di Milano. Infine, gli uomini che hanno legato il proprio nome alla Cupola: dagli scalpellini Guglielminotti, Rusca, Travaglini, Simonetta e Zaccheo, senza scordare gli assistenti dell’architetto nella direzione dei lavori – Giuseppe Magistrini, Francesco Pedoia e Placido Manghera – e ancora Giuseppe Bottacchi, che con la sua fornace realizza e cuoce i milioni di mattoni necessari all’opera, mattoni che risultano «di qualità eccellente, adeguato il loro grado di cottura», caratteristiche importanti, unite alla riscontrata buona qualità delle malte. Progettata da un architetto, dedicata a un santo, la Cupola reca sulla sua sommità la statua dorata del Salvatore opera dello scultore Zucchi, una scelta non scontata, una vera questione ideologica. Il nome di Antonio Conti ricorre con qualche frequenza nei discorsi sulla Cupola.

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Fabbro ferraio, con una attività di fabbrica di letti in ferro sul corso di Porta Milano, oggi corso Cavallotti, all’angolo con vicolo dell’Arco, Antonio Conti lanciò una pubblica sottoscrizione affinché si raccogliesse il denaro necessario a realizzare e collocare sulla Cupola il Salvatore, espressione del proletariato e della borghesia delle professioni e dei mestieri, invece di San Gaudenzio, santo cui facevano riferimento nobili e possidenti. Come finì la contrapposizione è storia nota, Antonio Conti non raccolse mai una cifra significativa, sul suo conto acceso alla Banca Popolare non transitarono mai più di poche decine di lire, ma contribuì ad alimentare un dibattito e un confronto in una città che stava cambiando e si affacciava alla modernità novecentesca. Renzo Fiammetti

Ospedale Maggiore della Carità

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Ospedale Maggiore della Carità di Novara, originariamente ubicato nel sobborgo di Sant’Agabio, risale con ogni probabilità alla prima metà del Mille e in origine era luogo di ricovero per i poveri; solo in seguito si aprì agli ammalati, agli esposti e ai pellegrini. Dedicato a San Michele, assunse fin dall’inizio il nome di “Casa di San Michele della Carità”. Pur essendo un istituto religioso, dipendeva dal Comune di Novara, che all’interno dell’ordine degli Umiliati nominava gli amministratori, come attesta la bolla emessa dal pontefice Sisto IV nel 1482, nella quale il pontefice impose tra le altre cose l’unione dell’Ospedale di San Michele con altri sette ospedali presenti sul territorio cittadino. Nel XVII secolo i fabbricati originari furono demoliti per intervento degli spagnoli e l’Ospedale si trasferì dove ancora si trova. Il nuovo edificio, finanziato con mezzi propri e con il denaro ricevuto dal governo spagnolo, sorse su progetto dell’architetto Soliva, che affidò i lavori ai capimastri Gallo e Botta; il fulcro della costruzione era il cortile centrale, tuttora esistente, intorno al quale erano disposti i locali per gli ammalati e i servizi. L’eleganza e la signorilità già evidenti in questi spazi saranno poi il carattere distintivo della struttura anche nelle rie­ laborazioni e nelle aggiunte successive. Entro il recinto dell’Ospedale, che fu

inaugurato nel 1643, furono trasportate la chiesa e la parrocchia di San Michele. All’abbellimento degli edifici si iniziò a provvedere a partire dal 1822, con interventi di decoro architettonico sulla facciata principale e sui lati esterni progettati dall’architetto Stefano Ignazio Melchioni, a cui si deve anche il progetto di ampliamento di alcuni corpi retrostanti il cortile Soliva. Questo ampliamento fu reso necessario sia dallo sviluppo delle attività dell’istituto, sia dalla crescita della popolazione. Sono questi gli anni in cui l’Ospedale inizia a farsi carico anche dei malati di mente e dei malati di sifilide. Inoltre inizia a impiegare, accanto alle suore e ai religiosi, anche personale laico salariato: alcuni medici e infermieri, uno speziale, una levatrice e alcuni addetti a lavori subalterni. A metà Ottocento, per rispondere alle nuove esigenze di medicina sociale e per andare incontro ai nuovi bisogni determinati dalla crescita economica e demografica della città, l’Amministrazione dell’Ospedale, composta dal ministro Gautieri e dai rettori Ricca, Pampuri, Borsetti, Ramati e Carnaghi, affidò all’architetto Alessandro Antonelli l’incarico di progettare ulteriori ampliamenti. La scelta fu unanime e ad Antonelli venne data facoltà di consultare «ove d’uopo il barone ingegnere Melchioni Perito dello Stabilimento».


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Questa decisione andava nella direzione già intrapresa dalla illustre committenza cittadina che, affidando molte fabbriche al ghemmese, intendeva favorire lo sviluppo di una città “nuova e moderna”. Il primo progetto, del 1850, ebbe un periodo di gestazione piuttosto lungo e in seguito fu notevolmente ridimensionato. Il cuore del lavoro è il grande edificio a L che, insieme con il cortile del Soliva e nonostante le alterazioni subite a causa della costruzione della chiesa nel 1930, rimane ancor oggi il simbolo dell’Ospedale. Questo edificio doveva essere la nuova, grande infermeria; la corsia centrale, costruita pochi anni prima e destinata agli ammalati, venne affiancata da due

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corridoi e da due corpi più bassi in cui vennero ubicate le camere a pagamento. I corridoi avevano il compito di collegare il nuovo edificio con il resto della fabbrica; l’aerazione venne garantita da un sistema di finestre e di griglie, che scaricavano all’esterno l’aria viziata. I lavori presero avvio l’11 aprile del 1856 e nel marzo dell’anno successivo «sono già completi i sotterranei e sono già formati gli archi sottostanti al piano dell’infermeria», nonostante un richiamo fatto all’impresa Ferè, che non seguiva le indicazioni del contratto. Nel mese di agosto del 1857, dopo la demolizione dei pilastri imposta all’impresa, visto che gli stessi erano stati realizzati con materiali scadenti, l’assistente di cantie-

Ospedale Maggiore della Carità

re, geo­metra Carlo Crida, scrive che «la lotta continua e non si vede speranza di ravvedimento». Precisa anche che «i due assistenti, che prima furono alquanto disubbidienti, divennero disubbidientissimi». Era loro abitudine infatti introdurre in cantiere mattoni “ferraioli” e “albasi”, cioè scadenti, eludendo i controlli; innalzare ponti di servizio «spiacevoli solo a vederli» e comporre calce non rispondente ai requisiti. Si arrivò addirittura a una causa, vinta dall’Ospedale, e, dopo una sospensione dei lavori di qualche mese, si riprese nel maggio del 1858 fino al 1861.

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Il progetto dell’Antonelli, proseguito fino al 1864 e grazie al quale le aree ospedaliere vennero edificate secondo i nuovi criteri di funzionalità e le nuove esigenze igieniche, permise di sfruttare in modo razionale gli spazi, anche quelli sotterranei, senza tuttavia trascurare l’aspetto decorativo, ispirato allo stile neoclassico. L’aspetto originario della struttura è ricostruibile grazie ad alcune foto storiche scattate ad inizio Novecento dal fotografo novarese Carlo Anadone. Federica Mingozzi


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Palazzo Avogadro

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orse Alessandro Antonelli non ama le case d’abitazione e preferisce le realizzazioni monumentali? Forse le case di Novara non gli danno modo di potersi esprimere come vorrebbe, all’altezza del suo genio. La Novara rinnovata dell’Ottocento trova riscontro in altre realizzazioni, non nelle case, forse eccezion fatta per Casa Desanti poi Bossi. Palazzo Avogadro è un mistero, un mistero in pieno centro città. Mistero, perché il Palazzo – edificato alla metà del XVI secolo – è opera di un architetto rimasto sconosciuto. E ben si addice a un mistero l’accostamento con una vicenda rivoluzionaria: all’arrivo a Novara degli echi giacobini di Oltralpe, il Palazzo è di proprietà della famiglia Nazari e il marchese Nazari passa per essere – ed effettivamente è – un pericoloso giacobino! Nell’estate 1797 la città insorge e il marchese è fra i capi della sommossa! Estinta la casata dei Nazari, all’inizio dell’Ottocento, il Palazzo diviene proprietà di un loro nipote, Antonio Avogadro. Nel 1845 Alessandro Antonelli rea­ lizza un disegno per la ristrutturazione della dimora nobiliare. Ma anche qui c’è un mistero: effettivamente gli Avogadro incaricano Antonelli ma il disegno è anonimo e solo attribuibile all’architetto.

Il Palazzo è sopraelevato di un piano, gli spazi sono ridefiniti, la facciata è resa neoclassica con pochi, intelligenti inserimenti, come le fasce marcapiano. Certo, la mano di Antonelli è riconoscibile – ancora oggi – in alcuni passaggi, come il chiaro impianto dei colonnati, ma il Palazzo è condannato a subire diversi altri interventi, per la funzione che viene a occupare nel corso degli anni. Gli Avogadro non si godono per molto il Palazzo ristrutturato dall’Antonelli. Quasi subito spostano la loro residenza e abbandonano il Palazzo e la città. Negli anni Palazzo Avogadro viene affittato per abitazioni ma anche attività. Alla fine dell’Ottocento il Palazzo appare in grave stato tanto da richiedere interventi di risanamento; nel 1898 viene addirittura alienato, per ripianare una questione di debiti di un rampollo della nobile famiglia e acquistato dalla Banca d’Italia che già da alcuni anni ha sede al suo interno. Nel 1914 è il proprietario attuale, la Camera di Commercio, ad acquisire l’immobile, procedendo nel corso degli anni a diversi interventi strutturali per meglio adattare il Palazzo alle esigenze dell’ente stesso. Renzo Fiammetti


Bellinzago Novarese

Chiesa e casa parrocchiale

L’

attuale chiesa parrocchiale di Bellinzago Novarese, dedicata a San Clemente, fu eretta nella prima metà dell’Ottocento su progetto dell’architetto Alessandro Antonelli, che venne chiamato per interessamento dell’allora prevosto, don Serafino Bellini. I lavori presero avvio nel 1837 con una cerimonia durante la quale l’architetto pose la prima pietra. Lo scopo era quello di ampliare la preesistente chiesa cinquecentesca, ormai inadeguata alle esigenze della popolazione. Questa, che era stata consacrata da monsignor Bascapè nel 1595, sorgeva a sua volta su un edificio preesistente, documentato nelle Consignationes del 1347. Quello ottocentesco era dunque il terzo fabbricato. La navata centrale del 1595 non fu toccata; Antonelli costruì le navate laterali e una crociera sormontata dalla cupola. Non toccò neppure il campanile: mantenne quello del 1754, che era stato rialzato nel 1827. Anche la facciata non venne modificata e rimase quella barocca fino al 1931, quando venne restaurata dall’architetto Giovanni Lazanio, mentre era prevosto don Adolfo Cremona. Vi sono collocate nove statue alte 2 metri e mezzo: Santa Cristina; Sant’Adolfo; l’Ausiliatrice; San Grato; San Clemente; San Francesco d’Assisi; San Giovanni Bosco; San Pacifico; Santa Teresa del Bambin Gesù. Al centro della facciata si trova la vetrata del professor Antonio Siletti di To-

rino, sempre del 1931, composta da tre pannelli, di cui uno centrale raffigurante l’ostensorio e due laterali con angeli in adorazione. La consacrazione avvenne il 17 novembre 1844 alla presenza del vescovo Gentile; la chiesa era stata addobbata con un arco trionfale con diverse iscrizioni commemorative all’ingresso, due “plaffoni” opposti ai lati del presbiterio e diversi banchi, per permettere alla gente di seguire la lunghissima funzione. La chiesa in realtà non aveva l’aspetto che l’architetto aveva immaginato, poiché nel disegno si vede che doveva essere prolungata anteriormente con l’aggiunta di un portico esastilo e una tribuna superiore. Dove oggi ci sono gli altari laterali del Corpus Domini e dei Santini dovevano esserci due cappelle sormontate da cupolette. I lavori però non vennero eseguiti secondo progetto a causa delle difficoltà economiche della popolazione, che si era spesa al massimo per poter onorare l’impegno preso di costruire una nuova chiesa. Ai lati di questi due altari laterali vi sono le quattro statue degli Evangelisti, opera di Giuseppe Argenti su disegno dell’Antonelli (1858), che è ricordato in uno dei due busti di marmo sopraporta, sempre dell’Argenti; l’altro raffigura il prevosto Serafino Bellini. Lo Scurolo dei Santini fu aggiunto nel 1891-1892 su progetto del figlio di Antonelli, Costanzo; vi sono conservati


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i corpi dei santi martiri Pacifico e Cristina e una tela raffigurante la Vergine che dona il rosario a san Domenico di Angelo Capisani. Le decorazioni dell’edificio sono opera del pittore milanese Rodolfo Gambini, che lavorò negli stessi anni.

Bellinzago Novarese

Alla chiesa sono anche annessi l’oratorio della Confraternita del SS. Sacramento (1844) e quello della Madonna del Rosario (1878). Gli altari laterali sono otto, con le seguenti dedicazioni: Corpus Domini, con la grande tela della Cena in Emmaus,

Chiesa e casa parrocchiale

opera del rimellese Michele Cusa; Maria SS. Addolorata; San Giuseppe; Gesù Adolescente e Maria Bambina; Battistero; Immacolata; Gesù Crocifisso; Beata Vergine del Rosario. Le navate laterali furono completamente rinnovate nell’ornato e nelle pitture tra il giugno e il novembre del 1937 dal cavalier Mario Albertella, con i pittori Ugoni, Peverata, Zaffaroni, Pigozzi e con lo stuccatore Piffero. La tela del Capisani e quella del Cusa furono esposte a Torino prima di arrivare a Bellinzago e «ottennero lode dagli intelligenti. La Vergine del Capisani risplende di una tale freschezza e di tanto

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fuoco che al giovane pittore la fama acquistata dev’essere di eccitamento a più grandi opere. Nella cena del professor Cusa tutti ammiravano la finitezza del lavoro e la divota sorpresa dei due discepoli che riconoscono risorto nella benedizione del pane il Redentore». Ad Antonelli si deve anche la risistemazione della casa parrocchiale; la matrice antonelliana si riscontra soprattutto nella gestione dello spazio interno, luminoso e ampio, e nella decorazione esterna, di gusto prettamente neoclassico. Federica Mingozzi


Bellinzago Novarese

Asilo infantile De Medici

L’

Asilo infantile De Medici, uno dei primi edifici destinati a fini educativi per fanciulli in età prescolare, fu progettato dall’architetto Alessandro Antonelli negli anni settanta dell’Ottocento, su richiesta della comunità bellinzaghese che voleva in questo modo adempiere alle disposizioni testamentarie dell’avvocato Gabriele De Medici. Gabriele De Medici, nato a Bellinzago nel 1797, ma residente a Borgoticino, nel 1859 concesse il suo patrimonio per la fondazione di una struttura che secondo lui avrebbe giovato al paese natio: «Vi produrrà maggior bene che sia in potere mio fargli, attesa specialmente la condizione agricola della maggior parte degli abitanti». Nel testamento lasciò scritto che si sarebbe dovuto provvedere alla costruzione entro quattro anni dalla morte della moglie, per la quale era previsto l’usufrutto delle sue sostanze. Nel documento viene anche specificato che il compito di amministrare sarebbe toccato a una commissione composta dal sindaco, dal prevosto e da tre “seniori” possidenti del paese, mentre la gestione doveva essere affidata a suore di un ordine che l’amministrazione avrebbe prescelto. Tra il 1859 e il 1872 vennero nominati i curatori, venne steso l’inventario dei beni della successione, si procedette al riconoscimento della fondazione eretta ad ente e all’accettazione dell’eredità da parte dell’amministrazione comunale. Nel frattempo si era inoltre acquistata

l’area necessaria, rispondente alle condizioni del testamento. La moglie del De Medici morì nel 1872; il 2 luglio 1873 venne concordata la vendita di un fondo a levante della casa parrocchiale, acquisto consigliato anche dall’Antonelli, che fu altresì incaricato dei progetti di costruzione. Il 28 maggio 1876 l’Asilo infantile De Medici venne inaugurato. Inizialmente la direzione venne affidata alle suore di San Luigi, già presenti nelle scuole di Belgirate. Nello stesso periodo però venne fondato a Piacenza il nuovo ordine delle suore Figlie di Sant’Anna per opera della R. Madre Rosa Gattorno, ora bea­ta, e il prevosto don Pietro Paolo Ottone, scrivendole, ottenne che nel marzo del 1879 venissero mandate le Figlie di Sant’Anna alla direzione dell’Asilo. Le prime quattro suore giunsero nel­ l’ottobre del 1879, seguite da altre due per l’apertura fissata per il 15 dello stesso mese. Il progetto dell’architetto Antonelli è espressione ancora oggi di una grande razionalità spaziale, che si riverbera in ogni settore in maniera funzionale. La struttura si impianta su una crociera equilibrata in ogni sua parte, aperta verso l’alto tramite delle cupolette che contribuiscono a rendere la costruzione luminosa e arieggiata. Il piano intermedio, riservato alle camere delle religiose, è sobrio e razionale e testimonia la seria progettazione architettonica sottesa all’edificio. Da questo


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ammezzato infatti le consorelle avevano una vista ampia sulla crociera, potendo in questo modo controllare il piano terra. Su questo piano è ubicata anche la cappella privata delle suore. Essa fu benedetta dal prevosto don Pietro Paolo Ottone «colla formula prescritta dal Rituale Romano» nella prima decade del novembre 1880. In seguito la curia vescovile di Novara vi autorizzò la celebrazione della santa messa. Madre Rosa compra per la cappella calice, pisside, candelieri, tovaglia d’altare, vasi per fiori; ringrazia dei soldi e delle belle patate «che mi arrivano». Al piano superiore, che si raggiunge con una scalinata le cui alzate sono pensate in modo da facilitare la salita e dove è possibile godere della luminosità e della spazialità ottenute con la riproposizione dello schema a crociera sottostante e con diverse finestre, la cui apertura è garantita da un sistema a carrucola progettato dall’architetto, è stata allestita una stanza-museo che ricorda la camera

Bellinzago Novarese

che ospitò Madre Rosa in occasione della sua venuta a Bellinzago, il 15 novembre del 1880; raggiunse la cittadina per verificare le condizioni del luogo in cui vivevano le sue figlie spirituali. La sollecitudine di Madre Rosa appare evidente dalla corrispondenza conservata in archivio; tra le lettere ce n’è una, scritta a inizio 1880, in cui la madre superiora, suor Veneranda Picco, dice che avrebbe voluto lamentarsi col prevosto, perché non l’aveva appoggiata nella sua richiesta al sindaco di aumentare lo stipendio alle suore insegnanti nell’Asilo. Nella risposta si legge: «Hai fatto bene a non andare contro il parroco, perché ti debbo dire che ebbi dal medesimo una bellissima lettera che faceva elogi sperticati per l’asilo: non te ne insuperbire perché tutta gloria di Dio è opera sua, noi non abbiamo che miseria e nulla più, hai inteso?» L’operato delle figlie di Sant’Anna ha segnato la storia di Bellinzago, tanto che nel 1926, in occasione del cinquantenario dell’inaugurazione, l’avvocato Lorenzo Apostolo scrisse: «Da allora questi angioli della infanzia iniziarono e proseguirono in Bellinzago la loro opera di sacrificio e di bontà in modo che – è giusto dirlo e scriverlo – tutti i nati dal 1875 ad oggi, maschi e femmine, che frequentarono quelle aule conservano caro e indimenticabile il ricordo delle loro cure sollecite e materne». Quest’opera della maturità si può davvero considerare il “testamento architettonico” dell’illustre architetto, che in questo luogo poté adottare tutte le soluzioni formali che aveva perfezionato negli anni precedenti. Federica Mingozzi

Boca

Santuario del Ss. Crocifisso

I

l santuario del Santissimo Crocifisso godeva di fama miracolosa. Infatti, presso la secentesca cappella votiva costruita su un masso roccioso, un giovane si era ripreso da una grave crisi epilettica e il mercante Curioni si era salvato dall’assalto dai banditi che si appostavano lungo la via Traversagna. Il luogo dopo un secolo era divenuto una grande meta devozionale. Nel 1768 la cappella si ampliava a scurolo; a breve distanza al di là del torrente Strona si trovava la chiesa con un portico antistante. Dopo cinquant’anni l’affluenza dei pellegrini faceva proporre al cardinal Morozzo di realizzare un porticato coperto con affreschi della Via Crucis e si affidava il progetto al valente ingegnere Giovanni Agnelli che, nel 1820, faceva costruire un portico attorno allo scurolo. «E mentre si attendeva di arricchire il nuovo portico con affreschi, compare un giovane di appena ventidue anni, studente d’ingegneria e di architettura a Torino, dalla intelligenza vivissima, animato da una volontà ferrea di farsi un nome nella storia dell’arte, buttandosi pienamente nel fervore religioso che animava tutta la zona. La storia del santuario con lui volta pagina: si apre un avvenire grandioso insieme ed incerto, seminato di gravi difficoltà e di vastissimi problemi». A chiamarlo nel 1821 fu Andrea Rezzi, parroco di Boca e reggente del santuario,

di sua iniziativa e per aver sentito di come il giovane Antonelli stesse dimostrando la sua bravura nella chiesa parrocchiale di Maggiora. Il vescovo Morozzo, in un primo tempo contrario, acconsentì più avanti al cambio del perito. La municipalità bochese fu in parte concorde e in parte contrariata. Il laureando Alessandro Antonelli aveva in mente un grandioso progetto, che rielaborò in più versioni a partire dal 1827 fino al 1831. Intendeva spostare il torrente Strona perché la cappella del Crocifisso avrebbe dovuto essere a sua volta trasportata all’interno di un grande scurolo, attorno al quale si sarebbero fatti correre i portici, che poi avrebbero fiancheggiato il maestoso tempio da erigersi con dimensioni sorprendenti. La nuova chiesa in stile neoclassico era prevista a tre navate, voltata a botte, col coperto a capanna lungo 45 metri, larga 24, con ventisei colonne a sostegno delle navate laterali, mentre sopra la centrale si sarebbe elevata una piccola chiesa, con ai lati due ordini di camerette destinate al clero per gli esercizi spirituali. Davanti al tempio si sarebbe eretto un pronao, con dodici colonne di mattoni rivestite di granito di Baveno, lungo oltre 40 metri, largo e alto oltre 16, con accesso tramite scalinata su grande piazza. L’intero complesso sarebbe stato costruito con mattoni cotti sul posto nella


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fornace, aperta nel 1768 nella parte retrostante il santuario e di cui oggi sono visibili alcune tracce. Nel 1830 Antonelli apportava delle modifiche: mirava a eliminare la vecchia cappella per far della rotonda il vero e proprio scurolo. All’interno della basilica, il posto della chiesa settecentesca veniva quasi tutto occupato dall’abside. Il pronao diventava ottastilo, il piazzale si arricchiva di una vasca centrale con colonne e di una scalea a semicerchio come cinta. Nelle diritture delle colonne laterali erano previsti due caseggiati a uso di ricovero per i pellegrini. Nel 1831, a completamento, si aggiungeva l’erezione di una torre cam-

Boca

panaria a candelabro di 119 metri di altezza, “faro” di religiosità che si sarebbe visto da lontano. Il grandioso progetto ideato, abbozzato e disegnato sulla carta cominciò a prendere corpo nel 1822 con la demolizione dei portici innalzati dall’Agnelli e con lo spostamento del torrente. I lavori però si sospesero ben presto dando vita a quel “calvario” d’ interruzioni e riprese che in zona fece dire poi «è lungo come il santuario». Gli amministratori bochesi e almeno una parte di popolazione s’indignarono per lo spreco dovuto all’abbattimento dell’appena costruito e chiesero la chiusura del cantiere.

Santuario del Ss. Crocifisso

Il vescovo Morozzo inviò il canonico Giuseppe Andreini, nonché arciprete di Maggiora, perché mediasse, al fine di stilare un regolamento da rispettare in pieno per realizzare il santuario antonel-

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liano. La missione ebbe buon esito e nel 1825 sembrava si dovesse procedere al meglio. Dal 1826 al 1831 però cause su cause procrastinarono ancora i lavori: i rigori invernali, la mancanza d’acqua in


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periodi siccitosi, l’arrivo tardivo dei materiali. In particolare si sentiva l’assenza dell’architetto che soggiornava a Roma e, quando giungeva sporadicamente, im­ partiva ordini ma non lasciava disegni leggibili. In nove anni si era solo costrui­ to il porticato semicircolare con la porta trionfale. Dal 1831 al ’35 si recuperò, aggiungendo la rotonda, l’edificio sopra il cui altare l’Antonelli intendeva portare l’immagine sacra del Crocifisso. Malgrado il permesso dell’autorità vescovile e l’imminenza della traslazione, non gli fu però consentito perché suscitò la «rivoluzione a Boca». Antonelli, di certo a malincuore, lasciò in piedi la vecchia cappella del Crocifisso ma si confortò dedicandosi al grande tempio.

Boca

Le fondamenta vennero sistemate nel vecchio alveo dello Strona. La grossa impresa esigeva una mole di lavori e finanze esose. Le critiche e le polemiche del Comune e della popolazione contro l’amministrazione del santuario contribuirono non poco a rallentare il processo di edificazione già di per sé non facile del luogo sacro. Un contributo venne dal nuovo direttore del santuario don Francesco Del Boca che seppe riprendere un dialogo con i fedeli e dare significato all’opera. I lavori ripresero: nel 1845 vennero innalzate le mura perimetrali, si alzarono le colonne fino all’attacco dei capitelli nel ’48, si coprirono le navate laterali nel ’50 e tutte le colonnate interne con rifiniture nel ’58. Il coperto venne sistemato dal 1871 al 1878.

Santuario del Ss. Crocifisso

Nello stesso anno l’ottuagenario Antonelli si occupò del pronao a otto colonne corinzie con i pilastri angolari a mattoni. Non riuscì però a ultimarlo. Toccò al figlio ingegner Costanzo portare a termine il santuario che venne inaugurato nel 1895. La storia del santuario nel tempo unì ancora il miracoloso Crocifisso all’ardimentoso architetto. Il 30 agosto 1907 alle tre del pomeriggio si verificò il crollo di nove delle dodici campate della parte destra della basilica. Gli stuccatori, allertati da un sacerdote, si salvarono. Fortunatamente i soldati, attesi quel pomeriggio in numero consistente perché impegnati sul territorio per le esercitazioni, erano in ritardo. L’ingegner Costanzo vide dalla sua casa

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di Maggiora il disastro e corse sul posto. Accorse anche il re Vittorio Emanuele III che si trovava a Gattico in concomitanza con le giornate di grandi manovre. L’ispettore del Genio Civile Giuseppe Gattico e la Commissione Tecnica rilevarono concause da attri­buirsi alla catastrofe: lesioni dovute a folate di vento e fulmini (scatenatisi nei giorni precedenti) nel fusto di due colonne sulle quali Costanzo Antonelli stava già facendo predisporre anelli di fasciatura; cattiva disposizione delle pietre di struttura dei fusti delle colonne; pressione troppo elevata sui fusti delle colonne. La ricostruzione non fu né facile né breve. Venne richiesta una rielaborazione che desse garanzia comprendente lo scheletro di cemento armato per la copertura,


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Boca

Borgolavezzaro

Chiesa dei SS. Bartolomeo e Gaudenzio

A

Borgolavezzaro, linea Novara-Mortara, fece compiere, tra gli anni 1858-1862, la chiesa parrocchiale [...]. Questa costruzione segna un nuovo passo dell’Antonelli nella sua maestria di sapere coprire a volta i grandi spazii con una esiguità di mezzi che prima di lui si sarebbe creduta impossibile. (C. Caselli, Necrologio per Alessandro Antonelli)

cosa non subito accettata da Antonelli che dimostrò divergenze sulle procedure e che, affiancato dagli architetti Crescentino Caselli e Stefano Molli, si dimise dalla direzione dei lavori nel 1915. Il santuario antonelliano venne aperto al culto nel 1917. Il santuario antonelliano, benché incompiuto, ha il potere di sorprendere:

improvviso compare tra i boschi, poderoso nella struttura, rosso nel colore, impossibile ignorarlo. All’ingresso del grande tempio c’è l’architetto (il busto scolpito da Giulio Milanoli) con il suo progetto in mano a confermare che il santuario è “suo”. Fulvia Minazzoli

Per comprendere la genesi dell’odierna chiesa parrocchiale di Borgolavezzaro è necessario fare un salto indietro nel tempo di diversi secoli. Il paese nasce come borgo franco nel 1255 per volontà del podestà di Novara Peracha Lavezarius. La costruzione della nuova chiesa intitolata a San Gaudenzio, documentata negli Statuti novaresi del 1289, risulta pubblico sumptu, cioè per iniziativa del Comune, originando una tradizione che permarrà anche nei confronti della costruzione antonelliana e che dura tutt’oggi. A questa prima, parzialmente danneggiata dalle truppe francesi, ne segue un’altra edificata nel 1565 sul sedime della precedente, in centro al paese. Alla fine del XVIII secolo anche la seconda chiesa di San Gaudenzio è ormai fatiscente e le sue dimensioni risultano troppo ridotte per una popolazione in continuo aumento. Nel 1800 viene demolita l’antichissima chiesa parrocchiale di Borgolavezzaro, quella di San Bartolomeo, e il titolo viene aggiunto alla chiesa che risulta così essere intitolata ai SS. Bar-

tolomeo e Gaudenzio. Nel 1828 diviene parroco Giovanni Pietro Jacchetti. Appena giunto a Borgolavezzaro coglie il problema e innesca un processo che porterà alla costruzione del tempio antonelliano. La prima idea è quella di restaurare e ampliare la chiesa cinquecentesca. Don Jacchetti comincia a riunire le principali cariche cittadine per organizzare i lavori più urgenti di riparazione della chiesa. Anche la popolazione, sensibilizzata al problema, si entusiasma all’idea e si mette a produrre in località detta “Fornaci”, a est dell’abitato, una grande quantità di mattoni. In questa vicenda risalta il generoso impegno della comunità e l’originale metodo di trasporto dei mattoni dalla fornace: nelle ore libere da lavori e nei giorni festivi, un’interminabile fila di cittadini, gratuitamente, si passa i manufatti di mano in mano fino al centro del paese e li deposita nella piazza. Sembra tutto imminente per l’avvio dei lavori ma nel 1834 l’Intendenza di Novara sospende ogni attività per questioni finanziarie. Passano gli anni e nel 1837 i mattoni, ancora depositati in piazza, vengono messi all’asta per reperire fondi da destinare al restauro. Al ricavato della vendita si aggiungono le 4000 lire del lascito testamentario della nobildonna Francesca Tornielli. Valutato alfine come eccessivo lo sforzo necessario per il recupero del fatiscente edificio, il Comune, d’intesa con Fabbriceria e parrocchia, risolve di


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costruirne uno nuovo affidando l’incarico della progettazione all’architetto Alessandro Antonelli, che nel 1846 elabora un primo studio prendendo come riferimento la chiesa di Oleggio. Per reperire gli altri fondi necessari, il Comune istituisce una sovrattassa sui terreni. Tuttavia il primo progetto presentato dall’Antonelli presenta un edificio «troppo degno», per cui nel 1855 il Comune chiede all’architetto un progetto più ridotto che non occupi la proprietà a nord e non restringa troppo la «contrada dell’abitato che mette alla stazione», l’attuale via IV Novembre. Nel contempo, per far spazio al futuro edificio, viene decisa la demolizione della vecchia chiesa, abbattuta poi nell’inverno seguente.

Borgolavezzaro

L’Intendenza tuttavia blocca il secondo progetto antonelliano per due motivazioni: perché viene superata la somma di lire 100.000 – limite massimo di spesa consentito ai Comuni di terza classe – e per alcune criticità riscontrate. Antonelli infatti nei suoi progetti avanza delle proposte ardite che, secondo le pubbliche autorità, potrebbero creare futuri problemi statici: il taglio di due muri portanti del secentesco campanile sostituiti da tre colonne in granito e la realizzazione dell’ampia vetrata in facciata ne sono gli esempi più lampanti. Antonelli, in una lettera del 25 luglio 1856, confuta pacatamente le accuse ma in definitiva si sottomette alla volontà dell’Intendenza generale ed elabora un nuovo progetto. Queste le

Chiesa dei SS. Bartolomeo e Gaudenzio

sue parole: «Ill.mo Signor Sindaco, ho l’onore di significarle che allo scopo di ottemperare al voto del Congresso Permanente e procedere sollecitamente avanti nella pratica della ricostruzione di codesta chiesa parrocchiale, ho mutato la forma del presbiterio avanzando di un intercolumnio li altari che fiancheggiano il maggiore per evitare il traforo dei due lati del campanile, quantunque lo spessore della parte di muro che verrebbe a gravitare sulla colonna angolare di granito sia dello spessore di 0,90 eccedente il diametro superiore della colonna di soli 5 centimetri e non di 45 come risulterebbe nello stesso voto e si abbiano d’altronde parecchi esempi di altissime torri campanarie e di angoli di edifici colossali sorretti da una sola colonna come

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sarebbero il Palazzo Ducale di Venezia e il Palazzo Municipale di Brusselles in cui la parte sorretta è sestupla del sostegno angolare mentre nel caso nostro non riuscirebbe che tripla». Nel 1857 viene approvato dal Comune il nuovo progetto. Si rende però necessario partire al più presto con i lavori, essendo il paese già da più di un anno senza chiesa. L’Amministrazione Comunale indice pertanto il 19 aprile 1858 una gara d’appalto per trovare l’impresa che esegua i lavori. La gara va tuttavia deserta. L’opera è grandiosa per l’epoca e si deve trovare una ditta solida e attrezzata che sappia far fronte a un progetto ardito e a capitolati impegnativi e complessi. Il giorno successivo viene pubblicato il


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“secondo incanto”. Si aggiudica i lavori l’impresa Francesco Ghezzi. Il Comune, per seguire da vicino tutti i lavori, nomina come proprio assistente particolare al cantiere Carlo Stelio. Nell’atto di collaudo datato 16 maggio 1865 è registrato il plauso di Antonelli ai bravi collaboratori che ha incontrato nella realizzazione della chiesa di Borgo: «… in omaggio alla pura verità intendo dare lode all’appaltatore Francesco Ghezzi, all’assistente Carlo Stelio…» Con il 1862 hanno ufficialmente termine i lavori. La vigilia di Natale dello stesso anno la chiesa viene aperta al culto. Ad eccezione dell’altar maggiore – viene riutilizzato quello del 1754 – e della balaustra della chiesa precedente, mancano tutti gli arredi. La facciata è caratterizzata da un pronao con quattro grosse colonne di granito. Nella vetrata semicircolare si riscontra una modifica rispetto al progetto antonelliano: la parte centrale è stata chiusa in corrispondenza dell’organo, posto all’interno della chiesa in un secondo tempo. Il portale principale è sovrastato da un affresco raffigurante il martirio di San Bartolomeo. Nel timpano è inserito un busto di Dio Padre ai cui lati emergono in rilievo le figure di due angeli. Questi e altri elementi, come paraste e semicolonne che intervallano lo spazio scandendo la griglia antonelliana, denotano i riferimenti classici dell’opera. L’interno si presenta a unica navata coperta da un’ampia volta a botte di 13 metri di diametro con un’altezza dal piano di calpestio di 18 metri e una lunghezza di 40 metri, che costituisce l’elemento architettonico più interessante dal punto di vista statico. Alla teoria di colonne in-

Fontaneto d’Agogna

Borgolavezzaro

terne – con la base di 95 centimetri di diametro e un’altezza di 9 metri – ribatte sui muri perimetrali una successione di paraste che sorregge i tetti laterali e contribuisce a contenere la spinta orizzontale della volta, contrastata anche dai sette tiranti in acciaio imposti all’Antonelli dal Genio Civile per motivi di sicurezza. All’ingresso nella chiesa l’occhio è rapito tuttavia dall’imponente arco trionfale che sovrasta il presbiterio, con i cinque grandi medaglioni raffiguranti Cristo e gli evangelisti. Interessante anche la soluzione del coro coperto anch’esso da una volta ellittica. Certamente la chiesa parrocchiale di Borgolavezzaro risulta un enorme fuori scala nel contesto del piccolo paesino e della campagna circostante. Ma come si colloca nel contesto delle opere antonelliane? Citando il professor Luciano Re, si può forse affermare che «per Antonelli l’andare col suo indomito ingegno accarezzando e svolgendo nuovi e ardimentosi ideali non abbia finito per soppiantare l’attenzione alle occasioni anche modeste dell’architettura, non potendosi stabilire una graduatoria tra opere maggiori e opere minori in base alle loro dimensioni fisiche, in quanto tutte partecipano della stessa grandezza d’intenti, forza innovativa, volontà didascalica». Anche la chiesa dei SS. Bartolomeo e Gaudenzio quindi esprime il genio dell’architetto novarese il quale, non lasciandosi frenare dalla perifericità dell’intervento, ha saputo realizzare un tempio degno della sua fama. Bruno e Flavia Radice

Scurolo di Sant’Alessandro

L

o scurolo di Sant’Alessandro, simbolo di aggregazione della comunità di Fontaneto, con i recenti restauri ha riconquistato l’immagine originaria, goduta per la prima volta dal popolo nell’agosto 1850, in occasione della prima solenne traslazione delle reliquie nel sacello. Nel 1839 l’arciprete don Martino Jelmoni aveva ottenuto dalla curia romana i sacri resti con un «vaso di sangue», provenienti il 12 gennaio 1832 dal cimitero di Sant’Ippolito sulla via Tiburtina. Ricomposti, furono collocati sotto l’altare di Tutti i Santi della parrocchiale. L’idea di costruire uno scurolo per custodire le reliquie nacque nel dicembre 1840 e l’8 luglio successivo la Fabbriceria deliberò «di invitare l’Ill.mo Sig. re Architetto Alessandro Antonelli di Maggiora… per un suo disegno». I fontanetesi si rivolsero al massimo architetto che il Piemonte disponeva e spettò a lui la scelta del sito, donato dai Visconti, su cui innalzare l’edificio. Era di casa nella località: qui abitavano la zia materna e la sorella Giuseppa, sposata con Giovanni Morotti, fabbriciere della nuova fabbrica e sindaco del paese. A Fontaneto nel 1822 egli aveva eseguito il suo primo progetto giovanile: l’altare a tempietto dell’oratorio di San Rocco, modello propedeutico per quello del Duomo novarese. Si ha notizia che per l’impresa eseguì almeno quindici disegni, oggi dispersi. è

simpatica l’immagine del professore che all’inizio di ottobre 1842 (aveva quarantaquattro anni) con la «vittura» trainata da cavalli veniva in loco per tracciare sul terreno la planimetria progettata. Il 27 novembre di quell’anno Jelmoni benedisse la prima pietra. La monumentalità e le eleganze che conosciamo nelle sue elaborazioni più grandiose sono tradotte in scala minore nell’edificio di Fontaneto, che nella forma è neoclassico, richiamando il Pantheon di Roma in coerenza alle idee accademiche, con colonne giganti di ordine corinzio e lacunari fioriti digradanti nell’intradosso della cupola, un tempo arricchiti del rosone in stucco. Come nel contemporaneo progetto per la Cupola di San Gaudenzio, attento alle forze intrinseche strutturali, adotta il sistema portante a fulcro. A Fontaneto i fulcri sono le dodici colonne alveolate, costruite in laterizio, materiale povero, ma con il risultato delle più pregiate colonne in marmo se rivestite di semplice stucco lucido. Esse sono le strutture portanti della cupola e consentono l’alleggerimento dei muri perimetrali scavati dalle dieci nicchie per le statue, salvaguardando la condizione di equilibrio della fabbrica. Le parti murarie in rustico furono completate nel corso del 1843. Nella primavera dell’anno seguente fu costruito il lucernario e la contessa Caterina Lucini Passalacqua,


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che aveva accompagnato a Roma Jelmoni per ricevere il sacro dono, versava per prima una consistente offerta. Dopo di che si iniziò a pensare alla decorazione e agli arredi. Il vicario, previdente, si rivolse alle famiglie confeudatarie e possidenti del luogo: Visconti, Borromeo, Ottolini Visconti, Conelli, Fortis, Ferrari, Zenoni e altre, perché, come egli scrisse a ognuna di esse in data 18 febbraio 1844: «i lavori di decorazione che il Chiarissimo Sig.re architetto Antonelli giudica i più convenienti all’Ordine impiegato, ed i meno dispendiosi», non sono «impresa da potersi sostenere dalla sola popolazione di Fontaneto» ma esigono «assai più che lavori e limitate offerte, quali quelle che può compiere un popolo agricolo».

Fontaneto d’Agogna

I dieci bassorilievi con le Storie di Sant’Alessandro martire che coronano le pareti, e le sottostanti statue dei Santi furono realizzati tra il 1845 e il 1848 dallo scultore Giuseppe Argenti (1810-1876). Nel 1845, tra giugno e agosto, fu definito con l’Argenti il contratto per le dieci statue dei Santi in «creta cotta con vernice bianca», da collocare nelle nicchie degli intercolunni. Per collocare i riquadri figurati a coronamento delle pareti fu usato un “ponte a ruote” mobile trasferito da Bellinzago, dove Antonelli stava costruendo la parrocchiale. Fu pattuita la spesa totale di 3300 lire per le statue e gli angeli, e di 2700 lire per i bassorilievi «col obligo di darli ultimati» nel giugno 1848. Il trasporto e l’imballaggio da Novara a

Scurolo di Sant’Alessandro

Fontaneto sarebbero stati a carico della parrocchia. Sia nei bassorilievi che nelle statue l’attenzione di Argenti fu quella di levigare oggettivamente le figure per meglio rendere la naturalezza degli incarnati. Il fregio figurato si integra agli esiti eclettici dell’edificio, sintesi di forma classica e di ricerca tecnico-strutturale avanzata. Le esigenze religiose, didattiche e politiche sono il filo conduttore nell’ideazione del programma decorativo nel clima storico di forti fermenti risorgimentali, miranti alla riorganizzazione del concetto di “unità nazionale”. La memoria dei fasti eroici della nazione, indirizzata alla riconquista del sublime sentimento d’amor patrio nel nome della libertà, in un’Italia divisa e oppressa dallo straniero, regola l’ideazione artistica che assume il ruolo della “televisione” del XIX secolo. Non si esclude che sia stato Antonelli a suggerire alla Fabbriceria anche il nome delle altre maestranze attive nel cantiere, tra cui lo stuccatore Antonio Facchetti, in concomitanza con la presenza di Argenti, con cui aveva lavorato in San Gaudenzio a Novara, rivestì tutto l’interno a stucco lucido, sagomò le cornici della cupola, eseguì i lacunari con i rosoni anch’essi a stucco (gli odierni dipinti risalgono al 1939, opera del pittore e decoratore novarese Giulio Vanzaghi). Intagliò, con generosità naturalistica, anche i preziosi capitelli a foglie d’acanto, ricorrenti nelle fabbriche antonelliane. Ebbe come collaboratore Antonio Rampino di Fontaneto, massaio dei fratelli Francesco e Carlo Conelli. Nel frattempo il pittore novarese Giuseppe Raineri tinteggiava le colonne e le pareti crean-

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do il delicato effetto a finto marmo; sulla cupola, dipinse i fondi dei rosoni con il colore «pavonazzo», evidenziato dal recente restauro (2014), e le cornici «con un bianco sporco un poco caldo e con qualche venatura a imitazione del marmo», secondo le precise indicazioni del professore, lasciando la sua firma sull’intonaco. Nell’autunno 1849 Stefano Bossi tradusse nel marmo l’altare a tempietto e la balaustra, recentemente integrati con moderne scale devozionali, realizzate in ferro battuto da Franco Bonetti. Giovanni Maggi «indoratore e inverniciatore» con bottega nella casa Selletti sulla piazza del Rosario di Novara, indorò i capitelli «in oro lucido e smorto». Il Maggi per la festa dell’anno seguente indorò anche la greca alla sommità della cupola, le sei «fodrine» di legno per la chiusura della cassa di cristallo intagliata dallo scultore torinese Bosio, su disegno di Antonelli, alcuni listelli della stessa e dipinse a bronzo la parte sottostante, compresi i piedestalli; indorò infine le basi di due colonnine. Dopo dieci anni di sacrifici lo scurolo era pronto. In un primo tempo lo si voleva inaugurare nell’estate del 1849, rispettando la scadenza decennale dell’arrivo dei sacri resti da Roma. La sconfitta di Novara nel marzo di quell’anno degli eserciti di Carlo Alberto da parte delle truppe austriache di Radetzky costrinse a ritardare i primi grandi festeggiamenti all’anno seguente, scegliendo la seconda domenica di agosto, quando i campi non richiedevano particolari cure. Il ceroplasta don Giulio Gugliemetti, che già nel 1839 aveva ricomposto le reliquie, mascherò il macabro scheletro con un volto


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di cera dall’espressione dolce, realisticamente segnato dalla ferita grondante sulla fronte. In stretta analogia con i problemi politici italiani del tempo, per Fontaneto il martire fu il “Risorgimento”, assunse subito una valenza emblematica di unità nelle diversità dei nuclei frazionali di appartenenza. Nella microstoria del paese la presenza assumeva i connotati del riscatto dei fontanetesi dopo un millennio di oppressioni e di duro lavoro nei campi, prima come “famuli” del monastero, poi come “massari” dei Visconti. Non fu una presa di coscienza immediata se, come scrive il notaio Giacomo Crespi nelle sue Memorie, alla festa della traslazione del 1850, per divergenze con l’arciprete, non partecipò l’Amministrazione Comunale. Ma neppure i compadroni presero parte, se non la contessa Elisabetta Ottolini Visconti, grande benefattrice nell’impresa perché particolarmente legata al possedimento di Fontaneto, la quale nell’occa-

Ghemme

Fontaneto d’Agogna

sione acquistò, a 88 lire e 10 centesimi, la vecchia tunica del santo, donando al tesoriere 800 lire per il vestito nuovo di «raso rosso ricamato in oro». Con il trascorrere del tempo i fontanetesi si dimenticarono dell’antico patrono san Sebastiano titolare della chiesa del castello, che rappresentava il “vecchio” mondo di sacrifici. Tra la seconda metà dell’Ottocento e il terzo decennio del secolo successivo i contadini incominciarono ad acquistare per se stessi quella terra da secoli duramente lavorata e sant’Alessandro per loro rappresentò il riscatto e l’inizio di una nuova era. La missione edificante del martire, raccontata con passione nei bassorilievi come storia concreta di speranza mediante immagini didatticamente efficaci, commuove e ammaestra e Alessandro universalmente assurge a modello da seguire. Ivana Teruggi

Scurolo della Beata Panacea

I

l 14 luglio 1798 nella casa di abitazione di famiglia situata nel quartiere Ruga Ferrera sull’attuale via Novara al n. 8 vide la luce Alessandro Antonelli dal notaio Costanzo e da Angela Bozzi secondogenito di undici figli. La casa è ora di proprietà della famiglia Rossi. Il notaio Costanzo Antonelli (17541816), originario di Maggiora, ottenuta la Regia Patente il 14 dicembre 1774 scelse di esercitare la professione a Ghemme. Il primo atto da lui redatto porta la data 5 febbraio 1775. Nel volume Ghemme al tempo degli Antonelli di Piero Zanetta edito a cura dell’Amministrazione Comunale di Ghemme nel 1988, l’autore traccia una ipotesi motivata sulla scelta di Costanzo, legandola a una serie di fatti e di circostanze descritti in modo sufficientemente analitico. In conseguenza degli avvenimenti seguiti alla Rivoluzione Francese Costanzo regio notaio non era più ben visto e probabilmente non condivideva appieno le decisioni dei nuovi amministratori, per cui il 19 settembre 1800 scrisse una lettera di dimissioni all’Amministrazione Comunale accampando ragioni di salute. Circa un mese dopo gli fu comunicata l’interdizione perpetua all’esercizio della funzione notarile. Si ritirò nella casa di famiglia a Maggiora dedicandosi all’amministrazione delle molteplici proprietà. Dopo la nascita degli altri figli il 3 dicembre 1809 si trasferì a Milano

anche per dare la possibilità di studiare a tutta la sua prole. Alessandro cominciò a dedicarsi allo studio del disegno frequentando l’Accademia di Brera. Dal 1820 frequentò la Regia Università di Torino laureandosi in Architettura civile nel 1824, nonostante un piccolo incidente di percorso: al IV corso fu rimandato all’esame di meccanica. Un lungo soggiorno a Roma e uno più breve a Firenze gli consentirono di conoscere molte persone e di perfezionarsi nell’attività di architetto. Dal 1841 al 1856 insegnò architettura, prospettiva e ornato all’Accademia Albertina a Torino e nel 1863, mentre a Novara si stava completando la costruzione della Cupola di San Gaudenzio, ebbe l’incarico di porre mano a un progetto per un imponente scurolo a Ghemme che potesse accogliere degnamente le sante spoglie della beata Panacea. Si era formata una apposita commissione che si rivolse all’ormai celebre architetto nativo di Ghemme per tale incarico. Quando l’Antonelli presentò il preventivo di 40.000 lire la commissione fu molto perplessa, tanto che si ventilò la possibilità di affidare l’opera ad altro tecnico per un progetto più modesto che non superasse la somma di 20.000 lire. La disponibilità finanziaria era al tempo determinata esclusivamente da un lascito di 15.000 lire ricevuto dal benestante ghemmese Francesco Stoppani. Soprattutto la Fabbriceria si preoccupa-


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Ghemme

Scurolo della Beata Panacea

va che la costruzione venisse ultimata in otto anni, pena la decadenza del lascito, e temeva che la popolazione non potesse contribuire adeguatamente a causa del flagello dell’oidio nei vigneti che in quegli anni aveva avuto uno sviluppo catastrofico. Ma l’appello dell’arciprete Teologo Felice Rossari di portare ogni anno sul sagrato della chiesa una parte del raccolto ebbe un effetto insperato e alla fine fu raggiunta la somma di 23.555 lire che permisero di saldare tutto il debito per la costruzione. Le spese ammontarono a 41.317,23 lire e molte furono le prestazioni gratuite. L’Antonelli si accontentò di un compenso di 400 lire, meno dell’1% del costo di costruzione. Nel progetto di Ghemme Antonelli porta le sue precedenti esperienze pro-

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gettuali che hanno come riferimento edifici di forma circolare. Forse subì l’influenza di un suo maestro, il Bonsignore, che progettò la Gran Madre a Torino, o di Andrea Palladio che nel 1570 progettò “La Rotonda”, notissima villa vicentina, ma certamente Michelangelo e Bramante oltre al Pantheon romano possono aver condizionato l’Antonelli. Forse quest’ultimo edificio lo colpì in modo speciale se in effetti ritroviamo i primi disegni di edifici rotondi durante il suo soggiorno a Roma. I suoi progetti di “rotonde” diventano man mano sempre più consistenti: dall’edificio circolare che doveva accogliere il sacro affresco del Crocifisso di Boca al primo progetto per la parrocchiale di Oleggio, o della nuova cattedrale torinese nel progetto di


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risistemazione di piazza Castello, all’impianto del Caffè del Progresso di Torino, primo edificio civile antonelliano realizzato con ambiente a forma circolare. Ma è con gli edifici ecclesiali che il modello a pianta centrale si identifica nella sua opera: Castellamonte, non ultimata per l’enorme esborso richiesto, la rotonda di Sant’Alessandro a Fontaneto, la chiesa del cimitero di Maggiora e San Gaudenzio a Novara, il più alto edificio in muratura del mondo. Come nel coevo progetto di Vespolate lo scurolo della Beata

Ghemme

Panacea di Ghemme di forma rotonda si inserisce armonicamente nel contesto della chiesa parrocchiale su uno dei due lati della croce latina, staccato da questa ma compenetrato nella stessa, tanto da farne parte importante elevandosi sopra l’antica sepoltura. Al progetto dello scurolo panasiano Antonelli abbinò anche una proposta di risistemazione dell’intera area della casa parrocchiale e della piazza antistante con la demolizione di antichi edifici e la realizzazione di porticati racchiudenti l’intera area. Era un

Scurolo della Beata Panacea

suo vezzo quello di inglobare nei progetti non solo l’edificio commissionato, ma la sistemazione delle aree circostanti. La mancanza di fondi congelò questo ulteriore progetto e la comunità parrocchiale si limitò a finanziare la costruzione dello scurolo. La prima pietra fu posata venerdì 6 maggio 1864, festa patronale della Beata Panacea, per mano del vescovo di Novara Giacomo Filippo Gentile; il presule donò in quella occasione la sua croce pettorale. La presenza di Antonelli nel corso dei lavori non fu costante, anzi si può definire abbastanza limitata, ma aveva provveduto a porre alla direzione dei lavori in cantiere Giacomo Calcagni, suo uomo di fiducia. Scelse persone di estrema fiducia anche dove c’era bisogno di maestranze specializzate trasferendole dal suo cantiere di Novara, come lo stuc-

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catore luganese Achille Scala e il fornitore dei graniti Davide Pirovano. Ma la scelta più oculata la fece per la fornitura dei laterizi. Aveva estrema fiducia nei fornacieri Bottacchi che avevano fornaci a Ghemme, Luino, Gargallo e Novara. Una lettera redatta dallo stesso architetto Alessandro Antonelli indirizzata a Giuseppe Bottacchi testimonia tale fiducia: «Fin dall’anno 1831, tornato da Roma, ebbi occasione di constatare la bontà dell’argilla e la lodevole diligenza con cui suo zio Toedosio si distingueva fra i produttori. Nella costruzione poi della Cupola di San Gaudenzio, dell’Ospedale Maggiore, della rinnovazione del Duomo, e di altri edifizi tanto in Novara che nell’Agro Novarese da me disegnati e diretti fui sempre lieto quando potei di preferenza impiegare materiali della fornace Bottacchi tanto pel buon


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impasto che per regolare forma e conveniente cottura, cose che contribuiscono efficacemente alla buona riuscita delle costruzioni, massime se slanciate leggiere ed elastiche… Suo dev. affez. Prof. Alessandro Antonelli». A Ghemme si dice che il sommo architetto, per verificare la bontà dei mattoni e la loro idoneità a essere impiegati nelle sue estremamente ardite costruzioni, si recasse personalmente in fornace e quando i mattoni venivano sfornati ne prendesse alcuni a campione e li battesse l’uno contro l’altro per sentirne il suono. Se non era di suo gradimento scartava l’intera partita. Il 6 maggio 1869 il vescovo Giacomo Filippo Gentile impartì la benedizione

Ghemme

delle opere murarie ultimate. La presenza dell’Antonelli in quell’occasione è testimoniata dal dipinto del pittore Antonio Borgni che ritrasse una sua visita in cantiere. Nel novembre dell’anno successivo si trattenne a Ghemme per dare istruzioni a Pietro Rossi, marmista, per la costruzione del tempietto e dell’altare. Le solenni funzioni per l’inaugurazione dell’opera si tennero dal 16 al 18 agosto dell’anno 1875, presiedute da mons. Angelo Ballerini, patriarca di Alessandria d’Egitto, con la presenza dei vescovi di Vigevano, di Biella e dell’ausiliare di Novara. La processione transitò per tre ore in tutte le vie del paese accompagnando le reliquie della beata Panacea che furono poi traslate nell’urna

Scurolo della Beata Panacea

sopra il nuovo altare nel magnifico scurolo. Antonelli era presente e appose per primo la firma in qualità di testimone in calce all’atto notarile. Altra pregevole opera ideata dall’Antonelli e presente a Ghemme è un tronetto portatile da utilizzare nelle processioni per il trasporto delle statue di San Rocco e della Madonna del Rosario. Intagliato dallo scultore professor Francesco Sella, fu riccamente indorato dal Ravetta di Novara. Nella prima domenica di ottobre del 1888 la statua della Madonna del Rosario, anch’essa scolpita dal Sella, nel tronetto antonelliano veniva portata solennemente in processione, e in quei giorni l’architetto Alessandro Antonelli stava concludendo la sua insigne esistenza. Già nel 1878 in occasione del suo 80° compleanno il conte Tornielli, presidente del Circolo Vanchiglia, invia al sindaco di Ghemme un telegramma: «Torinesi festeggianti Antonelli mandano fraterno saluto nobile Ghemme patria sommo architetto». E il 14 ottobre da Torino, dove era sindaco l’avvocato Melchior Voli, arriva il telegramma che annuncia l’aggravarsi delle condizioni di salute: «Stato salute insigne Antonelli sempre grave minac-

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cioso malgrado lieve miglioramento; comunicai suo telegramma illustre infermo che vivamente commosso affettuosa dimostrazione terra natale ringrazia cordialmente vossignoria e Concittadini». Morì il 18 ottobre del 1888 nella sua casa di abitazione in via Vanchiglia a Torino. Mauro Agabio Imazio


Maggiora

Casa Antonelli

B

enché gli eventi fondamentali della vita di Alessandro Antonelli non siano avvenuti a Maggiora, per l’architetto questa casa rappresentò un punto fermo della sua esistenza. Fu luogo di famiglia innanzi tutto. Gli Antonelli, giunti a Maggiora nei primi del Seicento, si distinsero per intraprendenza professionale e posizione economica. Il cospicuo patrimonio, tramandato dai notai Costanzo e Spirito Maria, era costituito da un’ampia proprietà comprensiva di casa, rustico, giardino e orto nella zona in parte ancor oggi occupata dalla dimora storica. Fu luogo di riposo dagli studi, di progetti giovanili. Poi divenne sede di lavoro di opere da realizzare sul territorio. Più avanti diventò residenza per soste brevi ma ristoratrici. Fu comunque la casa del riposo in alternativa all’ufficiale e impegnativa dimora torinese. Fu lo strumento per edificare in libera genialità avvalendosi della concretezza e della fiducia dei muratori maggioresi. Fu sicuramente casa di amore per gli affetti custoditi e per le energie profuse, per la bellezza realizzata e per l’agio ottenuto. Fu anche la casa del dolore in cui mancarono la madre Angela, il fratello e sodale Antonio e la giovane figlia Angiola e in cui le tensioni, per motivi finanziari, divisero i fratelli e lo allontanarono dalla stessa abitazione. Fu quindi, per

più ragioni, la casa dell’uomo e dell’architetto insieme. La casa occupa con il giardino gran parte dell’isolato compreso tra via Gattico, via Colombo, via Manzoni, via Spirito Antonelli, piazza Alessandro Antonelli e via Minzoni. L’ingresso principale è posto in via Spirito Antonelli in cui si apre il cancello: percorrendo un viale si accede al cortile sul quale si affaccia il fronte monumentale. Il fronte posteriore con mattoni a vista si affaccia su via Gattico con portoncino d’accesso e portone laterale. Villa Antonelli è il frutto della ristrutturazione e dell’ampliamento di preesistenti proprietà immobiliari della famiglia Antonelli, avvenuta a partire dal 1830 e continuata per oltre trent’anni, in cui Antonelli realizzò sperimentazioni costruttive. Purtroppo il progetto e il diario dello svolgimento lavori non sono quasi documentati. è comunque assodato che l’architetto operò interventi a più riprese, libero di agire senza dover rendere conto del suo operato. L’edificio si presenta con un corpo di fabbrica principale a manica semplice a tre piani, con sovrastante piano loggiato, e da due ali secondarie più basse, disposte in senso ortogonale al corpo principale. Al piano terreno di questo, antistante ai locali di abitazione, trova spazio un ampio porticato, sorretto da colonne di


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granito bianco, con aperture a sagoma di cannocchiale, aventi la funzione di alloggiare gli infissi senza che siano d’ingombro. Per lo stesso motivo le aperture prospicienti via Gattico hanno gli scuri a scorrimento e scomparsa; mentre ai piani superiori le finestre sono a battente. Due sono le scale: quella a destra porta al primo piano, l’altra conduce a tutti i piani fino al loggiato. Al primo e al secondo piano si entra nei locali attraverso un corridoio che si apre sul cortile per mezzo di grandi finestre. I vani sono comunicanti. Di particolare rilievo è la varia tipologia delle volte: a padiglione, a volta ribassata, a vela. Scelta tutt’altro che casuale, che dietro denota la sapienza antonelliana nel controllare e bilanciare le loro spinte sui piedritti. Altrettanto caratteristico è il loggiato, intervallato da cinque colonne, un vero belvedere che consente di spaziare lo sguardo sul paese, sui boschi, con lo scorcio del santuario del SS. Crocifisso di Boca. A proposito del loggiato, si tramanda che l’Antonelli lo volle innalzare per fare un dispetto agli Imbrici, proprietari allora dell’attuale palazzo comunale, in posizione ben elevata e con ottima vista dall’alto. Se ci fu quest’intento ci fu in maniera secondaria; di certo però la rivalità delle famiglie era veritiera.

Maggiora

Maggiora

Anche il sottotetto è un bell’esempio di tecnica architettonica: visibili gli estradossi, le chiavi e le catene di ferro di controspinta dei muri perimetrali eccezionalmente ridotte per numero e dimensione. La facciata principale è forse il prototipo delle altre case antonelliane: nella parte centrale un doppio ordine di semicolonne addossate al muro di tamponamento che, con le colonne sopra e sotto, scandiscono tutto il fronte della villa. Di bell’effetto le architravi molto aggettanti quali linee marcapiano e il cornicione a mensoline. Di particolare interesse è l’ala destra della casa: un corpo di fabbrica a manica semplice in mattoni a vista, mai portato a termine, spazio di esperimenti edilizi per cui si avvalse del contributo dei muratori locali. Il figlio di Alessandro, l’ingegner Costanzo, scomparve nel 1923 senza eredi. La dimora venne acquistata dall’ingegner Giuseppe Gattico, ispettore del Genio Civile. La casa passò poi alla figlia Resy, coniugata con Vittorio Angelo Cantoni e contessa Mamiani Della Rovere, fino al 2005. Ora è di proprietà della famiglia Cantoni. Fulvia Minazzoli

Cimitero

L’

ingresso monumentale del cimitero di Maggiora è l’opera della vecchiaia di Alessandro Antonelli, che trasmise in eredità al figlio Costanzo con un bagaglio d’ispirazioni e tecniche di facile riscontro. è anche il luogo dove è sepolto. Il camposanto, a ovest dell’abitato, alla metà dell’Ottocento per l’aumento della popolazione venne ampliato in modo pragmatico e spartano. Per conferire al luogo sacro un assetto più dignitoso e spazioso, nel 1882 ci si affidò all’ingegner Costanzo. Il padre aveva ottantaquattro anni. Nel 1884 il progetto venne presentato al Consiglio Comunale e giudicato adeguato alle esigenze del paese e dell’arte, ma troppo sommario per essere approvato. Passò del tempo e la ristrutturazione si fece urgente. Alla fine del 1887 Costanzo si rimise all’opera e nel marzo 1888 stupì con un disegno di grande originalità: l’ala d’ingresso del cimitero sarebbe stata sormontata da un elegante timpano, con al centro una triplice cancellata e ai lati due portici a colonne ospitanti tombe; lungo il perimetro cimiteriale si sarebbero dispiegati altri portici; al centro si sarebbe innalzato un edificio ossario con una cappella per le funzioni religiose. Naturalmente il progetto era molto oneroso, ben oltre le 30.000 lire previste, per cui il Comune fece un mutuo di altre 20.000 e vi aggiunse l’ammontare

di tasse di famiglia e di commercio. Intanto – si suppone – l’ormai novantenne Alessandro non fu in grado di applicarsi in modo concreto al progetto. Di certo però dietro alla visione del maestoso cimitero ci fu il padre: lo stile neoclassico, la costruzione grandiosa, la concezione del “suo” moderno da imporre sull’antico. Difficile non pensare che l’idea di atterrare la «vetusta e cadente» chiesa (antica parrocchiale seicentesca) non fosse frutto di un suo desiderio vagheggiato anche anni prima nei discorsi col figlio. L’architetto ci teneva al bel camposanto perché vi riposavano i suoi cari e perché lì voleva riposare per sempre. Però non ebbe la soddisfazione di vederlo perché morì il 18 ottobre a Torino. La salma giunse a Maggiora il 22 ottobre ma la tomba nell’ala monumentale a destra dell’ingresso non era ancora pronta. Il parroco e la Giunta Comunale allora deliberarono: «la salma venga temporaneamente tumulata nella chiesa non più destinata ai sacri uffici finché, con il riordinamento del cimitero, non si possa dare una stabile sede. Del resto è già stato approvato il riordinamento. La salma sia deposta ove reclama la popolazione, ovvero nella chiesa». Ironia della sorte all’architetto Antonelli toccò sostare in quell’edificio aborrito. Fu per poco? La delibera farebbe intendere per più di qualche giorno. Sulle carte compare il 26 ottobre come data di sepoltura. è probabile quindi che in


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Maggiora

Maggiora

forma privata sia poi avvenuta la tumulazione nella tomba di famiglia, la prima a destra dell’ingresso, dove nel portico superiore sono collocati i bassorilievi in bronzo dell’architetto e dei suoi familiari. Costanzo Antonelli fu poi costretto a ridimensionare il progetto per l’impossibilità a finanziarlo come richiesto: il porticato in ingresso con una cancellata e due ali con tombe destinate alle famiglie più altolocate, gli altri lati si cingevano di muri con quattro aperture protette da inferriata; l’ossario – costruito dal 1892 al 1907 – semplificato, senza arcate e senza cappella. La chiesa di Santa Maria Campestre riprese il suo ruolo di edificio sacro e ancora annualmente in essa si celebra una liturgia da requiem in onore dell’architetto Antonelli, maggiorese per sempre. Piero Poggia

Piano regolatore

A

Maggiora l’intervento di Antonelli al piano viabile è l’opera meno considerata ma forse più importante. In un contesto di eventi straordinari, l’architetto mostrò in pieno doti e carattere, sconvolse letteralmente il paese, non solo nell’esecuzione pratica ma anche nel suscitare accese rivalità e fermenti clamorosi, ma soprattutto migliorò la vita socio-economica del paese. Le seguenti note sintetizzano una cronaca che ha risvolti e intrecci degni di un romanzo o di una rappresentazione teatrale. Il 12 maggio 1832 il Consiglio Comunale incaricò «il Signor Ingegnere Architetto Alessandro Antonelli di questo Comune» di sistemare alcune vie interne dell’abitato. Trascorsi quasi due anni di riserve e di silenzi, il 6 marzo 1834, l’Antonelli presentava e spiegava il progetto. Era utile abbassare la piazza (piazza Caduti) perché si conferiva maestà alla chiesa e si davano «massime comodità a tutto il paese», rendendo «comode le strade che da Sottocignoli [via Vittorio Emanuele] si uniscono a Valeggia [via Gattico] e che portano alle Fornaci e boschi e alla maggior parte delle vigne». La piazza poteva essere abbassata, come l’imbocco delle vie che l’ascendevano; la terra tolta serviva a sottomurare le case; ne avrebbero tratto vantaggio i commerci di calce e i trasporti agricoli. Il progetto suscitò grande stupore. Il sindaco e cinque consiglieri votarono

contro per l’alto costo del «grandioso progetto». Infatti, dalle poco più che 4000 lire stanziate, si era passati alle oltre 5000. Altri cinque consiglieri si dichiararono favorevoli perché il lavoro avrebbe «prodotto comodità». Risultato: per un voto il progetto venne bocciato. Nei mesi successivi la popolazione maggiorese si divise sull’opportunità o meno di realizzare l’ardito piano viabile. Mentre l’ispettore del Genio Civile di Novara Calderara riteneva che le fondamenta dell’edificio sacro e della torre campanaria, abbassate di 75 centimetri, avrebbero provocato danni incalcolabili, «molti capi di casa» supplicavano l’Ufficio d’Intendenza Generale di consentire l’«abbassamento della piazza comunale per maggiore comodità del popolo e decoro della chiesa parrocchiale» e la curia di «rendere il piazzale al giusto livello levando la deforme montuosità che attualmente esiste, portando così al sontuoso tempio quella dignità di cui ne è ben meritevole». Nel frattempo il Congresso Permanente di Acque e Strade riconosceva il progetto in «massima vantaggioso a codesta popolazione». Riguardo al temuto danno alle fondamenta di chiesa e campanile, suggeriva il modo per riformare la perizia. Nel giugno 1835 l’intendente comunicava che l’Antonelli, aveva presentato tipo e relazione in cui dichiarava l’assenza di pericolo per la chiesa e per il campanile


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anche perché aveva previsto di «cingere con un muro una parte di perimetro delle loro fondamenta», facendo però aumentare la spesa a ben oltre 6000 lire. Il 25 giugno 1835 si mise all’incanto l’appalto per i seguenti interventi: «Rimozione di più tronchi nell’abitato di Maggiora con l’abbassamento del suolo sì delle strade che della piazza ed adattamenti da farsi nelle case de’ confrontanti alle strade e alla piazza». Il 10 luglio 1835 l’impresario Filippo Bardelli di Momo otteneva l’appalto dei selciati e relativi abbassamenti senza ribassi d’offerta, con la garanzia data da Ercole Antonelli e l’idoneità certificata da Alessandro Antonelli. I lavori relativi alla chiesa parrocchiale vennero subappaltati dalla Consulta dello Scurolo, presieduta dall’arciprete Benedetto Prola e diretta dall’avvocato Antonio Antonelli, che si

Maggiora

proponeva in questo modo di ultimare il luogo di venerazione al patrono Sant’Agapito e che assicurava il Genio Civile del «buon esito del progetto» nel procedere all’intervento in facciata «dietro concerto preso coi fabbricieri dallo stesso architetto». Il 13 luglio il Bardelli iniziava l’opera, malgrado la clausola che «nessun lavoro senza ordine dell’Ufficio d’Intendenza anche col mezzo del Signor professor Antonelli» avrebbe potuto farsi. Per questo l’intendente Della Torre raccomandò al sindaco Domenico Magistrini di far sospendere i lavori e soprattutto di «far uso di prudenza affinché non abbia luogo il minimo disordine». Nonostante ciò, i Carabinieri dovettero intervenire per far cessare i movimenti di terra, subappaltati alla Consulta dello Scurolo dagli appaltatori in merito alle opere di livellamento della

Piano regolatore

piazza e delle contrade, ed eseguiti «gratuitamente da molte persone». La conseguenza fu che il primo cittadino venne sospeso dall’incarico. In concomitanza il Comune di Maggiora era citato in giudizio dall’avvocato Giuseppe Fasola e dell’avvocato Gian Domenico Imbrici (rispettivamente proprietari l’odierno palazzo comunale e del caseggiato al lato nord del campanile) per aver autorizzato i lavori di abbassamento della piazza e di conseguenza della casa. I proprietari si lamentavano delle «sottomurazioni alle fondamenta assai pericolose, del piano terreno con mostruose deformità, ma assai più con ingombro delle aree, con apposizione di frequenti inciampi, di lunghe gradinate». Il Comune obiettava che il progetto non era «mai stato approvato né ridotto a capitolato d’appalto e perizia con vera adozione della Comunità perché era impossibilitata a sopportarne le spese». Visto che il contenzioso si aggravava, l’8 agosto venne inviato l’ispettore Pernigotti, vide la piazza «deforme» e sentenziò quale «maneggio di pazzia» fosse stato il passare dai 60 ai 175 centimetri di abbassamento per il pericolo delle sottomurazioni. Però non bocciò in toto l’intervento, ma suggerì di abbassare solo di un metro l’angolo di casa Imbrici e di sistemarle davanti una rampa «per potervi accedere con comodo con carri e vetture in tutti i lati a partire dalla soglia Imbrici su una distanza di 3,80 metri, mediante la depressione del suolo della piazza di 70 centimetri, andando a terminare a 1,30 metri sotto la rampa agli angoli della strada che mette in casa Antonelli e di quella d’Imbrighetti» (via Marconi). Il 9 settembre si avvisava il Bardelli che pote-

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vano riprendersi i lavori nel rispetto delle variazioni dettate dal Pernigotti. Le attività ricominciavano con intensità e forse senza troppa prudenza perché il 9 ottobre capitò «un sinistro accidente: sotto le ruine di una parte della casa spettante a Carlo Andreini rimase vittima Geremia Gariboldi mastro muratore dello Stato Lombardo Veneto che lavorava alla stessa casa per la sottomurazione». Era successo che lo stabile (sito al lato sud della piazza e all’imbocco dell’attuale via Marconi) era atterrato contro quello di fronte di Eurosia Antonelli; l’affrettarsi a sottomurare era stato determinato dalle persistenti piogge, che avevano fatto presagire il peggio, purtroppo senza poterlo evitare. Pochi giorni dopo i fabbricieri si lamentavano con il vescovo poiché «improvvisamente l’appaltatore si mette a distruggere la più buona parte della casa [stabile posto ad est della piazza e contiguo alla chiesa], disperde i materiali nell’abbassamento delle strade e nell’innalzamento di grossi muri per l’ideato prolungamento della chiesa». L’architetto Antonelli aveva in serbo una sorpresa urbanistica, non ancora partecipata alle autorità: realizzare un piazzale sacro con gradinata, da estendersi per gran parte della rampa centrale della piazza. Era un progetto nello stile antonelliano, di cui restava traccia nel disegno autografato e datato 11 ottobre 1836 (unico documento prima presente nell’archivio parrocchiale maggiorese). Nel corso del 1836 le divisioni si fecero più aspre e le difese più accanite. Il Comune si difendeva dalle accuse di Imbrici e Fasola, ma con loro era contro Antonelli; l’appaltatore Bardelli accusava il Comune e non voleva risarcire i


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danni. La Consulta dello Scurolo lo difendeva sostenendo che per sbaglio aveva abbattuto la casa che sarebbe servita come abitazione del parroco. Era quindi a disposizione uno spazio per un decoroso piazzale sacro. Si rimise l’ingarbugliata vertenza all’avvocato fiscale Mocchia che, il 19 dicembre, così si pronunciava: «Per un singolare e mal augurato piano di livellamento la comunità di Maggiora ha in atto un criminale procedimento contro Alessandro Antonelli direttore, Antonio Antonelli subappaltatore e Filippo Bardelli appaltatore». Non era possibile che il Tribunale Mandamentale desse un parere, prima che una Delegazione fosse venuta sul posto per constatare, trattare e conciliare. La Regia Delegazione il 5 settembre 1937 giunse a Maggiora. Era composta dall’intendente generale Carlo Cagnone, dal prefetto senatore Francesco Saverio Desanti, dall’avvocato fiscale Carlo Mocchia, dal perito ingegner Pietro Prato. Le parti erano tutte presenti con i loro avvocati. La comunità era rappresentata dal sindaco Carlo Fasola. L’architetto c’era. Il 6 settembre avvenne l’ispezione. Si constatò che la profondità di scavo lungo la piazza eccedeva da quella indicata nel progetto perché all’intersezione delle contrade di Valeggia e della parrocchiale (vie Gattico e Minzoni) si era scesi da 1,25 metri a 1,30 metri; così sul lato opposto all’imbocco con via d’Imbrighetto (via Marconi) l’«ardito» abbassamento di 1,75 metri aveva raggiunto in maniera incosciente i 2,30 metri. Nella contrada d’Imbrighetto, pur non essendo previsto nulla, si era fatto ar-

Maggiora

bitrariamente; nella contrada di Valeggia l’abbassamento era stato prolungato di oltre 50 metri; nella contrada parrocchiale si era abbassato per un tratto più lungo e con maggior profondità. Ne derivò un catastrofico riscontro: «enorme abbassamento non contemplato in nessun piano» con gravissimi danni non solo a Imbrici e a Fasola, ma a molti altri proprietari, sebbene non avessero ancora inoltrato un reclamo. E il Prato ancora infieriva evidenziando che la circolazione nella piazza era «imbarazzante a causa delle due muraglie che si distaccano dalla facciata della chiesa e protendono sino a poca distanza dalla contrada di Valeggia, destinati da quanto pare alla costruzione di un anti tempio ed una gradinata costrutti arbitrariamente… muri che restringono soverchiamente la piazza e tolgono il più bel requisito che si conviene ad un edificio (la chiesa) di simil genere, poi anche di pregiudizio ai privati». Occorreva una sanatoria seguendo con scrupolo le osservazioni suggerite dal Prato: rialzare la parte bassa della piazza, riformare il livello del suolo nelle contrade che immettevano in essa, costruire delle gradinate per entrare nelle case o abbassarne le entrate, infine ultimare con la posa dei selciati. Anche per voce del vescovo Morozzo non era possibile fare il piazzale sacro. A proposito delle colpe, la comunità, pur non estranea ai fatti, era anche «in qual modo scusabile poiché si eseguivano le opere sotto la direzione dell’architetto Antonelli». Un verdetto negativo andava alla Consulta dello Scurolo perché l’area di piazza, dove si erano costruiti i muri, non era di proprietà della Chiesa.

Itinerari antonelliani

In maniera indiretta la critica andava anche all’architetto progettista e direttore di lavori che difficilmente poteva ignorare quanto l’intervento travalicasse le disposizioni di legge. Era quindi «indispensabile per forza adottare un temperamento… conservandosi per una parte le opere fatte e coordinando queste coi diritti e cogli interessi della comunità». Quindi proponeva di realizzare quanto suggerito dalla perizia Prato, di eseguire le modifiche suddividendo le spese per un quarto al Comune e per tre quarti al Bardelli. Si concedevano due mesi di tempo per realizzare i lavori sotto la direzione dell’ingegner Prato o di un suo assistente. Il 24 giugno 1838 la piazza, fresca di abbassamenti, accoglieva sulla sua rampa la solenne processione con il trasporto di Sant’Agapito, evento eccezionale che vide la presenza straordinaria del

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cardinale Morozzo, di molti esponenti del clero e di una grande folla. Fu l’occasione ufficiale per apprezzare il lavoro di Antonelli, si notava anche «l’esodo volontario e dignitoso al quale si erano rassegnate alcune famiglie distinte del paese, che pur non avrebbero dovuto essere dimenticate per i molti servizi resi». Annotazione allusiva alle famiglie Fasola e Imbrici, in passato benefattrici in parrocchia, e al presente disaffezionate per il ruolo “parrocchiale” acquisito dagli Antonelli. Alessandro Antonelli, mostro sacro per talento e caparbietà, l’aveva avuta vinta; malgrado la rinuncia a qualche desiderio progettuale che aveva scontato come esaudito. L’architetto, al prezzo di 10.000 lire, era riuscito a cambiare in meglio la sua Maggiora. Piero Poggia


Maggiora

Scurolo di Sant’Agapito

L

o scurolo dedicato al patrono di Maggiora rappresenta una pietra miliare nella carriera professionale dell’architetto e ingegnere Alessandro Antonelli perché fu il primo a cui mise mano e al cui inizio partecipò ancora studente. Il popolo di Maggiora aveva grande venerazione per il martire prenestino Agapito, per cui nel 1817 «benché oppresso dalla miseria» decise di costruire «la sontuosa fabbrica dello scurolo per riporre in esso il Santo Corpo dell’Inclito Venerato Protettore». L’arciprete Giuseppe Andreini e la stessa Consulta, desiderando erigere un archetipo dell’arte nel 1817, lo commissionò al celebre architetto canonico Giuseppe Zanoja, il quale, benché impegnato a Milano, progettò gli elementi architettonici fondamentali. Purtroppo, dopo pochi mesi, la morte lo colse improvvisamente lasciando nel panico la parrocchia. Dovendo collocare l’edificio in un’area prospiciente la navata ma a livello più elevato e non avendo ancora trovato una soluzione consona alle aspettative, nel 1819 la consulta parrocchiale, presieduta dall’avvocato Antonio Antonelli, si rivolse al giovane Alessandro che rispose proponendo una scalea originale e gradevole. è lo stesso Alessandro a spiegare: «Ho combinato la scala con il primo ramo che armonizza e si accorda con i

gradini delle cappelle e porta al ripiano dal quale si dipartono a destra e a sinistra altri rami minori ricavati nel nucleo dei piloni della chiesa e pei quali si entra nello scurolo con bellissimo effetto prospettico. Nell’occasione che mi recai a Milano a riprendere gli studi, presentai i disegni dettagliati al professor Amati che confessò che la soluzione da me data era la più conveniente. Soggiunse anche che, a me giovine, non conveniva affrontare così delicata operazione». I tempi di costruzione si dilatarono ma i maggioresi preferirono attendere che l’Antonelli si perfezionasse. Nel frattempo lo stesso venne spesso consultato per collaborare con lo stuccatore Cattori e il quadratore Porta, che conoscevano le intenzioni dello Zanoja e le prime istruzioni per procedere. Ufficialmente si occupò dello scurolo dal 1826 al 1838 eseguendo i progetti dello Zanoia e integrandoli con tecniche sue. è ancora lo stesso a raccontare: «Con la continua assistenza, tra gli screzii dei partiti, potei eseguire l’ardua opera e stabilire una comunicazione tra la sagrestia dello scurolo e quella della chiesa, mediante scala ampia e comoda che, discendendo nel sotto scurolo, trova ampio ripiano in cui collocai l’urna di pietra che racchiudeva le ossa del martire». Sotto le sue direttive, con l’apporto della propria perizia costruttiva e della sensibilità all’estetica neoclassica, dise-


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gnò di sua mano «la Cassa della Custodia ideata come tutte le decorazioni ed i rosoni che adornano le volte». L’Antonelli parla di divergenze e prese di posizione, che, tra opposti schieramenti, lo videro protagonista indiscusso nel bene e nel male per l’ardito piano di abbassamento viabile. Anche l’edificazione dello scurolo subì rallentamenti e polemiche. Per mancanza di fondi infatti la consulta parrocchiale nel 1835 subappaltò addirittura i movimenti di terra, i trasporti di sabbia e ghiaia dall’impresario Bardelli, che aveva l’appalto per la sistemazione della piazza; a svolgere i lavori intervennero i parrocchiani gratuitamente e nei giorni di festa. Nel 1838 il tempietto antonelliano veniva inaugurato alla presenza del cardinale Morozzo. Antonelli progettò in grande e tentò di modificare l’interno barocco della chiesa. Intervenne nell’esecuzione del battistero e trasformò in stile neoclassico le pareti e le volte di due cappelle, sempre sul lato destro dell’edificio sacro. Nell’archivio parrocchiale non vi è traccia di alcun documento scritto o grafico riguardante lo scurolo o la chiesa, né da parte di Antonelli né da parte della consulta parrocchiale, come non sono

Oleggio

Maggiora

presenti i libri mastri del periodo. Le memorie – riportate sopra – sono tratte da un volumetto a stampa scritto dal nipote Costanzo Benzi. Solo nel registro delle spese del 1841 compare il pagamento di 200 lire «al professor Antonelli», presente a Maggiora il 20 agosto in onore del patrono e al contempo dello scurolo. Si accede attraverso un’elegante combinazione di nere scale marmoree all’interno della parrocchiale, prima a ventaglio poi biforcate in due vie scavate nel muro perimetrale, sono segnalate da balaustre di candido marmo. Il tempio neoclassico ha la volta composta al centro da una cupola, sorretta da quattro colonne di marmo verde con capitelli corinzi e basi di marmo bianco senza plinto, e lateralmente da quattro semibotti, ornata a fiori stilizzati e rosoni agli angoli. La linearità delle pareti, marmorizzate a lucido in tinta rosata, è verticalmente interrotta da otto semicolonne e quattro contropilastri angolari e orizzontalmente da un fregio a festoni e grottesche. Sopra l’altare troneggia un’urna di legno dorato e intagliato con angeli cariatidi, contenente la figura del patrono Agapito e parte delle sue reliquie. Fulvia Minazzoli

Chiesa dei SS. Pietro e Paolo

L

a chiesa dei SS. Pietro e Paolo è il risultato di vari interventi ricostruttivi e di ampliamento durati dal XVIII secolo agli anni sessanta del Novecento, con un sostanziale intervento a cura dell’architetto Alessandro Antonelli nel corso del XIX secolo. Sono poche le testimonianze che rie­ scono a fornirci dati precisi sulla struttura architettonica della vecchia parrocchiale ma, secondo alcune fonti, la costruzione risalirebbe al XVI secolo. Nella prima descrizione, tratta dagli Atti delle Visite pastorali del 1568, la chiesa risultava fornita di tre altari, mentre nel 1571 ne erano descritti nove. Dalla lettura di tali documenti si può apprendere che la cappella dell’altare maggiore si trovasse all’epoca sotto la cinquecentesca cappella voltata e secondo la testimonianza del vescovo Ferdinando Taverna «[...] Pictoris Gaudentii tota ornata». Un nuovo altare maggiore con balaustra venne costruito negli anni 16721679 con il contributo del Comune. Era preceduta da un porticato con otto colonne in granito, le cui basi sono tutt’oggi conservate presso il giardino della chiesa parrocchiale. Alla chiesa erano annessi a sud gli oratori del Ss. Sacramento e l’antico cimitero, mentre a nord era posto l’oratorio del Ss. Rosario, sedi delle omonime confraternite.

Don Bertotti al suo ingresso nella parrocchia di Oleggio, nel 1840, trovò una fioritura di opere e una frequenza alle funzioni che erano le migliori che si potessero desiderare, ma la chiesa dei SS. Pietro e Paolo era piccola e non molto decorosa per la popolazione del Borgo «con una capienza di 2000 persone insufficiente per una popolazione di 8000 anime». Considerato lo stato di decadenza della vecchia parrocchiale, il trentenne arciprete Bertotti, originario di Fara Novarese, cominciò a pensare a una ricostruzione della stessa, tanto più che a Bellinzago si poteva già ammirare la nuova parrocchiale, opera del professor Alessandro Antonelli, docente di architettura, disegno e ornato presso l’Accademia Albertina di Torino. Durante la visita pastorale effettuata dallo stesso Bertotti nel 1852, alla vigilia dell’inizio delle nuove opere, si trova una dettagliata descrizione dell’antica chiesa: «La costruzione di questa chiesa risale al 1500 circa, ne havvi alcuna memoria in proposito. Venne però rinnovata, ed ampliata nel suo Coro, Presbiterio e Sacrestia con architettura di buon gusto, negli anni 1733 e ’34 in seguito ad una eredità pervenutale dal Sign. Gaspare Gola. […] al suo interno presenta un’architettura per la maggior parte barocca […] dalla parte di mezzodì è separata da ogni sorta di edifizi, non così dal lato setten-


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trionale, cui va unita la casa parrocchiale […]. Il corpo della chiesa in discorso è coperta di soffitta indecorosissima e che minaccia rovina». Grazie al lascito testamentario di Rosa Rosari vedova Mazza, la chiesa parrocchiale di Oleggio ricevette la somma di lire 40.000 di Piemonte, somma che permise l’avvio della costruzione della nuova chiesa. Il progetto dell’Antonelli prevedeva una rotonda del diametro di 42 metri

Oleggio

circa e dell’altezza di 52 metri fino alla croce. Una grande calotta con lucernario avrebbe dovuto sovrastare dodici colonne addossate ad altrettanti pilastri di rinforzo dell’altezza di 16 metri. L’edificio sarebbe stato preceduto da un maestoso portico di quattro colonne, poi riprodotto nel progetto realmente eseguito. Tra le colonne dovevano essere inseriti sei altari. Coro e presbiterio non avrebbero subito modifiche, con l’altare maggiore sotto la cupola e l’abside limi-

Chiesa dei SS. Pietro e Paolo

tata all’attuale giro del coro. Per l’intera opera era stata prevista una spesa di lire 267.459,03, porticati esclusi. Il 5 settembre 1845 la Fabbriceria con il consiglio approvò il progetto. Seguì l’approvazione della curia. Il 9 settembre il sindaco di Oleggio, avvocato Giacomo Tosi, che per disposizione testamentaria della signora Rosa Rosari vedova Mazza doveva coadiuvare l’arciprete nell’impiego del legato, si oppose alla realizzazione del progetto della rotonda. Motivo specifico era la spesa eccessiva dell’impresa ma, in realtà, ciò che lo turbava era la figura autoritaria e decisa di don Bertotti. La Fabbriceria comunque non tenne conto delle rimostranze del sindaco e

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proseguì nei lavori. Il sindaco intervenne nuovamente e, con un decreto emesso dal giudice, il 15 settembre fece sospendere i lavori e la Fabbriceria fu obbligata al risarcimento dei danni causati dalle demolizioni e per le occupazioni di suoli (come il sagrato) appartenenti al Comune e a una multa di 50 scudi. L’energia con cui don Bertotti seguì la sua strada e la persistenza dell’opposizione del sindaco indussero il vicario generale a far sospendere i lavori in tutta la zona e adiacenze della chiesa, precisando successivamente che la vertenza si sarebbe dovuta risolvere in Tribunale e che di qualunque trasgressione sarebbe stato responsabile il parroco. Per mesi sindaco e arciprete continuarono a ostacolarsi in un continuo gioco di potere, senza mai giungere a


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niente di concreto e ritardando sempre di più l’inizio dei lavori per la nuova chiesa. Il sindaco arrivò al punto di sostenere che il popolo oleggese non fosse favorevole alla costruzione della nuova parrocchiale, ma per di più obbligato dal parroco a contribuire finanziariamente con ore di lavoro gratuite alla costruzione del nuovo edificio. Per dimostrare il contrario, l’arciprete aprì una sottoscrizione nella quale i cittadini si impegnarono a pagare una quota economica per dieci anni dopo la posa della prima pietra; con questo si volle provare in Tribunale che i fondi fossero sicuri e che la popolazione favorevole, contrariamente a quanto asserisse il Comune. Il parroco offrì per primo 600 lire. Nel 1846 mentre l’arciprete continuò a raccogliere sottoscrizioni a favore della chiesa, il sindaco Tosi per ostacolare il progetto dell’Antonelli ne face prepa-

Oleggio

rare due più economici dall’ingegner Antonio Busser e dall’architetto Paolo Rivolta nativo di Oleggio. Questi progetti arrivarono al parroco il 24 febbraio 1848: il primo, di gusto neoclassico, prevedeva una chiesa a croce greca per la spesa complessiva di lire 240.065; il secondo in forma di basilica con due campanili per lire 203.356. L’arciprete sconfitto sotto il pretesto di una spesa eccessiva, ritorse l’arma contro gli avversari, corse a Torino dal professore e gli fece preparare un nuovo progetto in forma di basilica per una spesa complessiva di lire 184.923,22. In maniera inattesa, i primi di maggio, il sindaco Tosi si dimise dalla sua carica per problemi di salute, morendo poi il 17 giugno 1848 e lasciando campo libero all’arciprete. Nuovo sindaco fu l’avvocato Edoardo Mazza, uomo molto colto e così, il 14

Chiesa dei SS. Pietro e Paolo

giugno 1849 ripartirono i lavori di progettazione. Per Oleggio l’Antonelli dovette tornare allo schema basilicale che già aveva sperimentato senza grandi entusiasmi nella chiesa di Bellinzago. Della grandiosa concezione del progetto primitivo non rimase che la dimensione. La prima pietra fu finalmente posta il 14 agosto 1853 e la nuova chiesa, dopo tante traversie, venne benedetta e aperta al culto il 23 dicembre 1858 e consacrata il 6 luglio 1868, attuando così il progetto dell’Antonelli che aveva previsto l’abbattimento della chiesa dei SS. Fabiano e Sebastiano, sede dell’omonima confraternita, per dare più ampio respiro alla facciata della chiesa e parte della chiesa di San Rocco del Seminario vescovile, già sede dell’ex convento dei Frati Riformati di San Rocco, ora sede del Museo Civico Archeologico Etnografico “C.G. Fanchini”. Il progetto definitivo prevedeva però la costruzione di un maestoso colonnato, mai realizzato, demolendo l’intero quartiere a ridosso del Palazzo Comunale e parte della prospiciente via Pozzolo. La chiesa parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo, soprannominata nel gergo popolare oleggese “la chiesa grande” proprio per le sue grandi dimensioni che la rendono più adatta a una città che a un borgo di provincia come Oleggio, è un maestoso edificio di stile neoclassico a pianta basilicale della lunghezza di 64,20 metri e della larghezza di 38,60 metri. Internamente è suddivisa in tre navate, la maggiore larga 22,60 metri e le minori di 8 metri. Le quattro colonne del pronao sono di granito bianco di Montorfano con base in granito rosa di Baveno a grana grezza con capitelli in stile compo-

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sito. Presso il locale Museo Civico sono conservati i mozzi delle ruote dei carri costruiti della Premiata Ditta Mazzonzelli di Oleggio, attiva in paese fino alla prima metà del XX secolo, e che servirono per trasportare i pesanti blocchi di granito dal Porto del Ticino di Oleggio fino alla chiesa parrocchiale. I carri costruiti appositamente erano dotati di quattro ruote, ognuna con un’ampiezza di circa 4 metri di diametro. Il presbiterio della chiesa è costituito dall’antico presbiterio della chiesa del XVI secolo, ampliato e modificato nel corso del XVIII secolo e a sua volta riplasmato nei progetti antonelliani. I pilastri di granito che reggono la cupola sono stati arrotondati in forma di colonne. La chiesa avrebbe dovuto concludersi in un campanile altissimo impostato sulla volta dell’abside che equilibrava l’alto volume delle navate. Forse la spesa ritenuta eccessiva determinò la sostituzione del colossale campanile con l’attuale cella campanaria; lo stesso tema era stato proposto per la parrocchiale di Bellinzago ma solamente nella cupola di San Gaudenzio e nella Mole a Torino Antonelli riuscì a realizzare questo suo progetto. La chiesa oleggese possiede linee di semplicità decisamente neoclassiche unite a uno schema chiarissimo e armonioso in cui colonne, pilastri e lesene formano un insieme con le volte. Oltrepassato l’immenso portone di 45 metri quadrati costruito in legno di noce a quattro ante, e con le ferramenta disegnate dall’Antonelli, all’interno della chiesa si possono ammirare i dieci altari, le numerose vetrate e le ricche decorazioni. Jacopo Colombo


Romagnano Sesia

Villa Caccia

N

el luogo dove oggi sorge Villa Caccia, sul poggio chiamato Monte Cucco, a nord dell’abitato di Romagnano Sesia, nel 1641 viene edificato un convento di frati Cappuccini. I monaci hanno sede a Romagnano già dal 1585, nell’area dell’attuale Chioso Bini. Il convento ospita dodici frati, tuttavia l’area si rivela malsana per la salute dei religiosi, al punto di determinare la decisione di trasferire la sede conventuale in un’area più salubre, individuata proprio al Monte Cucco. Una documentazione iconografica della struttura del complesso ci proviene dalla cartografia di Sei e Settecento. Una prima mappa “a volo d’uccello” del 1663 mostra una vasta area recintata, connessa al borgo da un percorso ad andamento zigzagante che, partendo dalla strada della Valsesia, risale lungo la collina. Con l’abolizione degli ordini religiosi dettata dalla legislazione napoleonica, nel 1808 il convento è soppresso e i padri Cappuccini abbandonano l’edificio. A partire dal 1811 i terreni del convento subiscono alcuni passaggi di proprietà, fino al 1837, quando i Caccia di Romentino ne entrano in possesso. La famiglia Caccia è tra le più cospicue e influenti del Novarese già dal XII secolo. Si articola in vari rami, tra i quali i Caccia di Romentino, i quali dal XVIII secolo posseggono beni a Romagnano, avendo una residenza nell’attuale via Ministro Caccia.

Figura di rilievo nelle vicende della famiglia è Gaudenzio Maria (17651834), Ministro delle Finanze durante il regno di Carlo Alberto. Muore nel 1834, lasciando la moglie Ottavia Leonardi di Casalino reggente del figlio quindicenne Marco Antonio. Sarà proprio la vedova a svolgere un ruolo fondamentale nel progetto di Villa Caccia e nella costituzione di una vasta e fiorente proprietà. Il 30 settembre 1837 Ottavia Leonardi, per conto del figlio minorenne, acquista da Secondo Vercelli di Borgosesia «caseggiato, terreni annessi, il tutto cinto di muro e costituente il locale altre volte ad uso dei Reverendi Padri Cappuccini, situato presso Romagnano». Seguono una serie di acquisti diretti e permute di terreni adiacenti alla ex proprietà dei frati, al fine di incrementare le aree da destinarsi a coltivo per consolidare la rendita agricola. La costruzione di Villa Caccia incomincia nel 1840 e risponde al desiderio di affermare il prestigio raggiunto con una residenza di villeggiatura, avvalendosi di un professionista già ben noto qual era Alessandro Antonelli, nonché di sviluppare l’attività agricola e vitivinicola. Raggiunta la maggiore età, è Marco Caccia che prende in mano le redini del progetto. Muore però nel 1845, a ventisei anni, lasciando la moglie Angela (detta Angiolina) Tornielli di Borgolavezzaro e il figlio Gaudenzio, di appena un anno. Angiolina, presto risposatasi, svolge un



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ruolo decisivo nell’andamento del cantiere e nella gestione delle proprietà. È molto probabile che questa fase costruttiva interessi il corpo centrale, mentre le due ali rustiche siano ascrivibili a una fase successiva, così come la progettazione dei giardini. La pianta antonelliana del piano terreno di Villa Caccia mette in risalto la relazione tra le precedenti strutture conventuali e la nuova architettura della Villa, evidenziando il rilievo delle murature dell’ex convento, sulle quali le strutture antonelliane insistono puntualmente. L’evoluzione del progetto antonelliano è evidente inoltre dai due prospetti nord e sud. Roberto Gabetti negli Atti e Rassegna tecnica della Società degli ingegneri e architetti in Torino (nuova serie, XVI,

Romagnano Sesia

n. 6, 1962), in Problematica antonelliana così scrive: «Un cancello di disegno Lui­ gi XVI, fra pilastri ottagonali a bugne, ci introduce, con ampio giro abilmente ricavato nel parco, a Villa Caccia di Romagnano Sesia: secondo gli esempi palladiani il corpo centrale è destinato all’abitazione del proprietario, quelli laterali a servizi rustici: la Villa è alta e bianca, con colonnati esterni. La casa del gran signore piemontese (ora feudatario, ora ricco proprietario, poi ministro di Savoia) ricorda i migliori esempi settecenteschi, tradotti in maniera moderna e secondo una splendida lettura di carattere: un edificio che basterebbe da solo a formare la celebrità di un architetto. Il grande volume, coronato da una altana a pianta centrale, domina fra gli alberi l’imbocco della Valsesia. Chi entra

Villa Caccia

in casa trova una cappella a sinistra, uno scalone a rampa unica a destra, e gira poi nelle grandi sale (con o senza colonne) bianche e lisce: tono di nobile, assorto squallore». Invece Franco Rosso in Alessandro Antonelli 1798-1888 (Electa, Milano, 1989), nell’intervento Antonelli architetto civile, così scrive: «Da quel poggio, col grandioso loggiato a due piani e il piramideggiare delle sue masse, coronata da una folta vegetazione arborea che l’apparta come in un’isola felice, la Villa domina senza contrasto su Romagnano e la campagna circostante. La si raggiunge attraverso una strada tortuosa, cogliendone l’inaspettato rovescio: un cortile serrato fra le ali e le dipendenze che le prolungano, sbarrato da una quinta altissima e incombente, un grand’argine di quattro piani (i due ultimi corrispondenti ad una sottilissima manica semplice) concluso da un largo frontone e da un belvedere ottagonale. Ma appena se ne varca l’ingresso, attraverso portici, loggiati, finestre, è il paesaggio che trionfa a perdita d’occhio. La Villa vive nel pae­ saggio e del paesaggio; ne fa la sua ragion d’essere». Tra gli anni 1848-49 si verifica un forzoso rallentamento dei lavori a causa degli avvenimenti politici e militari della prima guerra d’Indipendenza, che vedono il Novarese teatro di battaglie, scorrerie e saccheggi, anche a danno della popolazione di Romagnano. Il Reggimento Savoia Fanteria occupa la Villa per qualche tempo, poi per diversi mesi vi si installa il comando di un distaccamento di truppe austriache (vi soggiorna anche il generale Radetzky), utilizzandone una parte come infermeria militare.

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Soltanto dal 1852 si ha una ripresa dell’attività, con l’acquisto di altri terreni da destinare a vigneti e case rustiche, adibite a residenza della servitù, nella contrada Borghetto. Il completamento della Villa e dei giardini avviene tra il 1865 e il 1883, con un piazzale d’ingresso ottenuto dalla costruzione delle due ali rustiche, donando alla Villa un accesso davvero monumentale. Il conte Gaudenzio Caccia, figlio di Marco, frequenta abitualmente l’ambiente di Romagnano: è sindaco per qualche anno e anche consigliere comunale. Grande attenzione sarà da lui dedicata ai giardini e alla tenuta agricola: nel 1883 interpella la prestigiosa ditta florovivavistica dei Fratelli Roda, tra i maggiori esponenti della tradizione piemontese ottocentesca dell’arte dei giardini, i quali si occupano di progettare e realizzare un nuovo frutteto. L’intervento documentato non esclude che i famosi giardinieri abbiano fornito ulteriore consulenza per la sistemazione del giardino antistante la Villa e il parco, proponendo inserimenti arborei, arbustivi e floreali a completamento di un impianto già esistente, che i Roda compongono forse in modo definitivo. Il ritrovamento di una planimetria del parco, risalente agli anni venti del Novecento, fa presupporre l’esistenza di un effettivo progetto del giardino e del parco che, per l’assetto compositivo e per lo stile, desumibile della documentazione fotografica dell’inizio del XX secolo, potrebbe essere attribuito agli stessi fratelli Roda. Con l’inizio del Novecento vengono a mancare i personaggi più rappresentativi e attivi della famiglia Caccia. Nel 1904 muore Gaudenzio, cui succede


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il figlio Marco Antonio, nato nel 1868, personaggio schivo che rivolgerà i propri interessi principalmente al teatro e all’opera, divenendo un esperto di lirica. Marco Caccia muore nel 1940 e con lui si estingue il casato. La proprietà della Villa passa dunque all’erede universale Camilla Paolucci de Calboli che, con l’azienda agricola in passivo, aliena nel 1950 Villa Caccia alla Società Beni Immobiliari di Novara, ente partecipato della Banca Popolare di Novara. In questo periodo la Villa diviene sede della scuola media e dell’istituto tecnico commerciale “A. Iviglia”. Nel 1962 passa in proprietà di Leone Mira d’Ercole, il quale, dopo aver alienato i terreni agricoli, cederà al Comune nel 1983 la Villa, ormai abbandonata e cadente, e il parco di 23.000 metri quadtrati. In seguito all’acquisizione da parte del Comune, l’Amministrazione interviene a più riprese per preservare la struttura e individuare una nuova desti-

Romagnano Sesia

nazione d’uso. Già nel 1984-85 si procede con il rifacimento delle coperture, con il contributo de Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza per i Beni Artistici, Storici e Architettonici del Piemonte. A tale intervento fa seguito il consolidamento statico e il recupero di parte dei prospetti. Tra il 1995 e il 2002 avvengono, con gli stanziamenti del Comune di Romagnano Sesia e della Regione Piemonte, il restauro della serra sud, adibita a spazio espositivo, e la ristrutturazione dell’ala est, destinata a sede del Museo Storico Etnografico della Bassa Valsesia, inaugurato nel 2006. Gli ultimi interventi, progettati e diretti dall’ufficio tecnico comunale e realizzati grazie ai contributi della Regione Piemonte nel 2010-13, riguardano il recupero dell’ala ovest e il consolidamento strutturale del corpo centrale. Carlo Brugo Stefano Fanzaga



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