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Vi sia lieve la terra

Luciano Bentini (1934-2009)

Nella gelida notte tra il 5 ed il 6 gennaio se n’è andato anche Luciano Bentini, 74 anni, tra i fondatori del Gruppo Speleologico Faentino. Ora, nei necrologi, si sa, c’è il rischio di scivolare nella più trita retorica, sia di contenuti che di linguaggio. In sintesi: per i primi la solita apologia del defunto, per i secondi invece quelle formulette pseudo colloquiali (il rivolgersi al morto come fosse ancora vivo, con il tu e i verbi al presente) e i prevedibili «lascia un vuoto incolmabile», «sarai sempre nei nostri cuori» eccetera. Quel bastian contrario di Luciano avrebbe detestato tutto questo ed io - si perdoni l’uso della prima persona - non voglio farlo rivoltare nella tomba. Non per far l’originale ma per rispetto ad uomo che ha avuto grandi difetti e altrettanti enormi pregi, primo fra i quali un’intransigente coerenza. Come speleologo d’azione Bentini è sempre stato una frana. Nelle poche grotte dove ha messo il naso di persona ci voleva sempre qualcuno che lo assistesse: già le scalette erano per lui un’avventura rocambolesca. Ma che importa, l’inettitudine pratica era compensata da una preparazione culturale mostruosa e – ciò che impressionava noi del Gruppo, allora ragazzini, abituati a professori tromboni e insopportabili – per nulla accademica, priva di nozionismi d’accatto o solo esibiti. La cultura di Bentini era profonda, autentica, frutto di anni di studio notturno da completo autodidatta: laureato in Giurisprudenza, insegnante di Lettere dopo un tirocinio giovanile in banca, non l’ho mai sentito discettare di diritto o di economia. Non amava neppure, lui, conversatore instancabile, parlare delle materie che insegnava a scuola. Parlava di archeologia, paleontologia, antropologia, evoluzionismo. Era un appassionato delle scienze naturali soprattutto abiologiche: non che fosse sprovvisto di conoscenze di flora e fauna, ma preferiva le rocce, gli adoratissimi minerali, le grotte. Di sera, quando ci incantava con i suoi interminabili discorsi, sconfinava talvolta anche nell’arte e frequentemente nella storia antica e contemporanea. E nella politica. Tutti sanno che era di estrema destra, o meglio, di una destra vagheggiata e ideale, anche delirante, una sorta di anarchismo di destra fuori tempo, ispirato ad un rigore che penso solo lui possedesse. Ho discusso infinite volte con lui, io, giovane di ingenue aspirazioni e simpatie di sinistra, ambientaliste, pauperiste, democratiche. Lui, dichiaratamente intollerante e antidemocratico, sempre polemico, ci ha insegnato come nessun altro la tolleranza. Come nessun altro sapeva ascoltare. Nel Gruppo anni ’70, dove l’aria che tirava era molto ribelle e contestataria, molto progressista, lui era un isolato, un accerchiato da gente che la pensava all’opposto di lui. Eppure non ha mai nascosto le sue opinioni, le ha sempre sostenute e strenuamente difese insegnandoci a fare altrettanto con le nostre. Non voglio soffermarmi sui suoi meriti, arcinoti, nei campi che conosciamo. Sapeva descrivere in maniera memorabile grotte dove era stato una volta sola vent’anni prima (ma di cui conservava diligentissimi appunti e schizzi), aveva svolto ricerche archeologiche con metodi scientifici (valgano per tutti i casi della Grotta dei Banditi, del Re Tiberio, o delle cavità preistoriche di Castelnuovo), aveva collaborato con la grande Paola Monti per ricerche archeologiche sull’Appennino del Lamone e del Senio e anche in cantieri di scavo urbani. Si era sempre tenuto aggiornatissimo leggendo come un pazzo, con una curiosità onnivora e insonne. Ha scritto molto e soprattutto con una cura maniacale dei dati e delle fonti, con un perfezionismo ossessivo che ha costituito un limite di quantità ma non di qualità. Aveva cominciato a morire quattro anni fa, con l’improvvisa scomparsa della moglie, da cui non si era ripreso. Pur sempre più stanco e affaticato, aveva mantenuto una lucidità ammirevole. Andrà ricordato anche per il suo vero impegno a di-

fesa dell’ambiente, fin da tempi non sospetti, lui che odiava l’ambientalismo di maniera e che con gli ambientalisti politicamente intesi non condivideva nulla e che ci diceva che noi eravamo «come i cocomeri, verdi di fuori e rossi dentro». Conservatore in tutto, si dirà, non poteva che essere anche per la conservazione della natura. Gli si farebbe un torto dicendo che se è nato finalmente il Parco della Vena del Gesso è un po’ anche merito suo. Si è sempre battuto per questo, è vero, ma lui sosteneva un’idea di parco irrealizzabile, velleitaria, immune da qualsiasi compromesso e certamente diversa da quella che alla fine è prevalsa. Luciano Bentini è morto, e questo non doveva farlo. Non lo sentiremo più brontolare e tossire per le troppe sigarette. Non si sentiranno più le sue maledizioni contro chi aveva lasciato in disordine la biblioteca. Resta solo un grande dolore.

Sandro Bassi

Thierry

Verso la metà degli anni ottanta, Dedè, ultimo guerriero della grande squadra del Centre Mediterranée del Speleologie, avanza verso un gruppo di speleologi torinesi, accompagnato da un paio di ragazzini. “Si tratterebbe di farne degli speleologi” ci dice, andandosene. Baldracco annuisce. Si chiamano Sebastien e Thierry, portano una trentina di anni in due, nonché un cognome importante. A una decina di anni dalla morte di Claude, il nome Fighiera è ancora venerato sul Marguareis. “Quando eravamo molto più giovani … accadeva spesso che persone che parlavano una lingua strana per le nostre orecchie di bambini venissero a trovare i nostri nonni. Quando cercavamo di capire chi fossero, la risposta era unanime: “amici di Claude, amici di famiglia”.

Così ci scriveva Thierry in occasione del 50° compleanno del GSP. Con Sebastien ci è mancato il tempo. Di Thierry non ne abbiamo fatto uno speleologo, ci ha pensato da solo. Ha iniziato ripetendo gli abissi marguareisiani, - turista - sentenziavamo boriosi. Lo pensammo speleologo col cronometro, secondo un modello diffuso oltralpe. Stava invece andando a scuola d’abissi direttamente dal Visconte. Quel che il Visconte non poteva insegnare erano le tecniche d’armo. Spicca un p. 15 in Gachè armato su un solo spit, con una giunzione a 5 m da terra e 20 m di corda ammatassata sul fondo.

L’essere francese e spudorato e quel cognome gli davano grande libertà di movimento sul Marguareis. Poteva passare dalle grotte esplorate dai francesi a quelle torinesi a quelle imperiesi con assoluta impunità. Frequentò Labassa quando a nessuno di noi era consentito.

Poi venne la faccenda del Lisergic Emanation. Si tratta di un grande camino accessibile dal Buco delle Mastrelle, regioni terminali di Piaggia Bella. A metà del Lisergic sbucano le gallerie alte della Filologa e sognando un livello più alto che conducesse a Labassa ci lanciammo in un insensata corsa verso l’alto, a domeniche alternate, torinesi e nizzardi, ognuno sulle corde degli altri, ognuno ansioso di sbucare in galleria, ognuno parlando male e pensando bene dei rivali. Thierry leggeva le relazioni delle nostre risalite su Grotte, noi le sue in un quaderno alla base del pozzo. Una situazione ridicola e totalmente priva di tensioni. Non ottenemmo risultati, solo una risalita di 150 metri che non porta in nessun posto, ma anche un’inutile, frenetica e colossale esplorazione. Infilandosi in una fessura sul fondo del Libero riuscì ad approfondirlo di un po’. Poca cosa ma la prima di una lunga serie di intuizioni che ebbero il culmine nell’incontro con O-Freddo. In quest’abisso esplorato frettolosamente dai torinesi, Thierry ci mostrò in breve quanto avevamo trascurato: un grande meandro e relativi affluenti nella parte iniziale, un complesso reticolo freatico a metà grotta e svariati chilometri di grandi condotte sul fondo. Chapeau.

Una festa al rifugio del CMS, è il penultimo ricordo che ho di Thierry. Assai ebbri discutevamo della colorazione che i francesi avevano appena effettuato ad O-Freddo: Pis del Pesio osava sperare lui, Foce e Val Tanaro ribattevo io barcollando.

L’ultimo ricordo è orrendo. “Per noi è importantissimo riuscire a restaurare i legami franco-italiani (o CMS – GSP), perché sono stati sinonimi di amicizia, fraternità e risultati. Per concludere, credo che ciò che ha sempre tenuto vicini i nostri due gruppi sia questa montagna: “il Margua”. È sempre riuscita a riunire quelli che la amano e la comprendono.” D’ora in poi, in estate, il Marguareis si sentirà un po’ più solo.

Ube Lovera