Tra le persone _ Among People

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To m m a s o S a c c a r o l a

TRA LE PERSONE

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T ra le persone

To m m a s o S a c c a r o l a

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Mozambico e Perù - In viaggio con il Cesvitem

Fotografie, grafica e impaginazione di Tommaso Saccarola Testi di Marianna Sassano

Tommaso Saccarola - Fotografo www.tommasosaccarola.com

Ce.Svi.Te.M. Onlus - Centro Sviluppo Terzo Mondo Mirano (VE) - www.cesvitem.org

Copyright © Tommaso Saccarola - Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione del volume o di sue parti in qualsiasi forma. ISBN 978-88-97039-46-4

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Tra le persone Ho accolto l'incarico del Cesvitem di realizzare un reportage sui suoi progetti di cooperazione internazionale senza esitazioni. Sapevo da subito che non sarebbe stata un'esperienza comune, che non avrei seguito percorsi turistici. Avrei avuto modo di scattare fotografie dal punto di vista privilegiato di chi arriva in un luogo con un lasciapassare speciale: quello di chi è benvoluto, di chi è di casa. Io e mia moglie Marianna, insieme a Simone Naletto, presidente dell’associazione, ci siamo trovati nel Sud del Mondo, l'uno a guardare e l'altra ad ascoltare, per la spontanea diversa attitudine di ciascuno; riportando così a casa fotografie e storie, per raccontare alcuni angoli di Mozambico e Perù. Sono questi, infatti, i due principali Paesi dove il Cesvitem è impegnato in attività di sostegno alle comunità e di sviluppo dell'istruzione. Attività che ci ha incaricato di documentare, portandoci a conoscere le persone che ne beneficiano, e a scoprire le realtà in cui vivono. Ogni viaggio è stato un’immersione all'interno di territori umani, più che geografici. Affacciati alle singole storie di bambini, ragazzi, famiglie, uomini e donne, abbiamo vissuto i luoghi attraverso gli incontri. Non abbiamo visitato città o villaggi: abbiamo visitato case e persone. Operatori e assistenti sociali ci hanno accompagnati oltre il centro storico coi negozi, oltre i mercati turistici, avvicinandoci alla vita reale dei due Paesi, attraversando le porte delle case, entrando nelle scuole: sempre privilegiando la dimensione dello stare, immergendoci in quelle storie senza la fretta dell'andare. Questo ci ha permesso di vedere quei luoghi -periferie, baraccopoli, villaggi, campagneanche con gli occhi di chi in quei luoghi ci vive, non solo con i nostri; così, insieme alla drammaticità di molte situazioni, è emersa anche la bellezza, la vita fatta di relazioni e di cose semplici. È questo sguardo da vicino che spero riesca a essere trasmesso dalle pagine che seguono. Tommaso Saccarola

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Per chi si occupa di Sud del mondo c’è una frase che parla più di mille libri: “Oggi attraverso le immagini diffuse dai mezzi di informazione sappiamo come muoiono gli africani. Ma ignoriamo il modo in cui vivono”. L’autore è lo scrittore svedese Henning Mankell, direttore del teatro Avenida di Maputo, in Mozambico. L’Africa, pur essendo un continente grande decine di volte l'Europa, pur essendo abitata da quasi un miliardo di persone appartenenti a oltre duemila gruppi etnici e linguistici, ai nostri occhi è una realtà indifferenziata. Di cui parlare solo per emergenze umanitarie. E lo stesso si può dire per il resto del Sud del mondo. Ci commuoviamo (per la verità sempre meno spesso) per le tragedie della fame o della guerra, ma ignoriamo completamente le grandi risorse, culturali e umane, di interi popoli. I loro stili di vita. Le loro potenzialità. È per questo che siamo davvero lieti di presentare il lavoro di Tommaso Saccarola, amico prima ancora che socio del Cesvitem. Ne siamo lieti perché, nel suo piccolo, va a riempire un vuoto che, nella nostra società così legata alle immagini, non è più ammissibile. “Tra le persone” racconta due spicchi del Sud del mondo, il Mozambico e il Perù, nella loro quotidianità, nei gesti normali delle persone, nei volti di tutti i giorni. Fotografie che, nel nostro immaginario collettivo, sono completamente inedite. Il grazie a Tommaso (e a Marianna Sassano che ha curato i testi) è davvero sentito, perché ha saputo interpretare con i suoi meravigliosi scatti alcuni dei principi cardine che dal 1987 ispirano l’impegno del Cesvitem nel Sud del mondo. In primo luogo la positività, che anche nelle situazioni di oggettiva difficoltà ci spinge alla valorizzazione delle persone e delle risorse locali. E che, anche a livello comunicativo, si traduce in un rifiuto ad operare facendo leva su sentimenti di commiserazione. Dall’altro lato l’idea di lavorare tra e con le persone, di creare ponti di conoscenza e di solidarietà reciproci tra popoli e culture lontane. Il Sud del mondo non ha bisogno della nostra pietà o delle nostre elemosine, spinte più dal desiderio di tacitare le nostre coscienze che non dalla volontà di condividere il nostro benessere. Il Sud del mondo ha bisogno che riconosciamo la sua umanità, la sua cultura, il suo modo di intendere la vita e le relazioni. Solo così, solo guardando finalmente questi popoli senza la lente deformante dell’emergenza di turno, potremo davvero costruire un futuro migliore. Simone Naletto - Cesvitem Onlus

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Mozambico

Moçambique nossa terra gloriosa, pedra a pedra construindo o novo dia, milhões de braços, uma só força, ó pátria amada vamos vencer...

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Tia Sarita delle periferie Tia Sarita, la zia Saretta, a circumnavigarla ci vuole un bel po’. Di poco più alta del metro e mezzo, al quintale e cinquanta ci arriva tranquilla. Non è un caso che la sua sedia sia l’unica in metallo di tutto l’asilo: bambini e insegnanti hanno panchette di legno o seggioline di plastica, ma lei le sfonderebbe. In fondo, Tia Sarita è la direttrice, e una seduta speciale la merita: incastrata in quel trono robusto, domina a ragione la sua escoliña comunitaria. Placida e solare, Tia Sarita ha le labbra dipinte di rosso e dispensa sorrisi rubini a tutti. Soprattutto ai suoi bambini: il suo asilo nella baraccopoli di Maputo, capitale del Mozambico, garantisce ai bimbi colazione, pranzo e cena; e, cosa non secondaria, una dose massiccia di canzoncine, balli, recite, giochi. Le maestre ci mostrano i giocattoli in dotazione: un tavolino con le costruzioni e poco altro, e ci descrivono, competenti, le funzioni pedagogiche di colori e puzzle. Ha una casa carina, Tia Sarita: l’asilo - che si sviluppa per quasi tutta la superficie dell’abitazione, lasciando alla sua privacy solo due stanze coloratissime, piene di mobili e cianfrusaglie - è dipinto di azzurro. I bambini giocano sotto un portico e hanno a disposizione delle aulette: piccole, un po’ spoglie, ma accoglienti. Ci fanno un regalo, perché è un giorno speciale: ci sono i mulungo, i bianchi, in visita. E, come da tradizione qui, il saluto ufficiale ai visitatori sono le danze: Sarita dirige il ballo, con la sua voce piena e alta, e i bambini sfoderano una padronanza del corpo e del movimento che sbalordisce (rassegnando gli spettatori a cedere - di fronte all’evidenza al luogo comune che lega gli africani all’atavica consapevolezza del ritmo). Scoppiano le risate quando gridano “Viva a criança!” (viva i bambini) con una convinzione da comizio elettorale; e quando Sarita emerge dal trono e muove la sua mole burrosa con l’agilità di una farfalla, sembra tornata bambina pure lei in mezzo a tutti quei ballerini minuscoli e festosi. Capiamo che per tutti Tia Sarita è una mamma grande e buona: in una periferia dominata dalla delinquenza e dal disagio, il suo asilo è un’oasi di incredibile e inaspettata normalità. L’elenco di una banale povertà, qui, ripete lo schema di sempre: fogne a cielo aperto, baracche di cartone e lamiera, famiglie disgregate, hiv diffusissima. E invece da Sarita si gioca, si mangia, si vive l'infanzia. Senza subirla.

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Appuntamento al buio Entriamo a Xipamanine, periferia di Maputo, con il permesso del rappresentante politico del quartiere. Abbiamo dovuto avvisare il partito della nostra presenza; abbiamo dovuto cercare un accompagnatore, Donna Filomena, per la nostra visita. A Xipamanine i bianchi da soli non entrano: è pericoloso, dicono. Perché qui tutto è stretto: un dedalo di stradine, cunicoli, vicoli contornati di lamiere. E poi c'è il mercato, che è grande, labirintico e coperto: soffitti bassi e corridoi a misura di bambino tra una bancarella e l'altra. Di qui non si scappa. Ci arriviamo dopo pranzo, il cielo è ancora chiaro. Davanti a noi Donna Filomena saluta tutti con un sorriso che significa: questi-tre-non-si-toccano; Simone Naletto indossa un gilet con il logo del Cesvitem ben visibile. Ma in realtà sono precauzioni che ci sembrano persino superflue. Visitiamo baracche inermi di vecchi soli e bambini altrettanto soli, e donne ancora più sole circondate di figli; Tommaso scatta fotografie ai ragazzi sostenuti a distanza: qualcuno proprio non ce la fa a sorridere; qualche altro, invece, spazza persino la sabbia dal pavimento di terra per fare bella figura. In un certo senso qui c'è persino un'atmosfera di pace. Triste, ma quieta. I rumori delle macchine e il caos della città rimangono fuori, ci sono gli odori dei pentoloni sul fuoco per la cena. E poi adesso è l'imbrunire, la luce diventa più morbida, i colori più caldi. Si sa: il tramonto riconcilia gli animi, ricorda che è vicino il momento del riposo; le preoccupazioni e il dolore, per un po', dormiranno pure loro. È il momento del tramonto e noi siamo a Xipamanine. Il cielo è rosso, poi rosa, poi viola. Poi diventa più scuro. Ora tutto è uniformemente buio, e noi ci siamo dentro. Donna Filomena accelera il passo: la nostra visita finisce qui. Ripercorre una mappa mentale che ci fa scivolare tra case e baracche, alberi, strettoie e pozze di fango. Non parliamo più, stiamo a sentire se qualcosa, qualcuno, dietro di noi si muove. Fino a che non usciamo. Non c'è corrente elettrica a Xipamanine. Non ci sono i lampioni, né illuminazione nelle case. L'assenza di luce ha portato con sé un timore istintivo: e non c'è verso di ripensare alla sensazione di quiete di qualche ora prima, quando gli occhi potevano distinguere facilmente i contorni della realtà. Ce ne andiamo verso le luci. I bambini, i ragazzi, i vecchi, le donne che abbiamo conosciuto, si addormenteranno lì, sulla terra, al buio.

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Radio Don Chisciotte Scende la sera a Monapo, ma l’Africa che lavora ancora non si è fermata: nella redazione di Radio Monapo, la radio comunitaria, Aventino annuncia l’ultimo notiziario del dia. Siamo nel nord del Mozambico: qualche indiano vi ha avviato il suo commercio, ci sono la sede del partito e quella del governatore distrettuale, c’è anche un ospedale, c’è un mercato. Ma, insomma: è Africa pura. Nulla qui ha il purché vago sapore di noto per gli europei, a esclusione delle magliette di plastica made in China che stanno soppiantando il vestire tradizionale. Monapo è poco più di un villaggio. Ci sono i baobab, solo due strade sono asfaltate, la gente vive in case di fango e paglia. I bambini hanno la pancia gonfia, nelle zone rurali. Trovare proprio qui la redazione di una radio assume i contorni dello stupore. I ragazzi della redazione, scommettendo contro ogni benpensante ragionevolezza, regalano senza compenso il loro tempo a una causa da Don Chisciotte contro i mulini a vento: fare informazione qui. Mille le domande: servirà davvero? Non ci sono urgenze più immediate? E lo sforzo, anche economico, è giustificato dai risultati? E i benefici quali sono? La logica dell’investimento pone quesiti. Le risponde l’occhio di domani: serve, e serve come l’acqua, il cibo, le medicine, le scuole. Serve per non continuare a ridurre gli esseri umani alla sussistenza, per la consapevolezza del ruolo di ciascuno all’interno di una comunità, per richiamare chi di dovere alle proprie responsabilità. Ma serve a mille altre cose ancora. E la risposta a tutte le domande si dà da sé quella sera. Due donne arrivano dal mato, la foresta, e bussano alla porta della redazione: portano un bambino. Lo hanno trovato al mattino sul ponte che attraversa rio Monapo; si è perso, non parla, è impietrito di paura. Sta seduto per terra, con le spalle appoggiate al muro. Quella sera Aventino ha fatto gli straordinari: ha annunciato alla radio il ritrovamento del bambino. Le due donne non hanno bussato alle porte del municipio, o dell’ospedale. Non sono andate a chiedere aiuto al capo villaggio e nemmeno allo stregone, che qui ha molta autorità; sono andate dove c’erano un microfono e un’antenna di trasmissione. Dove c’era una voce che potesse parlare e farsi sentire in tutto il distretto, per chilometri e chilometri. La madre, il mattino dopo, è andata a riprendere suo figlio. Informazione, a Monapo, è anche questo.

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Menù per gli ospiti Anche in Africa si mangia. Mica si muore solo di fame. Qualcosa mangiano pure loro. Alcuni, per lo meno. E comunque, per te che sei palliduccio e arrivi da lontano, un boccone stai sicuro che lo trovano. In Mozambico, e in particolare nel nord del Paese, dove il mato - la foresta - imperversa sotto un bel sole tondo, il menù non è che sia proprio vario. Pur tuttavia, di fronte a degli ospiti, si tira fuori l’ingegno. A rotazione, il Mozambico povero ci ha messo nel piatto: riso, immancabile; polenta di mais affumicata, inghiottita a pillole; spaghetti con ketchup e sardine in scatola; galinha do mato, la gallina più magra del pianeta; e infine pesce, nella duplice versione “quasi fresco” o “essicato”. Il tipo di cottura che va per la maggiore è la preparazione in umido: un sugo rosso con patate, cipolla, peperone. E sabbia: per cucinare un fuoco accesso a terra è lo standard; poi magari, se soffia un po’ di vento, qualche granellino finisce dentro al pentolone: ma dopo un po’ di giorni ci si abitua allo stridore dei denti. Nel Mozambico povero, per l’ospite, la mattina non manca mai una tazza di latte in polvere mischiato a cicoria solubile; e poi pane e latte condensato da spalmarci sopra, con un po’ di zucchero. E poi c’è il Mozambico ricco. Un Mozambico che mangia enormi aragoste grigliate per 12 euro nei rinomati ristoranti del lungomare di Maputo: popolati, la domenica, di famigliole benestanti e chiassose e di imprenditori stranieri in cerca di un lusso difficilmente ripetibile a casa. Oppure, il Mozambico dei politici: che, per una colazione di saluto e di chiara ostentazione del potere, offre alle 7.45 del mattino un menù intensivo di carne de porco con braciole grigliate e salsiccette, accompagnate da uova fritte e succo di frutta freddissimo, in una sala da pranzo carica di aria condizionata che riesce a congelare persino il tavolo laccato bianco e oro. In Mozambico noi, pallidi e occidentali visitatori, abbiamo mangiato. Benissimo, e malissimo. Ma sempre con un senso di estrema fortuna a ogni boccone che deglutivamo. E però, a costo di cadere nella retorica, lo devo dire: il ricordo a cui sono più affezionata è quello della pasta con la sabbia. Anche perché è l’unico piatto dell’intero menù mozambicano che mi sia capitato di rimangiare in Italia: in fondo, anche gli spaghetti con le vongole possono sempre nascondere un’insidia.

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Perù

Somos libres, seámoslo siempre, y antes niegue sus luces el sol, que faltemos al voto solemne que la patria al Eterno elevó.

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I sensi del viaggio L’arrivo in un luogo nuovo si materializza in un misto di curiosità, ebbrezza e spaesamento. I sensi si aprono, si predispongono al nuovo: con loro arrivano le prime immagini, i primi tentativi di capire, i primi incontri. I sensi costruiscono una mappa di percezioni immediata, in cui trovare conferme o cambi di prospettiva durante il viaggio. L’arrivo a Trujillo, città della zona costiera del nord del Perù sede dei progetti sudamericani del Cesvitem, è in una macchina, di notte, appena scesi dall’aereo. Alle spalle dell’aeroporto, fabbriche e stabilimenti producono un odore che non riconosciamo. È il pollo, ci dicono, ed emana un fetore che ci accompagna fino al centro della città, si attacca alle narici, e ci abbandona solo due settimane dopo, di nuovo in aereo. La prima giornata a Trujillo svela la città. La Panamericana, che è l’unica autostrada del paese - uno stradone paragonabile alle nostre provinciali -, taglia in due il quartiere di Esperança, periferico ma già più ricco delle periferie estreme. Da una parte c’è il mare. Schiviamo una quantità indefinibile di incidenti; mi viene detto di non mettere il braccio al finestrino, per via dell’orologio: potrebbero rubarlo. È di plastica, ma obbedisco. Si capisce subito che l’economia funziona a settori in questa città. Dalla Panamericana deviamo verso il centro e salta subito all’occhio che in un tratto di strada si vende solo legno, in un altro solo materassi, in un altro ancora gli unici negozi sono ferramenta e cambi d’olio. A quanto pare, tutti fanno lo stesso prezzo. È il Sud del mondo, qui, e non solo per le baracche. Caos, rumore, clacson incessanti dominano un traffico disordinato di Maggioloni Volkswagen, vecchie automobili americane e mototaxi, che per un sol viaggiano ovunque all’interno dei distretti. Non esiste la precedenza, non sono obbligatorie le frecce, ma un braccio fuori dal finestrino sì: se è per segnalare la direzione, allora sì che si può. Il casco, invece, è obbligatorio, ma nemmeno la polizia lo porta. E così, dopo aver assecondato olfatto, vista e udito, in questo primo giorno a Trujillo rimane da testare solo il gusto. L’occasione arriva ancora prima di pranzo, con una bevanda dolce e gasata, sponsorizzata ovunque nei bar e sui muri della città. È gialla, e sa di chewing-gum alla fragola misto a sciroppo di amarena. Per oggi i sensi hanno percepito. La mappa è disegnata. Domani inizia il viaggio.

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Good morning Trujillo Trujillo è una delle città più importanti del Perù. Si trova sulla costa, la parte più ricca del paese. Abbaglio nemmeno troppo sbrilluccicante di promesse di futuri guadagni, è ovviamente sovrappopolata, a causa dei continui flussi migratori di persone che vengono dalle regioni rurali, più interne e più povere: la sierra (la montagna) e la selva (la foresta amazzonica). La popolazione di Trujillo cresce giorno dopo giorno. Le persone arrivano in città e iniziano a colonizzare le periferie. Ma la città è già oltre il limite delle sue capacità di contenimento; e così i nuovi insediamenti allargano il territorio di Trujillo spingendolo verso il deserto e le colline intorno alla cinta urbana. Le persone costruiscono da sé le “case”: capanne fatte di nylon e materiali di recupero, poggiate sulla sabbia, senza fondamenta. L’obiettivo infatti non è quello di creare una vera e propria abitazione, ma solo di guadagnare il più velocemente possibile la proprietà del terreno. Semplicemente piazzandosi lì. Il processo, infatti, inizia con la scelta del suolo e l’insediamento della famiglia. Quando la capanna è pronta nessuno può essere più mandato via. E qui si innesta un meccanismo contorto: nei dintorni periferici di Trujillo non vivono solamente i migranti provenienti dalla sierra e dalla selva; anche gli abitanti del centro di Trujillo hanno iniziato a mettere gli occhi su queste aree suburbane - ci raccontano in città - per allargare le loro proprietà senza doverle acquistare. Il risultato è un’urbanizzazione completamente sregolata, senza alcun servizio sanitario o centro educativo. Nemmeno un negozietto. Niente. Le persone vivono qui in condizioni di povertà estrema. Ma il risultato peggiore è la perdita della speranza. La vita in città è difficile e costosa, specialmente per chi arriva dalle zone rurali interne al Paese. L’integrazione non è un processo naturale, specie in un contesto in cui mancano strutture di sostegno e accompagnamento della popolazione: per molti il disadattamento si trasforma nell’accettazione passiva di qualsiasi condizione di indigenza. Quelle baracche costruite in modo precario e veloce non appena arrivati, giusto per accaparrarsi il territorio, con mille sogni per un futuro migliore, diventano per moltissime persone le uniche case che si potranno permettere. Chissà per quanto tempo.

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Al campetto santo La macchina corre nel distretto de El Porvenir. El Porvenir, ovvero “il futuro”: uno scherzo della toponomastica venuto male, nel quartiere - ci spiegano - più pericoloso di Trujillo. La macchina corre e noi ci siamo dentro: con Roberto, l’autista, e l’assistente sociale del Cesvitem, Abigail, che conosce tutti e sa cosa nasconde ogni angolo della città, ogni calle, ogni strada che ai nostri occhi è sempre la ripetizione del solito graticolato sabbioso e informe. Fuori è il tramonto: nella periferia di una metropoli del Sud del mondo ciò normalmente significa che sta arrivando il momento di allontanarsi da lì. Ma per un fotografo il tramonto è un’ora buona: e allora la macchina smette di correre e si ferma. Roberto non spegne il motore, è pronto a ripartire. Abigail scende con noi: a far vedere a tutti che i tre europei sono accompagnati da una perona del posto. La luce che cala sfiora di taglio un’immagine spettrale: il cementerio Manpuesto. E cioè il cimitero dei poveri, con le tombe che affiorano dalla sabbia, immerse nella foschia. Tombe senza ordine, senza stile, senza lapidi, senza fiori, senza un percorso per chi ci va a pregare. “Quando c’è stato El Niño, nel 1998, il muro di arenaria che circondava l’area ha ceduto e l’uragano ha strappato le bare alla sabbia. Le casse galleggiavano fino al centro della città”, spiega Abigail. La luce che cala sfiora di taglio il cementerio Manpuesto, ma del cementerio Manpuesto non illumina i morti; illumina i vivi. I bambini, i ragazzi, le donne a crocchi. Qui ci giocano a calcio e a basket. Ci corrono in bicicletta. Ci buttano anche la spazzatura: ma ai bordi, che è pur sempre un camposanto. Al cimitero ritorna la vita: in una città tutta collinare come Trujillo, una spianata così grande, perfetta per un campetto, dove la trovi? “I peruviani sono ingegnosi”, ci aveva detto Attilio Salviato, rappresentante del Cesvitem in Perù. Non abbiamo paura: è un sonnolento finale di giornata di un giugno tiepido, con la cena ancora da preparare. I ragazzi giocano, le donne chiacchierano: qui c’è la vita, non la morte. Attorno al cementerio, un mondo pieno di case, di macchine, di vecchie che tornano dai campi cariche di foglie di mais per i cuyes, i porcellini d’India. E poi, i panini caldi in vendita all’angolo e le prostitute pomeridiane in attesa, in vendita pure loro. La macchina riprende a correre. Roberto non parla. Il mattino dopo, a colazione, Attilio ci rimprovera: “Ci avete fatto spaventare, ieri. I pericoli lasciateli giudicare a noi”.

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La casa di Lidia e Juan La casa della señora Lidia è diversa dalle altre. Da fuori non si direbbe: il tetto piatto, le inferriate alle finestre, la strada di sabbia, fanno assomigliare l’una all’altra tutte le abitazioni della periferia di Trujillo. Ma quando Lidia apre la porta, un mondo nuovo prende vita: nel suo patio, rampicanti e fiori di ogni genere; un pappagallo la chiama gridando; in fondo al giardino, un recinto per il maiale, che grugnisce accogliente alla nostra vista. Dentro, la casa di Lidia è un’esposizione di bambole, centrini, bomboniere, ninnoli: il mondo di Lidia, e di su querido esposo Juan, non si rassegna alla tristezza. Questa è una casa speciale: è la sede di un club de madres. Alle pareti del cortile interno, festoni e cartelloni ci raccontano che siamo in un luogo di bambini. Sotto il pergolato, dei tavoli ora vuoti (i bambini hanno mangiato e se ne sono andati) sono stati puliti per l’indomani. “Ti ricordi, Simone, quando abbiamo aperto il club? Non c’era nessuno. Le mamme non ci portavano i figli, avevano paura della tratta degli organi”. È stato difficile radicare l’idea che un’organizzazione nata per condividere le fatiche fosse davvero disinteressata. Ma ci sono riusciti. Il club di Lidia accoglie da molto tempo i bambini del quartiere, che qui trovano un pasto caldo, una stanza per fare i compiti, le maestre per le ripetizioni. Qui, così come negli innumerevoli altri club di Trujillo, le mamme si danno il turno per cucinare, lavare i piatti e fare assistenza ai bambini. Il Cesvitem garantisce gli alimenti e i controlli medici: tutto il resto è responsabilità delle madri. Non è solo buonsenso: è una necessità che tiene conto della situazione della stragrande maggioranza delle donne, spesso abbandonate da uomini inseminatori, dittatori del machismo, e perciò costrette a lavorare e crescere i figli da sole. Una situazione così diffusa doveva essere risolta collettivamente; e infatti le donne si sono unite: i club oggi costituiscono di fatto un sistema di welfare che permette una vita dignitosa a tantissimi bambini e che aiuta le madri a sentirsi comunità. E, forse, chissà, un’altra conseguenza positiva potrebbe anche esserci: magari, grazie a tutto ciò, tante case a Trujillo apparentemente anonime nascondono colore, calore e allegria. Come la casa di Lidia e Juan: che ci fanno accomodare nel salone, inseriscono nel lettore un cd di marineras, spostano il centrino dalle casse accese a tutto volume; e poi ci invitano a ballare.

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Sui luoghi Mozambico La capitale Maputo con il centro e le baraccopoli di periferia; Monapo (nella provincia di Nampula, nel Nord del Paese) e i villaggi nei dintorni; Prata de Quissimajulo, sull'Oceano Indiano, dove abbiamo visitato il progetto di coltivazione di alghe; Ilha de Mocambique, l'antica capitale del Mozabico sotto la dominazione portoghese. PerĂš Trujillo cittĂ e le sue periferie; Salaverry e il porto commerciale; Huanchaco, localitĂ turistica sulla costa. Sui viaggiatori Tommaso Saccarola, fotografo professionista Marianna Sassano, giornalista publicista Simone Naletto, fondatore e presidente del Ce.Svi.Te.M.

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Il volume è stato pubblicato grazie al sostegno di Elettro Light S.r.l.

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Stampato su carta certificata proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile nel rispetto di rigorosi criteri ambientali, sociali ed economici. Finito di stampare nel mese di dicembre 2011.

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€ 35,00


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